anno 90
n.3 maggio-giugno 2012
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Milano.
www.missionaridafrica.org
Mauritania
La rivoluzione del web Niger
Reportage da Agadez Sudafrica
egitto
La rinascita di Joburg
l’ora della veritĂ
informazioni
Africa promuove Te m a
concorso di fotografia 2ª edizione
un continente in movimento Premio
Premio
Premio
J. Bardeletti
Tradizione Modernità Natura • La partecipazione è aperta a professionisti e non. • Ogni candidato può partecipare con un massimo di 5 scatti a colori o in BN. • Le foto migliori saranno pubblicate sul numero 6/2012 di Africa e sul sito web della rivista.
Premio del pubblico africa rivista
(facebook.com/africa rivista) a partire dal 14 maggio 2012. • Le fotografie vanno inviate via e-mail a: concorso@padribianchi.it oppure su CD via posta a: Redazione Africa V.le Merisio 17 24047 Treviglio (BG). • Scadenza: 31 agosto 2012.
• Un premio del pubblico sarà assegnato tramite i voti che ognuno potrà esprimere sulla pagina Facebook di Africa
Bando completo del concorso e elenco premi su: www.missionaridafrica.org
editoriale
di Raffaele Masto
Povertà e integralismi
N
on bastavano le guerre, quelle combattute per le risorse. Non bastavano le periodiche siccità e le conseguenti carestie. Non bastavano i miseri indicatori di accesso all’acqua potabile, all’istruzione, alla sanità. Non bastavano le onnivore classi dirigenti di molte nazioni del continente che, non contente di avere svenduto le ricchezze dei loro Paesi, ora vendono anche le terre. No, non bastava tutto questo. Sugli africani da qualche anno si è abbattuta anche un’altra catastrofe, quella dell’integralismo islamico che sta conducendo nel continente una vera e propria offensiva, non solo militare ma anche politica ed economica. Le regioni investite sono tutt’altro che secondarie: il Nord (e non solo) del gigante petrolifero nigeriano. Il Corno d’Africa, dove i miliziani shebab contendono il con-
trollo di quella che una volta era la Somalia ad un debole governo di transizione nazionale appoggiato da Europa e Occidente e sostenuto, sul terreno, da Caschi blu dell’Onu, da truppe keniane ed etiopi. Il cuore dell’Africa Occidentale ex francese, cioè le remote regioni desertiche del Mali, del Niger, della Mauritania. E infine il Sud dell’Algeria, dove si annidano le cellule di Al Qaeda per il Maghreb Islamico, nate dalle formazioni salafite sopravvissute alla disfatta dei Gia, i Gruppi Islamici Armati che insanguinarono, negli anni novanta, il paese maghrebino. Vaste aree del continente sono ormai a rischio terrorismo. Non solo, il rischio è che la matrice che lo produce, cioè l’estremismo
religioso, si radichi nelle popolazioni e renda il fenomeno talmente profondo da divenire difficilmente estirpabile.
La causa In realtà, una causa c’è, anzi una pre-condizione che consente la nascita di questi fenomeni. E si tratta di una condizione assolutamente necessaria, senza la quale l’estremismo religioso non attecchisce. Sto parlando della povertà, della miseria, del mancato accesso all’istruzione, dell’assenza di speranza nel futuro. Se infatti prendiamo in esame i luoghi e i territori nei quali l’estremismo agisce e rischia di radicarsi, ci rendiamo conto che si tratta di regioni abbandonate, abitate da popolazioni senza prospettive: la Somalia, da venti anni senza un governo centrale e attraversata da conflitti di tutti contro tutti; il Nord del Mali e del Niger abitati da popolazioni tuareg che i governi centrali non hanno mai voluto inte-
grare nelle loro istituzioni e nell’apparato statale; il Nord della Nigeria, povero, semi desertico, poco abitato rispetto ad un Sud ricco, popolato, vivace e ricco di petrolio. Se le cose stanno così, siamo obbligati a concludere che chi ha aperto le porte all’estremismo in Africa sono state: le élite politiche del continente, le istituzioni internazionali - che non hanno saputo portare ricchezza - e un’economia governata dalle grandi potenze - sia quelle storiche che quelle emergenti - che non si rendono conto del grave rischio di perdere per i prossimi secoli queste immense regioni al commercio mondiale.
E la religione? Infine un’ultima riflessione. In tutto questo la religione, nello specifico l’islam, non c’entra assolutamente nulla. Anche in questo caso le religioni vengono usate da poteri e forze che fanno i loro interessi e hanno bisogno di mimetizzarsi agli occhi delle popolazioni. In misura minore anche l’integralismo cristiano crea guerre in Africa: si pensi all’Esercito di Resistenza del Signore nato in Uganda con l’intento di rovesciare il governo e fondare uno Stato che si regga sui principi della Bibbia e sui dieci comandamenti. Di fronte ad interessi inconfessabili, anche le religioni, tutte, diventano pericolose. • africa · numero 3 · 2012
1
sommario
lo scatto 8. Cattivi Maestri Somalia Direzione, reDazione e amministrazione
Cas. Post. 61 - V.le Merisio 17 24047 Treviglio (BG) tel. 0363 44726 - fax 0363 48198 africa@padribianchi.it www.missionaridafrica.org http://issuu.com/africa/docs Direttore
Paolo Costantini CoorDinatore
Marco Trovato
Progetto grafiCo e realizzazione
Elisabetta Delfini
Promozione e UffiCio stamPa
Matteo Merletto webmaster
Paolo Costantini amministrazione
Bruno Paganelli foto
Copertina Bruno Zanzottera Si ringrazia Olycom Collaboratori
Claudio Agostoni, Marco Aime, Giusy Baioni, Enrico Casale, Alessandro Gandolfi, Marco Garofalo, Raffaele Masto, Pier Maria Mazzola, Giovanni Mereghetti, Roberto Paolo, Aldo Pavan, Giovanni Porzio, Anna Pozzi, Andrea Semplici, Daniele Tamagni, Alida Vanni, Bruno Zanzottera, Emanuela Zuccalà CoorDinamento e stamPa
Jona - Paderno Dugnano
Periodico bimestrale - Anno 90 maggio - giugno 2012, n° 3
Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la testata e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 675/96 - tutela dei dati personali).
40
copertina
40 Il nuovo Egitto
di Anna Pozzi e Bruno Zanzottera
attualità
COME RICEVERE AFRICA per l’Italia:
Contributo minimo consigliato 30 euro annuali da indirizzare a: Missionari d’Africa (Padri Bianchi) viale Merisio, 17 - 24047 Treviglio (BG) CCP n.67865782 oppure con un bonifico bancario sul conto della BCC di Treviglio e Gera d’Adda intestato a Missionari d’Africa Padri Bianchi IBAN: IT 93 T 08899 53640 000 000 00 1315
per la Svizzera: Ord.: Fr 35 - Sost.: Fr 45 da indirizzare a: Africanum - Rte de la Vignettaz 57 CH - 1700 Fribourg CCP 60/106/4
2
africa · numero 3 · 2012
Zimbabwe
italia
52 Cantastorie
di Michela Offredi
sport
54 La fattoria dei pugili libri e musica 58 Di Paolo Patruno
di P. M. Mazzola e C.Agostoni
cultura
3 4 La ribellione corre in rete 10 La prigione invisibile 14 Lezioni di odio razziale 16 L’oasi dei migranti 22 L’Africa come non l’avete mai vista
60 Le regine delle ceramiche 62 Lezioni di cinema 65 Il teatro di Mobutu 66 Il mostro del lago
30 La rinascita di Jo’burg 34 Le scarpe di Bethlehem 36 Ranger a quattro zampe
70 Il mio viaggio nell’Aldilà 74 Algeria. Notre Dame d’Afrique 76 togu na 77 vita nostra
Africanews
a cura della redazione di Roberto Paolo
Emanuela Zuccalà e B.Zanzottera
di Paola Marelli e Ilvy Njiokiktjien di Aldo Pavan
di Marco Trovato
società
di E. Zuccalà, B. Zanzottera e M. Lachi di Michela Offredi
africa rivista
20. Blackout
di Paola Marelli
viaggi
48 Re della pioggia
di Bruno Zanzottera
30
di Elena Dak
di Luca Spampinato di Marta Gatti
di Giusy Baioni
storia
68 Il segreto del giardiniere-chirurgo di Michela Offredi
chiese
Alberto Caspani
di Laura De Santi
a cura della redazione
a cura della redazione
70
news
a cura della redazione
Africanews, brevi dal continente 1 Malawi, Presidentessa coraggiosa La neopresidente del Malawi, Joyce Banda, 61 anni, ex esponente dell’opposizione, femminista convinta, ha deciso di destituire il capo della polizia, Peter Mukhito, e altri importanti funzionari dello Stato, tra cui il Governatore della Banca centrale e il capo della radio-tv pubblica. La Banda, salita al potere il 7 aprile dopo la morte del presidente Mutharika, è la prima donna Presidente tra i Paesi dell’Africa meridionale, la seconda nel continente dopo Ellen Johnson Sirleaf, capo di Stato della Liberia, prima donna eletta in Africa, nel 2005, e premio Nobel per la pace.
2 Kenya, arriva il petrolio Nella zona del Lago Turkana, arida regione nord-occidentale del Paese, è stato localizzato un importante giacimento di greggio che potrebbe cambiare l’economia della Nazione. La notizia è stata annunciata dal presidente Mwai Kibaki. Il petrolio - di ottima qualità - si trova a una profondità di circa mille metri. Le operazioni di ricerca sono state condotte dalla compagnia anglo-irlandese Tullow Oil, l’estrazione potrebbe iniziare entro il 2015. Nel frattempo sono già iniziati i lavori di costru-
zione del porto petrolifero di Lamu, destinato a divenire il centro di lavorazione e smistamento del greggio proveniente dal Sud Sudan... E di quello che verrà estratto dal sottosuolo del Turkana.
3 Guinea Bissau, ennesimo golpe Non c’è pace per il piccolo e povero Paese dell’Africa occidentale, tormentato da colpi di stato militari a ripetizione. Gli ultimi golpisti, un manipolo di ufficiali dell’esercito, hanno deposto lo scorso 12 aprile il primo ministro Carlos Gomez Junior e il presidente Raimundo Perreira. Ad alimentare l’instabilità politica in Guinea Bissau è la guerra sotterranea per il controllo del traffico di droga, le cui rotte in arrivo dall’America Latina attraversano l’ex colonia portoghese, considerata oramai un “narcostato”, per poi approdare in Europa.
5 Mali, nazione divisa
6 Botswana, preziosi
I ribelli tuareg hanno conquistato con le armi le città di Kidal, Timbuctu e Gao e controllano le regioni settentrionali del Mali - di cui hanno proclamato l’indipendenza - con l’appoggio delle milizie di Al Qaeda che ambiscono a creare un califfato islamico. L’esercito governativo non sembra essere in grado di riprendere il controllo del territorio ma rifiuta l’aiuto militare delle nazioni confinanti (preoccupate per l’instabilità nella regione). Intanto Amadou Sanogo, il leader della giunta militare che
Grazie all’aumento della domanda cinese, le esportazioni dei diamanti del Botswana sono in ripresa dopo una fase di crisi profonda: da gennaio ad aprile +30% rispetto all’anno prima. Il dato dà un po’ di respiro all’economia dopo il crollo delle vendite europee e statunitensi, determinato dalla crisi economica iniziata nel 2008. Il Botswana è uno dei primi produttori mondiali di diamanti, le cui esportazioni tengono a galla i conti dello Stato. Fonti: Bbc, Jeune Afrique, Misna
5
4
3
4 Sudan-Sud Sudan Cresce la tensione nella regione petrolifera contesa di Heglig, che si trova al confine tra i due Paesi, dove si stanno ammassando truppe e mezzi militari. L’Unione Africana ha chiesto ai governi di Karthoum e Juba di ritirare i loro eserciti e riprendere le trattative per risolvere la disputa territoriale.
2 ha compiuto un golpe il 22 marzo, ha accettato di trasferire i poteri a un’autorità civile guidata dal presidente del Parlamento Dioncounda Traoré come capo di Stato ad interim.
1 6
africa · numero 3 · 2012
3
attualità
testo e foto di Roberto Paolo
La ribellione
Nel covo dei blogger mauritani in lotta contro In Mauritania il movimento studentesco e gli attivisti per i diritti umani usano social network e siti clandestini per lanciare la loro sfida al potere. La polizia risponde reclutando hackers e pirati informatici. Una battaglia virtuale che agita le piazze reali della capitale
Raby ould Idoumou, blogger e leader del movimento studentesco, nella sua casa a Nouakchott. Attraverso il web reclama riforme, giustizia sociale e le dimissioni del presidente Mohamed Ould Abdel Aziz. Purtroppo solo il 5% della popolazione è connesso ad Internet 4
africa · numero 3 · 2012
corre in rete
il presidente Aziz
«C’
è vento di cambiamento che soffia su tutto il Maghreb, non vogliamo che passi senza portare un po’ di novità anche qui da noi». Raby ould Idoumou quel vento l’ha avvertito prima degli altri, qui in Mauritania. Nelle strade della capitale Nouakchott, però, dove la sabbia del Sahara contende lo spazio all’asfalto e ogni refolo solleva nubi di polvere che oscurano il cielo, quel vento fatica a farsi spazio.
Una lettera dirompente Raby, 28 anni, è un giornalista indipendente: collabora con Maghrebia. com, il più importante sito d’informazione della regione, e ha un proprio sito, Elmohit.net. Soprattutto è un blogger, che con i suoi post su Facebook, dove lo seguono più di 3.600 amici, ha lanciato nel gennaio 2011 quello che può considerarsi il manifesto della protesta giovanile in Mauritania, una lettera-appello intitolata Aziz Dégage (Aziz, vattene), dove Aziz è il Presidente mauritano, accusato di corruzione e malgoverno. In pochi giorni Aziz Dégage è diventato il motto del movimento
studentesco, gridato da migliaia di giovani per le strade della capitale come sulle “piazze” di internet. Non è difficile incontrare Raby mentre lavora col suo pc portatile al tavolino di uno dei caffè del centro di Nouakchott, il suo “ufficio” preferito in alternativa al tappeto della camera da letto di casa sua, nel quartiere periferico di Dar Naim. Ma cosa c’era in quel suo primo post su Facebook, da catalizzare i sentimenti di protesta di tanti giovani? «Un appello all’unità nazionale, in contrasto con gli interessi di parte, di etnia, di regione, di famiglia, di clan, che dividono il Paese». I temi di quel primo post di Raby oggi sono pane comune nei dibattiti tra studenti: la crisi economica, i prezzi proibitivi di benzina e alimentari, la disoccupazione giovanile, la presenza dei militari in politica, la corruzione, i diritti umani. «Improvvisamente tutti i gruppi di opposizione al regime cominciarono a riunirsi attorno a quell’appello, sono nati altri gruppi su Facebook: il più importante è Biladi (Il mio Paese), con 12mila iscritti».
«25 febbraio» Sempre con il passaparola è stata organizzata la prima manifestazione di piazza, che doveva essere la prova di forza della nascente Primavera araba in Mauritania. «Fu scelta la data del 25 febbraio perché era un venerdì, era più facile portare la gente in strada dopo la preghiera». L’appuntamento era all’uscita dalla Moschea saudita, la più importante di Nouakchott. Ma quando la preghiera finì ci furono minuti di imbarazzo. «Non ci conoscevamo di persona, fino ad allora avevamo comunicato solo via internet. Ognuno temeva che chi gli stava accanto fosse un agente in borghese. Non si sapeva che fare, finché qualcuno espose fuori dal finestrino dell’auto una bandiera mauritana». Tutti lo seguirono fino allo spiazzo di Avenue Nasser, dove i giovani si avvicendarono dietro a un megafono. «Erano 5mila persone: mica facile portarle in strada senza partiti né organizzazioni alle spalle». Non ci furono scontri né disordini. Una protesta pacifica. Nacque così il movimento “25 Février”. Attorno a questa sigla si sono poi riuniti più
africa · numero 3 · 2012
5
Somalia
lo scatto
8
testo di Fatima Abdiwahab foto di Stringer/Afp
U
Cattivi
n campo di addestramento degli Shebab, i miliziani fondamentalisti legati ad Al Qaeda che lottano contro il Governo federale di transizione somalo (sostenuto militarmente dalle Nazioni Unite e dall’Unione Africana) per istaurare un califfato islamico basato sulla legge coranica. Da vent’anni la Somalia è un Paese senza legge, in mano a bande criminali, martoriato da guerre tribali e isolato dal resto del mondo. L’instabilità politica, l’insicurezza e la mancanza di un potere centrale hanno permesso ai discepoli africani di Osama Bin Laden di fortificarsi nel Corno d’Africa, finanziandosi con assalti di pirateria, sequestri di stranieri, traffico di armi e di droga. Negli ultimi due anni gli Shebab hanno varcato i confini somali, con raid e atti terroristici colpendo la popolazione civile in Uganda e Kenya. L’intelligence statunitense teme che l’azione dei miliziani somali si sia saldata con altre pericolose organizzazioni estremiste: il movimento integralista islamico Boko Haram (in Nigeria) e le cellule di Al-Qaeda nel Maghreb islamico (Mali, Niger, Mauritania e Algeria) responsabili di rapimenti e feroci attentati. •
africa · numero 3 · 2012
maestri africa 路 numero 3 路 2012
9
attualità
testo di Emanuela Zuccalà foto di E.Zuccalà e B.Zanzottera/Parallelozero
La prigione
Reportage esclusivo dai territori del Sahara
D
avanti a un piatto di cuscus con stufato di cammello, nella sua casa a El Ayun, Brahim Dahane racconta con singolare serenità i suoi anni di carcere. La prima volta nel 1987, prelevato a forza e rinchiuso in una prigione segreta fino al ’91: aveva partecipato ad una manifestazione indipendentista. La seconda, tra il 2005 e il 2006, con lo scoppio dell’intifada saharawi. Infine, nell’ottobre del 2009, viene arrestato all’aeroporto di Casablanca con sei amici, di ritorno da un viaggio nei campi profughi saharawi in Algeria. Brahim resta in carcere fino al 14 aprile 2011, e ancora
10
africa · numero 3 · 2012
oggi è in libertà vigilata: rischia la pena capitale, un tribunale militare marocchino lo accusa di «alto tradimento alla patria». Parole che sanno di beffa perché la patria, per lui, non è il Marocco. È questo il suo peccato originale. Presidente dell’Associazione Saharawi delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani (Asvdh), fuori legge per le autorità di Rabat (nonostante le sentenze favorevoli di due tribunali marocchini), Brahim Dahane a El Ayun è il pregiudicato numero uno tra gli attivisti per l’indipendenza del Sahara Occidentale. E basterebbe passare in ras-
segna la vita di quest’uomo elegante e affabile per ottenere una mappa concisa della tormentata storia della sua terra.
Stato di polizia I giornalisti non sono graditi a El Ayun, capoluogo di quelle che i marocchini chiamano «le province del Sud»: città dagli edifici arancio in un deserto che si getta nell’Atlantico. Sono arrivata in pullman da Agadir: 12 ore dentro un paesaggio che cambia a Guelmine, la “porta del Sahara” con il suo monumento ai cammelli. I check-point sono insistenti: polizia marocchina e Gendarmerie
Royale controllano solo me e chiedono con insistenza la mia professione. Non dico mai “giornalista”, ma il fatto di essere straniera basta: a El Ayun compaiono due agenti in borghese che non mi lasceranno un minuto, appostandosi sotto l’hotel e seguendomi in auto, in bicicletta o in motorino a seconda delle giornate. So di stranieri espulsi con facilità. Io invece resterò ben venti giorni a El Ayun. La tensione è alta, per le strade è vietato fotografare. Polizia, gendarmi e agenti in borghese sono presenze ossessive, anche davanti alle scuole elementari. «Controllano che i bambini
invisibiLe Occidentale occupati dal Marocco non cantino gli slogan per l’indipendenza», sorride Elghalia Djimi, signora di rara saggezza, braccio destro di Brahim Dahane, anche lei incarcerata per anni.
«Tornatene a casa» Le chiedo quanti siano, qui, i saharawi che vogliono l’indipendenza sotto il governo del Fronte Polisario, ma non c’è risposta: il lungo censimento svolto dalla Minurso (la missione dell’Onu) per il referendum abortito non ha saputo neppure indicare chi abbia diritto al voto. «Gli abitanti del Sahara Occidentale sono circa 235mila», spiega Elghalia. «Noi stimia-
Nella città “blindata” di El Ayun i giornalisti non sono benvenuti. Specie se vogliono documentare il dramma della minoranza saharawi che da trentacinque anni subisce l’oppressione delle autorità marocchine
mo che un quarto sia per l’indipendenza, ma solo con il referendum avremo la risposta. Ecco il punto: la popolazione potrà anche decidere di restare sotto la sovranità marocchina, o accettare l’autonomia proposta dal re Mohammed VI, ma dev’essere il popolo a esercitare l’autodeterminazione. Lo dice il diritto internazionale». Un venerdì mattina sono andata oltre l’Avenue Smara per assistere a una delle manifestazioni non violente organizzate dai saharawi quattro volte a settimana, ma sono stata bloccata da un aggressivo agente in borghese che mi ha caccia-
ta con un secco «tornatene a casa tua». Poche ore dopo ho incontrato la giovane Kabara Babait, picchiata dalla polizia alla manifestazione. Aveva preso forti botte al ventre. Ho anche incontrato un ragazzo disabile che ancora sanguinava.
Il paradiso dei caschi blu Quella stessa mattina, a Rabat, avrebbe dovuto iniziare il processo a 23 saharawi detenuti dal novembre 2010 a Saleh, Marocco, in seguito ai fatti di Gdeim Izik (vedi box pag 12): la grande protesta popolare che per alcuni, Noam Chomsky in testa, ha segnato il vero inizio della primavera araba. africa · numero 3 · 2012
11
attualità
testo di Paola Marelli foto di Ilvy Njiokiktjien
Lezioni di odio Sudafrica, famiglie afrikaner mandano i loro
Malgrado l’apartheid sia finita da oltre vent’anni, ci sono ancora sudafricani bianchi che non si arrendono alla storia. E inviano i loro figli in campi paramilitari affinché imparino a combattere i neri
A
volte ritornano, inquietanti fantasmi di una storia che credevamo sepolta per sempre. Vedere per credere: andate su Youtube e cercate Afrikaner Blood. In pochi istanti comparirà un filmato che sembra fuoriuscito da un archivio vecchio di 14
africa · numero 3 · 2012
cinquant’anni. E invece è un documentario realizzato pochi mesi fa dalla giornalista olandese Elles van Gelder e il fotoreporter Ilvy Njokiktjen. Il video, lungo otto minuti e mezzo, ha vinto il prestigioso Multimedia Contest 2012 promosso dal World Press Photo.
Cattivi maestri Le immagini mostrano un gruppo di giovani afrikaner impegnati a frequentare un campo di addestramento paramilitare per la difesa della razza bianca. Tutto è dannatamente vero e attuale. Il campo si tiene ogni estate, durante le vacanze scolastiche, nelle campagne della regione sudafricana del Free State, 230 chilometri ad est di Johannesburg. L’iniziativa è promossa dal gruppo di estrema destra Kommandokorps (www. kommandokorps.org), che
Immagini tratte da Afrikaner Blood. I giovani sudafricani che partecipano alle attività del campo paramilitare sono nati tutti dopo il 1990: nessuno di loro ha conosciuto l’apartheid
si autodefinisce “un’organizzazione di élite che ha il compito di proteggere il proprio popolo”. A guidare le reclute nelle esercitazioni che simulano aggressioni e attacchi armati è Franz Jooste, 57 anni, ex ufficiale del South Africa Defence
razziale
Video shock
giovani a scuola di razzismo Force ai tempi del regime segregazionista: un inguaribile nostalgico dell’apartheid, convinto sostenitore della supremazia razziale dei “boeri”, cittadini sudafricani di lingua afrikaans discendenti dai primi coloni europei - soprattutto cal-
pattuglie di studenti sudafricani dalla pelle bianca, fra i 13 e i 19 anni, che ogni anno frequentano il campo paramilitare.
Propagatori di paure «In 11 anni ho addestrato 1.600 giovani afri-
Le reclute sono esortate a calpestare la bandiera del Sudafrica post-apartheid vinisti olandesi, ma anche francesi e tedeschi - approdati in Africa meridionale nel XVII secolo. «Non mi vergogno di essere considerato un razzista», afferma davanti alla telecamera mister Jooste. «I neri sono la specie più sottosviluppata dell’umanità. È un problema genetico. Hanno un cervello più piccolo, sono incapaci di governare e svilupparsi». I farneticanti discorsi di Franz Jooste, autoproclamatosi “colonnello” di un esercito senza patria, sono divulgati a
kaner a difendersi da sé», spiega con orgoglio il veterano delle forze armate di Pretoria, impegnato oggi ad addestrare le matricole a mimetizzarsi nella boscaglia, a strisciare nel fango, a maneggiare pistole che sparano vernice. «Siamo assediati da neri che uccidono, rubano e stuprano impunemente - aggiunge con tono sprezzante -. La polizia e le autorità non sono in grado di proteggere le nostre famiglie. Non ci resta che prepararci a combattere». In Sudafri-
ca ogni anno si registrano 18mila omicidi, 200mila aggressioni, 55mila stupri, un abuso su minore ogni 30 minuti. Benché il tasso della criminalità sia in calo, questi numeri fanno ancora impressione e turbano l’opinione pubblica. I movimenti di destra li strumentalizzano per seminare la paura e fomentare l’odio razziale nella minoranza dei bianchi (4,6 milioni di cittadini, il 9% della popolazione totale). Nel video Afrikaner Blood l’irriducibile Franz Jooste sostiene che la convivenza tra bianchi e neri sia impossibile. «Non dobbiamo fingere di essere ciechi: siamo troppo diversi per vivere assieme», afferma convinto. «Gli Afrikaner dovrebbero avere una nazione indipendente... Il progetto di Nelson Mandela è fallito», conclude. A confutare le sue raccapriccianti teorie ci sono 50 milioni di cittadini sudafricani, di ogni razza e colore, che contribuiscono a costruire giorno dopo giorno la nazione arcobaleno, determinati a superare difficoltà e contrasti con la consapevolezza che nessuno potrà mai portare indietro le lancette della storia. •
Afrikaner Blood non è l’unico controverso filmato “africano” che scuote il web. Fa clamore il successo di Kony 2012, un video prodotto da una ong statunitense, Invisible children, che vuole “far conoscere le atrocità commesse da Joseph Kony”, leader dell’Lra (Esercito di resistenza del Signore) ugandese, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, accusato anche di avere ridotto in schiavitù 30mila minori. Il filmato è stato scaricato da 80 milioni di persone in tutto il mondo. Politici e star dello spettacolo lo hanno postato nei loro blog. Ma secondo alcuni quelle immagini sono solo la spettacolarizzazione di una tragedia sfruttata senza scrupoli dagli autori. Invisible Children è stata accusata di aver speso tutti i soldi delle donazioni per la realizzazione di questo filmato, piuttosto che concentrarsi in opere a favore dei bambini ugandesi. Lo scorso marzo, il fondatore dell’associazione e regista del video, Jason Russel, è stato arrestato a San Diego per atti osceni in luogo pubblico. africa · numero 3 · 2012
15
attualità
testo e foto di Aldo Pavan
L’oasi dei migranti 16
africa · numero 3 · 2012
Agadèz, crocevia di traffici umani in mezzo al Sahara
È
stata dura. Quindici giorni attraverso il deserto con sette figli. Il caldo terribile. La sete. E il camion che ci sbatteva da una parte all’altra. Allah ci ha aiutato. Altrimenti saremmo morti». Fatima Hamdi, 44 anni, donna tuareg, è stravolta. È scappata dalla Libia nel pieno della guerra civile. Il marito si è nascosto. Assieme ai suoi bambini è riuscita a raggiungere Agadèz, città-oasi nel nord del Niger. «I ribelli davano la caccia a noi Tuareg. Sparavano agli uomini di pelle scura. Senza pietà. Grazie a Dio siamo arrivati fin qui».
«
Sulla rotta della speranza Il tramonto incendia Agadèz. I cortili chiusi da alte mura rosse nascondono volti di sofferenza e tragedia. Le strade sono labirinti lungo i quali si perdono i drammi di migliaia di persone che si sono riversate in questa città alle porte del deserto del Ténéré. Agadèz è un imbuto geografico, crocevia dei traffici migratori di gran parte dell’Africa. Antica città carovaniera al tempo dei commerci dell’oro e degli schiavi, non ha mai perso il suo ruolo. E nell’ultimo decennio è diventata la tappa obbligata dei migranti in fuga verso l’Europa, lungo la nuova rotta, quella della speranza. Molti degli africani che raggiungono l’Italia sono passati da qui. Con indicibili sofferenze hanno sfidato la morte nelle sabbie del Sahara e tra le onde del Mediterraneo.
nostalgia di gheddafi Ma Agadèz non è solo lo snodo dei migranti che vanno verso nord. La città è invasa anche da una grande moltitudine di persone che sono scappate dalla guerra libica. Sono braccianti nigerini e dell’Africa nera (Nigeria, Ghana, Senegal, Burkina) che lavoravano in Libia. Dopo la caduta di Gheddafi circa 400mila persone sono rientrate in Niger. Una cifra enorme, che si è abbattuta come una grande valanga sulla devastata economia locale. Zara Mohammed, 36 anni, è approdata da pochi mesi ad Agadèz. È senza lavoro. Per racimolare qualche spicciolo vende la legna che raccoglie alla periferia della città. Ha sette bocche da sfamare. I bambini le girano attorno come cuccioli. Il marito è morto in Libia. «Gheddafi era buono, perché l’Europa ha voluto eliminarlo? Con noi immigrati aveva fatto solo del bene», dice con un filo di voce. Anche Rhaicha Alabo, 37 anni, che vive accampata in una tenda piantata in un cortile, ha nostalgia del Rais di Tripoli. «I ribelli ci hanno rovinato la vita. Stavamo così bene laggiù». Ad Agadèz la donna è riuscita ad aprire quello che lei chiama un piccolo negozio. Ma è un semplice bugigattolo sulla strada, una mensola con un po’ di riso, dadi, biscotti e poco più. africa · numero 3 · 2012
17
PER RICEVERE TUTTO L’ARTICOLO CONTATTARE LA REDAZIONE: africa@padribianchi.it
Con un contributo minimo di 20 euro puoi ricevere 6 numeri di Africa in PDF info: africa@padribianchi.it
SOLidArietà itALiAnA
Bambini nel Deserto è una delle poche associazioni europee rimaste ad operare in Niger. Ad Agadèz e nell’Aïr sostiene alcune cooperative di donne e finanzia la realizzazione di scuole. Ma il principale progetto si chiama Exodus ed è rivolto ai migranti che vogliono attraversare il deserto per recarsi in Libia e in Italia. Sostenuto dalla Fondazione Cariplo, il progetto prevede una serie di azioni, tra cui la formazione professionale finalizzata a contenere il flusso migratorio. www. bambinineldeserto.org
Il fIlm che accusa l’ItalIa
in concorso a
Si intitola Mare chiuso. È un documentario, girato da S. Liberti e A. Segre, che racconta la storia di un gruppo di persone - formato in gran parte da eritrei, etiopi e somali - in fuga nella primavera 2011 dalla guerra in Libia. Molti di loro sono vittime delle operazioni di respingimento attuate dalle pattuglie congiunte italo-libiche, in seguito agli accordi tra Gheddafi e Berlusconi. Le loro testimonianze si alternano all’udienza del processo alla Corte suprema dei Diritti umani di Strasburgo, dove una ventina di profughi respinti hanno presentato ricorso contro l’Italia (che è stata condannata a risarcirli). www.zalab.org
di partire verso nord, nella direzione inversa rispetto a quella delle donne. Attraverseranno il deserto per andare in Libia, qualcuno tenterà di proseguire verso l’Europa. Sono giovani, alcuni giovanissimi. Non sanno cosa li aspetta, ma vogliono sfidare il destino. Si arrampicano in silenzio sulle sponde di un camion. Taniche di plastica gialla alla mano e un fagotto di cibo, scatole di biscotti. Le
operazioni si svolgono rapidamente mentre i due autisti bevono l’ultimo tè. Si alterneranno al volante fino alla frontiera della Libia. «Paura? Per niente», dice il più giovane, scrollando le spalle. «Basta pagare i poliziotti corrotti alla frontiera per risolvere ogni ostacolo burocratico». Il problema vero è il viaggio: il deserto del Ténéré - fino a pochi anni fa una meta turistica di grande richiamo - è divenuto pericoloso perché pullula di banditi, rapinatori, miliziani legati ad Al Qaeda. Le sabbie sono infestate di spiacevoli sorprese. Ma i mercanti di uomini non paiono particolarmente preoccupati. «Spariti i turisti, sono i migranti a tenere in piedi l’economia di Agadèz», sostiene Maiga Ibrahim Soumaila, funzionario dell’Onu per le emergenze umanitarie. L’antica città delle carovane è diventata un porto di disperati in mezzo al deserto. • africa · numero 3 · 2012
19
lo scatto
testo di Robert Allen
foto di Desmond Kwande/Afp
Zimbabwe
Blackout 20
A
llievi di una scuola serale di Harare studiano a lume di candela. Nella capitale dello Zimbabwe la corrente arriva a singhiozzo e talvolta sparisce per intere giornate. L’ex colonia britannica - governata dal 1980 dal presidente Robert Mugabe, 87 anni - ha crescenti problemi di approvvigionamento di elettricità per il taglio (dovuto a mancati pagamenti) delle forniture un tempo garantite dal Mozambico. Il governo di unità nazionale creato nel 2009 per scongiurare il tracollo dello Zimbabwe, è riuscito a evitare il default (l’inflazione era fuori controllo e il debito pubblico aveva svuotato le casse dello Stato), ma non ha ancora potuto varare le riforme per ammodernare il Paese e rilanciare l’economia. I timidi segnali di ripresa registrati lo scorso anno (maggiori esportazioni di oro, platino e pietre preziose) non hanno migliorato il mondo del lavoro né la condizioni sociali: nove giovani su dieci sono disoccupati, circa il 70% della popolazione (dodici milioni di persone) vive al di sotto della soglia della povertà. •
africa · numero 3 · 2012
africa 路 numero 3 路 2012
21
attualità
testo di Marco Trovato
L’Africa come non l’avete mai vista Ecco alcune immagini della no nAmibiA
22
africa · numero 3 · 2012
LA SPESA Due donne himba in un supermercato cittadino. Gli Himba sono un popolo di pastori nomadi che vive al confine tra Namibia e Angola, in una delle zone più incontaminate dell’Africa. Pur conservando tradizioni secolari (come l’usanza di cospargersi il corpo di grasso e ocra rossa), il loro stile di vita oggi è influenzato dai sempre più frequenti rapporti con i turisti e dai nuovi centri commerciali della città di Opuwo, costruiti a ridosso dei villaggi di capanne. (Opuwo, Namibia, 2010. Stephane De Sakutin/Afp)
L
a società africana è sconvolta da mutamenti profondi che mettono in discussione equilibri ancestrali e spazzano via i nostri vecchi cliché. L’inarrestabile processo di urbanizzazione, il boom economico e demografico dei Paesi emergenti, lo sviluppo del nuovo ceto medio, le rivolte popolari contro la vecchia classe politica. Ma anche l’emancipazione delle donne, i legami sempre più stretti con l’Occidente e la Cina, la diffusione delle tecnologie moderne… La vibrante spinta delle nuove generazioni che guardano al futuro senza dimenticare il passato. Tutto avviene molto in fretta, sotto i nostri occhi. Impossibile fermare la metamorfosi di una società palpitante di vita.
Solo i fotografi possono provare a catturare la rivoluzione africana, tentare di cristallizzare in un fotogramma la sua effervescente energia. Ma è un tentativo fugace. Perché, al di là di ogni previsione, sfidando l’omologazione che sembra avvolgere il pianeta, l’Africa continua a percorrere una strada autonoma, originale e imprevedibile. Quasi a volerci dimostrare che un altro mondo non solo è possibile, esiste già. La mostra Good Morning Africa - realizzata per celebrare i novant’anni della nostra rivista raccoglie quaranta immagini scattate dal Cairo a Città del Capo. Sono fotografie di reporter di varie nazionalità, capaci di immortalare la vitalità di un continente in pieno movimento. •
stra nuova mostra fotografica mozAmbico FIUTO ESPLOSIVO L’addestramento di un topo sminatore. L’organizzazione belga Apopo, specializzata nella bonifica dei terreni minati, utilizza decine di ratti africani nella delicata ricerca degli ordigni sotterrati. Gli animali riescono a perlustrare circa 100 mq in mezz’ora, senza correre alcun pericolo: sono troppo leggeri per far detonare le mine. Il loro tirocinio dura 6 mesi. A vent’anni dalla fine della guerra civile, alcune campagne del Mozambico centromeridionale sono ancora disseminate di esplosivi invisibili che provocano vittime. Il governo di Maputo prevede di terminare la bonifica dei terreni entro il 2014. (Inhambane, Mozambico, 2005. Sipapress/Olycom)
mALi MAGHI DELLE PAROLE Un gruppo di griot, cantastorie tradizionali dell’Africa occidentale, all’opera di notte nel villaggio di Kela. Gli storicimenestrelli del Mali appartengono ad una casta super-istruita e rispettata. Maghi della parola, del suono e del canto, sono depositari di antiche leggende e maestri indiscussi dell’arte oratoria. Accompagnati dal ritmo dei tamburi e della kora, i griot scandiscono coi loro racconti l’eterno avvicendarsi di battesimi, matrimoni e funerali. (Kela, Mali, 2010. Bruno Zanzottera/ Parallelozero)
PER RICEVERE TUTTO L’ARTICOLO CONTATTARE LA REDAZIONE:
africa@padribianchi.it
Con un contributo minimo di 20 euro puoi ricevere 6 numeri di Africa in PDF info:
africa@padribianchi.it
somALiA
LEZIONI DI ANATOMIA Il dottor Nasra, medico somalo specializzato in ostetricia, tiene una lezione di anatomia ad alcune studentesse dell’Hayat Healthy Institute, una delle poche strutture ancora in attività a Mogadiscio malgrado la guerra civile. Negli ultimi vent’anni, infatti, la capitale della Somalia è stata teatro di violenze fratricide che hanno contrapposto milizie tribali, soldati regolari, gruppi islamisti e signori della guerra. Ancora oggi Mogadiscio è uno dei posti più pericolosi al mondo, specie per giornalisti e fotografi. (Mogadiscio, Somalia, 2010. Pascal Maître/ Olycom)
tunisiA
PRIMAVERA ARABA È il 18 gennaio 2011. Un manifestante tunisino “armato” di baguette affronta la polizia incaricata di reprimere i cortei che manifestano contro il nuovo governo di transizione, guidato da uomini politici legati al vecchio regime. La Primavera Araba è iniziata in Tunisia. Il 17 dicembre 2010 Mohammad Bouazizi, un giovane venditore ambulante, si dà fuoco per protesta contro la polizia che gli ha sequestrato il suo banco di verdure. Muore pochi giorni dopo. È la scintilla che incendia la rivoluzione contro il Presidente Ben Ali, messo in fuga dal suo popolo dopo oltre vent’anni di “dolce” dittatura. (Tunisi, Tunisia, 2011. Fred Dufour/Afp)
richiedi LA mostrA Le immagini pubblicate in queste pagine sono tratte dalla mostra Good Morning Africa, promossa dalla nostra rivista, in collaborazione con Festival del Cinema Africano, African Explorer, Stefania Costruzioni e Tipografia Jona. La mostra - curata da Marco Garofalo e da Marco Trovato - è composta da 40 fotografie (pannelli 50 per 70 cm) e altrettanti testi di commento. Un racconto inedito e vibrante sulla nuova Africa realizzato da grandi reporter. La mostra è disponibile per esposizioni in tutta Italia. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0363 44726, africa@padribianchi.it - anteprima su www.missionaridafrica.org
società
testo di Emanuela Zuccalà foto di Bruno Zanzottera/Marco Lachi/Afp
La rinascita di Jo’burg Sudafrica, alla scoperta di una metropoli vibrante e piena di sorprese
30
africa · numero 3 · 2012
Johannesburg, già polo economico e centro politico del Sudafrica, è diventata l’avamposto culturale e creativo della generazione post-apartheid. Una rivoluzione fatta di gallerie d’arte, disco-pub e locali alla moda… rigorosamente multirazziali
U
n mojito al tramonto nel bar sul tetto del 12 Decades, con musica lounge, arredamento minimale di divanetti bianchi e neri, ragazze in gonnelloni hippie e capelli fucsia. Se tra i palazzi non comparisse un angolo di panorama sull’altopiano brullo del Transvaal, sembrerebbe di stare a Chelsea, New York, con la sua geografia di antichi edifici industriali rinnovati e trasformati in gallerie d’arte, locali alla moda, mercatini. Invece siamo nel cuore di Johannesburg, la megalopoli sudafricana nata sulle miniere d’oro e agonizzante durante il medioevo dell’apartheid, che ora lentamente guarisce e riscopre la gioia di vivere. Meno amichevole e vibrante di Città del Capo, ma intrigante da scrutare per i suoi contrasti ge-
ometrici di grattacieli e baraccopoli e le accecanti contraddizioni sociali, Johannesburg viene spesso schivata dagli itinerari turistici classici. A scoraggiare è soprattutto il tasso di criminalità tra i più elevati al mondo: la upper class bianca è fuggita dal centro verso le nuove periferie come Stanton, asserragliata in complessi di villette protetti da filo spinato e guardie armate, e molti grattacieli di Hillbrow, un tempo fulcro economico della città, sono ormai ghetti per emarginati, bianchi e neri senza distinzione. Lo ha documentato il fotografo sudafricano Guy Tillim nella sua famosa serie Jo’burg, che racconta il progressivo degrado degli edifici della city dopo la fine dell’apartheid, a causa di agenzie immobiliari corrotte che si intascavano il denaro destinato alla manutenzione dei palazzi.
Laboratorio sociale
Eppure Jo’burg o Jozi, così i locali chiamano la città, dai suoi 1.700 metri d’altitudine conserva un certo fascino. Non fosse altro che per la sua rilevanza economica (è sede della maggiore borsa d’Africa), e perché in vista dei Mondiali di calcio del 2010 alcuni imprenditori giovani e sognatori hanno cominciato a ridipingere lo spettrale centro città. Così la tappa della domenica mattina è Arts on
Main, nel quartiere di City & Suburb, un complesso di ex magazzini industriali inaugurato nel 2009 che si sta affermando come hub culturale e ludico: fra i primi ad accaparrarsi uno spazio qui è stato l’eclettico artista sudafricano William Kentridge, noto per i suoi cartoni animati disegnati a carboncino e ambientati nelle miniere di Jo’burg. Lo hanno imitato organizzazioni culturali come la Goodman Gallery e il Goethe Institut, e oggi le gallerie d’arte e le librerie fanno da scenografia a un mercatino dall’atmosfera ibrida tra il newyorchese Chelsea Market e Camden Town a Londra, con l’ingresso seminascosto al 268 di Fox Street. Abbigliamento vintage, gioielli, cosmetica naturale, musica jazz diffusa e il giardino interno dove giovani alternativi e famiglie di ogni colore pranzano sull’erba a hot dog e grandi piatti di carne e patate.
Johannesburg, seconda città più popolosa del continente africano (dopo Il Cairo), fu fondata nel 1886 dagli inglesi con la scoperta di immensi giacimenti d´oro
africa · numero 3 · 2012
31
società
Il ghetto dei miracoli
È, e forse lo resterà per sempre, nonostante l’incredibile evoluzione, il luogo simbolo dell’apartheid. Soweto, la township a sudovest di Johannesburg, nacque nel 1904 come ghetto per i neri che lavoravano nelle miniere d’oro. Deportati qui con la forza, il 16 giugno 1976 furono i protagonisti della rivolta più importante nella cupa storia dell’apartheid. Oggi, di fronte alla statua di Hector Pieterson, il ragazzino che allora fu la prima vittima della polizia, sorge il centro commerciale Maponya Mall, e attorno ci sono i wine bar, le spa, i bed & breakfast, i ristorantini alla moda come il Wandie’s Place, i cinema, i turisti da tutto il mondo. Soweto non fa più paura, è assolata e vivace come una città appena (ri)nata, e alle antiche baracche a schiera si sono affiancate le ville borghesi, come quelle piuttosto care della zona di Diepkloof. La gente guida belle macchine, l’upper class nera ama stare qui, ci abitano anche le star del football sudafricano, Winnie Mandela e Desmond Tutu, la musica kwaito risuona ovunque. Si organizzano persino tour guidati: per informazioni www.joburg.org.za/soweto. (E.Z.)
32
africa · numero 3 · 2012
«Il centro era vuoto, abbandonato da vent’anni», fa notare Jonathan Liebmann, il trentenne inventore e magnate di questi spazi. «Volevamo che la gente si riappropriasse della città». E racconta che qui, entro il 2012, nascerà un museo del design made in Africa.
Voglia di normalità Passeggiando attorno agli edifici di Arts on Main, si scopre anche il teatro e cinema d’essai Bioscop e l’hotel di design 12 Decades, con un bar sul tetto dalla vista imperdibile, quasi come i suoi mojito a 37 rand, meno di 4 euro. Attraversando il Nelson Mandela Bridge sospeso
Tra nuovi teatri e gallerie d’arte, l’ex capitale sudafricana del crimine è diventata la capitale della cultura su cavi d’acciaio, e salendo verso nordovest nel quartiere di Milpark, si raggiunge il 44 Stanley, un altro recente complesso di relax, shopping e studi di design
PER RICEVERE TUTTO L’ARTICOLO CONTATTARE LA REDAZIONE:
africa@padribianchi.it
Con un contributo minimo di 20 euro puoi ricevere 6 numeri di Africa in PDF info:
africa@padribianchi.it
società
di Michela Offredi
Da un piccolo villaggio in Etiopia una giovane imprenditrice vende calzature in tutto il mondo
Le scarpe di Bethlehem L’impresa di Bethlehem Tilahun Alemu produce scarpe, stivali e sandali confezionati a mano con materiali naturali e riciclati. Un’azienda che dà lavoro a cento persone grazie al boom di vendite sul web
34
africa · numero 3 · 2012
G
randi marchi dell’industria calzaturiera vengono spesso criticati per lo sfruttamento perpetrato nelle loro fabbriche nel Sud del mondo. Ma le scarpe di cui ci occupiamo ora non c’entrano nulla con le paghe da fame e gli orari infernali imposti agli operai. Al contrario, dietro a questi lacci e tomaie c’è una storia di sviluppo e riscatto sociale. Quella di un’imprenditrice etiope di 31 anni, Bethlehem Tilahun Alemu, e della sua azienda soleRebels.
Dall’Etiopia alla Cina È bastato mettere insieme il coraggio di questa ragazza, il piccolo prestito di suo padre e la cultura millenaria della tessitura in Etiopia. Il risultato è stato una linea di calzature originali, interamente realizzata con materiali naturali e riciclati. Scarpe, stivali, sandali e sneakers confezionati a mano, partendo dalla canapa, dalla iuta e dal cotone. Le suole si ottengono, come suggerisce la tradizione locale, dalla gomma
di vecchi pneumatici. I colori sono vivaci, le finiture perfette e basta un’occhiata sul negozio virtuale per respirarne il comfort (www. solerebelsfootwear.co). L’azienda soleRebels è stata fondata nel 2004 e oggi le sue calzature passeggiano in Etiopia e fra le strade di tutto il mondo. Complice la vetrina di Amazon, sono vendute in oltre trenta Paesi: dall’America alla Spagna, dalla Francia alla Cina. «Sono nata nel villaggio
di Zenabowork, una manciata di capanne sperdute sull’altopiano etiope», racconta Bethlehem. «Fino a pochi anni fa era un luogo desolante, oggi è la sede di soleRebels, una fabbrica che produce scarpe e speranza». Pochi giorni fa l’azienda ha festeggiato l’assunzione del suo centesimo operaio.
Prodotto equo e giusto Merito del boom delle vendite sul web. «Le nostre scarpe sono 100% africane, ma hanno uno stile internazionale che piace ad ogni latitudine», spiega Bethlehem. «È un connubio fra tradizione artigianale e design contemporaneo». Di moderno, però, non c’è solo l’aspetto. La giovane imprenditrice etiope ha dato vita a una filiera produttiva trasparente, che garantisce diritti e guadagni equi a chi ne fa parte, ad ogni livello. Una vera rivoluzione in un mercato dominato dalle logiche speculative delle multinazionali. I salari della soleRebels sono quattro volte superiori ai minimi sindacali. L’assistenza medica è garantita ad ogni lavoratore e ai suoi famigliari, così come il trasporto per i dipendenti disabili. Conquiste che riempiono d’orgoglio Bethlehem Tilahun Alemu, più dei premi e degli elogi che le inviano da ogni parte del mondo. «Nel mio piccolo ho dimostrato che si può fare business senza sfruttare: basta avere l’idea giusta. E la determinazione nel volerla realizzare». •
Nasce il primo tablet africaNo Arriva da Brazzaville l’erede di Steve Jobs Lanciato con successo il “Way-C”, gioiello tecnologico progettato da un giovane ingegnere del Congo che ricorda per tenacia e genialità l’inventore dell’iPad Vérone Mankou, 25 anni, ingegnere informatico di Brazzaville, è il papà del primo tablet totalmente progettato in Africa. Il suo gioiello tecnologico, battezzato Way-C (un gioco di parole che, in un dialetto locale, significa “luce delle stelle”) è in commercio dallo scorso febbraio in una dozzina di Paesi africani, ma anche in Francia, Belgio e India. Il giovane Mankou si è buttato in un mercato dominato dalle multinazionali dell’hi-tech: Apple (con iPad), Hewlett Packard (con TouchPad), Samsung (con Galaxy). «Non ho complessi di inferiorità né timori reverenziali», spiega il programmatore congolese, che per la realizzazione del suo prototipo ha investito due anni di lavoro e 86 milioni di franchi Cfa, circa 122mila euro. «È stata dura - spiega Mankou - la mia società Vkm Congo ha rischiato il fallimento ben tre volte e ho dovuto prendere misure d’austerità ben prima della Grecia!». Il computer portatile di Mankou, come tutti i suoi concorrenti, viene assemblato in Cina, a Shenzhen, capitale mondiale dell’elettronica. «Ma il know-how e la progettazione sono 100% congolesi», rivendica con orgoglio il suo ideatore. «Produciamo in Cina perché in Congo manca la tecnologia adeguata». Il Way-C possiede un microprocessore da 1,2 Ghz, 32 Gigabyte di memoria, schermo touchscreen da 7 pollici, batterie con un’autonomia di 10 ore. È dotato del sistema operativo open source Android e dispone di diverse interessanti applicazioni create da softwaristi africani. Unica vera pecca: non ha un alloggiamento per le carte Sim. Il tablet congolese può connettersi a internet sfruttando una rete wi-fi, ma ha bisogno di un modem per l’accesso alle reti telefoniche. «Ma il nostro prezzo, pari a 230 euro, è imbattibile: meno della metà rispetto all’iPad», sottolinea Mankou, che commercializza la sua creatura in mezzo mondo, in partnership con il colosso indiano Bharti. «Il prossimo passo? Presto farò uscire uno smartphone congolese a meno di 150 euro. Vi stupirà». Vérone Mankou come Steve Jobs. Geniale, ambizioso, visionario. Da Cupertino a Brazzaville, la fame di successo è la stessa. Giusy Baioni africa · numero 3 · 2012
35
società
36
testo di Paola Marelli
RangeR a quattRo zampe
africa · numero 3 · 2012
Arruolati in Congo i primi cani antibracconaggio Da quest’anno le guardie congolesi del Parco Virunga, impegnate a proteggere gli animali dai cacciatori di frodo, possono contare sull’aiuto di una pattuglia di segugi dal fiuto infallibile
S
i chiamano Stella, Lily, Sabrina, Dodie… Hanno pochi mesi di vita ma già saltano e corrono come atleti formidabili, sono cuccioli di cani segugio. Lo scorso gennaio sono atterrati nel cuore del continente africano. Provenivano da un centro svizzero specializzato nell’addestramento di cani poliziotto e cani antidroga. Dopo essere stati sottoposti per settimane a test clinici, visite mediche e prove psico-attitudinali, sono stati arruolati per una missione inedita: la caccia ai bracconieri dell’Africa.
L’arrivo in foresta I cani, una mezza dozzina in tutto, sono stati in-
gaggiati dalle autorità che gestiscono il Parco del Virunga, nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo, ai confini con la Tanzania, l’Uganda e il Burundi. La regione un tempo ospitava una delle più alte concentrazioni mondiali di elefanti, ma nell’arco degli ultimi trent’anni i pachidermi sono stati massacrati. Colpa di cacciatori di frodo ma anche di banditi, milizie ribelli, soldati corrotti o semplicemente impossibilitati a controllare un territorio vastissimo, su cui da tempo hanno messo gli occhi le organizzazioni criminali che gestiscono il commercio clandestino dell’avorio. I cuccioli sono stati accol-
cani poliziotto Sono diverse le razze canine usate per attività di polizia. I pastori tedeschi sono arruolati per le loro particolari doti investigative e olfattive, i labrador sono utilizzati nella ricerca di sostanze stupefacenti e armi, i rottweiler sono ingaggiati nei servizi a tutela dell’ordine pubblico, i pastori belgi malinois sono apprezzati per il loro grande temperamento. I cani segugio sono i primi della classe nella lotta al bracconaggio.
ti calorosamente dai ranger congolesi del Virunga. «Non hanno risentito del lungo viaggio né hanno avuto problemi di adattamento con il clima», spiega compiaciuto Emmanuel De Merode, manager del parco. «Gli animali hanno preso subito confidenza con l’ambiente, per nulla infastiditi dai rumori e dagli odori della foresta equatoriale». Hanno pure mostrato di apprezzare la cucina locale, a base di manioca e riso.
Dispetti ai babbuini «Siamo estremamente soddisfatti della prima fase del progetto», commenta Marlene Zahner, veterinaria, consulente di polizia, massima esperta internazionale africa · numero 3 · 2012
37
copertina
Il nuovo testo di Anna Pozzi foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero
A giugno gli egiziani sceglieranno il leader politico chiamato a guidare il Paese dopo la caduta di Mubarak. Il nuovo Presidente avrà il difficile compito di risollevare l’economia, sottrarre il potere ai militari e cimentare la coesione sociale. Senza tradire gli ideali della rivoluzione
40
africa · numero 3 · 2012
EgItto l
a sera, lungo il Nilo, barconi illuminati trasmettono musica a tutto volume. Come se non fosse successo niente. Cercano di attirare turisti e giovani che hanno voglia di divertirsi. Ma non ci sono né gli uni né gli altri. «Welcome, welcome!», gridano i procacciatori di clienti, appena vedono un volto straniero. Senza troppa insistenza. Ci provano. Più per abitudine che per convinzione. È un rituale un po’ triste quello che si ripete uguale a sé stesso lungo la passeggiata semideserta che costeggia il Nilo, nel cuore della capitale egiziana. Giovani indolenti presidiano un lavoro che non c’è. I turisti sono quasi spariti dall’Egitto. I flussi tradizionali si sono ridotti di due terzi. Sono ripresi un poco a Sharm el Sheik, nella penisola del Sinai, e in parte al sud, nelle zone di Luxor e Assuan, lontano dai disordini della capitale e delle principali città. Un colpo pesante per un Paese che aveva nel turismo la principale fonte di entrate. Al Cairo, di turisti proprio non se ne vedono. I pochi stranieri che s’incontrano sono soprattutto giornalisti o studenti, che non hanno paura di sfidare le turbolenze della capitale, una città in perenne effervescenza.
africa · numero 3 · 2012
41
copertina
Cosa succede alla vigilia delle Stato militare Piazza Tahrir continua a essere il cuore di questo Paese in ebollizione. Quando tutto è tranquillo, non puoi avvicinarti che c’è sempre qualcuno che cerca di dipingerti la bandiera egiziana sulla mano. Poi ti chiedono un contributo «per la rivoluzione» e ne approfittano per attaccar bottone. Hanno voglia di raccontare e di raccontarsi, i ragazzi di Tahrir. A più di un anno dall’inizio delle rivolte (25 gennaio 2011) e alla vigilia delle elezioni presidenziali (previste in giugno), sanno di aver fatto qualcosa di grande, di straordinario, ma sono anche un po’ disorientati, delusi e sempre più frammentati. Il futuro è quanto mai incerto. E l’unica cosa
che continua ad accomunare movimenti estremamente eterogenei è la volontà di abbattere il potere della giunta militare che ha guidato la fase politica di transizione dopo la caduta del regime di Hosni Mubarak (11 febbraio 2011). «Il Consiglio supremo delle Forze armate diretto dal maresciallo Hussein Tantawi - si legge sul giornale locale Al Ahram - continua ad arrestare oppositori e giornalisti. Nell’ultimo anno, circa 12mila civili sono stati portati in giudizio di fronte al tribunale militare. Dal canto loro, i militari continuano a conservare potere e privilegi, gestendo circa un terzo della produzione nel Paese, senza alcun controllo né tasse».
Prove di maturità Ibrahim si dice un musicista “rivoluzionario”. Che cosa significhi non è chiaro. Quello di rivoluzionario, ormai, è l’appellativo più usato e abusato. Suona in uno dei tantissimi gruppi che sono nati negli ultimi tempi; fanno canzoni di protesta e di denuncia, chiedono diritti, giustizia, democrazia, libertà… Anche queste sembrano parole abusate. Eppure, sino a poco tempo fa, erano impronunciabili. C’è ancora qualcosa di dirompente in queste parole, per un Paese che libertà e democrazia non le ha mai conosciute, e dove diritti e giustizia erano prerogativa e arbitrio del potere. «Oggi l’Egitto è un grande laboratorio», commenta padre Jean-Jacques Pérennès,
Cronologia, ascesa e caduta dell’ultimo faraone 14 ottobre 1981 In seguito all’assassinio di Anwar al-Sadat, diventa Presidente Hosni Mubarak. Settembre 2005 Mubarak viene rieletto per il suo quinto mandato nelle prime elezioni pluraliste. 25 gennaio 2011 Inizio della rivoluzione. 11 febbraio 2011 Dimissioni di Mubarak. Il Supremo consiglio delle Forze armate, guidato dal maresciallo Hussein Tantawi, assume il potere. Dicembre 2011-gennaio 2012 Elezioni legislative: il Partito Libertà e Giustizia dei Fratelli Musulmani ottiene il 47,2% delle preferenze, seguito dal partito salafita al-Nur con il 24,3%. 23 gennaio 2011 Si insedia il nuovo parlamento, guidato da Mohamed Saad al-Katatni, leader di Libertà e Giustizia. 23-24 maggio 2012 Elezioni presidenziali. 16-17 giugno 2012 Ballottaggio. 21 giugno 2012 Proclamazione del nuovo Presidente dell’Egitto. 42
africa · numero 3 · 2012
storiche elezioni presidenziali I candIdatI
Manifestanti accampati in piazza Tahrir, simbolo della rivolta popolare che ha abbattuto Hosni Mubarak. La rivoluzione, iniziata il 25 gennaio 2011, è costata la vita a circa 850 persone e inaugurato un’incerta fase di transizione
Sono 13 i candidati alle elezioni presidenziali in programma in Egitto alla fine di maggio. Il favorito per la vittoria finale è il settantaseienne Amr Moussa: ex segretario generale della Lega Araba ed ex ministro degli Esteri con Mubarak (dal 1991 al 2001), accreditato a livello internazionale, gode di una considerevole popolarità. L’unico concreto rischio a una sua elezione proviene dal candidato dei Fratelli musulmani (trionfatori delle legislative), Mohamed Mursi, 60 anni, presidente del partito Libertà e giustizia, il braccio politico del movimento. Tra gli outsider segnaliamo Abdel Moneim Aboul Fotouh (ex dirigente dei Fratelli Musulmani, oggi politico indipendente, medico e islamista moderato, molto popolare tra i giovani musulmani) e Ahmed Shafik (ex comandante dell’aeronautica militare egiziana, vicino al Consiglio Supremo delle Forze Armate). La commissione elettorale ha clamorosamente bocciato, per cavilli burocratici o inadempienze procedurali, tre candidati molto in vista: il controverso Omar Suleiman (ex capo dei servizi segreti e vicepresidente di Hosni Mubarak), il principale finanziatore dei Fratelli Musulmani, Khairat al-Shater e l’esponente di spicco dei salafiti, Hazem Abu Islamil. (M. Trovato)
direttore dell’Istituto domenicano di studi orientali e profondo conoscitore del Paese. «La gente sta imparando a fare quello che per quarant’anni è stato proibito: a pensare, a esprimersi, a fare politica. È qualcosa di completamente nuovo e che richiede tempo. I giovani, soprattutto, hanno voglia di cambiamento. Lo chiedono a gran voce, manifestano. Ma ne pagano le conseguenze. Anche pesanti».
lo scacchiere politico Oggi l’Egitto si prepara ad affrontare tre grandi sfide: le elezioni presidenziali fissate per giugno, la nuova Costituzione e il rilancio dell’economia. Tre cantieri cruciali per non far fallire un Paese che, nonostante tutto, resta un punto di equilibrio imprescindibile all’interno del turbolento mondo arabo mediorientale. Per molti mesi solo una donna aveva avanzato la propria candidatura: Buthaina Kamel (l’intervista pubblicata su Africa 2/2012). Senza alcuna chance, ma rompendo schemi sessisti retrogradi e fossilizzati. Gli altri possibili candidati hanno giocato più o meno sotto banco la partita delle alleanze e dei sostegni. I principali manovratori di questo gioco, oltre ai militari, sono chiaramente i Fratelli Musulmani (rappresentati in parlamento dal partito Libertà e Giustizia, che alle recenti elezioni africa · numero 3 · 2012
43
La gioventù, che è la maggioranza della popolazione, chiede una civiltà moderna. Ha voglia di uscire dal Medioevo in cui è sprofondato questo Paese. Per il futuro non c’è dubbio che questa civiltà vincerà. C’è speranza di giustizia e di verità. E c’è ancora voglia di continuare a lottare per ottenerle. Musulmani e cristiani insieme». •
La rivoLuzione rosa Le donne egiziane protagoniste del cambiamento Dopo aver contribuito ad abbattere il regime di Mubarak, oggi sono impegnate in prima linea contro i militari e i fondamentalisti «Siamo scese in piazza per chiedere democrazia, giustizia, libertà. Alcune di noi sono state arrestate, picchiate. Alcune umiliate e sottoposte al test di verginità. Abbiamo combattuto e ora non possiamo accettare il potere dei militari e neppure quello degli islamisti. Dobbiamo continuare a lottare, a qualsiasi costo. La rivoluzione continua». Ghada è una ragazza dolce e determinata. È una delle tante donne della rivoluzione che hanno animato il movimento che ha portato alla caduta del regime di Mubarak. Sono diversissime tra di loro. Ragazze in jeans e un vezzoso foulard in testa, donne completamente rivestite di nero, artiste, giornaliste, intellettuali, casalinghe… Moltissime mamme. Cristiane e musulmane. Voglia di combattere Ghada è stata arrestata e picchiata dai soldati, ma è molto combattiva. «Le elezioni legislative non sono state del tutto trasparenti», dice. «Ci sono stati troppi brogli. Per questo non ho votato, mi sono astenuta. Ma anche perché sentivamo che tutti i partiti politici stavano tradendo i principi della rivoluzione. Mentre quelli islamisti hanno usato la religione per attrarre la gente. Ma questi partiti faranno ben presto il loro tempo. La rivoluzione continua». Anche Isis è sulla stessa linea: 27 anni, una laurea in lingue e «rivoluzionaria» della prima ora, ha partecipato a numerose manifestazioni. «Milioni di egiziani sono scesi in piazza, al Cairo e in molte altre città», dice Isis. «C’erano sempre molte donne, che hanno reso più forte e autentica la voce della rivoluzione, la voce della società civile e dei giovani. Una voce che dobbiamo continuare a far sentire contro il potere militare, ma anche in alternativa ai partiti politici, da cui non ci sentiamo rappresentati». Lotta agli integralisti Houraya El Sayed, invece, è una delle tante artiste (lei è pittrice e scultrice) che hanno messo il proprio talento a favore della rivoluzione e che dalla rivolta popolare hanno tratto nuovi spunti per la propria arte. «Vedevo le cose andare sempre peggio», racconta nella sua casa-studio, poco distante da piazza Tahrir. «Mancanza di libertà e di giustizia, oppressione e corruzione… Poi, il 25 gennaio del 2011, è scoppiata la rivoluzione… Sentivo il bisogno di condividere la mia arte con la gente. Nei giorni della protesta andavo in piazza Tahrir e organizzavo workshop di pittura con i ragazzi». Dall’altra parte della città, in un mega centro commerciale nel quartiere borghese di Heliopolis, Aysen ci racconta le sue preoccupazioni per il futuro dell’Egitto. Capelli biondi, curatissima, sembra lontana anni luce dall’immagine della rivoluzionaria. A suo modo, però, e insieme a un gruppo di altre donne e amici, sta portando avanti una campagna per la modernizzazione del Paese e per sottrarlo dalle grinfie dei fondamentalisti. «Non penso che sia un bene che si domini e si manipoli la gente attraverso la religione», dice Aysen. «Fratelli Musulmani e salafiti sono le due facce della stessa medaglia. Ma questo non è il vero islam. Per questo, andiamo nei quartieri, tra la gente più povera, per creare una coscienza nuova tra la popolazione, affinché, abbattuto Mubarak, non si consegni ora nelle mani di un altro regime».
africa · numero 3 · 2012
47
PER RICEVERE TUTTO L’ARTICOLO CONTATTARE LA REDAZIONE:
africa@padribianchi.it
Con un contributo minimo di 20 euro puoi ricevere 6 numeri di Africa in PDF info:
africa@padribianchi.it
viaggi
testo e foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero
È la terza cima più alta dell’Africa. Un maestoso monumento di rocce, muschi e rare piante tropicali, perennemente avvolto nelle nuvole. Lo abbiamo esplorato dalle pendici inzuppate d’acqua fino alle cime ghiacciate
D
a quattro giorni sto camminando tra una vegetazione bizzarra con eriche ricoperte da folti strati di muschi, scheletri di alberi dalle strane forme zoomorfe, lobelie e seneci affetti da gigantismo. Ad ogni passo mi aspetto di incontrare un elfo o un’altra creatura di un mondo fatato. Il sentiero spesso scompare in un gigantesco acquitrino, con gli stivali che sprofondano fino alle ginocchia. I fiumi scorrono impetuosi, gonfiati dalle acque di abbondanti piogge. Il sole sembra aver abbandonato definitivamente questi monti dal nome mitico con le cime innevate perennemente avvolte tra le nebbie. Il silenzio è totale, il senso di solitudine assoluto.
Un mondo fiabesco Con i suoi 5.109 metri di altezza, il Rwenzori è la terza 48
africa · numero 3 · 2012
Re della Le montagne del Rwenzori sono Patrimonio mondiale dell’umanità per la loro flora e fauna. Il Parco nazionale, che si estende su 996 kmq di terreno montagnoso, offre la rara esperienza di osservare una foresta pluviale in un territorio afromontano, un ambiente unico al mondo per bellezza e integrità, tra seneci, lobelie, eriche, ginestre giganti, boscaglie di bambù
Conquista italiana
in Uganda, alla scoperta del favoloso Rwenzori
Pioggia
La catena del Rwenzori era conosciuta già nel 150 d.C., quando il geografo romano Tolomeo fantasticò sulle «Montagne della Luna», un colossale massiccio montuoso nel cuore dell’Africa, ipotizzando che di lì partisse il fiume Nilo. Nel 1888 l’esploratore Henry Morton Stanley avvistò per primo i ghiacciai del Rwenzori, che i locali chiamavano «Colui che crea la pioggia». Il 18 giugno del 1906, una spedizione guidata da Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi e cugino del re d’Italia, conquistò la vetta più alta delle mitiche Montagne della Luna e la battezzò “Margherita”, in onore alla regina. Per saperne di più su questa memorabile impresa, potete leggere l’articolo Il principe esploratore pubblicato sul numero 6/2010 di Africa. vetta africana dopo il Kilimangiaro e il monte Kenya. Delle tre, è l’unica a non essere di origine vulcanica: si è creata per la spinta verso l’alto esercitata dalle placche tettoniche sulla superficie terrestre all’interno del complesso sistema geologico della Great Rift Valley. È africa · numero 3 · 2012
49
Rwenzori (5.109 m)
la scalata
Le montagne del Rwenzori rappresentano uno dei percorsi trekking più impegnativi e, allo stesso tempo, più affascinanti dell’Africa orientale. Si estendono per circa 100 chilometri e costituiscono uno dei più famosi parchi nazionali dell’Uganda. quando . Il periodo migliore per la scalata va da metà dicembre a metà febbraio e da agosto a novembre, quando le precipitazioni diminuiscono documenti . È necessario il passaporto con sei mesi di validità e il visto ugandese ottenibile all’aeroporto di Entebbe: costo, 50 USD volo . Brussels Airlines (tel. 899.800.903), dal 1 giugno al 28 sett.: Bruxelles-Entebbe, 4 volte la settimana; Bruxelles-Kigali, (Ruanda), 5 volte la settimana. A/R a partire da 722 euro - brusselsairlines.com con chi . African Explorer (tel. 02 43319474, www. africanexplorer.com) organizza circuiti di 11 giorni sul Rwenzori. Spedizioni sono proposte anche dal tour operator italiano ‘O sole mio, che ha sede a Kampala in Uganda. (www.ugandasafari.it).
Sulle pendici del Rwenzori, tra 800 e 1.500 metri, l’acqua abbondante e la fertilità del terreno favorisce pascoli e agricoltura. A 1.500 metri, inizia la foresta, è la parte più rigogliosa del massiccio e l’habitat ideale per la maggior parte degli animali. Verso i 2.700 metri troviamo la brughiera, caratterizzata da grandi piante di erica e da fiori dai colori vivacissimi. Oltre i 4.500 metri, l’ossigeno si riduce, l’aria si fa rarefatta, il freddo estremo, il sole bruciante e troviamo solo alcuni licheni. A circa 5.000 metri, inizia la lenta salita sulla neve con ramponi, imbrago e corda.
sicuramente anche quella di maggior fascino, grazie ad una vegetazione unica nel suo genere, divisa in fasce distinte, che variano dalla foresta tropicale con piante di alto fusto ricoperte da muschi e licheni fino alle cime più alte, dove tra le rocce e i ghiacci spuntano piccoli e tenaci fiori. Lo spettacolo più sorprendente è offerto dalla vasta brughiera che ospita eriche, seneci e lobelie di dimensioni gigantesche oltre a tappeti di muschi multicolori, licheni penzolanti dagli alberi e vasti acquitrini… L’escursionista attraversa un mondo fantastico che sembra uscito direttamente da un libro di fiabe. • africa · numero 3 · 2012
51
italia
testo di Michela Offredi
A Kinshasa teneva concerti per strada. In Italia ha cominciato a recitare nei teatri. Poi è approdato in televisione e al cinema. Dove ha lavorato con Diego Abatantuono, Renato Pozzetto e Michele Placido…
Cantastorie
Intervista a Pegas Ekamba Bessa, musicista e attore congolese
P
52
africa · numero 3 · 2012
arola. Forse è questo il termine che più si addice a Pegas Ekamba Bessa. E questo perché una parola si può recitare, cantare, si può scrivere. Una parola si può addirittura ballare, e lui che è attore, musicista, cantante e a sei anni già si muoveva «come un serpente», un testo lo interpreta anche con il corpo. Con le parole, Pegas, che è nato nel 1972 a Kinshasa e oggi vive in provincia di Bergamo con la sua famiglia, si guadagna da vivere e conserva le memorie degli avi. Perché lui, che è un griot - un cantastorie tradizionale, maestro dell’arte oratoria - e ha recitato per Renato Pozzetto e Carlo Vanzina, è sicuro di una cosa: il destino dell’Africa dipende anche da quelli che sono partiti. A loro è affidato il compito di raccontare l’Africa.
avresti fatto l’artista? Sono nato artista. Il mio vero nome è Ekamba Bessa Lossala Mpongo Tata Ossiki”. Significa: “Colui che, come l’aquila, vola più in alto e ha la voce più bella”… I nonni videro che la musica aveva il potere di farmi muovere o calmare. Il mio nome parla di arte. Già molto piccolo, cantavo, ballavo, suonavo. Ogni fine settimana tenevo concerti sulla strada, con una canna di bambù per microfono. Sono sempre stato circondato dall’arte. Un mio cugino era un cantante d’opera, un altro cugino faceva il comico, mia zia era un’attrice. La prima chance di apparire in televisione si è presentata quando avevo 10 anni. Avrei dovuto recitare con la zia, fare suo figlio. Purtroppo era il giorno della mia prima comunione. Ci andò mia sorella.
Sei diplomato in arte drammatica all’Istituto nazionale di arte e spettacolo in Congo. Sai suonare diversi strumenti e ti sei esibito con molte band. Quando hai capito che
Negli anni le occasioni per recitare si sono ripresentate. Come sei arrivato in Italia? In Congo collaboravo con il Coe (Centro orientamento educativo) occupandomi
sport
testo e foto di Paolo Patruno
La fattoria dei pugili In Malawi i campioni della boxe si allenano in piena campagna
L’allenatore Godfrey Arthur Jalale in un momento di relax. Alle sue spalle, un poster di Sylvester Stallone nei panni del celebre “Rocky” Balboa
54
africa · numero 3 · 2012
L’allenatore Godfrey Jalale, un ex colonnello dell’esercito in pensione, prepara i suoi atleti lontano dalle distrazioni della città. «Per trionfare sul ring servono disciplina, concentrazione e fame di vittoria»
L
a boxe in Malawi è molto più di uno sport. È una possibilità di riscatto, l’occasione per emergere dalla miseria. Diventare professionisti è relativamente semplice, ma il successo, la fama e i soldi arrivano solo attraverso i promoter, che organizzano incontri in tutto il Paese, soprattutto se il pugile è in grado di portare spettatori, pubblico pagante.
Quattro promesse
Se la boxe è sacrificio, in Malawi, uno dei Paesi più poveri al mondo, lo è ancora di più: non esistono vere palestre,
ci si allena all’aperto o in sale utilizzate per ogni altro tipo di evento, senza attrezzature né spogliatoi dove potersi cambiare, dove una doccia fredda in un bagno fatiscente è il massimo che si possa avere. Questo reportage è stato realizzato seguendo un gruppo di giovani atleti dai 17 ai 22 anni, tra i più promettenti pugili del panorama nazionale. Il loro allenatore, Godfrey Arthur Jalale, è un ex colonnello dell’esercito che oggi possiede una piccola fattoria a 100 chilometri dalla capitale Lilongwe, nei pressi del lago Malawi. Mister Jalale porta avan-
ti la sua passione per la boxe da decenni. Un tempo addestrava le reclute all’interno delle caserme. Oggi, che potrebbe godersi la pensione, ha deciso di aiutare a crescere quattro ragazzotti dal passato difficile e dal futuro tutto da costruire. Sono Salimu Chazama (un dilettante di grande talento), Chrispin Moliati (da poco approdato nel mondo professionistico), Alik Mwenda (campione in carica dei pesi medi) e Kenneth Chinthenga (campione dei pesi leggeri). Quattro giovani promesse del pugilato che lottano ogni giorno per ottenere rispetto.
africa · numero 3 · 2012
55
libri
di Pier Maria Mazzola
Malcolm X
di Manning Marable
Terra rossa La tenda blu di Giampaolo Petrucci
di Niccolò d’Aquino
La foresta ti ha Storia di un’iniziazione
Mandela, l’Africano arcobaleno di Alain Serres
di Luis Devin
58
Una poderosa opera costata un decennio di lavoro che ha l’aria di demolire un mito, in parte nutrito dall’autobiografia stessa di Malcolm X, contenente «molti elementi inventati». L’autore rivela inediti aspetti intimi del leader e ridisegna in parte la parabola del suo pensiero. «Negli ultimi mesi della sua vita rifiutò di essere identificato come un “nazionalista nero”, cercando un riparo ideologico nei concetti del panafricanismo (…) privi di connotazione razziale». Non per questo sarebbe divenuto un altro Martin Luther King. Quanto al suo assassinio, nel 1965, l’autore cita mandanti ed esecutori. E conferma che il clima propizio all’omicidio maturò grazie al linguaggio di Louis Farrakhan, «principale beneficiario» dell’eliminazione di Malcolm e attuale leader della Nation of Islam.
Non è certo il primo racconto di un viaggio in Africa che ci passi sotto gli occhi. Questo però si stacca, rispetto a molti altri diari di visite alle missioni (nel nostro caso, quelle stimmatine in Tanzania). L’autore, redattore di Adista, ha trovato la sua cifra. Non minimizza né drammatizza la “differenza”. Preferisce parlare di «distanza», che è un dato di fatto ma in certa misura colmabile, purché ci muoviamo col passo giusto, consapevoli del peso storico del colore “bianco” che ci portiamo addosso. Un altro leitmotiv, questo direttamente mutuato dal kiswahili, è mtu ni watu, «la persona sono le persone», simile all’ubuntu sudafricano. Tutto questo, Petrucci lo fa emergere con una narrazione limpida, regalandoci momenti di commozione. E anche belle foto. Prefazione di JeanLéonard Touadi.
Donzelli 2011, pp. 616, 29,90 euro
Cambia una virgola 2011, pp. 207, 15 euro
africa · numero 3 · 2012
Pare impossibile ma anche negli anni Novanta può succedere di trovarsi catapultati in un Paese africano e di dovervi organizzare una nuova missione, inizialmente quasi da soli. È successo a suor Laura Girotto, che ha passato la sua prima notte ad Adua sotto una tenda blu, da sola, su una stuoia. La religiosa salesiana, una bella tempra e con una vita da missionaria in altri Paesi d’Africa e del Medio Oriente al suo attivo, non si scoraggia, e un poco per volta nasce - in quello che il primo giorno le era apparso come «il nulla» - una florida missione pensata soprattutto per i giovani, secondo lo stile salesiano. Nel suo vivace racconto in prima persona, dietro il quale l’autore giornalista “scompare”, figurano anche gli echi della guerra tra Etiopia ed Eritrea scoppiata nel 1998. Paoline 2011, pp. 158, 13 euro
«Qui nel ventre della foresta, dove gli anziani ci hanno portato per fare di noi degli uomini, non abbiamo più un nome, non abbiamo uno scopo. Stiamo scomparendo, ma al tempo stesso possiamo prendere qualsiasi forma». Luis Devin, 37 anni, antropologo nato a Torino, racconta la sua partecipazione al rito segreto d’iniziazione maschile dei pigmei Baka, nella foresta pluviale del Camerun. Un libro autobiografico scandito dai rituali e dalle prove che lo studioso occidentale deve affrontare per entrare a far parte del piccolo popolo della foresta. Tra spedizioni e battute di caccia, canti propiziatori e cerimonie di stregoneria, l’autore narra sempre in presa diretta la sua straordinaria esperienza, fondendo narrativa, antropologia e suggestioni poetiche.
Non mancano i titoli di e su Mandela, tra i quali mantenere come “madre” di tutti l’autobiografico Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli 1995). Non c’era ancora nulla, però, da mettere in mano a bambini e ragazzi - lacuna colmata da questo volume illustrato da un pennello noto in Francia, quello del bretone Zaü. Il racconto muove dall’infanzia di Rohlihlahla, poi Nelson, nel suo tranquillo villaggio di Mvezo. Dai colori si passa ai disegni in bianco nero per seguire i suoi 27 anni di prigionia, una pagina per anno, ciascuno caratterizzato da un episodio o un tema significativo. Il colore torna a esplodere nel 1990, nel giorno della liberazione. Una ricca serie di schede in appendice aiutano a meglio conoscere l’uomo e il Paese.
Castelvecchi 2012, pp. 192, 16,50 euro
Emi 2012, pp. 72, 12 euro
musica
di Claudio Agostoni
HoMe AgAin MiChAel KiwAnuKA
La notizia è di quelle che fanno il botto: il nuovo Marvin Gaye ha origini africane. Pur essendo cresciuto nel Nord di Londra, Michael Kiwanuka è figlio di genitori ugandesi fuggiti dalle grinfie del regime di Idi Amin Dada. D’accordo: questo Home Again è solo il suo primo album, aspettiamo almeno il secondo prima di sbilanciarci. Di sicuro per fare questo lavoro Kiwanuka ha mangiato (e digerito) molta black music degli anni d’oro ed oggi nelle sue canzoni può permettersi di citare con eleganza Marvin Gaye, Bill Withers, Terry Callier… Ma anche la vecchia Londra dell’era beat. Il jazz-soul misto al folk inventato da Van Morrison… Secondo alcuni critici le canzoni suonano mirabilmente retrò. Forse perché sono state prodotte da Paul Butler nel suo studio marcatamente vintage nell’Isola di Wigth. Quella del famoso festival del 1968.
My VALenTine JAhAzi Modern TAArAb
Un cd che arriva da Dar Es Salaam, e che non è facile da trovare (meglio rivolgersi al sito dell’etichetta: www.umojaaudiovisual.com). Vale però la pena di fare lo sforzo di cercarlo, perché è un ottimo Bignami per una immersione nella musica tarab moderna. Una musica spugnosa che durante la sua gestazione ha assorbito gli accenti della dominazione araba, le musiche da film, le successioni poetiche del ghazal provenienti dall’oceano Indiano, la magniloquenza orchestrale egiziana e infine lo smagliante sound congo-zairese. In Tanzania la Jahazi Modern Taarab è la più popolare delle orchestre di taarab, da sempre capitanata da Mzee Yusuf, uno dei pionieri del “modern taarab”. Sempre in grado di inventare e reinventarsi, utilizzando contemporaneamente gli strumenti della tradizione islamica, quelli africani e quelli occidentali.
PAriS HoLLywood AKli d.
Originario della Cabilia, Akli D. vive in esilio in Francia dagli anni ’80, quando lasciò il suo Paese per sfuggire la repressione delle autorità algerine contro l’identità amazigh. Con l’uscita del suo prima disco nel 1999 (Anefas Trankil) ha iniziato una vita nomade che lo ha portato a suonare da Parigi a Edimburgo, dalla Spagna alla Germania, dal deserto marocchino alle montagne cabile. Un nomadismo che lo ha fatto diventare un ambasciatore della cultura amazigh, sempre pronto a schierarsi a fianco del suo popolo nei tentativi di difenderne l’esistenza. Dopo un secondo lavoro prodotto da Manu Chao, torna con questa terza opera che si caratterizza per la molteplicità di proposte musicali che contiene. Ritmi berberi, blues sudisti, afro-folk. Fisarmonica, bouzouki, piano, charango.
Life cHAngAnyiSHA SAbA
Cantautrice di origini italo-etiopi, nata in Somalia e cresciuta in Italia, Saba è la testimonial della campagna 2012 di Amref Stand up for African Mothers. Per assolvere al compito non poteva trovare mezzo migliore che produrre questo cd (il suo terzo lavoro). Life changanyisha - letteralmente significa La vita ci mescola - è cantato in inglese, kiswahili e somalo, e apre una serie di squarci sull’Africa d’oggi. Le divisioni tribali in Kenya (Life changanyisha). Le difficoltà e le speranze dei ragazzi di Dagoretti, un sobborgo di Nairobi (James in Dagoretti). La sua città natale, Mogadiscio (Xamar). Le tribolazioni della donna africana (East African Woman). Una notte nella savana, ai confini della Tanzania, presso la casa di un capovillaggio masai (Night in manyatta). africa · numero 3 · 2012
59
cultura
testo e foto di Elena Dak
Le regine delle ceramiche Visita ad un villaggio del Mali rinomato per l’artigianato della terracotta
Da generazioni le donne di Kalabougou si tramandano l’antica e sapiente arte che permette di creare - dalla terra e dal fuoco - vasi, ciotole e anfore preziose
K
alabougou è un villaggio che assomiglia a mille altri in Mali: case in terra, vicoli polverosi, maestosi alberi di mango sotto cui oziare nel tempo libero. Le giornate qui paiono scorrere lente e sempre uguali, come le acque limacciose del Niger che lambiscono il piccolo borgo. Ma è un torpore apparente, che cela una vivace e florida attività: la produzione delle ceramiche. Ogni casa è un piccolo laboratorio artigianale nel quale durante la settimana viene data forma a ciotole, anfore,
A Kalabougou la fabbricazione delle anfore segue i ritmi lenti e secolari della vita del villaggio 60
africa · numero 3 · 2012
otri e vasi di varia forma e dimensione. L’abilità artigianale viene tramandata in famiglia da generazioni.
Un rito settimanale Il sabato pomeriggio e la domenica mattina le donne si dedicano alla cottura delle terrecotte. Le fornaci vengono allestite nella piazzetta del paese, attigua ad una grande pozza d’acqua. Le attività sono frenetiche. I vasi ancora crudi vengono deposti delicatamente su una base di rami sparpagliati a terra. I cocci vengono poi ricoperti da mucchi di paglia. Un’anziana fuochista incendia le cataste sfiorandone la base con una torcia. In pochi istanti le fiamme divorano la paglia salendo verso l’alto gonfie di vento. L’aria diventa
Kalabougou
(ceramiche)
Falajè
africa organizza un viaggio in Mali In Mali assieme a noi La rivista Africa assieme ai Padri Bianchi organizza un viaggio in Mali dal 5 e il 25 luglio 2012. Due settimane nella missione di Falajè (a due ore di auto dalla capitale Bamako) per scoprire la cultura e l’ospitalità della popolazione bambara. Un viaggio lontano dalla mete turistiche, che permetterà di partecipare alla vita dei villaggi assieme ai missionari. Un’opportunità preziosa per conoscere, crescere e... darsi da fare. Le iscrizioni sono riservate a 10 giovani tra i 18 i 30 anni. Costo: euro 1.200,00 (aereo, soggiorno, visto). Affrettatevi: i posti sono limitati. Info: P. Vittorio Bonfanti, tel. 347/0445611. animazione@padribianchi.it
rovente, il fumo cancella l’orizzonte e le donne che si aggirano nello spiazzo sembrano solo figurine tremolanti, ombre nella nebbia. Quando le fiamme scemano, le donne cominciano a
Nella piazza del villaggio le donne incendiano la paglia che ricopre i vasi in terracotta. Poi li immergono ancora bollenti dentro ciotole d’acqua: così diventano duri e lucidi
spostare la paglia carbonizzata per sondare la cottura dei vasi. Li scoprono uno ad uno, li sollevano con un bastone uncinato e, ancora roventi, li immergono in grandi otri pieni di acqua fredda: i cocci in terracotta sfrigolano e fumano. In pochi secondi diventano duri e lucidi. Il giorno seguente gli uomini del villaggio li porteranno con le loro piroghe al mercato per venderli, mentre le donne di Kalabougou torneranno a plasmare nuovi vasi. • africa · numero 3 · 2012
61
cultura
testo di Luca Spampinato
Fioriscono in
Cinema nello slum
Piccoli registi crescono… tra i vicoli di Kibera, una delle peggiori baraccopoli di Nairobi, capitale del Kenya. Da tre anni, in questo ghetto di fango e lamiere abitato da un milione di persone, è attiva la Kibera Film School (www.kiberafilmschool.com), una piccola scuola che insegna ai giovani dello slum i rudimenti della pratica televisiva e cinematografica. Il progetto è stato ideato dall’associazione non profit Hot Sun Foundation, che già sfrutta il potere aggregante del teatro e della musica per strappare dalla strada centinaia di ragazze e ragazzi senza famiglia. www.hotsunfoundation.org
62
africa · numero 3 · 2012
Lezioni Dal Sudafrica al Burkina Faso, dal Ruanda alla Nigeria si moltiplicano le scuole che formano registi, cameraman e sceneggiatori africani. Una novità destinata a rivoluzionare il piccolo e il grande schermo
P
er molti decenni la rappresentazione dell’Africa in televisione e al cinema è stata pensata e plasmata esclusivamente da uomini bianchi. Registi e cameraman europei e statunitensi hanno girato migliaia di film e documentari con cui hanno raccontato - dal loro punto di vista ricchezze e miserie del continente. Nel secolo scorso la povera industria cinematografica africana non è riuscita a scalfire il monopolio delle produzioni occidentali. I professionisti africani della cinepresa hanno
Africa le scuole per aspiranti film-maker
di cinema dovuto fare i conti con la cronica mancanza di finanziamenti dei loro Stati. La gran parte di loro ha usato soldi europei per realizzare opere destinate ad essere viste solo nei cinema d’essai nel nord del mondo: un paradosso che ha fortemente condizionato il linguaggio cinematografico e ha mortificato la creatività di molti film-maker.
Rivoluzione nigeriana Oggi i cineasti africani possono prendersi la loro rivincita. Mentre in Occidente la crisi economica
dissangua il settore delle produzioni video, a sud del Sahara nascono, sempre più numerose, imprese cinematografiche (talvolta finanziate dai governi, più spesso frutto di iniziative private) che realizzano programmi televisivi e film a uso e consumo della nuova emergente classe media africana (350 milioni di persone, pari al 35% della popolazione globale). È una svolta epocale. Destinata a cambiare il modo con cui il continente africano viene mostrato sul piccolo e sul grande schermo.
La rivoluzione è partita dalla Nigeria. L’industria delle immagini in movimento nigeriana, chiamata Nollywood, produce oggi 2mila film l’anno, più di Bollywood (indiana) e di Hollywood messe assieme. I suoi melodrammi, scritti e realizzati da professionisti africani, sono diffusi da milioni di televisori che un tempo trasmettevano solo film americani. Le migliaia di lavoratori specializzati che fanno funzionare il cinema nigeriano provengono quasi tutti dal National Film Institute, una scuola di forma-
zione affiliata all’Università di Jos, capoluogo dello Stato centrale del Plateau. Qui vengono formati e si diplomano ogni anno centinaia di registi, sceneggiatori, cameraman e fonici.
Nel cuore dell’Africa Il successo del modello nigeriano ha stimolato la diffusione di scuole cinematografiche in altre parti dell’Africa. La scorsa estate in Ruanda è stato inaugurato il Kwetu Film Institute (www.kwetufilminstitute. com), una sorta di accademia del cinema che insegna africa · numero 3 · 2012
63
PER RICEVERE TUTTO L’ARTICOLO CONTATTARE LA REDAZIONE:
africa@padribianchi.it
Con un contributo minimo di 20 euro puoi ricevere 6 numeri di Africa in PDF info:
africa@padribianchi.it
cultura
testo di Marta Gatti
Negli anni Settanta il tiranno congolese Mobutu Sese Seko fece costruire uno sfarzoso teatro per allietare i suoi illustri ospiti. Oggi, dopo quindici anni di oblio, l’arena viene aperta ai cittadini
RiapRe il teatRo di Mobutu A Kinshasa torna in attività lo storico “Théâtre de Verdure”
P
er decenni è stato uno dei simboli del potere del dittatore Mobutu, surreale monumento alla sua sfacciata megalomania. Il Théâtre de Verdure, un teatro in pietra, di struttura greco-romana, circondato dal verde, fu inaugurato all’inizio degli anni Settanta, sul monte Ngaliema a Kinshasa. Mobutu ne fece il suo palcoscenico personale: qui invitava a esibirsi le celebrità della musica nera, come Miriam Makeba e James Brown, in onore dei suoi illustri ospiti (tra cui ministri e presidenti europei). Nel 1997, con l’ascesa al potere di Laurent-Désiré Kabila, il teatro venne saccheggiato e in parte distrutto. Le autorità ora hanno deciso di riaprirlo al pubblico. La gestione dello spazio è stata affidata a Ados Ndombasi, regista dal 1997. «Fare teatro in Africa è un atto suicida», confessa Ados. «I teatranti sono considerati dei pazzi, degli incapaci, dei falliti… Io voglio ribaltare questa visione». Il Théâtre de Verdure può ospitare più di 3mila persone: la vera scommessa sarà riempire la platea di
primi lavori. Ma Ados Ndombasi non si scoraggia e promette battaglia: «Su questo palcoscenico parleremo di politica, corruzione, diritti, libertà… Il teatro contribuirà a risvegliare la coscienza civile del popolo congolese». •
cittadini. Pochi, finora, gli spettacoli in cartellone: balletti, concerti, musical, piccole rappresentazioni… Sempre a ingresso gratuito. «La gran parte dei congolesi fatica a sbarcare il lunario, impossibile chiedere alla gente comune di spendere soldi in cultura», spiega il direttore del Verdure. Ma la struttura ha bisogno di soldi per mantenersi in attività. «Servirebbero subito 400mila euro per terminare le opere di ristrutturazione… le toilette, l’impianto elettrico, il ripristino dei marmi rubati durante i saccheggi». Finora nessun finanziamento pubblico è arrivato, solo i centri culturali di Francia e Belgio hanno sostenuto i
TV congolese. A Bruxelles I mezzi a disposizione sono pochi: due telecamere, una decina di computer, un piccolo studio di registrazione. Eppure TéléMatonge, magazine televisivo congolese trasmesso in Belgio (sulle frequenze di Télé Bruxelles), riscuote un successo crescente. Nata nel 2004 a seguito di un laboratorio di videogiornalismo per i giovani di Matonge (il quartiere africano di Bruxelles), oggi la redazione composta da immigrati congolesi realizza programmi culturali e d’informazione in francese e in lingala. E li diffonde, via web, fino a Kinshasa. africa · numero 3 · 2012
65
cultura
testo di Giusy Baioni
Il mostro del lago Mokele MbeMbe, Il terrIfIcante MIstero del congo Da decenni scienziati occidentali vanno alla ricerca di una strana e possente creatura che, secondo diverse testimonianze, vivrebbe in un’isolata palude nel bel mezzo della foresta equatoriale
Impronta di una zampa attribuita al Mokele Mbembe
66
africa · numero 3 · 2012
L
e foreste dell’Africa, fin dall’antichità, sono state avvolte da leggende, favole e credenze mitologiche che hanno fatto la fortuna di romanzi e film di avventura. Ma la ricerca del misterioso Mokele Mbembe è un affare serio che ha scomodato centinaia di scienziati, ricercatori e reporter occidentali (gli ultimi sono stati inviati nel cuore dell’Africa, solo pochi mesi fa, da Bbc e History Channel). Si dice che la creatura viva nell’intricata selva della regione
del Likouala, nell’estremo nord-est del Rd Congo. Le popolazioni locali si tramandano da generazioni la storia di questo fantomatico “mostro”.
Loch Ness africano Il Mokele Mbembe (nella lingua lingala significa “colui che ostacola il corso dei fiumi”) è una sorta di Loch Ness africano, che da decenni attira frotte di curiosi e studiosi da ogni parte del mondo. L’animale abiterebbe in una vasta palude pressoché inaccessibile nei
pressi del lago Télé, un bacino idrico circolare ampio 23 chilometri, probabilmente originato da un meteorite, avvolto dalla nebbie della foresta pluviale. Una location da brividi. Le prime notizie di avvistamenti del Mokele Mbembe risalgono al XVIII secolo: nel suo libro del 1776 un missionario francese, l’abbé Lievain Proyart, narrò di aver visto sul terreno attorno al lago enormi impronte con artigli, del diametro di circa un metro. Nel 1913 il barone tedesco Freiherr
Lago Télé
1955 un missionario protestante, il reverendo Eugene Thomas, riferì di aver avuto due incontri ravvicinati con l’animale.
Foto sfocate
Verità o leggenda? Ci sono decine di testimonianze (pigmei, missionari, giornalisti, esploratori), ma mancano le prove che avvalorino i racconti. L’esistenza del Mokele Mbembe è ancora un enigma da sciogliere. Alcuni scienziati ritengono che possa trattarsi di una specie sconosciuta di varano (simile ai “draghi di Komodo”, lunghi fino ai 4 metri), oppure di una tartaruga appartenente all’aggressiva famiglia dei Trionichidi. Ma gli scettici parlano solo di “suggestioni” e di “leggende”. Sarà... Per molti decenni un altro animale delle foreste congolesi, l’okapi, è stato ritenuto una bestia leggendaria, finché gli studiosi occidentali non ne scovarono alcuni esemplari nelle foreste dell’est del Congo, dove tuttora vivono. E ancora l’anno scorso, nel suo rapporto Wild Mekong, il WWF elenca le nuove specie animali scoperte dall’uomo, tra cui ad esempio la “scimmia senza naso”. Che il Mokele Mbembe sia il prossimo? Von Stein Lausnitz, reduce da una spedizione esplorativa nella regione, descrisse nel suo rapporto: «Un grosso animale temuto dai pigmei, con la pelle grigiobruna, la corporatura di un elefante, un collo flessuoso e una lunga coda... Un essere simile ad un dinosauro che attacca le canoe che passavano nel suo territorio,
uccidendo gli equipaggi». Nel 1932 lo zoologo scozzese Ivan Sanderson raccontò di essersi imbattuto, al confine tra Camerun e Congo, in un’enorme creatura nel fiume Mainyu. «La sua testa da sola aveva le dimensioni di un ippopotamo». Le guide locali confermarono che si trattava del misterioso mostro lacustre. Nel
Oltre cinquanta spedizioni sono state organizzate per trovare prove della sua esistenza. Nella seconda metà degli anni Settanta, due ricercatori statunitensi, James Powell e Roy Mackal, esplorarono la regione senza mai riuscire a vedere la creatura. Ma raccolsero tra la popolazione locale diverse testimonianze oculari e avvalorarono l’attendibilità dei racconti. La creatura veniva decritta sempre con le stesse sembianze: si trattava di un terrificante erbivoro dal collo lungo che si nascondeva nelle acque del lago Télé. Mackal raccolse i suoi appunti e le sue osservazioni in un libro dal titolo enigmatico: A living dinosaur? Nel 1981, l’ingegnere statunitense Herman Reguster condusse una spedizione e raggiunse il lago Télé, dove si fermò un paio di settimane: alla vigilia del ritorno assicurò di aver visto nuotare nel lago per pochi secondi un essere dal collo prolungato: tornò a casa con una foto sfocata, alcuni calchi di impronte e la registrazione di strani suoni. Due anni dopo, il naturalista congolese Marcellin Agnagna scorse da una certa distanza «Una creatura dal lungo collo, visibile per una ventina di minuti prima di scomparire nelle acque torbide del lago». Ma le riprese video non riuscirono, perché nell’eccitazione Agna-
gna dimenticò di rimuovere il coperchio dalla telecamera (o perché - come dirà più tardi - la sua cinepresa era settata su “macro” anziché su “teleobiettivo”). Nel 1985, Rory Nugent disse di aver individuato l’animale ma di esser stato bloccato dai locali, «che proteggono la creatura come un dio», riuscendo solo a scattare qualche foto sfocata.
“Esiste!” Seguirono altre spedizioni: britanniche, americane e olandesi. Nel 1992 toccò ai giapponesi: una troupe televisiva nipponica sorvolò il lago con un piccolo aereo e registrò delle immagini della creatura piuttosto confuse... Che non sciolsero i dubbi degli scettici (sono state caricate su Youtube: giudicate voi). Nello stesso anno i ricercatori William Gibbons e Rory Nugent esplorarono la regione del Mokele Mbembe, ma non trovarono alcuna evidenza della sua esistenza. Nel 2006 il reporter Milton Marcy raccolse testimonianze di pigmei che avevano avuto un incontro ravvicinato con il mostro e se ne tornò in Europa con il calco di un’impronta attribuibile alla misteriosa creatura. L’ultimo testimone oculare dell’esistenza del Mokele Mbembe è un pastore anglicano dell’United World Mission, Paul Ohlin, che da dieci anni vive con la moglie tra i pigmei Aka del Congo. Il missionario giura di aver visto l’ineffabile bestia nei pressi del fiume Sangha. Ma la parola d’onore di un sacerdote non è bastata a convincere i dubbiosi. • africa · numero 3 · 2012
67
storia
testo di Michela Offredi
L’incredibile doppia vita di Hamilton Naki, dottore clandestino sotto l’apartheid
Il segreto del giardiniere-chirurgo P
er fare un medico ci vogliono anni e anni di studio, fra pagine di libri e tavole anatomiche, laboratori e aule universitarie. Se poi quel medico è un chirurgo i libri aumentano e prima di poter arrivare in sala operatoria passano secoli. Eppure non tutte le storie vanno così, o almeno non quella di Hamilton Naki, formalmente un semplice giardiniere con la terza media, in realtà uno dei più grandi chirurghi del secolo scorso. Un lavoro, il suo, che esercitò per quarant’anni anni senza laurea e nell’ombra, fantasma di un sistema politico e sociale feroce. Mani d’oro, le sue, tanto che l’illustre cardiochirurgo Christian Barnard fu costretto ad ammettere che Hamilton “tecnicamente era migliore di me”. Proprio quel Christian Barnard, dottore bianco e brillante, passato alla storia per aver effettuato il primo trapianto di cuore in Suda-
68
africa · numero 3 · 2012
Sudafricano nero, medico autodidatta, non conseguì la laurea ma operò nell’ombra per quarant’anni. Divenne il braccio destro del cardiochirurgo che nel 1967 effettuò il primo trapianto di cuore al mondo frica. Era il 1967, in piena apartheid, e un nero sudafricano non poteva certo sognare di conquistare la prima pagina dei giornali. Anche se, in quella sala operatoria, il giardiniere
nato in una povera famiglia di campagna, era al suo fianco. Da protagonista.
Medico fai-da-te Hamilton Naki, nato il 26 giugno 1926 nel villaggio
rurale di Ngcangane, restò fra i banchi di scuola fino a 14 anni. La sua famiglia non aveva soldi per farlo studiare e non poteva riservargli che un destino da allevatore di bestiame. Un viaggio in autostop lo portò a Città del Capo, in cerca di fortuna. Qui venne assunto, in qualità di giardiniere, dall’ateneo cittadino per curare prati e campi da tennis. Naki si occupò di piante e fiori solo per una decina di anni. Nel 1954 giunse in università Robert Goetz, medico ebreo, trapiantato in Sudafrica. Si occupava di esperimenti sugli animali e necessitava di qualcuno per seguire le sue cavie. Naki si propose per il lavoro. Fu l’inizio di un lungo apprendistato da autodidatta. Non ci furono esami per lui, solo molta pratica. Naki si doveva occupare della pulizia delle gabbie, delle anestesie, della corretta ossigenazione degli animali. In quei laboratori, all’inizio degli anni
Sessanta, Naki impugnò per la prima volta il bisturi. E allora, trapiantando organi (per lo più fegati e cuori) su cani e suini, emerse il suo talento straordinario. La vera svolta fu l’incontro con il dottor Barnard, da poco rientrato dall’America, dove aveva imparato le tecniche di intervento a cuore aperto. Il cardiochirurgo cercava un assistente e la scelta fu proprio per l’intraprendente Naki, che divenne così il suo braccio destro.
insegnò agli studenti, sempre in forma clandestina. Il suo salario rimase quello di un tecnico di laboratorio. A quel tempo, le leggi del Sudafrica e le norme dell’ospedale erano chiare: a un nero non era consentito curare o istruire dei bianchi. Non ci fu gloria per lui, nessuna copertina patinata. Né allora né dopo.
Merito riconosciuto
Primo trapianto di cuore Una notte, nel dicembre 1967, una giovane donna, Denise Darval, arrivò al pronto soccorso dell’ospedale Groote Schuur di Città del Capo. Era stata investita per la strada. Fu dichiarata clinicamente morta, benché il suo cuore continuasse a battere. Ebbe inizio allora un intervento complesso, un’operazione senza precedenti. Passarono diciotto ore. Il dottor Barnard guidò l’équipe che innestò il cuore da trapiantare nel torace di un sudafricano ricoverato da tempo in ospedale in condizioni disperate: Louis Washkansky. L’uomo sopravvisse diciotto giorni dopo l’intervento, poi soccombette per complicazioni polmonari. Naki si occupò di asportare l’organo dalla sfortunata donatrice. Mani nere su un cuore bianco: un atto illegale per il tempo, che sarebbe stato taciuto per anni. Per paura, vergogna, ignoranza. Il sistema sociale promosso dai governi bianchi del Sudafrica, basato sulla segregazione razziale di neri
Tecnicamente era migliore di me. Christian Barnard Hamilton Naki (1926 - 2005) fu un infermiere, insegnante e ricercatore sudafricano. Coadiuvò il professor Christian Barnard in occasione del primo trapianto di cuore effettuato al mondo, nel 1967. Naki non era un bianco: questa è stata sua la grande maledizione. In un Paese dove il colore della pelle era la discriminante tra buoni e cattivi. Naki non poteva apparire nelle fotografie ufficiali. Quando accadde, per sbaglio, l’ospedale disse che era un addetto al servizio di pulizia. nonché sulla privazione dei loro diritti civili e politici, sarebbe stato abolito solo dopo il 1990. In una foto dell’ospedale, scattata per immortalare il grande momento, Naki fa capolino nelle ultime file, fra gli infermieri e gli inservienti.
Il suo volto esprime quello che poi confidò anni dopo: «A quei tempi le cose andavano così e tutti continuarono a dire che ero l’uomo delle pulizie». Per quarant’anni, fino al 1991, Hamilton operò all’ospedale di Città del Capo e
Anche la sua storia è stata raccontata e poi smentita. Lo staff dell’ospedale Groote Schuur ha dichiarato che Naki, il giorno del celebre intervento, non si trovava in sala operatoria e che gli assistenti del dottor Barnard furono altri. Eppure pubblicazioni come Lancet e British Medical Journal hanno accertato questi fatti. Difficile, ormai, dire quale sia la verità. Resta il percorso sorprendente di un uomo che, partito dal nulla, seppe arrivare ai vertici della medicina grazie al suo talento. Quasi ottantenne, Hamilton Naki si è spento nella primavera del 2005 nel sobborgo di Langa, vicino a Città del Capo. L’università in cui aveva prestato servizio gli aveva da poco conferito la laurea honoris causa in medicina, mentre il governo lo aveva celebrato con la massima onorificenza sudafricana. Nessuno però ebbe il coraggio di chiedere scusa per il trattamento che gli era stato riservato. E così lui continuò a vivere con una semplice pensione di circa 250 euro al mese. Quella di ungiardiniere, con un diploma di terza media. • africa · numero 3 · 2012
69
chiese
testo e foto di Alberto Caspani
Il mio viaggio
L’eccezionale racconto del rituale di iniziazione «N
iente di più semplice. Muori». Lo ripetono tutti al villaggio di Komi. Ogni volta che domando che cosa accade quando si ingerisce la scorza delle radici d’iboga, la pianta sacra del culto bwiti, la risposta è sempre la stessa. Muori. Non indugiano sui particolari. Non mi spiegano i modi. Se insisto, al massimo mi apostrofano
70
africa · numero 3 · 2012
con uno sprezzante «Philosophe!» e tornano a pestar manioca. Il bwiti è una religione sincretica sviluppatasi in Gabon a metà del secolo scorso. L’iniziazione rappresenta il rito chiave nella vita di ogni fedele. È una cerimonia misteriosa che dura tre giorni e ruota attorno all’assunzione di un arbusto dagli effetti allucinogeni: l’iboga.
Per conoscere i segreti del misterioso bwiti, culto diffuso in tutto il Gabon, è necessario sottoporsi a una cerimonia sconvolgente in un tempio immerso nella foresta. E assumere per tre giorni una pianta sacra dagli effetti allucinogeni
nell’Aldilà
alla religione bwiti Morte e resurrezione
Per raccontarla non c’è altro modo che sottoporsi al rituale nel tempio sacro, esattamente come fanno tutti gli abitanti della foresta non appena adolescenti. «Bwiti è conoscenza attraverso l’esperienza», si sforza di farmi capire l’anziana guida spirituale. «Ogni parola che tenti di spiegarlo non è mai abba-
stanza. In un certo senso, tu muori. Finisci di esistere per così come sei. Ma solo chi muore può rinascere davvero e conoscere la verità che cerca». A Komi nessuno si stupisce di nulla. Quel che accade è già conosciuto da tutti. Sono i morti ad avvisare i vivi e i vivi a consultarsi coi morti, quando si riuniscono in seduta nel
più importante tempio bwiti del Gabon. «Davanti ai morti non abbiamo segreti», sussurra Tsanga Jean, il sovrano delle tribù simba e okandet, e, senza aggiungere altro, mi fa segno di penetrare sotto un riparo di legni accatastati attorno a un palo. Così comincia il mio cammino di banzi, d’iniziato. Devo denudarmi completamen-
te e sopportare per interminabili minuti, lì sotto, il fumo che estirperà il peccato dalla mia pelle. Devo immergermi nell’acqua sferzante del fiume alle spalle del tempio, per risalire il flusso da cui venni alla luce.
Tre giorni e tre notti
Devo accettare d’ingoiare sino alla nausea blocchi d’igname ripieni d’iboga, anche se mi prosciugano la bocca, mi addentano l’intestino, mi fanno tremare come una foglia al vento, mentre le luci cominciano a esplodere in improvvisi lampi e i suoni ad amplificarsi a dismisura. L’iboga si impossessa del mio corpo. Stordisce africa · numero 3 · 2012
71
chiese
testo di Laura De Santi foto di B. Zanzottera/ParalleloZero
Notre Dame d’Afrique Torna a risplendere ad Algeri un simbolo della fratellanza religiosa
74
africa · numero 3 · 2012
Devastata dal terremoto che nel 2003 uccise oltre duemila persone, la basilica di Algeri oggi ha ritrovato il suo antico splendore ed è tornata ad essere un luogo di incontro tra cristiani e musulmani
la scritta nell’abside. “Nostra Signora d’Africa prega per noi e per i musulmani”, si legge nell’affresco che sovrasta l’altare.
L
Al centro, una statua della Madonna Nera vestita con abiti tradizionali di Tlemcen, nell’ovest del Paese maghrebino. Sorprendenti poi le centinaia di ex-voto che ricoprono le pareti. Ringraziamenti, preghiere alla Vergine in arabo, berbero, francese. Anche l’astronauta americano Frank Borman ha voluto ringraziare Nostra Signora d’Africa per aver fatto ritornare a casa il suo Apollo VIII. Profondamente danneggiata dal terremoto che nel 2003 ha fatto oltre duemila morti, la Basilica ha oggi ritrovato il suo antico splendore. L’edificio, progettato da Jean Eugène Fromageau sul modello della basilica Notre Dame de la Garde di Marsiglia, è stato rafforzato con strutture antisismiche. Il campanile, le torrette, le volte e l’abside sono stati rafforzati con bande in carbonio. Anche le 46 vetrate sono state risanate da maestri vetrai francesi. Il restauro, costato oltre 5 milioni di euro, è stato finanziato dall’Unione Europea e dall’amministrazione di Algeri, con il sostegno di numerose società private francesi e algerine. «Un vero capolavoro di intesa tra le differenti comunità religiose», ha sottolineato l’arcivescovo di Algeri, mons. Bader, come a voler far dimenticare le difficoltà che la comunità cristiana continua ad avere nel Paese maghrebino. •
a puoi scorgere da lontano. Imponente e luminosa. Madame l’Afrique, come la chiamano gli algerini, domina Algeri da una delle colline che incorniciano la baia. Il suo profilo morbido dal colore della sabbia accoglie i viaggiatori in arrivo dal mare. E la sua cupola perfetta contrasta con i palazzoni senz’anima di uno dei quartieri più poveri della città, Bab El Oued.
Monumento al dialogo Consacrata nel 1872 dal cardinale Lavigerie, fondatore dei Padri Bianchi, Notre Dame d’Afrique è sopravvissuta al processo di decolonizzazione, con la maggior parte delle chiese trasformate in
moschee. Ha resistito anche alle violenze del terrorismo di matrice islamica senza «mai chiudere le sue porte», ci racconta uno dei due Padri Bianchi che da anni vegliano sulla basilica. «È uno dei simboli della fratellanza con il mondo musulmano», dice. Basta affacciarsi sul piazzale che circonda la chiesa per rendersene conto. Gli anziani del quartiere riposano seduti lungo le mura della basilica neobizantina. I bambini giocano nella spianata dal panorama mozzafiato, affacciata sul promontorio di Bologhine. «Ogni giorno accogliamo fedeli cristiani ma anche musulmani, particolarmente affezionati alla Vergine», aggiunge l’uomo, in Algeria ormai da 46 anni, indicando
Algeria irrequieta
Il gigante maghrebino è stato sfiorato appena dal vento della Primavera araba. Le autorità sono riuscite a tenere sotto controllo le proteste scoppiate tra gennaio e febbraio dello scorso anno. La situazione resta però tesa. Manifestazioni e scioperi vengono organizzati quasi quotidianamente in diverse città. Medici, studenti, guardie comunali, disoccupati. Il fronte della protesta resta comunque frammentato e la popolazione, profondamente segnata da oltre 15 anni di violenza, ha forse troppa paura di un ritorno al caos. I Gruppi armati di matrice islamica, legati ad Al Qaida per il Maghreb islamico, continuano ad insanguinare alcune zone, come la Cabilia, ad est della Capitale. Ma anche nel sud, al confine tra Algeria, Mali, Mauritania. Due donne italiane, Maria Sandra Mariani e Rossella Urru, sono state rapite nel Sahara algerino. La Mariani è stata liberata il 17 aprile scorso, mentre la Urru è ancora nelle mani dell’organizzazione terroristica.
Il restauro di tutti
Una Chiesa di martiri Su una popolazione che sfiora i 35 milioni di abitanti, i cristiani d’Algeria sono appena 5mila. In gran parte stranieri che lavorano nel paese e studenti in arrivo dall’Africa subsahariana. Sono 39 le parrocchie presenti nelle 3 diocesi di Orano (ovest), Costantine (est) e Laghouat (sud), e nell’arcidiocesi della capitale. A guidare da tre anni la comunità cattolica è il giordano mons. Ghaleb Moussa Abdalla Bader. Prima di lui, mons. Tessier, protagonista per vent’anni del dialogo fra cristiani e musulmani. Una Chiesa fatta di martiri: 19 religiosi sui 190 presenti allora sono stati uccisi nel decennio nero della guerra civile. Tra loro: le due suore agostiniane assassinate a Bab el Oued e i 4 Padri Bianchi à Tizi Ouzou nel 1994, il vescovo di Orano, Pierre Claverie e i 7 monaci trappisti di Thibhirine, uccisi nel 1996. I cristiani d’Algeria continuano ad aver una vita difficile. La legge del 2006 obbliga chi «pratica una religione diversa dall’Islam a costituire un’associazione a carattere religioso per esercitare liberamente il suo culto e a chiedere permessi per la celebrazione delle cerimonie che devono tenersi in luoghi autorizzati». Sono inoltre previsti dai 2 ai 5 anni di prigione per chiunque «tenti di convertire un musulmano ad un’ altra religione». Nel mirino delle autorità ci sono principalmente gli algerini convertiti al cristianesimo e le comunità evangeliche, accusate di proselitismo, anche se nel 2008 il prete cattolico Pierre Wallez è stato condannato ad un anno di carcere con la condizionale per aver celebrato la messa in un luogo non autorizzato. africa · numero 3 · 2012
75
togu na - la casa della parola lettere Paradisi segreti copertina
testo e foto di Marco Trovato
È una minuscola nazione che galleggia nel Golfo di Guinea all’altezza dell’Equatore. Per cinquecento anni è stata una colonia portoghese. Oggi è un paradiso naturale in miniatura. Ma la sua tranquillità è minacciata dal petrolio
U
Le isole del
Reportage dall’arcipelago di São Tomé e Príncipe 40
africa · numero 2 · 2012
n profumo intenso di cacao tostato impregna l’aria del magazzino. All’ingresso, un uomo dalla pelle olivastra prende nota del numero dei sacchi caricati a spalle dagli operai. Ogni croce segnata sul quaderno è un’imprecazione. «Con questo raccolto abbiamo perso almeno 20mila euro», sbotta. «Il prezzo del cacao è crollato per colpa della recessione in Europa, se va avanti così siamo rovinati». I venti gelidi dell’economia globale hanno raggiunto l’Equatore e ora sferzano senza pietà le sperdute isole vulcaniche di São Tomé e Príncipe. Sono il più piccolo Paese africano dopo le Seychelles (mille chilometri quadrati popolati da duecentomila persone): uno Stato in miniatura sospeso sulle acque dell’Atlantico a trecento chilometri dalla costa del Gabon.
cacao africa · numero 2 · 2012
41
Vorrei farvi i complimenti per avere dedicato un ampio reportage sulle isole di São Tomé e Príncipe. Ma vorrei anche rimproverarvi per lo stesso motivo. Vi apprezzo perché ogni volta ci mostrate e ci svelate degli angoli sconosciuti e incontaminati dell’Africa. Ma così facendo, contribuite a rendere quei paradisi naturali delle mete turistiche, con tutte le conseguenze devastanti sul piano dell’impatto ambientale e culturale... Spero davvero che esistano ancora delle località di straordinaria bellezza che vorrete tenere segrete. Per il bene dell’Africa. Silvana Banfi, Reggio Calabria Gentile lettrice, il turismo può creare problemi, ma anche opportunità di sviluppo e d’amicizia. Dipende da come viene gestito. Ma dipende anche da cia-
a cura della redazione
scuno di noi, dal nostro modo di viaggiare e di rapportarci alle popolazioni locali. Non ci sembra una buona soluzione consigliare ai nostri lettori di restare a casa propria. L’Africa è piena di bellezze straordinarie: ambientali, antropologiche e culturali. Tocca a noi scoprirle viaggiando con attenzione, curiosità e rispetto. Il direttore
Sesso a Malindi attualità
di Luciana De Michele
Hanno tra i 40 e i 60 anni e provengono da tutta Europa. A migliaia viaggiano in cerca di avventure romantiche o fughe passionali. In Senegal assoldano giovani di cui spesso si innamorano
«C
iao, sono Barbara. Ti contatto perché ho visto che sei a Dakar e volevo alcune informazioni… Sai, volevo venire in vacanza e sono indecisa tra Senegal e Cuba… Ok, sarò subito sincera… Vorrei cercarmi uno con cui passare la vacanza, e volevo capire se lì si trova facilmente». Così mi ha contattato qualche giorno fa su Skype una perfetta sconosciuta. E quando, ancora presa dallo stupore, le ho domandato come e perché avesse interpellato proprio me, la risposta mi ha lasciato senza parole: «Sto scrivendo a tutti gli italiani che vivono in Senegal, per cercare di capire…». Non so alla fine quale meta abbia scelto Barbara; ma se lei era indecisa o poco informata, non è così per le migliaia di donne occidentali che ogni anno si regalano una vacanza in Senegal. In cerca di sole, mare e, a quanto pare, sesso.
In cerca d’affetto
Turiste per amore
«Ciao, bellissima, cosa fai tutta sola?», è il ritornello malizioso usato dai giovani senegalesi per abbordare le turiste del sesso nelle località di Cap Skirring (nella regione meridionale della Casamance) e di Saly-Mbour (nella Petite Côte). L’adescamento avviene nelle discoteche o sulle spiagge (di giorno). Qui si concentrano le donne europee che viaggiano da sole. I senegalesi le chiamano wengrè. In maggioranza sono francesi e belghe, ma anche tedesche, spagnole, italiane e inglesi. Hanno un’età media compresa tra i trenta e i cinquant’anni. Ma non mancano le sessantenni. «Sono senza vergogna», attacca indignata madame Faye, che vende bigiotteria sulla spiaggia di Saly. «Si mettono in riva al mare a seno scoperto e re-
Reportage sul turismo sessuale femminile 8
africa · numero 2 · 2012
africa · numero 2 · 2012
9
Ho letto con interesse la vostra inchiesta sul turismo sessuale in Senegal e Gambia. Bisognerebbe ribadire che, purtroppo, questa piaga è diffusa in molte altre nazioni africane. E ci riguarda da vicino. La costa del Kenya, che frequento da molti anni, ormai è diventata un “bordello” a cielo aperto, per colpa di numerosi nostri connazionali, spesso in età da pensione, che si recano a Malindi e dintorni con la sola intenzione di rimorchiare un/una giovane partner, sfruttando
la povertà e la vulnerabilità della popolazione locale. Sono disgustato da questo comportamento e un po’ mi vergogno di essere italiano. Giorgio Raddusa, Pordenone
Mostrate i bambini malati Leggo sempre con molto piacere la vostra fantastica rivista. Ho però una richiesta da farvi: dovreste dare maggiore visibilità nelle vostre pagine ai progetti sanitari portati avanti dalle tante associazioni umanitarie che costruiscono e gestiscono ospedali e dispensari in ogni parte dell’Africa. In qualità di medico, durante le mie vacanze africane faccio in modo di visitare queste opere e scatto sempre delle foto ai tanti bambini curati grazie alla generosa solidarietà italiana. Penso sia giusto far conoscere quanto sia importante e prezioso il lavoro dei dottori che hanno dedicato la loro vita alle popolazioni più bisognose dell’Africa. Vi allego qualche immagine, mi auguro che possiate pubblicarle. Grazie dottoressa Rita Olivo, via mail
per le migliaia di medici e infermieri che operano in Africa e altrove, Italia compresa. Non pensiamo tuttavia che la loro opera debba essere celebrata mostrando le foto di bambini africani ammalati. La nostra rivista è impegnata da molto tempo a frantumare quell’immagine pietistica dell’Africa che organizzazioni umanitarie (e anche missionarie) hanno contribuito a costruire per incentivare le donazioni. Ci rifiutiamo di pubblicare foto che non rispettano la dignità e la privacy di chi soffre, specie se si tratta di minori. Continueremo a denunciare i mali che affliggono l’Africa, senza censure, ma sempre con riguardo alle persone, in particolare le più indifese. Marco Trovato, coordinatore di redazione
Errata corrige
Sul numero 2/2012 alcune immagini che illustrano il servizio Il mondo dei Dinka si riferiscono in realtà ad un’altra popolazione nilotica di allevatori nomadi: i Mundari, che condivide con l’etnia dinka diversi tratti somatici e culturali. cultura
Il mondo dei Dinka
testo di Anna Pozzi foto di Bruno Zanzottera
Tra i pastori guerrieri del Sudan del Sud Vivono in poveri accampamenti sperduti nelle savane. Indifferenti allo scorrere del tempo. In simbiosi con le mandrie di vacche, da cui traggono latte e sangue. E una fierezza inossidabile
D
Gentile Signora Olivo, abbiamo il massimo rispetto
urante il giorno, i raggi del sole frustano impietosi la savana. Tutto sembra immobile nella morsa del calore e della luce abbacinante. Le pianure del Bahr el-Ghazal, il “fiume delle gazzelle”, nel cuore del Sudan del Sud, sono punteggiate di arbusti rinsecchiti. Sembrano gli unici disponibili a sopportare quella calura. Poi, verso l’ora del tramonto, una vita nuova riprende il suo corso di sempre. Specialmente nei cattle camps, i recinti per le mandrie, che di giorno sembrano un ammasso disordinato di capannucce abbandonate, mentre al crepuscolo si rianimano come per magia. È in questo preciso momento della giornata che si crea un’atmosfera speciale. Dal fondo della boscaglia cominciano ad avvicinarsi mandrie di vacche dalle corna maestose, punteggiate da giovani uomini svettanti come lance. Sono magri e altissimi; sembrano scolpiti nell’ebano. Molti non hanno gli incisivi inferiori, mentre le fronti sono segnate da scarificazioni lineari. Sono segni identitari e di bellezza, che si tramandano da generazioni gli uomini di questo popolo fiero e dignitoso: i Dinka. Che, nella loro lingua, vuol dire semplicemente e significativamente: “persone”.
I Dinka sono un popolo di pastori nomadi di origini nilotiche. Sono circa 2 milioni: il 25% dell’intera popolazione del Sud Sudan. Sono suddivisi in una decina di sottogruppi e sono distribuiti su un territorio molto vasto, bagnato dai fiumi Bahr el-Ghazal, Nilo Bianco e Bahr el-Jebel. Sono in maggioranza cristiani, anche se mantengono forti riferimenti alla religiosità tradizionale
50
africa · numero 2 · 2012
africa · numero 2 · 2012
sondAggio PAReRi RAccoLti suLLA PAginA FAcebook di AFRicA Rapimenti di turisti, violenze, instabilità politica. Le recenti notizie di cronaca hanno frenato la tua voglia di viaggiare in Africa? 5% Sì, l’Africa è un continente pericoloso, scelgo continenti più sicuri. 2% Sì, i viaggiatori occidentali sono bersagli di criminali. Meglio restare a casa. 31% No, non c’è nessun rischio, basta viaggiare in modo consapevole. 62% No, continuo a viaggiare in Africa, evitando le zone a rischio.
76
africa · numero 3 · 2012
africa rivista
51
n. 3 maggio . giugno 2012 www.missionaridafrica.org
60 anni di sacerdozio
Padre Mattedi apre il suo cuore a cura di Paolo Costantini
Per un missionario, il 25° oppure il 50° anniversario o più di ordinazione o di giuramento è un momento importante nel quale ringrazia e rivede la propria vita con piacere e nostalgia. Padre Mattedi ha accettato di parlarcene
«In presenza dei miei fratelli qui riuniti e di lei, Padre, io rinnovo il Giuramento sul Vangelo, di consacrarmi fino alla morte alla missione della Chiesa in Africa, secondo le Costituzioni della Società dei Missionari d’Africa, posta sotto la protezione di Maria Immacolata, Regina dell’Africa». È con queste parole che vari confratelli Padri Bianchi hanno celebrato il 24 marzo alcuni giubilei, rinnovando il loro impegno di «consacrarsi, fino alla morte, alla missione della Chiesa in Africa». Ha colpito la testimonianza particolarmente fresca e sentita di padre Giuseppe Mattedi, 86 anni, in gran parte spesi al servizio dei fratelli e sorelle ruandesi.
Il cammino
Padre Mattedi, felice, nella sua missione di Rushaki, in Ruanda
padri bianchi . missionari d’africa
Del mio giuramento e della mia ordinazione conservo un ricordo lontano. Ma non ho dimenticato le parole del Vangelo letto durante la mia ordinazione: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Giov 15,15), parole che
africa · numero 3 · 2012
77
- Non si chiedono spiegazioni, si obbedisce e basta. - Obbedire è bene, ma perché in Italia e non in missione in Africa? - Un Padre Bianco obbedisce e non chiede altro. Vada pure. Con amarezza e umiltà accettai questa prima tegola. Era il primo passo che mi avrebbe aiutato a scoprire che cosa vuol dire partecipare al sacerdozio di Cristo e fare dono completo di se stesso, fino alla morte.
La missione
In conversazione con alcuni fedeli dopo la celebrazione della Messa in un campo profughi in Tanzania
mi accompagnano ancora oggi e alle quali ho detto sì con entusiasmo, pronto a tutto. Sì, perché quando si è giovani ci si sente pronti a tutto - come Pietro: «Signore io ti seguirò ovunque tu vada!» - , ci si crede forti e importanti. Poi la vita e gli avvenimenti ti insegnano a sentirti più umile. Tra gli spari, per esempio, mentre nella Messa dicevo “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”... mi risuonava in testa la domanda: ...anche mio? Davvero? e ho avuto paura di non farcela. Ordinato sacerdote il 28 giugno 1952, invece di partire per l’Africa mi trovai nominato al seminario di Treviglio, in Italia. Fu una grossa delusione che mise a dura prova la mia promessa di obbedienza appena pronunciata.
Ricordo ancora quel giorno. Ero a Cartagine, in Tunisia, dove stavo terminando i miei studi teologici. Poco prima della fine dell’anno scolastico, arrivò l’assistente del Superiore generale con i nomi dei futuri sacerdoti e le rispettive nomine. Lo ascoltammo tutti col cuore in gola, in attesa della nostra prima destinazione. Finalmente il mio nome: “Padre Mattedi: nominato in Italia”. Mi mancò il fiato. Io che sognavo l’Africa! Delusione, amarezza, rivolta... Volli parlare con il Superiore. Mi misi in attesa davanti alla sua stanza e, quando finalmente mi fece entrare, mi chiese: - Ha una domanda? - Ha detto che sono nominato in Italia; per fare che cosa?
Con due giovani della missione di Kibingo. Alle loro spalle uno scorcio dello stupendo lago Kivu
78
africa · numero 3 · 2012
Nel 1962, potei partire per il Ruanda. Un giorno, un inviato del governo volle obbligarmi ad avere un’arma, per questioni di sicurezza. Malgrado la sua insistenza , rifiutai categoricamente: « Io non ho nemici e non sparerò mai su nessuna persona!» Tante volte sono stato in pericolo, ma la Provvidenza mi ha sempre salvato. Ho camminato su terreni seminati di mine antipersona, sono scampato a proiettili sparatimi addosso. Nella mia vita di missionario ho scoperto nella gente una grande sete di Dio, della Parola; ho avuto tante gioie e tante difficoltà, e tanti esempi edificanti e incoraggianti. Ricordo i pellegrinaggi a Kibeho per le apparizioni della Madonna: partenza alle tre del mattino con una cinquantina di giovani, 60 chilometri a piedi, con pentoloni, riso, banane e canne da zucchero; sosta al mattino, con Messa e colazione; confessioni per strada tra canti, preghiere e chiacchiere per arrivare a Kibeho verso sera. Rosario sul luogo delle apparizioni, poi cena e notte nelle scuole. Il mattino, Messa con danze; nel pomeriggio, rosario nel piazzale stracolmo di gente, la veggente Alfonsina Mumureke che sale sul palco e comincia il dialogo con la Madonna, parlando di diritti di lavoratori e operai da pagare a tempo ed equamente… Ho amato e mi sono sentito amato in comunità e dalla gente; ho incontrato pace e genocidio... Ho visto tanta generosità nei laici: catechisti, accompagnatori in foresta, accoglienza, trasporto in barca... Nei campi profughi ho incontrato di tutto: orrori, fame, preghiera e aiuto fraterno… Ora sono di nuovo a Treviglio per una nuova missione né prevista, né richiesta: missione nella fede, nell’umiltà, nel silenzio, nella preghiera con Maria, a vivere da cristiano, da fratello, da prete, da missionario in un modo nuovo.
•
Mali, in fuga da Al Qaeda
Una Pasqua tormentata per i missionari di Gao a cura di Paolo Costantini
Le violenze dei miliziani islamisti e degli indipendentisti tuareg scoppiate a fine marzo nel nord del Paese hanno costretto i Padri e le Suore a una rocambolesca fuga nella notte dalla missione di Gao…
La tempesta era preannunciata. L’intelligence aveva segnalato già da alcuni mesi la presenza nel nord del Paese di gruppi estremisti ben armati, provenienti dalla Libia. Inoltre non mancavano i segnali di una ripresa della ribellione tuareg del Movimento nazionale per la liberazione della Azawad (Mnla). Ma tutto è precipitato con il colpo di Stato del 21 e 22 marzo e la conseguente caduta in mano dei ribelli di tutta la regione settentrionale. Ecco la sintesi di alcune testimonianze ricevute dai confratelli. Il 4 aprile, a Gao, la Caritas stava organizzando la distribuzione di viveri per i profughi venuti a rifugiarsi in città. I Padri e le Suore
I Tuareg e le milizie legate ad Al Qaeda hanno occupato le regioni di Toumbouctu,Kidal e Gao e dispongono di armi, denaro e mezzi di comunicazioni. L’esercito governativo, mal equipaggiato, sottopagato e demotivato, non è riuscito a mantenere il controllo della regione
padri bianchi . missionari d’africa
avevano lavorato l’intera giornata alla missione che si trova a mezzo chilometro dal campo militare, dove già risuonavano spari e rimbombavano colpi d’artiglieria pesante. La situazione restava molto tesa anche se verso sera sembrava migliorata e i ribelli respinti. In una riunione comunitaria, dopo aver pregato, i missionari - che avrebbero voluto celebrare la Pasqua con i fedeli della comunità cristiana - decisero di lasciare la missione l’indomani mattina. Durante la notte, però, la gente corse a informare i Padri che il campo militare era caduto in mano dei ribelli, tra i quali c’erano militanti del feroce gruppo islamista Ansar Dine. I Padri decisero allora di partire subito con due auto, sulle quali trovarono posto anche le Suore. Fortunosamente la comitiva riuscì ad attraversare indenne i vari posti di blocco. Testimoni hanno riferito che due ore dopo la loro partenza da Gao, un gruppo di ribelli è arrivato alla missione mettendola a soqquadro alla ricerca dei Padri. L’indomani, gli stessi ribelli sono tornati e hanno saccheggiato e distrutto la missione, la casa delle Suore, la chiesa e l’asilo infantile al grido di «Allah wa kubar» (Allah è grande). Non ancora appagati, i miliziani hanno devastato le sedi delle Ong e di altri organismi alla ricerca di soldi e beni «appartenenti ai cristiani». Il guardiano della missione è stato minacciato con l’accusa di nascondere i Padri. I cristiani, in maggioranza di etnia Bambara, originari del sud, sono fuggiti in massa per paura dei gruppi islamisti. Il movimento indipendentista dei Tuareg, infatti, non è in sé stesso violento; ma ha perso il controllo della situazione e la regia delle violenze è passata sotto la mani di banditi e dei miliziani islamisti legati ad Al Qaeda, desiderosi solo di uccidere e cacciare gli “infedeli” cristiani. Per i missionari e la comunità cristiana del Mali è stata una Pasqua di passione.
africa · numero 3 · 2012
79
AMICI dEI PAdRI BIANChI ONluS PROGETTI La Onlus Amici dei Padri Bianchi presenta il bilancio 2011 approvato dall’Assemblea Generale degli associati riunitasi il 17 marzo 2012. Di cuore ringrazia quanti l’hanno sostenuta, incoraggiata ed aiutata Bilancio 2011 Lo stato patrimoniale risulta così composto: ATTIVITÀ cassa ________________________ 1.559,70 conto corrente postale _______________661,76 conto corrente Cassa rurale ________ 12.860,57 oneri pluriennali da ammortizzare ________________ 4.608,00 Totale attività _______________ 19.690,03 PASSIVITÀ progetti 2011 ____________________ 940,00 patrimonio sociale _______________ 1.950,00 avanzo di gestione anni precedenti ___ 13.981,18 avanzo di gestione bilancio 2011 ______ 2.818,85 Totale passività _____________ 19.690,03
Francobolli per le missioni Raccogliamo francobolli usati. Inviare a: P. Sergio Castellan Padri Bianchi
Casella Postale 61,
24047 Treviglio (Bergamo)
Il conto economico in forma scalare: CONTO ECONOMICO 31/12/2011 a) valore della produzione donazioni ricevute ______________ 5.940,00 sostegno rivista Africa _____________ 60,00 Padri Bianchi per mostre Africa ______ 450,00 Totale valore produzione _______ 6.450,00 b ) costi della produzione cancelleria e mat. di consumo _______ 705,49 servizi e rappresentanza ___________ 896,40 risorse umane _________________ 1.041,95 spese bancarie __________________ 72,24 ammort. oneri pluriennali _________ 1.152,00 Totale costi produzione ________ 3.868,08 differenza valore-costi produzione __________ 2.581,92 c ) proventi e oneri finanziari interessi c/c banca ________________ 10,88 altri proventi workshop ___________ 1.418,22 5x1000 - agenzia entrate _________ 8.678,83 Totale proventi e oneri finanziari ______ 10.107,93 d ) avanzo lordo di gestione ________ 12.689,85 e) erogazioni Africa e Padri Bianchi ________________ 9.871,00 f ) avanzo di gestione 2011 __________ 2.818,85 Risultato di gestione __________ 2.818,85
Da 140 anni al servizio dell’Africa AIUTACI AD AIUTARE: BASTA UN GESTO IL TUO 5 X MILLE alla onlus AMICI DEI PADRI BIANCHI Codice fiscale: 93036300163 Basta una firma sulla tua dichiarazione di redditi
80
africa · numero 3 · 2012
SOSTENUTI da AMICI DEI PADRI BIANCHI - ONLUS Progetto 01-10 RD Congo Centro nutrizionale e acquedotto Referente: padre Italo Iotti
Progetto 04-10 Mali Chiesa di Masina
Referente: padre Alberto Rovelli
Progetto 06-10 Burkina Faso Costruire un mulino Dori - Il mulino della speranza Referente: padre Pirazzo Gabriele
Progetto 07-10 Borse di Studio Aiutare i seminaristi Padri Bianchi Referente: padre Luigi Morell
Progetto 09-10 Mozambico Adotta un bambino
Referente: padre Claudio Zuccala
Progetto 01-11 Algeria Scolarizzazione femminile
Referente: padre José Maria Cantal
Progetto 02-11 Algeria Una biblioteca a Tizi-Ouzou
Referente: padre José Maria Cantal
Progetto 04-11 Mali Un dispensario a Gao
Referente: padre Alberto Rovelli
Progetto 13-11 Kenya A scuola grazie a suor Agata Referente: padre Luigi Morell
Progetto 14-12 RD Congo Con i giovani di Goma
Referente: padre Giovanni Marchetti
Progetto 15-12 Mali Lotta contro la carestia
Referente: padre Vittorio Bonfanti Per ogni invio, si prega di precisare sempre la destinazione del vostro dono (numero progetto, sante messe, rivista, offerte, ecc) ed il vostro cognome e nome
donazioni amici dei Padri Bianchi ccP: n. 9754036 iBan: it32 e076 0111 1000 0000 9754 036 credito cooperativo di treviglio Bg iBan: it73 H088 9953 6420 0000 0172 789 info: 0363 44726 - africa@padribianchi.it
informazioni
L’Africa… a portata di mouse Da oggi puoi leggere la nostra rivista direttamente sul tuo computer
20 euro
Con un contributo minimo di per sei numeri puoi ricevere Africa in formato pdf Info: 0363/44726 africa@padribianchi.it
L’Africa a testa alta di Cheikh Anta Diop
Jean-Marc Ela (1936-2008), prete camerunese «missionario nel proprio paese» e precursore della teologia africana della liberazione, è stato anche sociologo, con un dottorato alla Sorbona. Dopo l’omicidio, a Yaoundé, del teologo Engelbert Mveng (1995), sentendosi a sua volta minacciato è andato in esilio in Canada. Cheikh Anta Diop (1923-1986) è, con Joseph Ki-Zerbo, il padre della storiografia africana. L’Autore ci introduce all’anima poliedrica, dell’intellettuale senegalese che ha trasformato una ricerca rivoluzionaria in lotta politica, allo scopo di restituire dignità e consapevolezza all’uomo africano. di Jean-Marc Ela, prefazione di Marco Aime, pp. 160, euro 12
collezione
La casa editrice Emi è di proprietà della Cooperativa Sermis, costituita da 15 istituti missionari. I Padri Bianchi figurano tra i soci
PROMOZIONE AfricaPer scoprire il continente vero RIVISTE
+
+
+
+
Nigrizia
Terre di Mezzo
Valori
Vps
Mensile del mondo nero
Mensile delle “alternative possibili”
Mensile di economia sociale
La rivista di chi abita il mondo
contributo
54 euro
AFRICA + NIGRIZIA
contributo
50 euro
AFRICA+TERRE DI MEZZO
contributo
55 euro
AFRICA + VALORI
Nella causale del versamento specifica: Africa + rivista scelta
contributo
51 euro
AFRICA + VPS
Good Morning Africa
foto M. Trovato
richiedi la mostra fotografica
Informazioni: Redazione Africa animazione@ padribianchi.it tel. 0363 44726 cell. 334 2440655 Anteprima su www.missionaridafrica.org
La mostra Good Morning Africa è realizzata dalla nostra rivista in collaborazione con African Explorer, il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Stefania Costruzioni e Jona Comunicazioni
foto G. Porzio
Disponibile per esposizioni in tutta Italia
foto M. Hofer
Quaranta incredibili fotografie per immortalare la vitalità di un continente in pieno movimento. La mostra può essere allestita in scuole, biblioteche, parrocchie e centri culturali. È richiesto un contributo minimo di 200 euro più il rimborso delle spese di spedizione.