anno 88
n.4 luglio-agosto 2010
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Milano.
www.missionaridafrica.org
Sudan
Orgoglio dinka
Tanzania
Il vino della savana
Benin
Il mercato di Cotonou
Storia
Gli esploratori missionari
ISOLE
sperdute GUINEA-BISSAU
L’Africa nel pallone
© Riccardo Venturi
una sorprendente mostra fotografica
© Marco Trovato
© Ugo Lo Presti
Il calcio africano è una miniera d’oro che sforna campioni e favole sportive. Ma anche delusioni e spietati fallimenti. All’indomani dei Mondiali in Sudafrica, venti fotografi sono scesi in campo per svelare sogni e illusioni di un continente che si gioca il futuro.
A DISPOSIZIONE PER ESPOSIZIONI IN TUTTA ITALIA La mostra “L’Africa nel pallone” è realizzata dalla rivista AFRICA in collaborazione con il Festival del Cinema Africano. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0363 44726, animazione@padribianchi.it
editoriale
di Paolo Costantini
Diamo spazio alla nuova Africa È
terminato con una grande novità il 27° Capitolo dei Missionari d’Africa, Padri Bianchi: è stato eletto un confratello africano Superiore Generale della Società. Il neoeletto, padre Richard Baawobr, 51 anni, originario del Ghana, sarà aiutato da consiglieri: due europei, un africano e un messicano. Gli elettori hanno così voluto sottolineare la vocazione africana e il carattere internazionale dell’Istituto. Che cos’è dunque un Capitolo? È un’assemblea di membri della Società, alcuni eletti dalla base e altri che sono membri di diritto in forza della loro carica. Lo scopo della riunione - che si tiene ogni sei anni - è di riflettere sul cammino percorso e dare orientamenti al “governo” eletto dal Capitolo stesso. Ed è nell’elezione appunto del “governo” che i capitolari hanno voluto sottolineare la propria vocazione africana. Ma chi sono i Missionari d’Africa? Più conosciuti come «Padri Bianchi» per il loro abito tradizionale - una gandura bianca (sorta di vestaglia tipica dell’Algeria, dove il primo gruppo sorse nel 1868) -, sono stati fondati dall’allora arcivescovo di Algeri, il cardinale Lavigerie. Obiettivo: l’annun-
relegati, coltivando un senso di superiorità-inferiorità reciproca.
Ascoltare gli africani
cio del Vangelo in Africa, con particolare attenzione ai credenti dell’islam. Gli attuali 1.541 membri (di cui 210 africani) provengono da 37 nazioni dei cinque continenti e operano in 21 Paesi africani nonché nella diaspora africana.
Dignità reclamata Perché questo excursus sui Missionari d’Africa? Semplicemente per sottolineare una realtà di cui si parla poco: che cioè gli africani sono cresciuti e oggi sono capaci di agire a tutti i livelli. Ma bisogna che non gliene neghiamo la possibilità. I media continuano a presentare un’Africa succube di tanti mali, quasi un continente maledetto. Non possiamo accettarlo. L’Africa è
un continente adulto, e gli africani accettano sempre meno tale sottomissione. Faccio mie le parole scritte su Peacereporter da Matteo Fagotto, nostro amico e collaboratore, parlando dei Mondiali: «Quello che è successo alla cerimonia d’apertura e durante la partita Sudafrica-Messico, con 44 milioni di persone finalmente unite per sostenere una squadra, è stato un momento di catarsi collettiva. Una purificazione vera e propria dalle paure e dalle ansie della società sudafricana, che è stata veramente salutare». Parole che possiamo utilizzare per tanti Paesi africani, avvelenati da un effettivo stato di apartheid nel quale noi europei li abbiamo spesso
L’Africa alza la testa e reclama la propria dignità. Lo vediamo in campo religioso, dove sono sempre più numerose le diocesi che, pur non ricevendo più missionari stranieri, con generosità già inviano i propri missionari in altri Paesi. Lo vediamo nel mondo del calcio, dove i nostri club impegnano sempre più giocatori africani. Di questa presa di coscienza ce ne parla anche Dambisa Moyo nel suo libro La carità che uccide, dove invita l’Africa a liberarsi dagli aiuti malsani dell’Occidente. Oggi l’Africa non è più solo un luogo lontano, suggestivo e un po’ misterioso. È presente anche in Europa, con i milioni di suoi figli che conservano legami profondi con i loro Paesi d’origine e che da noi, fino a una decina di anni fa, erano solo una presenza silenziosa. Oggi quest’Africa parla, si esprime, ha da dire la sua. Ma lo può fare solo se le si offre un microfono, un palcoscenico, un podio. Sta a noi fare questa conversione anzitutto mentale: ascoltare meno gli africanisti e di più gli africani. • africa · numero 4 · 2010
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sommario
DIREZIONE, REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE
viale Merisio, 17 24047 Treviglio (BG) tel. 0363 44726 - fax 0363 48198 africa@padribianchi.it www.missionaridafrica.org DIRETTORE
Paolo Costantini COORDINATORE
Marco Trovato WEBMASTER
Paolo Costantini AMMINISTRAZIONE
Bruno Paganelli
PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA
Luciana De Michele PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE
Elisabetta Delfini FOTO
Copertina Marco Trovato Si ringrazia Olycom COLLABORATORI
Claudio Agostoni, Marco Aime, Giusy Baioni, Enrico Casale, Giovanni Diffidenti, Matteo Fagotto, Emilio Manfredi, Diego Marani, Raffaele Masto, Pier Maria Mazzola, Giovanni Mereghetti, Aldo Pavan, Piero Pomponi, Giovanni Porzio, Anna Pozzi, Andrea Semplici, Daniele Tamagni, Alida Vanni, Bruno Zanzottera, Emanuela Zuccalà COORDINAMENTO E STAMPA
Jona - Paderno Dugnano
Periodico bimestrale - Anno 88 luglio-agosto 2010, n° 4
Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo
COME RICEVERE AFRICA per l’Italia:
Contributo minimo di 25 euro annuali da indirizzare a: Missionari d’Africa (Padri Bianchi) viale Merisio, 17 - 24047 Treviglio (BG) CCP n.67865782 oppure con un bonifico bancario sul conto della BCC di Treviglio e Gera d’Adda intestato a Missionari d’Africa Padri Bianchi IBAN: IT 93 T 08899 53640 000 000 00 1315
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copertina Guinea Bissau. Paradiso Bijagós di Marco Trovato
attualità
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libri e musica
54 Libri e musica
di P.M. Mazzola e C. Agostoni
cultura
3 4 Un fiuto esplosivo 6 Un miraggio chiamato adozione 10 La riscossa delle donne 12 Tanzania. Il vino della savana 19 Mondiali: un calcio alla birra
56 I nuovi vicini di casa 63 Gli aiuti all’Africa? Disastrosi
20 Sudan. Orgoglio Dinka 26 Benin. La vita in un bazar 32 Mali. Ritorno al cinema 48 Afro Beauty 50 Bed & Breakfast 52 Mali. Le ciabatte di Caleb
70 Missionari del mare 74 Milano, piange la Madonna copta 75 La grande fuga togu na 76 vita nostra 77
Africanews
a cura della redazione di Paola Marelli
di Enrico Casale
di Luciana De Michele
di Marco Trovato e Marco Garofalo di Matteo Fagotto
società
di A. Semplici e M.Torricelli di E. Zuccalà e A. Capasso
di L. Spampinato e A.Frazzetta di P. Marelli e D. Tamagni di Luca Bolognesi
di M. Pigozzo e W. Porcellato
per la Svizzera: Ord.: Fr 35 - Sost.: Fr 45 da indirizzare a: Africanum - Route de la Vignettaz, 57 CH - 1700 Fribourg C.C.P. 60/106/4
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di Aldo Pavan
di Paola Marelli
storia
64 Quando giocavamo contro l’apartheid 66 Missionari italiani esploratori 69 Quando l’Africa incantava il mondo di Claudio Agostoni di Diego Marani
a cura della redazione
chiese
di Marco Trovato
di Enrico Casale e Bruno Zanzottera a cura della redazione
a cura della redazione
a cura della redazione
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news
a cura della redazione
Africanews, brevi dal continente 1 Ruanda, una donna contro tutti La senatrice Alvera Mukabaramba si è candidata alle presidenziali del 9 agosto, unica donna a sfidare il Capo dello Stato uscente Paul Kagame, dato per favorito. Ex medico, la signora Mukabaramba è leader del Partito del progresso e della concordia (Ppc), oppositore del partito del Presidente, il Fronte patriottico ruandese (Fpr), al potere dal 1994.
2 Egitto, no smoking L’Egitto, primo consumatore arabo di sigarette, ha imboccato la via della salute. A iniziare dalla città di Alessandria, sarà vietato fumare nei locali pubblici in tutto il Paese. Si stima che gli egiziani fumino ogni anno circa 19 miliardi di sigarette (senza contare gli accaniti fumatori di narghilè).
3 Ghana, guerra alle zanzare Entro novembre quasi 3 milioni di zanzariere intrise di insetticida saranno distribuite gratuitamente in Ghana. Lo ha promesso il ministro della Salute, Benjamin Kunbuor, lanciando una campagna governativa contro la malaria.
4 Kenya, boom di cellulari Nell’ultimo anno gli abbonati alla telefonia mobile sono cresciuti del 34,2%,
arrivando a 17,5 milioni. Almeno sette milioni di keniani ricorrono al cellulare per i trasferimenti di denaro. Nello stesso periodo sono crollate le richieste di abbonamento alla rete telefonica fissa (-72,4%).
5 Mali, pioggia artificiale Il governo del Mali ha dato il via ad un programma di pioggia artificiale, un’azione di contrasto alla siccità che minaccia i raccolti e prosciuga le riserve idriche. La cosiddetta inseminazione delle nuvole, realizzata tramite aerei equipaggiati con un generatore di cristalli di ghiaccio, costerà circa 500mila euro.
milioni di abitanti -, spesso teatro di violenti scontri tra comunità musulmane e cristiane.
coalizione che ha ridato stabilità politica ed economica al Paese.
10 Guinea-Bissau, tutti a scuola
8 Tanzania, febbre dell’oro Nell’ultimo anno il valore delle esportazioni di oro tanzaniano è aumentato del 55% e ha toccato 1,3 miliardi di dollari. Il risultato è la conseguenza di un aumento delle estrazioni e del prezzo del metallo sui mercati internazionali. La Tanzania è il quarto produttore africano di oro, dopo Mali, Ghana e Sudafrica.
La Guinea-Bissau, tra gli Stati più piccoli e poveri dell’Africa, ha dichiarato guerra all’analfabetismo con un vasto programma d’istruzione per adulti, che punta a sradicare il fenomeno entro il 2015. Gli analfabeti sono soprattutto donne, che complessivamente rappresentano il 51% del milione e mezzo di abitanti. Fonte: AgiAfro, Bbc, Jeune Afrique, Misna
6 Sudafrica, incassi mondiali Effetto Mondiali sulla crescita dell’economia sudafricana, la più importante dell’intero continente. Quest’anno il Prodotto interno lordo dovrebbe crescere del 3,5%, anche grazie ai soldi spesi dai tifosi-turisti e agli investimenti, destinati a durare, fatti per la costruzione e la ristrutturazione di infrastrutture.
7 Nigeria, dialogo interreligioso Si è tenuto ad Abuja, lo scorso giugno, il primo Forum africano per il Dialogo interreligioso. È questo un tema particolarmente sentito in Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa - oltre 150
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9 Zimbabwe, il ritorno dei turisti Per la prima volta in dieci anni, in Zimbabwe è cresciuto il turismo. Nel 2009 gli introiti del settore sono stati pari a 523 milioni di dollari, il doppio dell’anno precedente. Merito del nuovo governo di
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attualità
testo e foto di Paola Marelli
Un fiuto esplosivo Promossi a pieni voti i topi sminatori Dopo anni di addestramenti e di prove sul campo, i ratti antiesplosivi sono stati ingaggiati nella caccia agli ordigni sotterrati. Ma anche in quella ai batteri killer
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er lungo tempo si sono esercitati nelle savane di Morogoro, in Tanzania e nella regione di Inhambane, in Mozambico. Un allenamento faticoso sotto l’occhio attento e vigile dei loro trainer. Cinque anni fa hanno superato i primi test effettuati nei centri di addestramento (vedi Africa 4/2005, p. 4-7).
Oggi i topi anti-esplosivo hanno passato a pieni voti anche l’ultimo esame: quello sui campi africani cosparsi di veri ordigni. Gli studiosi di Apopo - organismo belga specializzato nella bonifica dei terreni minati - hanno reso pubblici i risultati delle loro performance lungo i binari della Limpopo Railway,
Ora aiutano anche i medici
Il “criceto gambiano”, con i suoi 35 centimetri di lunghezza, è il topo più grande del mondo. Qui viene addestrato per l’opera di sminamento dai tecnici della Sokoine University, l’istituto agrario nazionale della Tanzania
una ferrovia mozambicana minata nel corso della guerra civile. La percentuale di successo ha superato il 95%: una prestazione straordinaria per i topi e una grande soddisfazione per i ricercatori che dieci anni fa arruolarono i roditori nella battaglia contro le mine antipersona (disseminate a milioni in 70 Paesi, per metà africani). «Abbiamo convinto anche gli scettici», commenta Christophe Cox, coordinatore del progetto. «I topi hanno dimostrato di avere un olfatto infallibile. Si sono rivelati dei grandi lavoratori, instancabili, docili da addestrare».
Gli animali sono già stati impiegati con successo dall’Angola al Sudan, dal Mozambico alla Costa d’Avorio. Le loro qualità sono incredibilmente utili all’uomo. Sono facili da trasportare e si adattano ai climi più diversi, dal deserto alle foreste equatoriali. In appena mezz’ora sono in grado di scandagliare circa 100 metri quadrati di terreno individuando gli esplosivi. A differenza dei cani antimina, se sbagliano non corrono il rischio di saltare per aria perché pesano poco (mediamente un chilo). E una manciata di noccioline basta a ricompensarli del lavoro svolto. •
Un tempo venivano sacrificati nei laboratori per le sperimentazioni di nuovi farmaci, oggi sono alleati dei medici nella lotta alla tubercolosi. I topi - opportunamente addestrati dall’organizzazione belga Apopo - sono in grado di individuare nella saliva dell’uomo il microbatterio responsabile della tbc. Non sarà una terapia miracolosa, ma è pur sempre una buona notizia. La tbc è una delle malattie infettive più diffuse e pericolose dei Paesi poveri (l’anno scorso ha ucciso due milioni di persone) e, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), nei prossimi cinque anni si diffonderà in Africa a causa delle carenze di controlli sanitari che ne potrebbero contrastare il contagio. «La mancanza di adeguate campagne di screening favorisce la diffusione della patologia», spiegano gli esperti dell’Oms. «Per rovesciare questa tendenza è necessario trovare nuovi, efficaci strumenti diagnostici, pensati espressamente per i poveri Paesi subsahariani». I topi potrebbero rappresentare una buona soluzione. Il fiuto dei roditori è stupefacente - assicurano i ricercatori: può analizzare in dieci minuti fino a quaranta casi sospetti, più o meno quanto riesce a fare un tecnico di laboratorio dotato di un sofisticato microscopio nell’arco di una giornata di lavoro. «Quando l’animale sente l’odore del microbo nella saliva, ne riconosce il potenziale pericolo e si scosta immediatamente». Un segnale inequivocabile che rende superfluo i costosi (e inaccessibili) esami di laboratorio. Non resta che vedere i topi all’opera sul sito www.apopo.org
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attualità
testo di Enrico Casale
UN MIRAGGIO CHIAMATO
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adozione Perché è più difficile adottare un bambino africano 6
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n Africa l’adozione di minori è un fenomeno recente. Fino a una ventina di anni fa, gli orfani o i bambini che venivano abbandonati non erano adottati da estranei, ma venivano presi in carico dalla famiglia allargata: nonni, zii, cugini... Questo modello, che faceva perno sul concetto che i figli sono innanzitutto una risorsa e una ricchezza familiare, è però andato in crisi sotto i colpi di maglio della pandemia di Aids. Il virus ha ucciso migliaia di persone, soprattutto tra i 16 e i 40 anni, spazzando via un’intera generazione. La rete sociale africana non è più stata in grado di sopportare il peso degli orfani e dei bambini abbandonati. All’Aids si è aggiunta anche la disgregazione sociale, derivata dalla fuga dalle campagne a causa dell’insicurezza e dall’arrivo nelle baraccopoli abitate da milioni di persone. Sotto l’incalzare di questi eventi, negli anni Ottanta gli Stati africani hanno iniziato a costruire i primi istituti per ospitare gli orfani e i bambini abbandonati. E poi, successivamente, hanno pensato a collegarsi ai circuiti di adozione internazionale.
L’adozione comunque è poco accettata dagli africani. «È ancora vista come un male - spiega una coppia di genitori che sta adottando nella Repubblica Democratica del Congo -. Gli africani pensano che i bambini vengano “rubati” e “utilizzati” per strani riti esoterici. Le coppie che si recano a Kinshasa per adottare un bambino devono uscire pochissimo dall’hotel o dalle strutture protette in cui risiedono. Altrimenti rischiano di essere malmenate dalla gente». Recentemente una coppia italiana che aveva appena adottato un bambino si era recata in un ristorante della capitale congolese per consumare il pranzo. Il cameriere che li serviva li guardava malissimo e, più volte, ha incitato il ragazzino a scappare e a mettersi al sicuro perché, secondo lui, quegli europei lo avrebbero presto ucciso. La diffidenza nei confronti delle coppie adottive non è solo culturale, ma anche religiosa. In Marocco, come
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Diffidenza e pregiudizi
I numeri record dell’Italia
Abbiamo la maglia nera come tasso di natalità ma siamo, dopo gli Stati Uniti, il Paese che adotta di più all’estero: sono 3.964 i bambini stranieri adottati da coppie italiane nel 2009. Solo 498 provengono dall’Africa, in particolare da otto Paesi: Etiopia (in assoluto la nazione più attiva), Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Mali, Burundi, Guinea-Bissau, Madagascar, Tanzania… Il 71% dei bimbi africani adottati ha meno di 4 anni, il 25% tra i 5 e i 9 anni, solo il 4% più di 10 anni.
Cosa fare
foto Albino Vezzoli
Ogni anno in Italia vengono adottati circa quattromila bambini stranieri. Ma solo il 10% proviene dell’Africa. Vi sveliamo il perché
Le coppie italiane che desiderano adottare un bambino all’estero devono seguire un preciso iter burocratico. Per prima cosa è necessario che presentino una domanda ufficiale, ovvero la dichiarazione di disponibilità all’adozione internazionale al Tribunale dei minori. Devono poi sottoporsi ad una serie di incontri con assistenti sociali e psicologi della Asl. Questa fase che dovrebbe concludersi in 6 mesi, dura invece circa un anno. Nel 90% dei casi la coppia ottiene il decreto di idoneità, la patente dei genitori adottivi, con cui è possibile contattare uno dei 72 enti autorizzati dalla Commissione adozioni internazionali (Cai). Sarà compito di questi enti sparsi in ogni regione assistere le coppie, indirizzarle verso un Paese piuttosto che un altro e seguirle dopo il rientro in Italia. Informazioni su: www.commissioneadozioni.it Numero verde 800.002.393 africa · numero 4 · 2010
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le star
• La pop star Madonna ha adottato nel 2006 un bimbo del Malawi. Ma l’anno scorso l’Alta Corte di Lilongwe ha negato l’adozione di un’altra bambina. • Angelina Jolie ha tre figli adottivi: Maddox, Pax e Zahara. • Sandra Bullock, mamma adottiva single, qui in una scena del film «The Blind Side».
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in molti altri Paesi in cui l’islam è la religione maggioritaria, se una coppia non musulmana vuole adottare un bambino deve accettare una conversione (formale) alla religione musulmana. In Senegal, altro Paese a maggioranza islamica, gli europei possono adottare solo i bambini della minoranza cristiana (circa il 10% della popolazione). «È una cosa assurda - osserva sconsolato un senegalese, musulmano devoto, da anni residente in Italia -. In Senegal e in molti altri Stati africani ci sono migliaia di bambini abbandonati che avrebbero solo bisogno di essere accolti da una famiglia. Perché le leggi pongono questi limiti? Sono sicuro che a Dio preme più l’amore che viene dato ai piccoli che non una conversione forzata. E sono altrettanto sicuro che Dio accetterebbe che un bimbo musulmano fosse bene accolto anche da un cristiano».
foto Albino Vezzoli
attualità
I freni della politica Quando non sono la cultura e la religione a porre ostacoli, è la politica che mette i bastoni tra le ruote. Le leggi sull’adozione esistono in molti Stati, ma spesso contengono norme molto restrittive. La RD Congo, per esempio, permette di adottare solo alle coppie che siano sposate da almeno 5 anni. In altri Stati gli anni di matrimonio devono essere addirittura il doppio. «Dieci anni - spiega l’esperto di un ente italiano che opera in Africa per le adozioni - sono moltissimi per gli standard europei. Da noi ci si sposa spesso dopo i trent’an-
Una scelta costosa L’adozione internazionale, a differenza di quella nazionale, non è gratuita. La somma che la coppia deve pagare oscilla tra i 15 e i 20mila euro e comprende i rimborsi delle spese sostenute dall’ente autorizzato (al quale è obbligatorio rivolgersi) in Italia e all’estero. Le spese variano da Paese a Paese. Si va da un minimo di 3.500 euro per adottare in Marocco a un massimo di 6.100 euro per adottare in Camerun. A queste vanno poi aggiunte il costo del viaggio e quello del soggiorno in Africa. Il 50% delle spese sostenute e documentate è deducibile dalla dichiarazione dei redditi.
Vietato scegliere il colore In Italia non si potrà più scegliere il colore della pelle del bimbo da adottare. La Cassazione ha detto «no» alle coppie che chiedono uno o più bambini in adozione indicando, però, di non essere disponibili a ricevere bimbi di pelle scura o diversa da quella tipica europea. La procura della Suprema Corte, sollecitata da un esposto dell’associazione «Amici dei bambini» (www.aibi.it), ha smentito alcuni tribunali italiani che avevano accolto le preferenze dei genitori adottivi. «L’Italia non può accettare discriminazioni razziali», ha fatto sapere il procuratore della Cassazione. Decisione giusta? Fateci pervenire il vostro parere via mail: africa@padribianchi.it ni. Adottare un bambino a quaranta e più anni diventa difficile». Molti Paesi, poi, pongono limiti ferrei alle adozioni. In Senegal, per esempio, è possibile adottare solo un bambino. I fratelli vengono quindi separati. In Mozambico è possibile adottare per un europeo, ma solo se è residente nello Stato. Lo stesso, fino a qualche anno fa, avveniva in Madagascar. Ogni Paese può, inoltre, decidere im-
provvisamente di dare una stretta alle adozioni, spinto da orgoglio nazionalistico e lo può fare semplicemente tirando per le lunghe le procedure di rinnovo delle autorizzazioni alle associazioni. Le leggi sulle adozioni sono poco chiare e lasciano spazio all’interpretazione. Questa discrezionalità apre le porte alla corruzione. «L’adozione di minori in Africa - spiega un’altra coppia che sta
concludendo le pratiche per adottare due bambini congolesi - è il regno della corruzione. Se vuoi un bambino, già in partenza devi sapere che dovrai “ungere” molte ruote se vuoi che la pratica giunga a buon fine». Recentemente è scoppiato uno scandalo per mazzette in Benin. Un’operatrice di un ente autorizzato francese è dovuta fuggire per evitare l’arresto. In Ciad l’anno scorso
alcuni operatori di una Ong francese che si occupa di adozioni furono bloccati dalla polizia locale, accusati di rapire o di comprare dalle famiglie decine di bimbi. Falsificando i documenti, con la complicità di qualche funzionario corrotto, li spacciavano per orfani “adottabili” in Francia. Un vergognoso mercato di minori che prosegue nell’ombra in troppe parti del sud del mondo. • africa · numero 4 · 2010
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attualità
testo di Luciana De Michele
La riscossa delle donne
Quindici storie di successo al femminile Hanno talento, grinta e una grande voglia di lasciare il segno. Dalla politica alla cultura, dall’imprenditoria allo spettacolo. Ecco quindici donne africane da tenere d’occhio
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oi le immaginiamo sempre e comunque relegate ai margini della vita sociale. Ma le donne d’Africa si ribellano ai clichè degli osservatori, superficiali e distratti. «Ci siamo stancate dello stereotipo occidentale della donna sfruttata, con il secchio in testa, il bambino sulle spalle, sempre incinta», tuona Yayi Bayam Diouf, presidentessa del Collettivo femminile in lotta contro l’emigrazione clandestina in Senegal. «L’Africa è piena di donne straordinarie e ambiziose. Che meritano sostegno e visibilità per ciò che fanno ogni giorno, nel silenzio, per lo sviluppo dei loro Paesi». Ha ragione. Ecco allora una carrellata ovviamente non esaustiva - di donne africane emergenti: esponenti del mondo della politica, della cultura, dell’imprenditoria e dello spettacolo. Che sanno ritagliarsi spazi da autentiche protagoniste. •
Saran Daraba Kaba politica, Guinea
Ex ministro degli Affari Sociali della Guinea, presiede una rete di associazioni femminili che si battono per la pace e i diritti civili. Zainab Bangura politica, Sierra Leone
Dora Byamukama politica, Uganda
Laureata in legge, ha lavorato per la Banca Mondiale. Nel 2007 ha fondato un’associazione per la promozione dell’educazione e per l’emancipazione economica della donna. Oggi è membro onorario del Parlamento ugandese. Fatou Sarr ricercatrice, Senegal
Figlia di contadini, attivista per i diritti civili, ha denunciato e combattuto i politici corrotti. Dal 2007 è ministro degli Affari Esteri.
Ricercatrice all’Istituto Fondamentale dell’Africa Nera (Ifan), nel 2004 ha
a e
fondato il Laboratorio di ricerca scientifica presso l’Università di Dakar. Collabora con le Nazioni Unite.
Odile Sankara artista, Burkina Faso
Asha-Rose Mtengeti Migiro politica, Tanzania
Già docente universitaria, nel 2006 è stata nominata ministro degli Esteri (prima donna a ricoprire questo incarico in Tanzania). Ha promosso campagne contro la mutilazione dei genitali femminili.
Sorella minore del leader politico burkinabè Thomas Sankara, ucciso nel 1987, si occupa di cultura e di teatro con la sua associazione Talents de Femmes.
Fatima Gallaire scrittrice, Algeria
Nel 1990, con il suo primo libro, Balada de amor ao vento, è stata la prima donna a pubblicare un romanzo in Mozambico. Oggi è una delle esponenti di spicco della letteratura lusofona.
Ha studiato lettere ad Algeri e cinema a Parigi, ma la sua passione è la scrittura di romanzi, spesso per ragazzi, e di opere teatrali. Ha vinto numerosi premi internazionali. Ha studiato a Oxford, Harvard e Washington. È diventata una economista di successo. Nel suo ultimo libro, Dead Aid, critica i meccanismi inefficaci e corrotti degli aiuti economici occidentali agli Stati africani.
Marie-Louise Felicité Bidias giornalista, Benin Cronista coraggiosa, autrice di inchieste scottanti, si è specializzata in temi di economia e politica. Ha fondato la rivista Mayro Magazine, che oggi dirige.
Paulina Chiziane scrittrice, Mozambico
Dambisa Moyo economista, Zambia
Fourera Soumana imprenditrice, Niger
Cinquant’anni, imprenditrice fai da te, Fourera ha avviato con successo svariate attività commerciali. Oggi affitta carretti e asini (attività un tempo riservata agli uomini), impiegando decine di dipendenti.
Maria João Ganga regista, Angola P r i m a r eg i s t a d o n n a dell’Angola, ha studiato cinema a Parigi, dove ha scritto e diretto anche per il teatro. Hollow City è il suo primo film, La città vuota l’ultimo successo.
Oumou Sy stilista, Senegal
Regina senegalese dell’alta moda, celebrata in tutto il mondo, insegna all’Istituto di Belle Arti a Dakar. È madre di cinque figli; nel 1996 ha creato il primo cybercafé del Senegal.
Nora Chipaumire artista, Zimbabwe
Danzatrice originale e affermata, oggi vive e lavora a New York. È anche coreografa e interprete in alcuni film, come Nora di Alla Kogan e David Hinton. Amolo Ng’Weno imprenditrice, Kenya Dopo aver lavorato come economista per la Banca Mondiale, ha fondato il primo provider africano, Africa Online. Oggi gestisce siti internet, social network e imprese hi-tech.
Un nobel per tutte Lo sviluppo dell’Africa è intimamente legato alla promozione della donna. Non si tratta di retorica femminista, ma di fatti. Oltre a ricoprire un ruolo di guida nell’associazionismo - studi delle Nazioni Unite alla mano - le donne sono più affidabili nella gestione del credito e, là dove governano, riescono a garantire nella politica maggiore efficienza e minore corruzione… Ma anche più stabilità e sviluppo, e meno guerre civili. Inoltre la qualità della salute pubblica cresce parallelamente al tasso di occupazione e di scolarizzazione delle donne. È per tutto ciò che il Cipsi (Coordinamento di iniziative popolari di solidarietà internazionale) insieme alla onlus Chiama l’Africa ha lanciato una campagna internazionale per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace alle donne africane: un riconoscimento simbolico collettivo a questa stupefacente risorsa umana. Per leggere l’appello e firmare la petizione: www.noppaw.org. africa · numero 4 · 2010
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attualità
testo di Marco Trovato
foto di Marco Garofalo
Il vino della s
La Tanzania brinda al successo della pr
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a savana
I vigneti crescono rigogliosi nella savana punteggiata da possenti baobab. La scelta dei tempi della vendemmia viene programmata da un ingegnere locale coadiuvato da un agronomo italiano
la produzione enologica
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Nelle assolate campagne attorno alla capitale Dodoma, tra acacie e baobab, si vanno diffondendo i vigneti. Merito di una cantina sociale, ideata da un imprenditore italiano, che produce ed esporta ottimo vino
e giornate a Hombolo iniziano presto. Già prima dell’alba la strada polverosa che esce dal villaggio è percorsa da file di contadini, camioncini carichi di mercanzie, carretti trainati dai buoi e gremiti di braccianti dall’aria assonnata. I traffici con la capitale Dodoma, distante appena 40 chilometri, sono intensi. In pochi anni quello che era un sonnecchioso grumo di baracche si è trasformato in una cittadina dinamica che fatica a contenere i suoi 15mila abitanti. Ovunque stanno spuntando costruzioni coi mattoni rossi e i tetti di lamiera. Nelle case sono comparse le prime televisioni, i frigoriferi, gli impianti di condizionamento dell’aria. A dispetto della recessione mondiale, qui le attività economiche corrono.
L’intuizione dei missionari «Merito del nostro vino», assicura Fiorenzo Chesini, ingegnere veronese, 48 anni, artefice di un’impresa che sta rianimando il cuore della Tanzania. «Solo cinque anni fa questa era una zona povera e depressa: la africa · numero 4 · 2010 13
attualità
Nell’Africa sub sahariana, i vini tanzaniani sono secondi solo a quelli sudafricani per qualità e quantità. Il governo locale ha finanziato la formazione di 100 giovani viticultori e ha concesso a ciascuno un ettaro di terra
popolazione vivacchiava con miseri raccolti di mais, fagioli, patate; molti giovani cercavano fortuna emigrando. La svolta è arrivata con l’avvio della produzione vinicola». Vino nella savana, tra acacie e baobab? Pare impossibile eppure la regione di Dodoma, situata su un altopiano di 1.100 metri, offre condizioni ambientali e topografiche favorevoli alla coltivazione della 14 africa · numero 4 · 2010
vite. Il clima è gradevole e ventilato, con temperature che oscillano tra i 20 e i 35 gradi, la terra è buona, acqua e sole non mancano: ogni anno si possono fare due vendemmie. Il primo a capirlo fu un missionario italiano, padre Cesare Orler, sacerdote trentino dalla lunga barba bianca, che una trentina di anni fa importò alcune piante di vite di Teroldego e Marzemino, allo scopo di produrre vino
per la Chiesa locale. «C’era perfino riuscito, il bravo missionario, a far crescere i vigneti, ma inviato in una nuova missione aveva dovuto lasciare la coltivazione in mani meno esperte», racconta Chesini che nel 2002 giunse a Hombolo, invitato da un’associazione umanitaria, per scavare un pozzo d’acqua potabile. «Quando arrivai mi accorsi della presenza delle vecchie viti. Incuriosito, assaggiai l’uva:
era buonissima. Fu allora che mi venne l’idea di aprire una cantina».
Il business dell’uva Il governo tanzaniano aveva già tentato l’impresa, ma i risultati erano stati deludenti. La Tanganika Vineyards Company non era riuscita a decollare per carenza di tecnologia e di professionalità adeguate. «Fanno il peggior vino del mondo: decisamente imbevibile», fu il ru-
Cetawico è un’impresa che coniuga business e impegno sociale. La nuova cantina è diventata il fulcro vitale della piccola comunità di viticoltori locali, ai quali fornisce formazione e assistenza per il miglioramento delle coltivazioni. Produce vino biologico a circa 700 chilometri a sud dell’equatore. E dà lavoro a centinaia di tanzaniani. www.cetawico.com
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La Cetawico acquista uva da produttori sparsi nel raggio di 100 chilometri. Il succo viene pompato in enormi serbatoi di fermentazione in acciaio a temperatura controllata
Nel Paese dei safari (Serengeti) e dei paradisi tropicali (Zanzibar), i vigneti rappresentano un’industria in forte espansione. Nella zona della capitale Dodoma è sorta una cantina all’avanguardia, con l’importazione del migliore know how italiano: la Cetawico
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vido commento della guida Routard. Per molti osservatori stranieri, i progetti vinicoli della Tanzania erano destinati a fallire. Ma Chesini - cresciuto sulle colline della Valpolicella, tra vigneti e cantine - era convinto della possibilità di migliorare quantità e qualità del prodotto. In breve tempo fece arrivare a Hombolo un team di esperti professionisti: il miglior know how italia-
no in materia di enologia e agronomia. Alle coltivazioni avviate dai missionari affiancò vitigni nobili quali l’Aglianico, lo Shyra, lo Chardonnay e lo Chenin Blanc, originario della Loira. Infine ricavò, da un vecchio deposito di cereali in mezzo alla savana, una moderna cantina dotata delle più sofisticate attrezzature: enormi serbatoi di fermentazione e di stoccaggio in acciaio inox, macchinari
per l’imbottigliamento e l’etichettatura, un laboratorio di ultimissima generazione per l’analisi dell’uva e del vino. Per l’avvio dell’impresa Chesini coinvolse la Fondazione San Zeno di Verona, che finanzia progetti di sviluppo nelle zone disagiate. Nacque così nel 2005 la Cetawico (Central Tanzania Wine Company). La prima vendemmia fornì 500 ettolitri di vino, l’anno
dopo la produzione raddoppiò. Nel 2007 gli ettolitri di vino diventarono 2.200, nel 2009 oltre diecimila: un ritmo di crescita pazzesco. «Quest’anno arriveremo a 18mila ettolitri. La Tanzania diventerà così il secondo produttore di vino del continente, dopo il Sudafrica», puntualizza Chesini che gode del sostegno delle autorità locali (al Capo di Stato Jakaya Kikwete, affezionato cliente della canti-
na, è dedicata la prestigiosa etichetta Presidential).
Un’impresa sociale Gli effetti del business si vedono: i vigneti hanno ripreso a popolare le campagne attorno a Dodoma e molti giovani hanno rinunciato a fuggire in città per dedicarsi alla viticoltura. «Oggi acquistiamo uva da oltre trecento produttori. E il loro numero aumenta parallelamente allo sviluppo
I vini di qualità superiore, dai profumi intensi e persistenti, vengono fatti maturare in tradizionali barrique all’interno di celle frigorifere a temperatura e umidità controllate
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La linea di imbottigliamento è completamente automatica ed è dotata di impianto di microfiltrazione e di etichettatura. La selezione dei vini è stata messa a punto da un enologo italiano
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della nostra cantina», sorride compiaciuta Devotha Kiwori, manager della Cetawico. «Le vendite vanno a gonfie vele: riceviamo ordini anche da Kenya e Uganda, non riusciamo neppure a soddisfare le richieste del mercato. Il segreto del successo? La cura premurosa del prodotto, a cominciare dall’uva». La coltivazione è completamente biologica, bandito l’uso dei fertilizzanti chimici. I viticoltori vengono istruiti con corsi di aggior-
namento tenuti da esperti agronomi. Un mese dopo la vendemmia ricevono generosi compensi: settecento scellini per un chilo di acini rossi, mille scellini per un chilo di bianchi. «Siamo una vera impresa sociale», rivendica con orgoglio Luca Scuffi, 60 anni, fiorentino, un passato da consulente aziendale, trasferitosi nel cuore della Tanzania per sostenere la crescita della Cetawico. «La riconversione dei vigneti ha portato occupazione e benessere diffuso in tutta la zona. A ben guardare, la nostra cantina è più efficace di cento progetti di cooperazione… Gli africani non hanno bisogno di aiuti, di elemosina. Hanno bisogno di investimenti, formazione e progetti imprenditoriali. Esattamente ciò che offre la Cetawico».
Le bottiglie della cantina sono già arrivate in Europa e negli Stati Uniti dove hanno ottenuto i primi importanti riscontri. Ma ora c’è da conquistare il mercato interno: se migliaia di turisti occidentali in vacanza hanno mostrato di apprezzare il prodotto, la gran parte della popolazione tanzaniana preferisce ingollarsi di birra. «È una questione culturale, ci vuole tempo per cambiare le abitudini della gente», spiega Nyemo Malundo, 36 anni, socio della cantina. «Ma siamo ottimisti: il vino è sempre più presente nei supermercati delle grandi città. La nuova classe media sta scoprendo il piacere di festeggiare il successo con un calice di vino». E oggi la gente di Hombolo ha ottimi motivi per brindare. •
attualità
testo di Matteo Fagotto
Mondiali: un calcio alla birra
Vietate le birre sudafricane negli stadi foto Clubsouthafrica.Com
La Fifa ha proibito la vendita delle bevande alcoliche locali durante la Coppa del Mondo e ora il divieto potrebbe estendersi ad altre manifestazioni sportive. Una sciagura per milioni di bevitori incalliti
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Mondiali di calcio in Sudafrica hanno fatto scoppiare la “guerra della birra”. Colpa delle stringenti regole sulle sponsorizzazioni imposte dalla Fifa, che hanno garantito all’americana Budweiser il controllo della distribuzione e vendita di birra all’interno delle strutture sportive. E in Sudafrica, il settimo mercato al mondo per consumo di birra e patria del colosso Sab (South Africa Breweries, distributore dei marchi Peroni e Pilsner), è scoppiata la rivolta. Bere birra al pub durante i maggiori eventi sportivi, che siano una partita di calcio, di rugby o di cricket, è una delle poche at-
tività nel nuovo Sudafrica in cui tutte le comunità (neri, bianchi e coloured) si riconoscono. Un vero e proprio rito che i sudafricani vogliono difendere a tutti i costi. E poco importa che la locale Castle Lager sia la birra maggiormente diffusa tra i bianchi, mentre la Black Label spopoli nelle township e nelle zone a maggioranza nera. O che buona parte della popolazione rurale beva ancora la umqombothi, la birra tradizionale sudafricana distillata dalle popolazioni xhosa molto prima dell’arrivo dei coloni bianchi al Capo, nel diciassettesimo secolo. Quello che accomuna tutti i sudafricani sono i 60 litri di birra per persona
che il Sudafrica consuma ogni anno. Ma dopo i Mondiali c’è chi vorrebbe vietare l’alcol in tutte le manifestazioni sportive. E questo no, i sudafricani non lo possono accettare. Ed ecco nascere gruppi su Facebook che invitano a “contrabbandare” di nascosto la birra locale all’interno degli stadi. Perché assistere a una partita senza una pinta di Castle o Black Label in mano qui è improponibile. Durante la Coppa del Mondo, la vendita della birra sudafricana è stata vietata non solo all’interno degli stadi, ma anche in un raggio di un chilometro dalle strutture sportive e nelle zone di confluenza
Un operaio della South African Breweries, colosso della birra sudafricana che controlla il 90 percento del mercato nazionale
dei tifosi (aeroporti, stazioni, ecc.). Ma ciò non è bastato a tenere a freno l’esercito di estimatori. Le compagnie sudafricane si sono organizzate piazzando strategicamente camion pieni di birra ghiacciata a debita distanza dalle strutture sportive, in modo che i tifosi potessero abbeverarsi nonostante i divieti. Senza contare che, nei pub e nei supermercati, le birre sudafricane non hanno avuto rivali. Risultato: la Sab ha incrementato il proprio giro d’affari del 6 % durante la Coppa del Mondo, pari a 100mila ettolitri (o 20 milioni di birre). Alla faccia dei divieti. • africa · numero 4 · 2010 19
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testo di Andrea Semplici foto di Moreno Torricelli
Orgoglio
Dinka
Sono alti, fieri, valorosi. Vivono in simbiosi con le loro vacche dalle grandi corna. Infaticabili mandriani, armati di kalashnikov, si spostano nelle savane bagnate dal Nilo Bianco
La transumanza dei pastori guerrieri nel 20 africa · numero 4 · 2010
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uesta terra è bella di notte. I fuochi dei bivacchi e la luna che rischiara il paesaggio. Uomini altissimi, sottili come i tronchi di una palma, si muovono nella penombra senza far rumore. Le corna delle vacche sono il ricamo dell’orizzonte. I pastori dinka si stendono su un pagliericcio e dormono cullati dai borbottii delle loro mandrie e dai fumi acri dello sterco che brucia. Gli animali rassicurano il loro riposo. Il kalashnikov, alleato fedele, è a portata di mano. Le razzie, i furti di bestiame, sono storie di ogni giorno.
L’ultima frontiera
Sudan meridionale
I mandriani dinka passeranno tutti i mesi dell’inverno equatoriale, fra novembre e la primavera, in questi campi transumanti. Le vacche non possono stare lontane dall’acqua. Bisogna abbandonare i villaggi, allora, e ritrovarsi fra comunità di pastori che migrano lungo le rotte di una straordinaria transumanza verso i rami superstiti del Nilo Bianco, qui conosciuti come Bahr el-Jebel, il fiume della Montagna, o verso il Bahr el-Ghazal, il fiume delle Gazzelle.
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I Dinka usano cospargersi il corpo di cenere. Gli antropologi sostengono che ciò serve a tenere lontani gli insetti, specie le zanzare malariche; ma per i pastori è semplicemente un segno di bellezza. Gli zebù rappresentano per un Dinka il proprio status sociale. I bambini hanno il compito di mungere gli animali
Sud Sudan, un nuovo Stato?
I Dinka non sono solo una delle etnie più importanti del Sud Sudan: sono anche il serbatoio di voti e di sostegno del Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm), il movimento politico erede di quell’esercito che dal 1983 al 2005 ha combattuto contro il governo centrale di Khartoum. In aprile in Sudan ci sono state le prime elezioni libere da un quarto di secolo. Salva Kiir, leader dello Splm, è stato confermato Presidente del Sud Sudan con oltre il 90% delle preferenze. Omar el-Bashir è stato confermato Presidente del Sudan: l’ex generale, che ha preso il potere con un colpo di stato nel 1989, ha combattuto contro il Sud una guerra civile che ha causato due milioni di morti. Dal 2009 è anche ricercato dalla Corte penale internazionale con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Darfur. L’appuntamento decisivo per il futuro del Sudan è però il referendum sull’autodeterminazione del Sud che si terrà a gennaio 2011, come previsto dal trattato di pace del 2005. Tutto lascia prevedere che i sud-sudanesi sceglieranno in massa di vivere in uno stato indipendente, guidato da Kiir e dallo Splm. (Diego Marani)
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Questo è il Sud Sudan. Terre del Sudd, un’immensa piana alluvionale a geografia variabile e mutante. Nella stagione delle piogge, oltre centomila chilometri quadrati di questa terra finiscono sott’acqua. Bacino di esondazione del Nilo Bianco, il lago Vittoria sfoga qui le sue maree. Per questo i villaggi stanziali dei Dinka,
Dove vivono
I pastori dinka si spostano con le loro mandrie per il Sud Sudan, in un esteso territorio tra il Nilo Bianco e i suoi due affluenti, il Bahr el-Ghazal a occidente e il Sobat a oriente. Gran parte di quest’area s’identifica con il Sudd, un’immensa piana alluvionale di 400mila kmq.
Gli orti delle donne
i wut, sorgono su alture, su isole che si sollevano, anche solo di pochi metri, dal tavolato delle paludi. Per gli arabi del Nord, questa era “la barriera”, luogo impenetrabile, da conquistare con la violenza. Terra monotona: centinaia di migliaia di chilometri quadrati senza un solo rilievo, la vegetazione di erbe è più alta di un
uomo, l’orizzonte è piatto come un biliardo dal panno scrostato.Viene un’immediata voglia di andare a vedere. Di andare a conoscere i pastori guerrieri del Sudan. Lo ha fatto Moreno Torricelli, viaggiatore e fotografo, uomo tranquillo, alto la metà di un Dinka. Ha passato il suo tempo fra le vacche e le zanzare, fra i bovari che
raccolgono sterco di vacca per i fuochi e soffiano nella vagina degli animali per favorirne la fertilità. Le foto che qui vedete sono figlie della generosità dei Dinka: i mandriani, incuriositi da Moreno, hanno mostrato all’ospite straniero e solitario le vacche più belle, gli animali con le corna più colossali e deformi. Intuivano
Nelle savane attorno a Rumbek 300 donne dinka hanno cominciato a coltivare degli orti. È una novità assoluta per questo popolo di cocciuti pastori. Il Cefa, una onlus di Bologna, ha proposto alle donne locali di sfruttare la fertilità della terra per coltivare melanzane, pomodori, spinaci locali, cipolle, angurie. Risultato: i prodotti degli orti vengono venduti nei mercati e finiscono per arricchire una dieta altrimenti fatta solo di porridge. E ora le donne dinka chiedono altri semi. Per saperne di più www.cefaonlus.it.
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Il viaggiatore solitario Le foto di questo servizio sono state scattate da Moreno Torricelli, 58 anni, toscano, camionista di mestiere, viaggiatore per passione. Da oltre vent’anni parte per i suoi vagabondaggi a bordo di una gloriosa Land Rover; ha attraversato il Congo negli anni della guerra civile e ha più volte percorso le piste del Sahara che sembravano sbarrate e lo ha fatto con una determinazione gioiosa. Mosso solo da una passione istintiva, senza alcuna vanagloria, senza la sensazione di compiere un’impresa sovrumana. Senza megasponsor o televisioni al seguito. Senza chiedere nulla se non la ricompensa che la stessa Africa dona a chi sa viaggiarvi senza barare. 24 africa · numero 4 · 2010
che quelle foto potevano essere memoria delle loro bestie. Fierezza, vanità, amore smisurato di questo popolo per le vacche.
Una moglie, trenta vacche I Dinka sono circa un milione e mezzo. E tutti vivono in simbiosi con gli animali che allevano. Gli uomini chiamano i loro figli con il nome
del bue più amato. Si cercano rassomiglianze fra il neonato e le vacche, si comparano occhi, colore della pelle, pezzatura del mantello per trovare il nome giusto. I Dinka avevano bisogno di un mito per spiegare la loro sottomissione totale ai bovini e ora si divertono a raccontarlo: «Una mucca e un bufalo avevano la stessa ma-
dre. Un Dinka sciagurato la uccise. I due figli giurarono vendetta. Il bufalo decise di appostarsi nella foresta e di attendere il passaggio degli uomini per ammazzarli. La mucca fu più raffinata e scelse di andare a vivere con gli uomini». Accadde così che i Dinka dovettero custodirle, vezzeggiarle, amarle, condurle al pasco-
leggere
lo sotto la pioggia e sotto il sole. I Dinka sono poligami fino all’eccesso: possono avere tante mogli quante riescono a pagarne in vacche. Il prezzo varia. Il costo di una moglie, giovane e sana, si aggira sulle 20, 30 vacche. A volte si arriva a 100. E c’è chi ha 6 mogli. Nemmeno Bill Gates potrebbe permettersi una simile fol-
lia. Il Sudd, forse, è l’unico luogo al mondo dove speri che tua moglie metta al mondo una femmina: vale molto. La bambina è il tuo fondo di investimento, la sicurezza del tuo futuro. «Speriamo che sia femmina», scrisse una volta l’antropologa Olga Ammann, raccontando dei desideri di un Dinka. All’alba le donne
si mettono in cammino verso le pozze d’acqua. Si lavano con l’urina delle bestie. La fatica è solo femminile: bisogna cominciare a impastare miglio o arachidi per farne la polenta per il pranzo. Quegli sfaccendati degli uomini, persi nelle loro vacche, trovano anche il tempo di organizzare danze e lotte rituali. •
Nella terra dei Dinka è un libro fresco di stampa a cura di Viola Vallini (Emi 2010, pp. 192, € 14,00). Racconta due importanti progetti umanitari portati avanti dalla Protezione civile italiana in favore dei pastori guerrieri del Sud Sudan. Una testimonianza di solidarietà internazionale che rende omaggio anche alla civiltà di un popolo povero ma fiero. I diritti d’autore derivanti dalla vendita del volume sono devoluti alla onlus Sudin di Udine (in friulano, sudin significa “diamoci da fare, rimbocchiamoci le maniche”). www.sudin.org
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testo di Emanuela Zuccalà foto di Alessia Capasso
La vita in un
BAZAR Reportage dal più grande mercato dell’Africa occidentale
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Nel cuore di Cotonou, capitale economica del Benin, c’è un microcosmo fatto di baracche, rifiuti e bancarelle. È lo snodo commerciale di Dantokpa, un gigantesco labirinto di fango e lamiere che nasconde traffici e violenze di ogni genere
A
Dantokpa puoi nascere, vivere, mettere su famiglia e morire senza mai conoscere altro orizzonte al di fuori dell’infinito groviglio di baracche in legno e lamiera sdraiato sulla laguna di Nokoué, con i colori delle merci in vendita che ti stordiscono rincorrendosi sulle strade nere di fango vecchio e sabbia fra-
dicia. Lo sa bene Hassan, cappellino rosa da baseball, che è venuto qui con la madre da neonato. A 6 anni l’ha persa nel caos di odori e umanità e, adesso che è un ragazzone di vent’anni, racconta con mille parole che lui dorme fra il ponte Martin Luther King e la distesa di rifiuti a riva, guadagnando da vivere per sé, la sua
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In viaggio
Oltre all’incredibile mercato di Dantokpa, un viaggio in Benin racchiude altre sorprese. Come la città di Ouidah, a una quarantina di chilometri da Cotonou, che era uno dei centri nevralgici della tratta degli schiavi ed è stata celebrata da Bruce Chatwin nel suo visionario Il viceré di Ouidah (Adelphi). Non solo: Ouidah è la culla della religione vodù, che tramite gli schiavi è stata trapiantata in Brasile e ai Caraibi. Qui, a gennaio, si tiene una grande festa del vodù accessibile anche ai turisti. Ne parleremo sul prossimo numero di Africa. Air France vola da Parigi a Cotonou a partire da 800 euro. Viaggi Solidali organizza vacanze di turismo responsabile in Benin (www.viaggisolidali.it).
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donna e il figlio di un anno, grazie a piccole tangenti chieste ai negozianti in cambio di un occhio speciale sulla sicurezza delle loro bancarelle. Siamo a Cotonou, la capitale economica del Benin, piccolo Stato lungo e stretto affacciato sul Golfo di Guinea fra Nigeria e Togo, che durante la colonizzazione francese si dava arie da “quartiere latino” dell’Africa occidentale. I suoi abit a nt i, d iscendent i dei gloriosi e sanguinari regni del Dahomey, non si sono mai occupati di agricoltura, preferendo il commercio e imparando a vendere qualsiasi cosa: tessuti, verdure, animali, ferri vecchi, petrolio contrabbandato dalla Nigeria, oggetti tecnologici usati in arrivo dall’Europa.
Che siano all’ingrosso o al dettaglio, nella rumorosa Cotonou gli scambi fanno da motore all’esistenza e quasi rappresentano l’identità di un luogo e di un popolo.
Avvolti dal serpente Dantokpa è il cuore pulsante di Cotonou, città dentro la città. È il più grande mercato dell’Africa occidentale, allestito nel 1963 su un territorio di 13 ettari: oggi sta per superare i 20 ettari addossandosi alle abitazioni del centro. Il suo simbolo è una sirena stretta fra due serpenti: in fon, la lingua locale, il nome del mercato richiama una feroce divinità animista, il serpente Dan, che con la sua prepotenza dominava la laguna inghiottendo
chiunque osasse invadere il suo territorio. Allo stesso modo Dantokpa ti soffoca e ti ammalia con la sua geometria illogica e traboccante di vita. Qui arrivano commercianti non solo dal nord del Benin, con vacche, capre e polli vivi legati ai tetti delle automobili, ma anche dalla Nigeria, dal Niger, dalla Costa d’Avorio, dal Burkina Faso, e in aereo dalla Repubblica Democratica del Congo. Perché a Dantokpa un business si conclude sempre: lo snodo economico del piccolo Benin vanta un giro d’affari giornaliero di oltre un miliardo di franchi Cfa, oltre un milione e mezzo di euro. Ma non è dato sapere quanto sia esteso il popolo di Dantokpa: la Sogema, la società del ministero dell’Interno che rilascia le licenze, riscuote dai piccoli commercianti senza posto fisso 500 franchi Cfa al giorno (80 centesimi di euro), ma non ha statistiche su quanti vengano a lavorare e vivere.
Le regine del mercato Per noi yovo (i bianchi) ci vuole una guida. Non perché il mercato sia pericoloso, non più di qualsiasi luogo affollato di qualsiasi grande città, ma perché è facile perdersi, o finire in zone dove i guardiani non hanno piacere che gli stranieri si avventurino a curiosare. Il nostro uomo si chiama Franck Akueson, è giovane, fa l’operatore di strada con le suore salesiane e conosce questo microcosmo come le sue tasche. Ci dà appuntamento alle 9,
l’ora in cui Dantokpa inizia il suo lento risveglio che culmina nella grande folla di mezzogiorno. Franck ci fa percorrere il lungo fiume partendo dal ponte Martin Luther King fino a un anfratto tra la strada e la spiaggia dove si passa solo in fila indiana, per poi ritrovarsi di nuovo a
ridosso dell’acqua, fra centinaia di donne che raccolgono il pesce dalle barche ormeggiate, abiti sgargianti e bambini legati sulla schiena. «Sono loro l’anima del mercato», spiega Franck. «Dormono dove capita, con i figli più piccoli, mentre i mariti restano nei villaggi lacustri a pescare e ogni
Una veduta del mercato di Dantokpa. In Benin il reddito medio pro capite non raggiunge i 500 euro annui, e il 47% degli 8 milioni di abitanti vive con meno di 90 centesimi al giorno
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mattina arrivano in barca con il pesce». C’è Touli, signora elegante e composta sulla sua seggiola marcia in bilico sulla sabbia, un vassoio di latta zeppo di carpe ancora vive: ci dice che lei, la figlia di 9 anni e la sorella dormono nella parte coperta del mercato, da tanti anni che nemmeno li ricorda. Come Aisha, che dal Gabon è venuta con i 4 figli a smerciare limoni disposti in piccole e perfette piramidi. «Tempo fa c’era più violenza, più furti, dormivi con un oc30 africa · numero 4 · 2010
chio aperto», racconta Touli. «Adesso i guardiani si fanno pagare di più e ci proteggono meglio». I guardiani in genere sono ex ragazzi di strada cresciuti nel ventre del serpente Dan: ai piccoli commercianti chiedono 2000 franchi Cfa al mese (circa 3 euro), ai più grossi anche 10mila (15 euro), mentre a donne e bambini che non hanno uno spazio fisso dove vendere, tengono un posto per dormire lontano dall’umidità del fiume, fra i sacchi di riso e farina ammassati dentro al grand
La fotografa Alessia Capasso, autrice di questi scatti, ha realizzato il fotoreportage Vidomegon. Vivere l’infanzia nel mercato di Dantokpa. Da vedere: www.alessiacapasso. wordpress.com.
bâtiment, in cambio di 50 franchi (7 centesimi di euro).
«Ah, i cinesi!» Paradossalmente per le donne beninesi, questa vita accanto all’acqua sporca, con notti infestate di zanzare seguite da giornate di lunghe camminate con la merce ben ferma sulla testa, è stata veicolo di emancipazione: sono loro il motore economico di Dantokpa, di Cotonou, del Benin. La necessità le ha spinte verso l’indipendenza e un ruolo
sociale ben riconosciuto. Oltre che accanto alle barche, le vedi lungo le strade del mercato con pezzi di juta dove dispongono, con un piacere quasi artistico, la loro merce monotematica: limoni, peperoncini, cipolle, ignami. E tessuti: belli, dai colori sgargianti. Nei negozi più puliti, accanto a quelli di cellulari e televisori, un metro di tessuto wax costa 20 euro, ma ormai proliferano le imitazioni cinesi da 9 euro. «Ah, i cinesi!», sbuffa Madeleine, donnone sessantenne che da sempre smercia stoffe di qualità a Dantokpa. «Hanno aiutato il governo a ricostruire la parte del mercato distrutta dall’incendio del 2002, e ora si credono i padroni. Ma io la loro roba non ce la voglio nel mio negozio». I nuovi magazzini negli edifici beige costruiti con finanziamenti cinesi sono ancora chiusi e vuoti: perfetti come dormitori per intere famiglie. Stanno vicino al parcheggio Mawulé, dove arrivano e partono centinaia di camion ogni giorno, alcuni anche con un carico umano di clandestini, soprattutto bambini, da
sfruttare come lavoratori a buon mercato oltre confine.
Frotte di baby-schiavi Secondo l’Unicef, ogni anno almeno 40mila giovani sono trasportati illegalmente lungo frontiere di burro verso la Nigeria e il Gabon. L’86% sono bambine e ragazze. Facile reclutarle nei villaggi lacustri e nella frenesia di Dantokpa. Célestine, Catherine, Louise ed Émilienne hanno dai 15 ai 22 anni, e la schiavitù oltre frontiera l’hanno già provata. Poi sono tornate al villaggio ma solo per accorgersi che, per mangiare, dovevano rimettersi in cammino. Oggi vendono benzina a Dantokpa, hanno i volti pieni di cicatrici, dormono in uno stanzone allestito per loro dalle suore salesiane appena oltre l’incerto perimetro del mercato. Sarebbero 5mila, secondo le stime degli operatori sociali, le ragazze di Dantokpa, e 3mila i ragazzini lavoratori. «Non raccontano le violenze subite, per loro sono normali», spiega Elena Melani, giovane toscana che affianca le suore salesiane nel sostegno alle ragazze. «Arrivano con ustioni da ferro da stiro sulle gambe, peperoncini dentro la vagina, mani legate con i fili della corrente. E sono piene di rabbia: nella loro scala di valori, al primo posto c’è la salute, al secondo l’argent, i soldi. Riescono a pensare solo all’oggi, il futuro non esiste». Alcune siedono con le loro bottiglie di benzina sul ponte nuovo che sovrasta il viale Saint-Michel, l’unico
Le bambine del mercato Il mercato di Dantokpa pullula di bambine. Vengono chiamate Vidomegon, “ospiti di qualcuno” in lingua locale, poiché provengono dalle campagne e sono state affidate dalle famiglie a qualche parente che vive in città, allo scopo di garantirne una migliore educazione e formazione. In verità molte Vidomegon sono sfruttate come manodopera gratuita dalle loro tutrici, e spesso finiscono per strada una volta raggiunta l’età adolescenziale. Le ragazze sopravvivono con lavori di sussistenza. Oppure sono costrette a mendicare, rubare e prostituirsi. In loro soccorso opera l’associazione Ricerca e Cooperazione, che promuove corsi di formazione professionale e offre prestiti finalizzati all’avvio di piccole attività economiche. Per maggiori informazioni: www.ongrc.org Tel. 06 7070 1825. punto in cui puoi vedere, o meglio immaginare, il reame del serpente in tutta la sua estensione. Come un informe animale preistorico indifferente al rumore della città intorno. • africa · numero 4 · 2010
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testo di Luca Spampinato
foto di Andrea Frazzetta
Ritorno al c 32 africa · numero 4 · 2010
Ogni mese in Africa un cinema è costretto a chiudere per mancanza di soldi. Ma ora un regista del Mali ha deciso di restaurare una delle sale più antiche e nobili del continente. È solo l’inizio di un progetto ambizioso
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Riapre a Bamako lo storico Soudan Ciné
«S Il regista mauritano Abderrahmane Sissako, artefice dell’iniziativa Des cinémas pour l’Afrique. Tra i suoi film segnaliamo: Huit (2008), Aspettando la felicità (2002) e La vie sur terre (1998). Il servizio fotografico di queste pagine è stato realizzato in occasione dell’ultima edizione del Festival panafricano del cinema di Ouagadougou (Fespaco) 34 africa · numero 4 · 2010
olo un anno fa poteva sembrare un’utopia, un progetto stravagante e inconcludente. Oggi è un sogno che si sta realizzando». Abderrahmane Sissako, celebre cineasta maliano di origini mauritane, non nasconde l’entusiasmo. «In pochi mesi abbiamo raccolto migliaia di sottoscrizioni: club di cinefili, fondazioni, istituti culturali, e moltissime persone comuni», racconta. «Oggi siamo vicini al traguardo ambizioso che ci eravamo prefissati: riaprire
il Soudan Ciné di Bamako, uno tra i più antichi e rinomati cinema dell’Africa occidentale». In genere i registi si preoccupano di raccogliere soldi e sponsorizzazioni per realizzare i propri film, non per sistemare vecchie sale cinematografiche. Ma per Sissako, 49 anni, il cinema è anzitutto passione e impegno civile. Un anno fa, in occasione del Festival di Cannes, affiancato dall’attrice francese Juliette Binoche ha lanciato la sua campagna per salvare i cinema dell’Africa, soffocati dall’emorragia di risorse economiche. «Ogni mese a sud del Sahara chiude una sala e in tutto il continente ne restano funzionanti solo una cinquantina», ha ricordato Sissako, lanciando una sottoscrizione per la sua neonata associazione Des cinémas pour l’Afrique (Cinema per l’Africa), che punta a finanziare la riapertura di decine di sale. «Il progetto è nato da un senso di frustrazione personale», ha chiarito il cineasta. «Quando si è registi e non si ha la possibilità di mostrare il proprio film nel proprio Paese, si ha come la sensazione che non sia finito. I film si girano perché siano visti, e l’unico luogo in cui vederli è una sala di cinema. L’obiettivo di Des cinémas pour l’Afrique non è costruire nuove sale, ma
Forget Africa L’ultima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina ha portato a Milano il progetto cinematografico Forget Africa, nato da un’idea di Gertjan Zuilhof, del Rotterdam Film Festival. È stato chiesto a 13 documentaristi, in gran parte asiatici, di girare dei documentari su un Paese africano a loro scelta, lavorando in collaborazione con registi o artisti locali. La volontà era quella di uscire dallo stereotipo, dall’immaginario falsato dai media di un’Africa molto più spesso dipinta come inevitabilmente dolente, affamata e bisognosa. Lo spaccato emerso è sicuramente quello di un ambiente, per motivi politici o economici, faticoso, ma che non uccide, specialmente nei giovani, il desiderio di fare cultura, di raccontarsi, alla luce delle continue suggestioni, degli stimoli da dentro e fuori il continente, in un dibattito continuo tra vecchio e nuovo, tra cultura dei padri e nuovi modelli. www.festivalcinemaafricano.org (Cinzia Quadrati)
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società Oggi è più facile vedere un film africano in Europa che in Africa. Le sale a sud del Sahara sono state distrutte o chiuse per mancanza di soldi. Ne restano funzionanti solo una cinquantina
Cinema online Cinemafrica è il primo italiano dedicato al cinema dell’Africa e delle sue diaspore. Digitando www.cinemafrica.org è possibile leggere presentazioni, recensioni, interviste, saggi storici, focus su autori e film in sala, distribuiti nel circuito homevideo, o di prossima uscita. Una miniera di informazioni che farà gola agli appassionati del genere: cliccare per credere. 36 africa · numero 4 · 2010
Nicolas Michel
Aiutare il cinema Per sostenere il restauro dello storico Soudan Ciné di Bamako, l’associazione “Des cinémas pour l’Afrique”, fondata dal regista Sissako, ha lanciato una campagna di sottoscrizione. Per versare il proprio contributo, avere altre informazioni sul progetto e seguirne l’avanzamento, cliccare sul sito: www. descinemaspourlafrique.com
salvare quelle che esistono. Ve ne sono alcune dotate anche di una bellezza architetturale importante. Ma sono desolatamente vuote e inattive». Da una ventina d’anni le sale chiudono, trasformate in supermercati o luoghi di culto. Per cominciare a
invertire la tendenza, Sissako ha proposto di recuperare uno tra i più antichi e rinomati cinema dell’Africa occidentale. «Io stesso ho passato l’infanzia nel Soudan Ciné di Bamako guardando “spaghetti western”, un cinema che mi faceva so-
gnare», ha spiegato il regista. «Il nuovo Soudan Ciné proietterà film di ogni genere, africani e non». Il progetto prevede la ricostruzione di una sala da 420 posti, equipaggiata con le attrezzature più avanzate e uno spazio ristoro. «Il nostro obiettivo primario è attrarre i giovani, gli studenti, molti dei quali non hanno mai messo piede in una sala cinematografica». Il costo: due milioni di euro, ovvero cinquemila euro a poltrona. «Grazie al contributo di moltissimi appassionati abbiamo già avviato i lavori e confidiamo di inaugurare il nuovo cinema entro la fine dell’anno». Sarà la prima ci auguriamo anche noi - di una lunga serie di sale storiche che Sissako promette di riaprire. • africa · numero 4 · 2010 37
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Paradiso testo e foto di Marco Trovato
In viaggio nell’arcipelago incantato d
Un piccolo atollo affiora nelle acque isolate della Guinea Bissau. Le Bijagós sono un paradiso naturalistico protetto dall’Unesco. Ma gli occhi di molti impresari turistici sono puntati su queste isole da favola
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o Bijagós
o della Guinea-Bissau
L’
inferno è scoppiato in tarda mattinata. All’improvviso il vento ha cominciato a soffiare furioso, le onde a schiumare di rabbia. La tempesta ha investito due piroghe che si erano allontanate dalla riva e per le 8 persone a bordo non c’è stato nulla da fare: in pochi minuti sono state travolte dai flutti e inghiottite dall’abisso. La notizia dell’ultima tragedia del mare arriva via radio mentre navighiamo in acque sempre più agitate, ma gli uomini dell’equipaggio non paiono affatto turbati. «Cose che capitano», scrollano le spalle. «Ogni tanto l’oceano si scatena e richiede un sacrificio, normale che qualcuno ci lasci la pelle». Al largo della Guinea-Bissau, piccolo e povero Paese dell’Africa occidentale, i naufragi servono a calmare la collera degli spiriti. Così pensano i marinai bijagós, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’Atlantico. Un tempo erano pirati, oggi vivono in pace nell’omonimo arcipelago che si estende a circa venticinque miglia dal continente: una sessantina di isole (di cui solo 19 abitate) ricoperte da foreste lussureggianti, a prima vista impenetrabili, e incorniciate da lagune d’acqua salata e strisce di sabbia immacolata. Una costellazione di oasi marine popolate di tartarughe, ippopotami, scimmie e centinaia di specie di uccelli migratori. Un paradiso naturalistico protetto, a parole, dall’Unesco e nel concreto - da maree repentine e insidiosi banchi di sabbia. africa · numero 4 · 2010
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copertina Al largo dell’Africa occidentale galleggiano una sessantina di isole da favola che paiono sfuggire ai problemi del continente. Qui la vita scorre lenta su ritmi immutati da secoli. E la gente conserva usi e costumi protetti dalle acque dall’oceano «Le forti correnti e i bassi fondali sono trappole micidiali anche per i navigatori più esperti», spiega Pedro Montedo, giovane capitano bijagó, due occhi sfavillanti che paiono perle di mare. «Ma l’insidia peggiore è rap-
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presentata dalle condizioni del tempo che qui possono cambiare in un attimo… Basta davvero poco per incagliare o squarciare uno scafo», aggiunge senza mai staccare le mani dal timone e lo sguardo dall’orizzonte.
Il furore del vento sballotta il nostro piccolo fuoribordo come un fuscello, le onde schiaffeggiano senza tregua i vetri della cabina di comando. Decidiamo di cercare riparo nella spiaggia più vicina.
Sull’isola dei galli Dall’acqua, per nostra fortuna, affiora una duna di sabbia bianca, non più grande di un campo da calcio, circondata da mangrovie e punteggiata da palme da cocco. Si chiama Ilha do Galo e nessuno sa spiegarne il motivo. Sull’isola non troviamo galli, ma una coppia di francesi - due discendenti dei Galli - che ci offre ospitalità. «Benvenuti nel nostro paradiso», dicono con malcelato orgoglio. «Qui siamo riusciti a realizzare il sogno della nostra vita: avere un atollo tropicale tutto per noi». I due cinquantenni devono avere amicizie influenti nel governo locale e una montagna di soldi a disposizione. Ottenuto il contratto di proprietà dell’isolotto, si sono fatti spedire dall’Europa cinque container di materiali edili, scorte alimentari, costosi elettrodomestici e altre diavolerie tecnologiche. Con l’aiuto di un manipolo di manovali stanno costruendo una villa da favola, con piscina e veranda panoramica, accanto ad un prefabbricato che ospiterà una piccola fabbrica. «Presto produrremo ghiaccio», spiegano. «Lo venderemo ai pescatori locali per facilitarli nei loro commerci». Imprenditori geniali o visionari? Pedro sorride e scuote la testa. «Noi Bijagós peschiamo solo per sfamarci, prendiamo dal mare quanto basta per sopravvivere», dice. «Se vendessimo il pesce nel continente finiremmo per impoverire il nostro tesoro».
I Bijagós hanno a disposizione un mare tra i più generosi del pianeta. Eppure nessuno sulle isole pesca per fini commerciali. In alto a sinistra, bimbi a scuola sull’isola Canhabaque Sotto, un murale nella sede di Radio Bijagós
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copertina PRIMA DI PARTIRE È necessario il visto, che costa 50 euro e va richiesto al consolato (tel. 06 863 22 833). Obbligatoria la vaccinazione contro la febbre gialla, consigliata quelle contro l’epatite e il tifo, oltre alla profilassi antimalarica. il volo . La compagnia portoghese Tap vola a Bissau da Lisbona 3 volte alla settimana con tariffe a partire da 800 euro circa. Air Sénégal vola da Parigi a Bissau via Dakar con tariffe a partire da 780 euro. quando . Il periodo migliore va da novembre a marzo, durante la stagione secca. I mesi più caldi sono aprile e maggio (32°-33°); da evitare la stagione delle piogge, da giugno a ottobre. muoversi. Piroghe e motoscafi raggiungono ogni giorno - compatibilmente con le condizioni del mare l’isola di Bubaque da Bissau. Per un viaggio più sicuro bisogna attendere il venerdì, quando parte il traghetto diretto all’arcipelago e che ritorna in capitale la domenica. viaggi organizzati . Per un’avventura full immersion alle Bijagós segnaliamo la crociera a bordo dell’African Queen (www.africa-queen.com). Circa mille euro a settimana. Informazioni e prenotazioni tramite il tour operator African Explorer (Viale Cassiodoro, 12 a Milano). Tel. 02 433 19 474; www.africanexplorer.com; info@africanexplorer.com leggere . Di Chiara Pussetti, Poetica delle emozioni. I Bijagó della Guinea Bissau, Laterza 2005, € 22,00. Da consultare le edizioni italiane della guide sull’Africa occidentale Lonely Planet (Edt Torino 2007) e Rough Guide (Vallardi 2005).
Crocevia della coca Le piroghe che fanno la spola tra Bissau e le isole trasportano gente, sacchi di riso, taniche di benzina, casse di birra. Al massimo, qualche quintale di cocaina. La Guinea-Bissau - uno staterello più piccolo della Svizzera, con appena un milione e mezzo di abitanti - è diventata il nuovo crocevia mondiale dei narcotrafficanti sudamericani che qui fanno transitare indisturbati i loro carichi milionari destinati al florido 42 africa · numero 4 · 2010
Un tempo i Bijagós erano pirati dediti al saccheggio. Oggi vivono in pace. Ma nessuno è riuscito a soffocare la loro indipendenza. Sotto, una donna pesca granchi e gamberetti. Nella pagina accanto, un gruppo di persone in attesa del traghetto settimanale per il continente
mercato europeo. «Sfruttano le debolezze di una nazione allo sbando e senza controlli», spiegano gli esperti dell’Ufficio contro la droga e il crimine delle Nazioni Unite. «Un Paese stremato da una lunga serie di guerre e colpi di Stato. Ridotto in ginocchio da politici incapaci e militari arroganti, impegnati a massacrarsi in una spietata lotta di potere». Pecunia non olet, dicevano i latini: il denaro non puzza. Figuriamoci la cocaina.
Secondo gli investigatori antidroga, ogni settimana passano da Bissau cinque tonnellate di polvere bianca. Un giro d’affari che supera i 200 milioni di dollari l’anno (più dell’intero Pil nazionale) alimentando mafie internazionali, cellule terroristiche, gruppi paramilitari. Le conseguenze? «Devastanti», assicura Arnaldo Sucuma, docente all’Università Lusofona della Guinea-Bissau. «La povertà dilaga, corruzione e insicurezza crescono parallelamente ai traffici illegali. E poi c’è la piaga della nuova criminalità». Un’intera generazione si sta smarrendo tra i fumi tossici del quisa, specie di crack locale, una micidiale mistura di farina di grano e coca di pessima qualità. «I nostri figli non credono più nel futuro», sintetizza il professor Sucuma. «Senza giustizia sociale, senza opportunità di lavoro, senza prospettive di cambiamento per i giovani, il Paese rischia davvero di sprofondare nel baratro».
Il tempo delle donne L’eco dei problemi guineani rimbalza in mezzo all’oceano sulle onde di Radio Bijagós, ma alla gente delle isole la crisi politiafrica · numero 4 · 2010 43
copertina A sinistra, i pescatori sfruttano l’alternanza delle maree e delle correnti per riempire le loro reti di pesci. A destra, un giovane dell’isola di Canhabaque conduce la sua piroga in un canale fiancheggiato dalle mangrovie. Sotto, i Bijagós sono abili intagliatori di legno
ca ed economica pare una tempesta lontana. «Ogni anno la distanza tra noi e la terraferma sembra allargarsi», riflette uno speaker dell’emittente che trasmette nell’arcipelago. «Come se inseguissimo l’illusione di sradicarci dal continente per abbandonare Bissau al suo cupo destino». Fin dall’antichità le Bijagós hanno rappresentato un mondo a parte, isolato e indipendente. La popolazione locale, fiera e combattiva, ha respinto per lungo tempo l’aggressione straniera e limitato gli effetti nefasti dell’occupazione coloniale; oggi mantiene un ampio grado di autonomia dal governo centrale e conserva gelosamente usi e costumi della sua antica civiltà. A ben guardare l’arcipelago è un microcosmo sospeso nell’acqua e nel tempo. I circa 30mila abitanti usano fango e paglia per costruire le loro capanne, tronchi d’albero per fabbricare le canoe, cortecce e radici per curare le malattie, foglie e liane per confezionare abiti e stuoie. Le giornate nei 44 africa · numero 4 · 2010
villaggi sono scandite dalle donne, spine dorsali di queste comunità matriarcali, con le incessanti processioni che trasportano secchi d’acqua e fascine di legna, e il rumore ritmato dei mortai di legno usati per macinare le bacche delle palme.
Dolce far niente
Solo un quarto delle isole è abitato. La popolazione locale proibisce o limita la presenza umana in molti luoghi considerati sacri
Il pomeriggio, quando il sole picchia senza tregua, la gente riposa placidamente all’ombra degli alberi. La vita scorre lenta su ritmi che paiono immutati da secoli. «La frenesia qui non esiste», assicura Luigi Scantamburlo, missionario-antropologo sbarcato 35 anni fa nell’arcipelago (vedi servizio a pagina 68-71). Portamento flemmatico, cappello da pescatore calato sulla testa, mocassini consumati ai piedi, padre Luís ama confondersi con la gente del posto, per la quale non nasconde sincera ammirazione. «I Bijagós sono un popolo spensierato che ama godersi la vita», racconta. «Non hanno alcun interesse ad arricchirsi né amano circondarsi del superfluo. Vivono alla giornata. Hanno un forte senso comunitario, dividono tutto con gli altri. E lavorano solo lo stretto necessario, in armonia con l’ambiente generoso che li circonda». Le acque dell’oceano, torbide e ricche di plancton, gonfiano le loro reti di pesci spada, carpe, razze, squali e muggini. A riva le donne raccolgono molluschi, ostriche e granchi. La natura è generosa in ogni stagione, nessuno soffre la fame in questo spicchio d’Africa. I frutti tropicali crescono
GuineaBissau È un piccolo Paese dell’Africa occidentale. Ex colonia portoghese, indipendente dal 1974, è abitata da circa un milione e mezzo di abitanti di varie etnie. La lingua ufficiale è il portoghese, ma si parla il creolo e, sulle isole, un idioma locale, il bijagós. È il sesto Paese più povero al mondo; l’88% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. L’aspettativa di vita è pari a 46 anni, il tasso di mortalità infantile è dell’11%, un altro 10% non raggiunge i 5 anni di vita. Le poche risorse economiche sono legate alla pesca e all’agricoltura (in particolare riso e anacardi). rigogliosi, le palme agitate dal vento forniscono olio e vino, i terreni fertili e umidi permettono di coltivare riso e ortaggi. La caccia (scimmie, anatre, roditori selvatici) e l’allevamento (vacche, capre, maiali e pollame) integrano la dieta locale. «Ma l’attività preferita dai Bijagós è sicuramente l’ozio», dice sprezzante Giorgio Scrivanti, ex vigile urbano di Milano, 62 anni, che sulle isole ha trovato il buen retiro per godersi africa · numero 4 · 2010 45
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Un Paese in bilico Dopo mesi di disordini e violenze dovute alla morte del Presidente João Bernardo “Nino” Vieira e del generale Tagme na Waie, capo di stato maggiore delle Forze armate - uccisi entrambi da ignoti nel giro di poche ore il 2 marzo 2009 - la Guinea-Bissau sta vivendo una stagione difficile sotto la guida del Presidente Malam Bacai Sanha. Lo scorso 1° aprile un nuovo conflitto interno alimentato probabilmente da militari in combutta coi trafficanti di cocaina - ha sconvolto la fragile stabilità politica. A farne le spese è stato il primo ministro, Gomes Junior, prelevato a forza da un manipolo di soldati golpisti che lo hanno arrestato: l’ennesima pagina oscura nella storia di questo piccolo Paese africano senza pace.
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la pensione. «La gente qui passa le ore a chiacchierare, a parlare di niente, intontita dal vino di palma e dalla micidiale grappa di anacardio». Lui invece è un uomo di poche parole e di pochi sorrisi, gli isolani lo hanno soprannominato “Il Vescovo”. «Ma non ho mai messo un piede in chiesa», precisa. «Nemmeno il giorno in cui mi sono sposato qui con una donna bijagó». Non ha tempo per raccontare la sua storia, deve filare giù al porto per fumarsi la pipa in soli-
tudine, «prima che arrivi la ressa».
Rifiutano di modernizzarsi A Bubaque, centro amministrativo dell’arcipelago, ogni settimana approda un traghetto che scarica qualche turista e schiere di giovani della capitale in cerca di fughe balneari. Il venerdì sera l’intera popolazione dell’isola si raduna al porticciolo per non perdersi lo spettacolo dello sbarco, l’unico evento che rompe la monotonia di giornate
sempre uguali. Ai pallidi visitatori occidentali - per lo più giovani con lo zaino e appassionati di pesca - gli albergatori offrono docce calde e vino portoghese ghiacciato. Alla sera i generatori a gasolio mettono in funzione una scalcinata discoteca afropop. In alternativa c’è una stamberga che trasmette qualche partita di calcio e un cinema tirato su con quattro lamiere, che proietta filmacci nigeriani. «Servirebbe ben altro per far decolla-
Bruno Zanzottera
Sulle isole Bijagós resiste una tradizione matriarcale in cui le donne ricoprono un ruolo sociale prestigioso. Sotto, durante le cerimonie religiose i Bijagós indossano i tradizionali costumi fatti di piume e sonagli
re l’industria del turismo», si lamenta l’impresario di un tour operator francese. «Le Bijagós sono l’ultimo vero paradiso dell’Africa, meriterebbero di essere valorizzate, e invece…». E invece i collegamenti tra le isole sono difficoltosi, la rete elettrica non esiste, le comunicazioni telefoniche funzionano a singhiozzo, i villaggi sono infestati da zanzare, parassiti e pericolosi serpenti. Tutto come secoli fa. «Il problema è che i Bijagós sono ancorati al passato, prigionieri di assurde superstizioni», sostiene l’agente turistico. «Rifiutano di modernizzarsi per paura di irritare gli spiriti degli antenati che governano il loro mondo animista. Ogni sforzo di cambiamento dall’ester-
no è destinato a fallire». Le organizzazioni filantropiche occidentali che si sono avventurate nell’arcipelago per “promuovere lo sviluppo” hanno collezionato una serie impressionante di insuccessi. Dei loro pretenziosi progetti resta qualche cartello autocelebrativo accanto a edifici malridotti che avrebbero dovuto ospitare dispensari, scuole, cooperative di pesca, centri sociali, magazzini comunitari. «È tutta colpa vostra», sorride un pescatore di Soga, increspando il suo ventaglio di rughe. «Voi bianchi sbarcate qui pieni di soldi e di idee strampalate. Volete insegnarci come dobbiamo vivere, in cosa dobbiamo credere… Ma le vostre parole sono destinate a scivolare via con la marea». Il vecchio sale sulla sua piroga e prende il largo. In una manciata di minuti è già all’orizzonte, un puntino nero in mezzo all’oceano. A sospingerlo sono forze invisibili e prodigiose. Come i venti, le correnti e gli spiriti che da sempre avvolgono e proteggono il paradiso Bijagós. • africa · numero 4 · 2010 47
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testo di Paola Marelli foto di Daniele Tamagni
Afro Beauty In scena a Londra le nuove tendenze del fascino “black” che va di moda
La fiera della bellezza afrocaraibica raduna ogni anno i migliori estetisti e coiffeur del panorama internazionale. Che si sfidano con trucchi e acconciature all’ultimo grido
Vedere Si intitola Good Hair. È un divertente documentario statunitense, diretto dall’esordiente Jeff Stillson, che indaga con ironia e curiosità sui gusti in fatto di acconciature in voga tra le donne afroamericane. www.goodhairdvd.com
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Eleganza congolese In Congo la Società delle Persone Eleganti conosciuta con la sigla di “Sape” - è uno dei club più esclusivi e stravaganti (leggi servizio su Africa 3/2009). I suoi membri, i sapeurs, spendono cifre folli pur di vestirsi alla moda. Il fotografo milanese Daniele Tamagni ha realizzato un reportage sul fenomeno dei sapeurs. Le sue foto dei dandy congolesi hanno riscosso successo nelle più prestigiose gallerie d’Europa, vinto prestigiosi premi internazionali (tra cui il Canon Giovani e l’ICP Award di New York), ispirato l’ultima collezione dello stilista Paul Smith. Guardare, per credere, il volume illustrato Gentlemen of Bacongo, edito nel 2009 da Trolley Books (25 euro, pp. 230). www.photodantam.com
I
saloni di bellezza afrocaraibici sono un punto di osservazione privilegiato per scorgere i germogli delle mode legate al look. Trucchi e acconciature cambiano ad ogni stagione. E le nuove tendenze dello stile nascono in questo periodo a Londra. Qui si svolge l’Afro Hair Beauty Show, la più importante fiera internazionale dedicata alla bellezza afrocaraibica. Un
evento lungo due giorni che richiama i migliori “fashion designer” e “hair stylist” del momento, e centinaia di professionisti del mondo dell’estetica e della cosmesi. Tra gli stand affollati si susseguono dimostrazioni di prodotti per la cura del corpo, ma anche passerelle di moda, concorsi di bellezza, workshop e seminari sull’arte del make-up. Tutto rigorosamente black. •
COSMESI AFRICANA L’industria cosmetica punta sull’Africa. Il katafray, un legno che si trova nelle foreste del Madagascar, usato dalla popolazione locale per combattere reumatismi e infiammazioni cutanee, è diventato un ingrediente prezioso per le creme che difendono la pelle. Sempre in Madagascar, Chanel coltiva la vanilla planifolia, i cui frutti regalano alla cute luminosità e idratazione. E come non citare l’olio di Argan del Marocco o il burro di karité, impiegato da millenni nella farmacopea dei popoli del Sahel? Il primo, ricco di vitamina E, viene commercializzato come antirughe grazie alla sua azione antiossidante. Il karité, invece, si trova ormai in molteplici confezioni che promettono di proteggere la pelle dall’aggressività del sole e dall’invecchiamento precoce. Ma l’ultimo ritrovato è la kigelia africana: un albero della savana usato dagli sciamani per curare i dolori articolari e i morsi di serpente. La Collistar ha scoperto che i suoi frutti sono ricchissimi di bioflavonoidi, ideali per la tonicità e l’elasticità della pelle, affidandogli l’azione rassodante intensiva della Crema Seno Push-up. africa · numero 4 · 2010
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testo di Luca Bolognesi
Bed & Breakfast Accoglienza gratuita a sud del Sahara?
Basta un click! Il social network Couchsurfing mette in rete oltre un milione di giovani che cercano e offrono ospitalità. Un modo nuovo per viaggiare spendendo poco. E scoprire il mondo senza sentirsi turisti.
«I
l progetto Couchsurfing ha reso il mondo un grande villaggio. Una volta che sei parte della “famiglia” puoi andare ovunque e sentirti sempre a casa, come se fossi da amici». Le parole di Michael Adesanwo, nigeriano di Lagos, sono un perfetto spot per la community 50
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di Couchsurfing, un social network che permette di trovare alloggio ovunque nel mondo gratuitamente, facendosi ospitare dagli utenti di www.couchsurfing.org che mettono a disposizione dei viaggiatori le proprie abitazioni.
Turisti o viaggiatori? Il progetto che punta primariamente a fare del mondo un villaggio globale (il motto è “creare un mondo migliore, un divano per volta”) è nato nel 2003 e ha da poco raggiunto 1 milione di utenti iscritti, in gran parte giovani viaggiatori tra i 18 e i 30 anni. E i “padroni di casa” africani sono moltis-
simi. Da Casablanca a Johannesburg, da Nairobi ad Antananarivo, da Lusaka a Brazzaville. Ci sono iscritti quasi dappertutto nel continente, facilmente contattabili online per richiedere ospitalità. «Viaggiando in questo modo», commenta Emmanuel Lanso, nigeriano di Abuja, «si riesce a scoprire la differenza tra essere semplici turisti o viaggiatori a tutto tondo. Mangiare, dormire, o semplicemente condividere del tempo con chi è originario del luogo che si sta visitando, amplia decisamente gli orizzonti e permette di avvicinarsi a culture diverse dalla propria molto più dei safari».
È molto interessante notare il fatto che, nonostante nessuno guadagni nulla, tutti coloro che hanno già dato ospitalità sono rimasti soddisfatti dell’esperienza e sono ansiosi di rifarla. «Ormai ho perso il conto di quanti surfer ho ospitato», ironizza Sibiri Koumbem, abitante di Ouagadougou, Burkina Faso, «ma credo attorno ai 150. Da tutti loro ho imparato tanto riguardo luoghi dove probabilmente non potrò andare». Sibiri racconta però di differenze sostanziali tra l’ospitalità africana e quella nel resto del mondo: «In Africa è molto più semplice trovare qualcuno che ti ospiti.
g.org igare n i f r u s h c u co a “nav nte signific
il preg letteralme glia andare o v i Couchsurfin s e u q n è u , perché ov i ospita non ià h c G . te i” n n e a m iv d te tra i ispore. Eviden di mette a d persi adatta in a u s q è e , to io s o b p sup oluzione aro in cam Spesso la s chiede den i. n it o p n s l, o li te g o h rmiere un per accogli nto dove do e ò u im p v e a h p c e c iò sta n sempli sizione c mmunity ba ani letto o u o iv c d a , ll e e in d d e n rt sono bra entare pa .org. elo. Per div ouchsurfing p .c a w o c w c w a s o it re in nte, sul s spitagratuitame ati a dare o n io z n te in registrarsi, si è ecificare se na propria Bisogna sp ) e fornire u o ri to a g li b b lità (non è o personale. descrizione
Noi amiamo gli stranieri e ci piace condividere le nostre esperienze e la nostra cultura. Altrove invece tante persone si iscrivono per poi magari non rispondere nemmeno ai messaggi, forse per mancanza di tempo».
Vacanze sicure Le relazioni d’amicizia che si creano condividendo lo stesso tetto, anche solo per qualche giorno, possono diventare importanti e spingere a ritrovarsi, magari a case invertite, ricambiando l’ospitalità. Emmauel Iwong, per esempio, sta organizzando il suo secondo viaggio in Europa: «A breve partirò per la Spagna dove
reincontrerò Sofia, ragazza che ospitai due anni fa e con la quale sono rimasto in contatto. Venne in Nigeria con due suoi amici in camper direttamente dalla Spagna, percorrendo migliaia di chilometri e attraversando svariati confini: questa ragazza mi ha dato ispirazione per i miei viaggi». Le differenze nelle abitudini e nei comportamenti possono portare a momenti di tensione durante le vacanze, ma essere introdotti nella cultura dell’Africa nera da chi è nato ed è vissuto in quei luoghi può senz’altro aiutare. «Con Joel, un ragazzo statunitense che ho ospitato qualche mese fa»,
racconta sempre Emmanuel, «l’abbiamo scampata bella. L’avevo avvertito di non fotografare un gruppo di nativi, ma lui non seppe resistere. In pochi secondi fummo circondati da gente infuriata. Per fortuna conosco la loro lingua locale, lo hausa, e grazie alle mie doti di pacificatore riuscimmo ad evitare guai». Se vi capitasse di visitare il Burkina Faso fatevi ospitare da Elvis Minougou, a Ouagadougou. Elvis è un nobile locale, nipote del re di uno dei distretti della capitale. «Mio nonno è un leader tradizionale», spiega, «e qualsiasi problema deve passare da lui prima di arrivare alle
autorità nazionali. È un uomo di grande cultura e di grande saggezza, che conosce ogni cosa delle nostre tradizioni». Patrick Sichalwe di Lusaka, Zambia, è invece proprietario di un ristorante. «Il mio locale si trova all’interno del ministero del Turismo, ma è aperto al pubblico», informa Patrick. «Personalmente credo che il mio Paese sia sottostimato a livello turistico. Abbiamo più parchi e cascate di qualsiasi altro Stato africano. Inoltre c’è la possibilità di visitare quartieri poverissimi: credo sia importante capire come vivano certe persone nel mondo». • africa · numero 4 · 2010
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testo Mauro Pigozzo
Walesa Porcellato
Le ciabatte di Il Mali esporta calzature di successo Walesa Porcellato
A Bamako si producono ogni settimana migliaia di ciabatte riciclate che spopolano in tutta l’Africa occidentale. Il segreto del loro successo? Il prezzo, la praticità e… l’originalità dei modelli. Come l’ultimo, dedicato ad Obama
B
amako, capitale del Mali, quasi 2 milioni di abitanti, è la patria degli artigiani più ingegnosi dell’Africa occidentale. E uno dei massimi esponenti di questa spumeggiante categoria è senz’ombra di dubbio Caleb Diarra, il «re delle ciabatte».
L’arte del riciclo Fino ad un paio di anni fa Caleb era il direttore della produzione di un’azienda locale di calzature: la Somip Sarl. Ma il destino ha voluto che il timone della ditta passasse nelle sue mani. «Il vecchio titolare, un imprenditore francese, è
morto in un incidente stradale», racconta lo stesso Caleb. «La famiglia mi ha affidato la missione di proseguire l’attività». E lui si è buttato, anima e corpo, nella nuova avventura professionale avviando un piano industriale ecologico e ambizioso.
Le scarpe dei Masai I Masai non hanno mai mal di schiena o disturbi articolari. Com’è possibile? L’ingegnere svizzero Karl Müller, dopo un attento studio in Kenya, è arrivato alla conclusione che un tale e sorprendente stato di salute - per lo meno posturale - sia dovuto all’abitudine di camminare a piedi nudi sulla sabbia. Una superficie instabile e irregolare che obbliga il corpo a costanti movimenti di riassestamento, mantenendo costantemente sollecitati muscoli che suole di cuoio e superfici asfaltate hanno fatto dimenticare da tempo a 52 africa · numero 4 · 2010
noi urbanizzati. Sono nate così le scarpe Mbt, dove Mbt sta per Masai Barefoot Technology, ovvero la “tecnologia Masai del piede scalzo”. Il piede in realtà è avvolto da una scarpa piuttosto ingombrante, instabile come una barca, con una suola come un guscio di noce, concava, e realizzata con materiali morbidi che attutiscono il contatto del piede col terreno. Negli ultimi due anni sono stati venduti 2 milioni di paia di Mbt con un fatturato di circa 160 milioni di euro. A decretarne il successo, la comodità e un marketing
«Il mio sogno è quello di far camminare tutta l’Africa su ciabatte riciclate», spiega Caleb. «Gli affari vanno bene: siamo la terza ditta del Mali, dobbiamo vedercela con la concorrenza di libanesi e cinesi. Ma solo noi puntiamo tutto sul riutilizzo dei vecchi sandali». Nei magazzini della Somip giungono ogni giorno sacchi di ciabatte usate. Quelle abbandonate per strada, nei rifiuti: rotte, da buttare. Scarti recuperati in extremis da una miriade di operatori ecologici indipendenti. Caleb li paga 50 centesimi di euro per ogni chilo di ciabatte procurato. I suoi operai provvedono a smistare la plastica a seconda del tipo e del colore. La ripuliscono, la sminuzzano, infine la fondono. Il materiale così ottenuto viene utilizzato per stampare nuove ciabatte, pronte per ritornare sulla strada. «Per l’intero ciclo di produzio-
L. Toffolon
di
ne impiego 42 persone, ma in taluni periodi dell’anno, quando la richiesta del mercato è pressante, arrivo ad avere 150 dipendenti», precisa il titolare della ditta. Gli stipendi? Più che dignitosi, assicurano i rappresentanti sindacali in azienda: dai 60 euro al mese per gli
che ha puntato a definirle come una “palestra ai piedi”, in grado di migliorare la postura, tonificare i muscoli e, addirittura, combattere la cellulite. Di certo le Mbt sono già finite ai piedi di star del calibro di Al Pacino, Heidi Klum, Glenn Close, fino ai più nostrani Vanessa Incontrada, Raoul Bova e Jovanotti. (Sandra Sain)
operai part-time ai quasi 1.000 per i dirigenti.
Obama ai piedi dell’Africa Il business delle ciabatte nella capitale del Mali è una sfida dai ritmi folli. «Ogni mese, bisogna cambiare due o tre modelli», spiegano al reparto commerciale.
«La gente in Africa cerca sempre la novità». Nel gioco al ribasso, i cinesi perdono. La qualità delle loro suole, infatti, è scarsa: durante le piogge, la gente scivola. E Caleb lo sa. La sua carta vincente è la capacità di inventarsi sempre nuovi modelli. Ma talvolta cede alla tentazione di scopiazzare qualche celebre griffe, come Nike o Adidas, senza alcun imbarazzo. «Una volta, ho visto un paio di ciabatte stupende ai piedi di una donna», racconta il titolare. «Gliele ho comperate a 10 euro, quello che le aveva pagate. Poi le ho copiate. E ora le vendo in grandi quantità a solo 1 euro». Esperto di marketing di strada, Caleb ama firmare i nuovi modelli coi nomi delle attrici delle soap opera televisive. Ma la novità del momento è la ciabatta con il volto di Barack Obama. Un successo senza precedenti. Migliaia di paia vendute in pochi mesi. Il Presidente degli Stati Uniti, a queste latitudini, è un eroe. E così Barack permette all’azienda delle ciabatte riciclate di sconfiggere i libanesi. D’altro canto, la politica spesso si fa coi piedi. E Caleb già pensa alle prossime ciabatte “femminili”, dedicate a Michelle Obama. Saranno pronte entro il prossimo mese? «Yes we can».• africa · numero 4 · 2010 53
libri
di Pier Maria Mazzola
Rondini e ronde
a cura di Silvia De Marchi
Gli alberi ne parlano ancora
Mhudi
«Perché gli africani non credono mai in ciò che vedono e perché, quarant’anni dopo le indipendenze, i nostri popoli hanno la testa nel terzo millennio e i piedi ancorati al passato?». Una donna quasi centenaria racconta la storia del suo villaggio del Camerun - suo padre ne era il capo fin da quando era una bambina. Ha visto sbarcare coloni tedeschi e poi francesi, oltre ai suoi compaesani tra cui dei personaggi un po’ bizzarri. Davanti ai suoi occhi passa «la storia dell’Africa sospesa fra tradizione e modernità». Della brillante autrice, di origine camerunese e ben nota in Francia dove vive, sono edite in italiano molte opere. Questa era già uscita per i tipi di Epoché; se la ritroviamo ora tra i tascabili di un grande editore, vorrà forse dire qualcosa.
Ci sono voluti novant’anni perché diventasse leggibile in italiano. E ne erano già passati altri dieci tra la sua scrittura e la sua edizione. Parliamo di un romanzo storico, il primo di un sudafricano non bianco, e non uno qualunque: il primo segretario dell’Anc. Ma non sta solo qui l’interesse del libro, un’epopea guerriera e al tempo stesso una storia d’amore nonché un inno alla donna africana (il titolo del libro corrisponde al nome della co-protagonista). Il quadro è quello, agli inizi del XIX secolo, dell’inimicizia tra i Matabele e i Barolong, e dell’alleanza impensabile, un secolo più tardi - tra africani e boeri… «A dire il vero - confida De Villiers il boero a Ra-Thaga, il protagonista rolong - vado molto più d’accordo con te che con molti della mia stessa gente»…
«Comprate terra, non la fabbricano più» è la frase di Mark Twain in esergo a un capitolo di questo volumetto dedicato alla «caccia delle terre coltivabili». Il tema è stato evocato da Africa nel numero scorso, limitatamente al Mozambico. Qui l’autrice fa il giro della problematica partendo dalla crisi del pane (o, in Messico, della tortilla), scoppiata tra 2006 e 2008 per la concomitanza di fattori in apparenza disparati ma in realtà convergenti. La sete di etanolo, per rendere le nostre vetture più ecologiche, è una delle nuove cause della fame che andrebbero più seriamente considerate. In Madagascar, la cessione di metà delle terre coltivabili alla Daewoo ha provocato una rivolta sociale e politica. E l’Africa nel suo complesso è oggi la «nuova frontiera della going out policy» cinese.
Baldini Castoldi Dalai 2010, pp. 228, € 20,00
Università Bocconi Editore 2010, pp. 179, € 15
di Solomon Tshekisho Plaatje
di Franca Roiatti
di Calixthe Beyala
Come la legge sulla cosiddetta sicurezza è entrata in vigore, nel luglio 2009, la piccola editrice romana dedita alla letteratura migrante ha chiamato a raccolta i suoi ed altri autori, anche italiani, per «volare alto sul razzismo» (sottotitolo). Ne sono uscite alcune liriche e diversi racconti, ora autobiografici ora di fantasia. Fantasia, sì, ma indignata, spesso ironica e talora caustica. In carattere con la vignetta di Vauro in copertina. Ben scelto l’attacco con l’autodenuncia di un clandestino cinese, che riesce a vedere nel nuovo reato di clandestinità una… opportunità. Letteratura migrante? O «nuova letteratura italiana, espressione di gran lunga preferibile», come dice JeanLéonard Touadi nella prefazione? Mangrovie 2010, pp. 205, € 12
Feltrinelli 2010, pp. 285, € 8,50
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Confessioni Il nuovo colonialismo di una religiosa
di Suor Emmanuelle
È la religiosa belga - al secolo Madeleine Cinquin - che decenni fa ha portato alla ribalta gli zabbalin, gli straccivendoli del Cairo, presso i quali ha scelto di essere missionaria quando aveva già varcato i 60. Donna dal carattere forte, prima di allora non si era certo limitata a sgranar rosari. Laureata alla Sorbona, aveva insegnato a Istanbul, Tunisi, Alessandria. Ma inseguiva sempre la via di un «amore più grande». Pensando a lei viene in mente l’Abbé Pierre. Apri il libro e scopri una pagina in cui confessa quanto il fondatore di Emmaus l’aveva ispirata. Sono «confessioni» da lei pensate già come libro. Ma da pubblicarsi solo post mortem. Suor Emmanuelle si è spenta nel 2008: a cent’anni. Jaca Book 2010, pp. 318, € 24,00
musica
di Claudio Agostoni
I SPEEK FULA
BASSEKOU KOUYATE & NGONI BA
Talentuoso suonatore di ngoni, uno strumento a 5 corde simile ai più noti mandolino e banjo, Bassekou Kouyate è il miglior musicista africano del momento. Arriva da una famiglia di virtuosi dello ngoni: come il nonno e il bisnonno e suo padre (a cui ha dedicato il brano Moustapha, una delle incisioni migliori di I speak fula). Le altre tracce (attenzione, c’è anche una ghost) alternano brani ballabili a ballatone blues dove Mali e States si miscelano per diventare una cosa sola (strepitoso Bambugu Blues). Ospiti come se piovesse (da Toumani Diabaté a Vieux Farka Touré, da Baba Sissoko a Kassé Mady Diabaté), ma soprattutto storie. Come quella di Saro, il fratello minore ucciso brutalmente in un incidente stradale, e derubato mentre rimaneva esanime a terra. Una vicenda che ha spinto Bassekou a creare una fondazione per l’educazione dei giovani. www.bassekoukouyate.com
ADAGH TAMIKREST
Ousmane Agg Mossa, maliano di Tinza, leader dei Tamikrest oggi ventisettenne, è cresciuto suonando la chitarra secondo la tradizione tishoumaren, avendo come modello Ibrahim Ag Alhabib, il Jimy Hendrix del blues Tuareg, nonché il leader indiscusso dei Tinariwen. Al Festival in the Desert i Tamikrest hanno avuto la fortuna di avere come vicino di tenda Chris Eckman dei Dirtmusic che, innamoratosi della loro musica, ha affittato i Bogolan Studio (quelli fondati da Ali Farka Touré a Bamako) e ha prodotto questo disco permettendoci di arricchire, nella nostra discoteca, lo scomparto della musica tuareg. Le loro canzoni parlano della perdita di un’identità culturale, della perdita del controllo delle terre di cui compagnie, nazionali e straniere, bramano sfruttare il sottosuolo, delle rivalità politiche tra i diversi paesi che ospitano i tuareg... www.myspace.com/tamikrest
DAKAR-KINGSTON YOUSSOU NDOUR
Il re dello mbalax ha preso una sbandata per il reggae. Lo testimonia un lavoro registrato tra Parigi e i Tuff Gong Studios giamaicani, con musicisti del calibro di Tyrone Downie dei The Wailers, del chitarrista Earl “Chinna” Smith e del batterista Shaun “Mark “Sansone. Nel brano di apertura troviamo persino la penna di Yusuf Islam (Cat Stevens), autore di un testo che omaggia Bob Marley. 13 brani che miscelano ritmi in levare e percussioni senegalesi, la classica indolenza del reggae e afrori sonori mutuati dallo mbalax. Un lavoro che però pare non sia piaciuto a Wade, il Presidente del Senegal. Più che una allergia ai ritmi in levare però l’avversione sembra sia riconducibile all’attività di editore di Youssou Ndour, oggi direttore di una radio e di un quotidiano. Le testate del musicista ultimamente sono state prodighe di critiche al governo e qualcuno già ipotizza un suo ingresso in politica. www.youssou.com
PARIWAGA YAPA
Come il titolo suggerisce, il disco è stato registrato tra Parigi e Ougadougou, capitale del Burkina Faso, in occasione del rinomato festival Jazz à Ouaga. Tra gli artisti in cartellone un quartetto di giovani francesi desiderosi di costruire uno scambio musical-culturale a metà strada tra folk, pop, blues e reggae. Operazione riuscitissima grazie alle collaborazioni con Victor Démé e la sua intrigante miscela di folk, blues e flamenco (Sindi deni Ma e Kelemani), con il balafonista Ali Diarra e con suo fratello, il mago della kora, Salif Diarra (Kanatà), con il poeta chanteur KPG (Le fils), con il punkster afrobeat Baba Commandant, noto per la sua voce da orco (M’mory), nonché con il toaster Wendlamita Kouka ed il suo reggae blues stellare (Bania). Un disco dotato di una freschezza che ha pochi eguali. www.myspace.com/yapaguitartrio africa · numero 4 · 2010
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cultura
testo e foto di Aldo Pavan
Dall’Africa al Veneto, sette famiglie c Abbiamo bussato alle porte dei migranti africani che vivono nel produttivo Nordest italiano. Abbiamo scoperto delle case ricche di umanità. Alle prese con la crisi economica e le difficili sfide dell’integrazione
Dal Marocco I Marocchini sono una delle comunità più inserite nel territorio produttivo del Nordest. La famiglia Ez Zaitouni, residente a Pederobba (Treviso), non fa eccezione. Il padre Mohamed, 50 anni, in Italia dal 1987, lavora come elettricista. Di recente la sua azienda, colpita dalla crisi, è stata costretta a ridurre il lavoro ai dipendenti. Ora lo stipendio non basta più a sbarcare il lunario. Fatima, la figlia più grande, ha lasciato l’istituto professionale che frequentava («Meglio così: i compagni mi accusavano di essere una terrorista», dice) e si è messa a cercare lavoro. I suoi tre fratelli vanno ancora a scuola. La madre Najat, 38 anni, fa la casalinga e parla a stento l’italiano.
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e ci invitano nelle loro dimore italiane
Dal Ghana Da 12 anni in Italia, i Baguah vivono in un appartamento alle porte del centro di Conegliano, in provincia di Treviso. Sono una grande famiglia: attorno al padre Emmanuele (operaio in un’azienda di elettrodomestici) e alla madre Sane (casalinga) gravitano sei figli e frotte di nipoti. I figli lavorano occasionalmente nelle fabbriche della zona, ma da quando la crisi si è abbattuta anche sul Nordest, la vita si è fatta molto difficile. Specie ora che per Emmanuele si affaccia lo spettro della cassa integrazione: senza il suo stipendio, la famiglia non avrà più entrate sicure.
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cultura
Dalla Guinea La famiglia Barry appartiene al gruppo etnico dei Peul che abita i verdissimi altipiani della Guinea Conakry. Sono ospitati in un appartamento popolare del Comune di Venezia. Il padre Amadou fa l’autista in proprio, la madre Kadiatou è casalinga. Da 15 anni in Italia, entrambi notano un progressivo aumento dell’intolleranza nei confronti dello straniero. A loro parere «è colpa di quei politici che soffiano sul fuoco della paure facendo dilagare un senso di insicurezza immotivata nell’opinione pubblica».
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Dal Burkina Faso La famiglia Zanre vive a Biancade, provincia di Treviso, in una casa piccola e vecchia assieme ad una miriade di parenti e amici burkinabè. Il padre Douniaboure, arrivato nove anni fa, ha trovato lavoro come magazziniere in uno dei mobilifici della zona e ha avviato un lento processo di ricongiungimento familiare che sta avvenendo passo dopo passo. La moglie Suzanne e la figlia Hourouhatou di sette anni sono arrivate dall’Africa solo quattro mesi fa. Un altro figlio attende di raggiungerli. La bambina parla già un po’ di italiano ed è stata inserita nella scuola locale. Malgrado la crisi economica e le difficoltà d’integrazione, Douniaboure è felice di stare in Italia.
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cultura
Da vedere
Le immagini pubblicate in queste pagine sono tratte dal documentario Famiglie migranti a porte aperte realizzato da Aldo Pavan, giornalista e fotografo. Si tratta di un’inchiesta multimediale che mostra la vita quotidiana nelle abitazioni dei migranti nel Nordest italiano. «Specie in questa regione stanno emergendo con sempre più forza sentimenti di intolleranza nei
Dal Niger
confronti degli stranieri», spiega l’autore. «Si fa strada la paura del diverso, innescata ad arte dai partiti a caccia di consensi. Pochi si preoccupano di promuovere iniziative tese a favorire l’integrazione o più semplicemente la reciproca conoscenza tra italiani e migranti». Con questo reportage, che mette assieme fotografie e video-interviste, Pavan vuole contribuire a gettare un ponte tra mondi diversi. Non resta che accettare il suo invito, digitando www.noimigranti.it
Gli Oubana sono una delle venticinque famiglie tuareg, originarie del deserto dell’Aïr, che vivono in provincia di Pordenone. Sono molto legate alle loro tradizioni che mantengono vive celebrando nascite, matrimoni e feste collettive. Il padre Haddoe, operaio, in Italia da dieci anni, è il leader dell’associazione Mondo Tuareg e si sforza di far conoscere la cultura del suo popolo. Ha cinque figli che frequentano le scuole locali e parlano bene l’italiano. Vivono in un piccolo appartamento in affitto, che condividono con parenti e amici, ma presto andranno a stare in una casa popolare messa a disposizione dal Comune di Porcia.
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Dalla Nigeria
I Nmadueke vivono a Chiarano (Treviso). Sono cristiani e ogni domenica assistono alla messa celebrata da un sacerdote nigeriano che gira le parrocchie della zona. Davinson, il padre, ha lavorato per anni come venditore ambulante a Roma. Da quando si è trasferito in Veneto fa l’operaio come sua moglie Felicia. Assieme, con molti sacrifici, sono riusciti a comperare un vecchio alloggio che ora stanno restaurando. In casa parlano inglese, italiano e igbo (l’idioma tradizionale della loro terra d’origine). Davidson sostiene che l’Africa non sarà importante per la formazione culturale ed educativa dei loro tre figli. «Si chiamano Salvatore, Ugo e Brian: sono italiani al 100%».
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cultura
Dal Senegal
La famiglia Badji, originaria della Casamance, vive in un appartamento arredato con gusto a San Vendemiano (Treviso), tra vigneti e fabbriche di mobili. Adama, il marito, fa il falegname da una decina di anni, sua moglie Satou lavora come mediatrice culturale. La loro figlia Maria parla perfettamente l’italiano ma adora vestirsi con gli abiti tradizionali senegalesi. Il tempo libero lo dedicano a promuovere iniziative culturali e di solidarietà in seno alla comunità senegalese.
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cultura
testo di Paola Marelli
Gli aiuti all’Africa? Disastrosi LIVE AID
l’anniversario È stato uno dei più grandi eventi rock della storia, il giorno in cui la musica mondiale vibrò in favore dell’Africa. Venticinque anni fa, il 13 luglio 1985, andò in scena il Live Aid, megaconcerto umanitario con un miliardo e mezzo di spettatori in diretta TV, promosso da Bob Geldof per aiutare l’Etiopia colpita dalla carestia. L’esibizione di star del calibro di Madonna, Mick Jagger, Queen, Paul McCartney… permise agli organizzatori di raccogliere offerte per oltre 50 miliardi di sterline. Ma sostengono oggi voci critiche - una buona parte degli aiuti finì nelle tasche di faccendieri e burocrati legati al dittatore etiope Menghistu.
L’analisi-choc di un’economista controcorrente
Dambisa Moyo, autorevole ricercatrice africana, fa una spietata disamina del fallimento degli aiuti allo sviluppo. E il suo nuovo libro “La carità che uccide” accende il dibattito anche in Italia
N
egli ultimi sessant’anni i Paesi occidentali hanno elargito oltre mille miliardi di dollari alle disastrate economie dell’Africa. Un enorme flusso di aiuti che non ha favorito lo sviluppo. Ma, anzi, ha alimentato corruzione, malgoverno, vecchie e nuove povertà. E’ la tesi sostenuta dall’economista Dambisa Moyo, 41 anni, nata in Zambia, laureata a Harvard, ricercatrice ad Oxford. Il suo saggio Dead Aid ha dimostrato, numeri
alla mano, che l’apporto degli aiuti economici nelle casse dei paesi africani è un’iniezione letale. Grazie al successo di questo volume, Dambisa Moyo è stata inserita da Time fra le cento persone più influenti al mondo nel 2009. Ora il libro è stato pubblicato anche in Italia col titolo La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo (Rizzoli 2010, 260 pagine, 18,50 euro). La Moyo ricorda che tra il 1970 e il 1998,
quando l’erogazione di aiuti era al culmine, in Africa la povertà salì dall’11 per cento a uno sbalorditivo 66 per cento. «La strada scelta dall’Occidente per aiutare l’Africa è la peggiore possibile», sostiene. «Devolvere fondi non solo è uno spreco, ma mette in moto un circolo vizioso di corruzione e dipendenza dagli aiuti internazionali che rallenta - o addirittura impedisce - lo sfruttamento delle risorse interne e la crescita di un ceto medio capace di potersi reinventare in chiave imprenditoriale». L’economista zambiana saluta con favore la novità della Cina «che negli ultimi anni ha sviluppato una partnership efficiente con molti Paesi sub sahariani». Allo stesso tempo invita l’Africa a liberarsi dell’Occidente, e del paradosso dei suoi cosiddetti “aiuti” che costituiscono il virus di una malattia curabile: la povertà. • africa · numero 4 · 2010 63
storia
testo di Claudio Agostoni
Dopo i Mondiali, il Sudafrica celebra una pagina epica della sua storia
Quando giocavamo contro l’apartheid
Ai tempi della segregazione razziale, i detenuti politici di Robben Island riuscirono ad organizzare un vero e proprio campionato di calcio. Un’impresa rievocata da uno dei protagonisti
Alcune immagini del film More than just a Game (Più che un semplice gioco) che racconta la passione per il football dei detenuti politici sudafricani nella prigione di Robben Island
A
nthony Suze è un imprenditore che vive e lavora a Pretoria, in Sudafrica. Sembra una persona tranquilla, ma se parli con lui di calcio si trasforma in una sorta di hooligan. «Del risultato non mi è interessato mai più di tanto. L’unica cosa che mi inte-
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ressava era vincere». Quello che lo differenzia da un qualsiasi tifoso è che lui è un ex calciatore che ha vinto più di un campionato. Il fatto ancora più eccezionale è che era il campionato dei detenuti di Robben Island, una delle prigioni più dure che siano mai esistite, fa-
mosa per avere avuto tra i suoi ‘ospiti’ anche Nelson Mandela (vi trascorse gran parte dei suoi 27 anni di reclusione). Su quest’isolotto ventoso al largo di Cape Town il regime razzista sudafricano, nel suo sogno di modellare le menti, cercava di mettere un prigioniero
contro l’altro, negando il pane ai neri e riservandolo a condannati più chiari, indiani o meticci. L’obbiettivo era l’annichilimento fisico e psichico dei detenuti.
Sfide tra le sbarre «L’attività fisica a Robben Island era primaria per la
Un libro, un film
nostra sopravvivenza», ricorda Anthony Suze, che finì in prigione giovanissimo e ci rimase per 15 lunghi anni. «Prima di tutto dovevamo sopravvivere fisicamente, e poi spiritualmente e mentalmente. Lo sport ci ha dato la forza fisica che ci ha aiutato a non perdere lo spirito e la mente». Anthony ci racconta che la grande passione era il calcio «Giocavamo a calcio, a rugby, a tennis, praticavamo diverse discipline dell’atletica. Una volta all’anno organizzavamo quello che noi chiamavamo “I giochi di Robben Island”: 2 o 3 giorni in cui si praticavano tutti gli sport. Ma il calcio era una passione incontenibile. Le prime partite sull’isola furono fatte con una sorta di pallone costruito arrotolando e legando insieme delle magliette. Erano i primi anni Sessanta e in quel periodo le guardie provavano un gu-
sto sadico a distruggere senza tentennamenti i giochi e qualsiasi altra cosa i prigionieri avessero creato per alleviare le loro giornate. Un pallone costruito a quel modo era facile da distruggere, evitando così, in caso di perquisizioni, severe punizioni. Così, mentre uno di noi faceva il palo, le stuoie e le lenzuola venivano ammucchiate da una parte per dare spazio a brevi incontri a 5 o a 8 giocatori».
Voglia di vincere «La voglia di giocare seriamente era altissima e così iniziò una battaglia con le autorità carcerarie affinché ci permettessero di giocare. Non fu semplice. Usarono un sacco di scuse perché non volevano: temevano incidenti, infortuni, possibili risse. Hanno cercato di fermarci in ogni modo. La battaglia durò 3 anni, organizzammo degli incontri
con l’autorità per spiegare cosa volevamo. Abbiamo scritto lettere, protestato. Siamo stati anche puniti per questo. Dopo 3 anni, anche grazie all’aiuto della Croce Rossa, arrivò l’autorizzazione a giocare. Forse pensavano che ci saremmo stancati presto, o che essendo stanchi dopo una pesante giornata lavorativa passata nella cava a raccogliere pietre non avremmo giocato. Si sbagliavano». In effetti i detenuti riuscirono a organizzare un vero e proprio campionato di calcio. Fondarono una Federazione, la Makana Football Association, che seguendo alla lettera i regolamenti della Fifa organizzò per una ventina d’anni partite settimanali di serie A, B e C, competizioni di coppa e persino incontri amichevoli. «Non volevamo solamente organizzare delle partite, volevamo dimostra-
Per un approfondimento sul calcio a Robben Island ci sono due strumenti. Il primo è il libro Molto più di un gioco. Il calcio contro l’apartheid del docente e ricercatore Chuck Korr e del drammaturgo e sceneggiatore Marvin Close (Iacobelli Edizioni, 2010). Il secondo, presentato quest’anno a Milano al Festival del Cinema Africano, è il film sudafricano More Than Just a Game, del regista Junaid Ahmet. Un Dvd da cercare nel web.
re anche la nostra capacità di autogovernarci. E di farlo in maniera democratica ed equa. È per questo che quando abbiamo fondato la lega volevamo regole e principi certi. È per questo che adottammo i principi che regolano il calcio internazionale, le regole della Fifa divennero così il nostro riferimento. L’organizzazione di Makana fu una straordinaria palestra politica e diede ancor maggior convinzione, a tutti, noi che potevamo vincere…».• africa · numero 4 · 2010 65
storia
di Diego Marani
I missionari-esploratori italiani nel cuore dell’Africa
DESTINAZIONE SUDAN
Nell’Ottocento tre religiosi cattolici partirono dal Veneto per esplorare i misteriosi territori sudanesi che conducono alle sorgenti del Nilo
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G
li italiani hanno avuto, nel XIX secolo, un rapporto particolare con il Sudan. Merito soprattutto di alcuni esploratori-missionari che si sono avventurati con coraggio alla scoperta di questo grande e cruciale Stato africano. Il Sudan, la nazione più vasta del continente, è sempre stato un territorio di confine tra Africa araba e Africa
nera, tra il Nord rappresentato da quell’Egitto che lambiva il Mediterraneo e il Sud che si spingeva verso l’Uganda. E’ anche il corridoio naturale per raggiungere le sorgenti del Nilo, l’ossessione dei geografi e degli esploratori del XIX secolo. Khartoum, l’attuale capitale del Sudan, si trova alla confluenza tra il Nilo bianco e
Da sinistra a destra, Don Angelo Vinco (1819-1853) e Don Giovanni Beltrame (1824-1906). In alto, liberazione di schiavi, incisione di epoca. Uno degli scopi dei primi missionari era anche l’abolizione della tratta degli schiavi, praticata in questa regione dai predoni arabi. (fonte iconografica: Nigrizia)
il Nilo azzurro. Nel corso dell’Ottocento si trasformò velocemente da avamposto militare e commerciale a centro strategico delle operazione di guerra e dei viaggi di esplorazione. Inoltre Khartoum era anche un importante nodo di smistamento degli schiavi e dell’avorio, le due fonti della ricchezza veloce e “facile” del XIX secolo
in Africa. La città però divenne anche il centro degli sforzi dei missionari europei e in particolare di quelli italiani, anche e soprattutto grazie a Daniele Comboni (1831-1881), che proprio a Khartoum diventerà primo vescovo cattolico in Africa centrale, nel 1877. Da lui prendono il nome i Comboniani, congregazione missionaria che ancor oggi è assai attiva in Africa e in particolare in Sudan. La storia dell’esplorazione sudanese è legata a quella di questi religiosi.
Tra le genti del sud Uno dei primi grandi missionari - esploratori in Sudan è ANGELO VINCO (1819-1853), un sacerdote nato a Cerro Veronese, piccolo paesino di alta collina
a Nord di Verona. Vinco si dedica tra il 1851 e il 1853, all’esplorazione dell’estremità meridionale del Sud Sudan, quella che oggi confina con l’Uganda. Nei suoi viaggi incontra - e racconta - diverse popolazioni semisconosciute: i Dinka, i Nuer (che sono ancor oggi i grandi gruppi etnici sud sudanesi), gli Shilluk, i Beir e i Bari. Per molti aspetti dunque la sua è un’esplorazione tanto geografica quanto antropologica e gli scritti di Vinco sono pieni di riferimenti agli usi e costumi di quei «barbari d’Africa». Vinco si rende ben presto conto di due caratteristiche assai diffuse delle popolazioni meridionali che sono rimaste fino a oggi una costante della storia del Sudan: l’ostilità verso gli arabi
e i ripetuti scontri interetnici tra popolazioni confinanti in Sud Sudan. Vinco muore in Sudan, giovanissimo, nel 1853.
EXPLORADORES Agli esploratori (che in portoghese significa anche “sfruttatori”), i quali hanno contribuito in maniera decisiva a disegnare le mappe nonché l’immaginario occidentale del “continente nero”, Africa dedica una serie di articoli. Dopo Livingstone, Stanley, Brazzà, Ca’ da Mosto, Ibn Battuta, Alexandrine Tinne, Zheng He, Burton, Speke, i meno celebri viaggiatori italiani ed i missionari-esploratori in Sudan, nella prossima puntata presenteremo il card. Massaja in Etiopia.
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storia Gondokoro, non distante da Juba, l’attuale “capitale” del Sud Sudan. Qui Beltrame imparerà la lingua dei Dinka e arriverà a pubblicare in Italia, una grammatica e un dizionario dinka. Anche Beltrame era figlio del suo tempo, per esempio quando scrive che i «negri» sono «eccellenti servitori e coraggiosi soldati» a patto che riconoscano «la superiorità dei bianchi» e che si mostrino «docili ai loro consigli e sempre disposti a servirli».
L’ospitalità del Kordofan
Padre Stanislao Carcereri (1840-1899)
Esploratori contro
Tra gli esploratori dell’Ottocento c’era solidarietà e rivalità. In Africa era in corso una sorta di gara a chi arrivava prima a scoprire un fiume o un monte. Proprio in Sudan, a Fashoda nel 1898 (l’attuale Kofok, sul Nilo Bianco), i soldati francesi e quelli inglesi arrivarono a uno scontro che solo all’ultimo non degenerò in una battaglia che per i contemporanei avrebbe significato lo scoppio di una guerra europea. Combattuta a causa dell’Africa. 68 africa · numero 4 · 2010
I negri? Ottimi servitori
GIOVANNI BELTRAME nasce a Valeggio sul Mincio, tra Mantova e Verona, nel 1824. Fin da ragazzo passa molte ore al giorno a guardare avidamente la carta dell’Africa e a studiare l’arabo. Diventa missionario e, a 29 anni, parte per l’Africa. Ci rimarrà per quasi dieci anni, fino al 1862, quando rientra a Verona, dove scrive i suoi resoconti di viaggio. Beltrame attraversa il deserto della Nubia, risale il Nilo, si spinge verso Sud. Della Nubia (la pianura sudanese desertica e semidesertica da non confondere con i Monti Nuba, sempre in Sudan) Beltrame descrive idrografia, geologia e morfologia, ma anche le abitudini dei nubiani, i loro usi e costumi, la loro agricoltura. Nel suo secondo grande viaggio Beltrame si spinge decisamente più a Sud e risale il Nilo Bianco fino a
Un altro missionario veronese che diventa esploratore in Sudan è STANISLAO CARCERERI, nato a Cerro Veronese (come Vinco) nel 1840 e morto cinquanta anni dopo. Il suo nome è legato alle esplorazioni del Kordofan e dei Monti Nuba, al centro del Sudan. Nel 1871 infatti Comboni assegna a Carcereri il compito di intraprendere una spedizione nel Kordofan, sempre con la speranza di poter aprire nuove missioni. Nel gennaio 1872 arriva a El Obeid «la più deliziosa e popolata città che io abbia trovato dal Cairo in su» dopo un viaggio di 82 giorni e dopo aver percorso oltre 2.500 chilometri. Carcereri descrive il deserto e le oasi, «la vallata magnifica che il Nilo formó col suo corso sinuoso», descrive il ferro estratto dalle colline del Kordofan, dove i neri erano quasi tutti schiavi mentre «gli arabi non fanno altro che comandare, bastonare, mangiare, fumare e dormire». Rimane colpito dalla estrema ospitalità, anche nei più piccoli villaggi: «Si può viaggiare in tutto
Missione Coraggio I missionari esploratori dell’Ottocento hanno dovuto affrontare difficoltà enormi: imparare lingue, in alcuni casi sconosciute; affrontare i pericoli delle bestie feroci, e soprattutto le privazioni e le malattie che hanno ucciso la maggior parte di loro: Beltrame è stato uno dei pochi a sopravvivere a febbri e malarie. Questi uomini hanno dovuto confrontarsi non solo con una natura difficile ma con la complessità degli avvenimenti africani: a Khartoum dovevano districarsi tra mercanti di schiavi arabi, avventurieri e diplomatici europei in lotta fra loro per la conquista dell’Africa il Kordofan senza provvigioni, e purché si arrivi a qualche villaggio, si è sicuri di avere provviste». Ed è in grado, a vent’anni dai viaggi di Vinco, di rendersi conto di come gli africani (neri) siano ormai diffidenti nei confronti di tutti i bianchi perché sono stati «mille volte traditi». Un contributo speciale di Carcereri sono gli appunti e gli schizzi da lui raccolti che permetteranno alla Società geografica italiana di pubblicare nel 1881 una dettagliata mappa del Kordofan. •
storia
a cura della redazione
Uno storico svela la grandezza degli antichi imperi africani
Quando l’Africa incantava il mondo Esce nelle librerie italiane un prezioso volume di divulgazione storica: su Ghana, Mali e Songhai. Tre Stati potenti, fioriti mentre da noi era Medioevo. Ne leggiamo la pagina introduttiva
N
€ 13,00
Serge Bilé è giornalista, documentarista, scrittore, musicista. Nato in Costa d’Avorio e residente in Francia, i suoi lavori di divulgazione mettono in luce aspetti inediti o sottaciuti della storia degli africani e della diaspora nera, così come la persistenza dei pregiudizi razzisti. Il suo Neri nei campi nazisti, un best seller in Francia, è stato edito in Italia dall’EMI (2006).
QUANDO I NERI FANNO LA STORIA
« Le donne, oltre alle occupazioni quotidiane, devono essere associate a tutti i nostri governi » « Non fate mai torto agli stranieri ». Sono due articoli di una “dichiarazione dei diritti umani” promulgata, nel cuore dell’Africa occidentale, dal fondatore dell’impero del Mali. È il 1222. Tra il IX e il XVI secolo, in quella vasta porzione di continente nero si sono succeduti tre imperi (Ghana, Mali, Songhai) le cui civiltà nulla hanno da invidiare a quelle che abbiamo conosciuto sui libri di scuola. L’Autore ci fa scoprire, senza pedanterie, gli africani protagonisti della Storia: a pieno titolo e in tutta indipendenza.
Serge Bilé
el continente africano schiavi bianchi. Questa è Serge Bilé esistevano scuole e una prova, se ancora ce ne QUANDO I NERI università fin dal Mefosse bisogno, che gli afriFANNO dioevo, quindi molto prima cani, prima della tratta dei LA STORIA dell’arrivo dei primi esploneri e della colonizzazioratori europei. È questo il ne che li hanno indeboliti, caso dell’impero del Mali, non avevano nessun comin cui la scuola era obbligaplesso nei confronti degli toria dall’età di sette anni e arabi e degli europei, anzi! proseguiva sino alle facoltà Anche loro s’inserivano in Da leggere di Djenné o di Timbuctu, una dinamica di dominaQuando i neri fanno in cui il livello di insegna- la storia. Fulgore zione e conquista. mento non aveva nulla da e decadenza del Inoltre, gli imperatori suinvidiare alle omologhe di Medioevo africano danesi erano in anticipo riCordoba, Damasco, Gra- di Serge Bilé spetto alla loro epoca sotto nada o del Cairo. molto aspetti. Soundia(Emi 2010, pp. 127, Soprattutto nell’Africa oc- 10 euro) ta Keita fece adottare fin cidentale, il Medioevo fu dal XIII secolo una vera un periodo fasto, segnato e propria carta dei diritti da un fermento culturale, uno svilup- dell’uomo e del cittadino, la famosa po economico e una stabilità politi- Carta di Kurukan Fuga. Aboubekr II ca rappresentati da tre grandi imperi decise di attraversare l’Atlantico e di (VIII-XVI secolo), quello del Ghana, raggiungere l’America molto prima del Mali e del Songhai, che uguaglia- di Cristoforo Colombo, come riporvano in potenza i vicini, benché lonta- ta un autore egiziano del XIII secolo. ni, regni arabi ed europei, con i quali Mohamed Aboubakr creò già nel XVI intrattenevano rapporti continui. secolo un esercito professionale e addirittura un ministero per l’integrazioSchiavi bianchi ne dei bianchi che si riversavano nel Questi imperi, situati in quello che paese. un tempo veniva chiamato Sudan oc- I nostri antenati, ben prima di essere cidentale, erano talmente ricchi che i oggetti e vittime della storia, hanno sovrani potevano permettersi di avere fondato grandi civiltà e svolto un ruoFULGORE E DECADENZA DEL MEDIOEVO AFRICANO
Chi è Serge Bilé, originario della Costa d’Avorio e residente in Martinica, è giornalista, scrittore, musicista. I suoi libri e documentari rendono giustizia a pagine misconosciute della storia. L’ultimo titolo (2010) è Blanchissez-moi tous ces nègres. In precedenza era uscito il controverso Et si Dieu n’aimait pas les Noirs? Nel 2006 la Emi ha edito un suo best seller: Neri nei campi nazisti.
lo importante nella storia del mondo. Questo libro di Serge Bilé vuole dimostrare proprio questo, raccontando la storia del Ghana, del Mali e del Songhai, nella grandezza e nella decadenza. Tre imperi che, almeno, ricordano che ci fu davvero in Africa una specie di età dell’oro, che spetta proprio agli africani riportare alla luce per inventarsi un grande futuro!• africa · numero 4 · 2010 69
chiesa
Missionari testo e foto di Marco Trovato
Le sfide della Chiesa nell’ultima frontiera d’Africa Sulle isole Bijagós, al riparo dalle acque dell’oceano, sopravvivono tradizioni e rituali ormai scomparsi nel continente. In questo arcipelago abitato da popoli fieri e spiriti ancestrali opera da anni uno sparuto gruppo di missionari cattolici…
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a oltre mezzo secolo navigano nelle acque dell’oceano per portare il loro messaggio di fede e di speranza. Sono i missionari del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) impegnati nell’ar-
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cipelago delle Bijagós, al largo della Guinea-Bissau (vedi servizio di copertina a pagina 38). Una testimonianza cristiana, piccola ma vivace, alle prese con un microcosmo galleggiante impregnato
di animismo e di magia. «Siamo solo due sacerdoti, in un territorio vasto e frastagliato», spiega padre Jaime Coimbra do Nascimento, 38 anni, brasiliano dell’Amazzonia. Le piccole comunità cristiane, poco più di mille fedeli, sono sparse nell’arcipelago: passano mesi, talvolta anni, prima che ricevano la visita di un prete. Qui la missione riporta ai primordi, quando l’evangelizzazione passava attraverso i lunghi viaggi e l’esplorazione di territori. «Ci spostiamo tra un’isola e l’altra seguendo il corso delle maree e i ca-
pricci dei venti, sfidando a volte gli umori dell’oceano», racconta Jaime. «Ma avremmo bisogno di essere affiancati da altri religiosi e volontari laici, per non naufragare in un mare di impegni». A dare una mano per il momento ci sono tre suore della Consolata che portano avanti corsi lezioni di cucito, attività sanitarie e lezioni di catechismo.
del mare Padre Jaime Coimbra do Nascimento in canoa. I missionari del Pime, presenti in Guinea-Bissau dal 1947, sono impegnati sul versante dell’evangelizzazione e della promozione umana
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chiesa
Aiuti alle missioni I missionari impegnati nell’arcipelago delle Bijagós raggiungono le comunità più sperdute per portare parole di conforto e aiuti concreti come beni di prima necessità, medicinali, eccetera. Si tratta di un lavoro incessante e oneroso. «Stiamo cercando con molta fatica di avviare una scuola professionale per i giovani delle isole», spiega padre Jaime Coimbra do Nascimento. «Ma abbiamo bisogno di sostegno per far fronte alle alte spese di trasporto, legate all’affitto della barca, al compenso ai marinai e al costo del carburante». I progetti dei missionari si sviluppano sulle isole di Bubaque, Canhabaque, Canogo, Formosa, Orango Grande, Orangozinho, Soga e Uno. Per richiedere maggiori informazioni, e fornire sostegni economici, è possibile contattare l’Ufficio Aiuto Missioni del Pime (tel. 02 438201; progetti@pimemilano.com).
«Il lavoro più complicato è l’inculturazione del messaggio cristiano», spiega suor Maria Inocência Giacomozzi, 66 anni, brasiliana. «Il popolo delle isole è molto attaccato alle proprie tradizioni animiste. Gli anziani difendono tenacemente le pratiche della stregoneria, i riti d’iniziazione coi sacrifici animali, il culto del dio Nindo, l’uso di amuleti e talismani, la venerazione delle forze della natura».
La voce degli spiriti Cinquecento anni di contatti con la cultura europea non hanno cambiato il loro modo di pensare. I Bijagós credono che gli spiriti interagiscano con la vita quotidiana dell’essere umano, col duplice potere di proteggerlo o di nuocergli. Ogni
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Anche nell’arcipelago delle Bijagós proliferano sette e movimenti sincretici di ispirazione cristiana che mescolano Bibbia e credenze locali (sopra una chiesa evangelica sull’isola di Bubaque). Nel Paese il 50% professa religioni tradizionali africane, il 40% è musulmano e il 10% cristiano (con una piccola minoranza cattolica). Qui non esiste rete elettrica e quindi le attività notturne si svolgono tutte alla luce delle candele, come la messa celebrata da un sacerdote cattolico brasiliano nella cappella di un villaggio in mezzo alla foresta. In un piccolo villaggio dell’isola di Canhabaque, padre Luigi Scantamburlo promuove un programma di insegnamento della lingua portoghese e creola per i giovani bijagós
membro della comunità deve propiziarsi i favori degli antenati prima di intraprendere qualsiasi attività e non dimenticare mai di ringraziarli per quanto di buono ha ricevuto. Di notte i tamburi che riecheggiano nella foresta paiono risvegliare le forze invisibili del mondo dell’aldilà. Al centro dei villaggi i falò proietta-
no le ombre dei danzatori in trance mentre gli spiriti ancestrali si materializzano sotto forma di maschere di legno impreziosite con corna di tori e pinne di squali. Padre Luigi Scantamburlo, missionario - antropologo sbarcato 35 anni fa nell’arcipelago, viene spesso invitato a prendere parte alle cerimonie religiose. «In
passato partecipare a questi riti era considerato un grave peccato per il cristiano», racconta. «I preti cattolici al soldo dei conquistatori coloniali consideravano i Bijagós un popolo di selvaggi miscredenti dediti al malocchio». Per lungo tempo l’ignoranza e l’arroganza dei religiosi hanno alimentato il pregiudizio sulle loro attitudini spirituali. «Ma ancora oggi alcuni uomini di Chiesa si scandalizzano per l’uso dei feticci o di qualche pratica di magia», si rammarica il missionariostudioso. «Io bado alla sostanza: i Bijagós hanno una spiccata religiosità, rigidamente monoteista, che permea l’intera organizzazione sociale… Se vogliamo farci accettare, dobbiamo inserirci appieno nelle comunità, entrare in sintonia con il loro modo di pensare. E annunciare il Vangelo di Gesù in punta di piedi. Perché la fede si vive, si condivide. Non s’impone». Con questa missione padre Luigi naviga da 35 anni nell’arcipelago. Un paio di volte ha rischiato di naufragare nel mare in tempesta. Se l’è cavata per pura for-
La Chiesa in Guinea Bissau L’evangelizzazione della Guinea-Bissau, seppure embrionale e sporadica, ha avuto inizio più di 500 anni fa con l’arrivo dei primi portoghesi, tutti cattolici. La Chiesa ha però avuto il suo boom solo dopo l’indipendenza, in modo particolare dopo la creazione della diocesi di Bissau, nel 1977, e la nomina del suo primo vescovo, Settimio Ferrazzetta. L’espansione è accompagnata dal continuo aumento delle sue opere in campo sociale, in modo particolare in ambito scolastico e sanitario. tuna. O forse per miracolo. Lui, per non sbagliare, ringrazia ogni giorno il cielo e rende omaggio agli spiriti che aleggiano sulle isole. • africa · numero 4 · 2010
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chiese
di Enrico Casale
Milano, piange la Madonna copta I fedeli eritrei gridano al miracolo
I
prelati si esprimeranno prossimamente, ma per le donne eritree non ci sono dubbi: è un miracolo. Quel dipinto della Madonna ha pianto veramente, non si tratta di umidità o della traspirazione dei colori a olio. Così la chiesa di via San Gregorio a Milano, nella quale da 2 anni convivono russi ortodossi ed eritrei copti, è diventata meta di pellegrinaggio. A pregare davanti all’immagine sono soprattutto gli eritrei, ma anche i russi e non pochi italiani. La prima volta ha pianto lo scorso 18 aprile. È domenica e, come tutte le domeniche, di mattina presto arrivano gli eritrei per la loro funzione religiosa. La messa inizia alle 8. Poco dopo, dal volto della Madonna 74 africa · numero 4 · 2010
Bruno Zanzottera
In una chiesa milanese frequentata da immigrati russi ortodossi ed eritrei copti è accaduto qualcosa di insolito. Siamo andati a curiosare
raffigurata in un quadro posto a fianco dell’iconostasi (la parete che separa l’altare dall’assemblea), iniziano a scendere alcune lacrime. Contemporaneamente si spande per la chiesetta un forte profumo. «Era un buon profumo, intenso e dolcissimo - ricorda una fedele eritrea che era presente -. L’aroma è rimasto per diversi giorni». «Il clamore è stato forte osserva mons. Abbondio, prelato russo, custode della chiesa di via San Gregorio -. La notizia della Madonna che piange si è diffusa subito in tutta la città. Sono accorsi numerosi giornalisti».
Fedeli e curiosi La Madonna piange ancora nei giorni successivi. Arrivano molti curiosi. Ma an-
che tanti fedeli, soprattutto eritrei. Ma il clou è stato il 9 maggio, giorno in cui i copti festeggiano la Madonna. La mattina la chiesa è stracolma. Decine di donne eritree (gli uomini sono pochi) accorrono in via San Gregorio, arrivano da Milano e da altre città del Nord Italia. Sono tante, troppe per il piccolissimo luogo sacro. E, infatti, la maggior parte è costretta a stare fuori sul marciapiede. La funzione religiosa dura 3 ore, ma nessuna si scompone. Rimangono sempre in piedi, concentrate nella preghiera. Rispondono tutte insieme alle invocazioni del sacerdote, quasi fossero un corpo unico. L’unico elemento di disturbo sono i curiosi italiani. Incuranti delle persone che stanno
pregando e insensibili alla spiritualità del luogo si fanno strada spintonando per entrare nella chiesa. Terminata la funzione sacra, inizia una lenta sfilata davanti al quadro. Le donne sono composte. Niente invocazioni ad alta voce. Nessuna scena di devozione estrema. Solo preghiere silenziose, segno di una religiosità antica e profonda. Qualcuna si inginocchia e poi si sdraia davanti all’immagine sacra. Le autorità ortodosse hanno avviato un’istruttoria per accertare se si tratta veramente di un miracolo («Su queste cose è meglio essere cauti», afferma prudente mons. Abbondio). A breve si pronuncerà il sinodo dei vescovi. Ma per le donne eritree non ci sono dubbi: è già un miracolo.•
chiese
a cura della redazione
da sapere
Al centro, Joseph Sagahutu nella missione di Sola nel 1999; alle sue spalle, Baudouin Waterkeyn, il Padre Bianco che lo ha nascosto prima della sua fuga verso lo Zambia
Il genocidio del Ruanda iniziò il 7 aprile 1994 e proseguì per circa 100 giorni. Il pretesto fu la morte del presidente di etnia hutu Juvènal Habyarimana, rimasto vittima di un misterioso incidente aereo. Le violenze provocarono almeno 800mila vittime tra i tutsi e gli hutu moderati. Oggi il Ruanda è popolato da circa 9,6 milioni di abitanti (l’85% di etnia hutu, il 14% di etnia tutsi e l’1% ei etnia twa).
Cinque anni di fuga dopo il genocidio in Ruanda. Una vicenda individuale che rivela quella di tutto un popolo esule e martoriato nella RD Congo
La grande fuga La testimonianza di un prete ruandese
È
faticoso chiamarsi Sagahutu. L’identità “etnica” marchiata nel cognome. Un’appartenenza che accende sospetti, da quel 6 aprile del 1994 quando in Ruanda si scatenò il genocidio, su istigazione degli estremisti dello Hutu Power. Le vittime non furono esclusivamente Tutsi ma anche Hutu “moderati”. In ogni caso, la “consanguineità” tra Hutu esecutori del genocidio da una parte, e Hutu… e nulla più dall’altra, ha fatto ricadere su di tutti, indiscriminatamente, il sospetto. Dal giorno in cui l’Fpr ha preso il potere a Kigali, le sue truppe - Apr - si sono messe a “ripulire” il Ruanda comportandosi da padrone di casa anche nel vicino Zaire, l’odierna Rd Congo. Joseph Sagahutu era all’epoca un giovane prete ruandese. Nel pieno della bufera aveva trovato asilo e speranza nel Sud Kivu, presso
e pericolo da semplici laici l’arcivescovo di Bukavu, e da missionari, tra cui un Christophe Munzihirwa. Padre Bianco belga, riesce Quando questi venne masa mettersi definitivamensacrato da uomini dell’Apr, te in salvo con un’ultima, segno d’inizio dell’occuparocambolesca fuga verso zione, ricominciò la grande Lubumbashi e Lusaka. Trafuga - lunga cinque anni vestito da suora. - dell’abbé Joseph. Il libro Joseph Sagahutu vive da che ne ha tratto, uscito ora Come un dieci anni in Belgio, anin italiano, non è solo la romanzo cora in attesa dello stato di sua avventurosa vicenda Joseph Sagahutu, rifugiato. Il titolo del suo ma il documento di perseIl genocidio “romanzo” s’ispira agli apcuzioni, sofferenze ed ecsilenziato. Un prete scampato pelli - lanciati tra gli altri cidi che si sono abbattuti ai massacri del da Emma Bonino, all’eposull’insieme dei rifugiati Congo racconta. ca commissario Ue per ruandesi come sulla popoEmi 2010, gli Aiuti umanitari - che lazione locale. Fra le altre pp. 142, 11 euro parlavano di «contro-getraversie, don Sagahutu è nocidio» e di «genocidio sfuggito per caso alla carneficina, a Kalima, del gruppo di do- silenzioso» nell’Est del Congo-Zaidici religiosi con cui divideva l’esilio re… Una dolorosa pagina che non si è (vedi pag. 79). Protetto a loro rischio ancora richiusa. •
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togu na - la casa della parola lettere Onore al Mozambico È ingeneroso occuparsi del Mozambico solo per denunciare la piaga delle mine e la svendita delle terre alle multinazionali (Africa 3/2010). Collaboro con Maputo da quasi 10 anni, nel settore dell’import-export, e posso testimoniare gli enormi passi avanti effettuati dalla classe imprenditoriale e politica locale. Il Paese ha riportato un tasso di crescita elevato con una media annua del 7%, diventando una delle economie emergenti più dinamiche del continente africano. Inoltre la stabilità politica ha determinato una forte attrazione di investimenti esteri. Un esempio raro e prezioso nell’Africa dilaniata da guerre e malgoverno. Alessandro Sammartino, via mail
Occhio ai ladri Sono appena tornata da un vacanza in Kenya. Tutti i miei amici mi avevano avvertita di stare attenta ai delinquenti di Nairobi. Persino l’agenzia viaggi si era preoccupata di mettermi in guardia sulla criminalità locale. Com’è andata? È andata che in Kenya ho trascorso dieci giorni sereni e senza problemi. Ma di ritorno in Italia, all’aeroporto di Fiumicino, mi hanno rubato borsa e portafoglio. Italiani brava gente? Susanna Gandini, Civitavecchia
Benefici Mondiali Le critiche alle spese sostenute dalle autorità sudafri76 africa · numero 4 · 2010
a cura della redazione
cane per i Mondiali di calcio sono strumentali. Solo una minima parte degli investimenti totali (4miliardi di dollari) è stata destinata alla costruzione di nuovi stadi. Il 70% dei soldi è stato utilizzato per potenziare le infrastrutture, i trasporti, le telecomunicazioni, l’ospitalità turistica… Grandi opere che resteranno dopo la fine della competizione calcistica, permettendo di far crescere l’economia del Sudafrica. Gianfranco Mensurati, Roma
Scandali Mondiali La Coppa del Mondo di calcio in Sudafrica è una vergogna. Con i soldi spesi per la costruzione degli stadi, il governo locale avrebbe potuto realizzare decine di migliaia di abitazioni di edilizia popolare. Oppure avrebbe potuto investire una valanga di risorse nella cura e nella prevenzione dall’Aids, piaga sociale che sta falcidiando un’intera generazione di sudafricani. Alberto Civati, Milano
Proibite l’esame di castità L’esame di castità ritornato in voga tra gli Zulu, in Sudafrica, andrebbe vietato per legge. Si tratta di una odiosa violenza perpetrata da una società maschilista. Una volgare forma di controllo sociale, una tradizione discriminatoria che non fa onore ad un Paese che ha avuto una lunga storia di lotte per i diritti civili di tutti, uomini e donne. Patrizia Zoia, Brugherio (MI)
Rispettiamo la diversità Il rituale controllo della verginità delle adolescenti Zulu fa parte delle tradizioni di questo popolo: chi siamo noi per chiederne l’abolizione? Spetta semmai alle donne Zulu rifiutarsi di sottoporsi al test (che - lo ricordo - non è affatto obbligatorio). Pare invece che le giovani Zulu abbiano piacere a sventolare il loro certificato di castità. E allora perché indignarsi? Dovremmo avere più rispetto per la cultura tradizionale e non dare giudizi affrettati e presuntuosi. Non dobbiamo insegnare ai popoli dell’Africa come si sta al mondo. Guido De Pascale, Urbino
Delusioni Mondiali
ci avidi e corrotti. Ma non commettete l’errore di generalizzare con un’analisi superficiale. La gran parte della popolazione eritrea non ha responsabilità per la crisi e soffre ingiustamente per questa situazione. Abbiamo lottato per decenni sognando una patria libera e sviluppata. Non meritiamo questa fine, non meritiamo questi governanti. Tekle Tesfahiwet, via mail
Guinea dimenticata? Perché non parlate mai della Guinea Equatoriale, piccola ma interessante nazione in cui ho avuto la fortuna di vivere e lavorare per due anni della mia vita? Elisa Spinelli, Monza
Doveva essere il Mondiale di calcio dell’Africa. Ma lo spettacolo offerto sui campi è stato un disastro. Camerun, Sudafrica, Algeria e Nigeria hanno giocato con le gambe molli e le idee confuse. Non è bastato il talento di pochi, la passione e la voglia di stupire il mondo. È mancata l’organizzazione, la tattica, l’idea di squadre vere e competitive. Solo il Ghana si è salvato, ma il calcio africano ha fatto una pessima figura. E ha deluso chi, come me, sperava in ben altri risultati. Carlo Pedrocchi, Firenze
Non disperi cara lettrice, sarà presto accontentata: sul numero di settembre di Africa pubblicheremo un ampio reportage dedicato alla Guinea Equatoriale. Attendiamo, volentieri, di leggere i suoi commenti.
Gli Eritrei sono migliori
Prendete anche voi la parola nella “Togu na”. Scrivete a: Africa C.P. 61 24047 Treviglio BG oppure mandate una mail: africa@padribianchi.it o un fax: 0363 48198
Il reportage sull’Eritrea pubblicato sull’ultimo numero di Africa fa male. Perché mostra il nostro amato Paese, ridotto in ginocchio da una cricca di politi-
Complimenti da Nairobi Ho ricevuto l’ultimo numero di Africa. La vostra rivista, ben confezionata, è uno strumento indispensabile per chi lavora con l’Africa. Grazie. Ciao Enzo Nucci corrispondente Rai, Nairobi
n. 4 luglio.agosto 2010 www.missionaridafrica.org
se un chicco di grano… Due vite per la Missione Padre Tiziano e don Luigi: due fratelli che hanno vissuto il proprio sacerdozio,con gioia e entusiasmo al servizio della Missione In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. (Gv. 12,24) È facile ritrovare in queste parole lo spunto per rileggere la figura e l’opera di p. Tiziano Guglielmi, dei Padri Bianchi, nato nel 1944 a Borzano di Albinea, Reggio Emilia, e cresciuto nella parrocchia di S. Maurizio, dove tuttora vivono i suoi parenti. Nel trentesimo anniversario della sua morte, e accomunando nel ricordo anche
il fratello don Luigi scomparso 14 anni fa, il Gruppo Rwanda “P. Tiziano” ha voluto proporre un momento di riflessione e confronto per ridare voce a padre Tiziano e a don Gigi attraverso alcune testimonianze. Oltre 150 persone si sono ritrovate nella parrocchia di S. Maurizio, accanto al piccolo cimitero dove riposa don Luigi e dove padre Tiziano è ricordato con una lapide. Marcello, il più giovane dei nipoti, aveva da tempo espresso il desiderio dei giovani partecipanti ai campi di lavoro di conoscere meglio questa affascinante figura di giovane missionario. Proprio per rispondere a questo desiderio, l’incontro si è aperto con la biografia di Tiziano. Simpatico e gioviale, come viene descritto dal fratello don Luigi nel libro La collina di Munyaga (edizione EMI), Tiziano accoglie la vocazione al servizio missionario durante gli anni del Seminario. Entra quindi nella Società dei Padri Bianchi, ove matura la sua disponibilità per l’Africa.
di Paola Campo Ordinato sacerdote, insieme a don Luigi, il 29 Giugno 1969, parte immediatamente per il Ruanda. La lontananza non interrompe i legami di amicizia intessuti nella sua terra. Da questa amicizia nasce anzi il desidero spontaneo, soprattutto dei più giovani, di andare in missione per conoscerne e condividerne l’esperienza. Richiamato in Italia nel 1973, viene nominato a Treviglio, ove opera tra i giovani. Un “ex ragazzo” di quello che era chiamato l’oratorio dei Padri Bianchi rievoca i suoi ricordi: “Pareva un ragazzo come noi: capelli rossi, simpatico, diretto, ottimo suonatore di chitarra e fisarmonica”. Tra un incontro per condividere la sua esperienza in Africa e una partita di calcio, tra una celebrazione liturgica e tanta disponibilità all’ascolto, padre Tiziano ha abbondantemente seminato nella comunità, favorendo il sorgere di forti legami d’amicizia e guidando i laici
Molti partecipanti sono venuti da lontano per condividere i ricordi di padre Tiziano
padri bianchi . missionari d’africa
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ad una autentica corresponsabilità nella Chiesa locale. Tiziano propone un campo di lavoro in Africa, iniziando così l’esperienza, prima a Nyamata poi a Rwamgana, anche se non tutti comprendono il significato di questa proposta. Molti evidenziano il rischio di una sorta di “turismo missionario”. Guida i diversi gruppi che si avvicendano a vivere un’esperienza “forte” tra i Ruandesi, nella sobrietà e semplicità, impegnandosi in micro-realizzazioni di capanne o fontane, senza la pretesa di essere considerati Missionari. Padre Tiziano ha avvicinato la
sua comunità d’origine a quella della missione, coinvolgendo i laici nel suo servizio alla Chiesa. Membro di una Società missionaria, ha tuttavia condiviso l’idea del Vescovo Baroni di inviare i primi gruppi di religiose, sacerdoti e laici in quelle che oggi sono le missioni diocesane. Nel 1980 un incidente aereo strappa prematuramente padre Tiziano alla sua famiglia, alla comunità di Rwamagana, ai Padri Bianchi e ai numerosi amici. Aveva 36 anni. Là dove il piccolo bimotore è caduto, ai piedi del vulcano Bisoke, oggi c’è un’elica piantata nel terreno accanto ad una croce.
E nel piccolo cimitero di Rwamagana, sulla strada per Kibungo, direzione Tanzania, riposa padre Tiziano, donato definitivamente dalla sua famiglia al “suo” Ruanda. E il buon seme sparso è destinato a portare molto frutto. Gli amici hanno raccolto la sua preziosa eredità: i campi estivi continuano, accanto alle micro-realizzazioni ci si impegna per dare vita ad un sogno di Tiziano: un Centro di Sanità, a cui seguiranno il mulino, la sorgente, …fino ad arrivare alla costruzione, ancora in corso, di un Centro scolastico sulla collina di Munyaga.
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140 anni d’africa, ma la loro missione non è finita A tanto ammonta, in cifre, la vita missionaria di quattro Padri Bianchi che a Castelfranco Veneto hanno celebrato i loro anniversari giubilari di giuramento e di sacerdozio
In un clima gioioso si sono festeggiati anche quest’anno gli anniversari di giuramento missionario e di ordinazione sacerdotale di alcuni confratelli. Quattro i padri al centro dell’attenzione. Isaia Bellomi, decano della comunità di Castelfranco, 65 anni di sacerdozio; Aldo Giannasi, 50 di sacerdozio; mentre Fausto Guazzati e Mariano Ceccon commemoravano il mezzo secolo dal loro giuramento missionario. La Società dei Padri Bianchi non è composta solo da
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di Aldo Giannasi sacerdoti, ma anche da fratelli laici, per questo la consuetudine vuole che gli uni e gli altri festeggino assieme il giuramento, atto fondatore del comune impegno per la missione. Qualcuno si è occupato di fare la somma degli anni trascorsi in Africa dai giubilari: ne ha calcolati ben 140! Il nome ufficiale di “Missionari d’Africa”, che i Padri Bianchi hanno adottato nel 1968, è dunque ben meritato! Ma facciamo conoscenza dei quattro giubilari.
P. Isaia Bellomi
89 anni, di cui 45 passati in Africa, partì nel lontano 1947, quando si riaprirono le porte della missione, restate chiuse per anni a causa non solo della guerra ma anche del rifiuto di inglesi, francesi e belgi di accettare nelle rispettive colonie gli “ex nemici” italiani e tedeschi. Padre Isaia faceva parte del primo gruppo di partenti. È poi restato in Ruanda tutta la vita, tolti due soggiorni in Italia.
R.D. CONGO MALI
RUANDA
Ha assistito alla crescita spettacolare della comunità cristiana e alla nascita della gerarchia locale. In un Paese diviso, però, fra Tutsi e Hutu, il cui odio ha covato sotto la cenere, fino ad esplodere come sappiamo, nel 1994. È stata la grande tragedia della sua vita missionaria. Nella tormenta dei massacri, si adoperò a salvare chi era in pericolo. Dopo il genocidio, venne accusato di aver parteggiato per gli Hutu e messo agli arresti domiciliari. Di ritorno in Italia, porta in cuore e nella preghiera la sofferenza della sua gente. La missione è anche questo: seminare nelle lacrime…
«Ma ho anche tanti ricordi confortanti», aggiunge. «Ho assistito alla crescita della comunità cristiana. E nel momento della tormenta, erano loro a nascondere chi era in pericolo, anche a rischio della vita. Prima di partire, ho potuto vedere una Chiesa, nata dalla missione, diventare a sua volta missionaria. Oggi sono numerosi i Padri Bianchi originari del Congo che lavorano in altri Paesi africani».
P. Aldo Giannasi P. Mariano Ceccon
P. Mariano, 74 anni, parte per il Congo nel 1962. Rimane una trentina d’anni nella diocesi di Kasongo, nel Sud-Kivu, all’est del Paese. Studia la lingua, gli usi e costumi locali e poi si dedica alla pastorale. Accompagna i catecumeni al battesimo, segue i catechisti, visita le succursali lontane della missione, anima i cristiani. È felice. Nel 1964 scoppia la rivolta di Pierre Mulele che conquista i tre quarti del Paese. Improntata al modello cinese, la rivolta non risparmia i missionari: più di 200 le vittime tra sacerdoti, suore e laici. Nel 1997, una nuova tragedia. LaurentDésiré Kabila, sostenuto dai Ruandesi, si rivolta contro il governo di Mobutu e si lancia alla conquista di Kinshasa. Nell’avanzata, i Ruandesi non perdonano gli Hutu scappati dal Ruanda dopo il genocidio. I padri della missione fanno l’impossibile per nascondere otto preti e tre suore hutu, che vengono però presi e uccisi (vedi p. 75). «È stato il dolore più grande di tutta la mia vita missionaria», afferma il padre.
La sua vita missionaria si è svolta in Africa occidentale, nel Mali. Non ha dovuto assistere a guerre o a scontri tribali. Il dramma per la gente consisteva nelle ricorrenti siccità che hanno assetato un Paese già di per sé arido, distruggendo i raccolti. Nella prova, cristiani, musulmani e animisti hanno saputo darsi la mano e lottare insieme. L’impegno comune ha favorito la conoscenza reciproca, il dialogo, l’amicizia. È vissuto in una Chiesa piccola, il 2% della popolazione, ma viva e attiva, che ha saputo guadagnarsi il rispetto del Paese. Alla sua partenza - è questo uno dei suoi ricordi più belli - un gruppo di studenti andò a salutarlo. «Noi siamo musulmani - gli disse - ma da quando frequentiamo la biblioteca e vi conosciamo, siamo diventati dei musulmani amici dei cristiani!».
P. Fausto Guazzati
Anche padre Fausto, 74 anni, ha trascorso la sua vita in Congo, nell’Est, diocesi di Bukavu. Ha passato i primi sei anni in foresta, nella pastorale di base. Più tardi è stato chiamato ai servizi generali dei Padri Bianchi e della diocesi, occupandosi dei viaggi, delle pratiche dei confratelli e della
padri bianchi . missionari d’africa
loro salute. La sua predisposizione per le relazioni sociali lo ha molto aiutato. Anche a lui non sono state risparmiate le prove: Mulele nel 1964 e, tre anni più tardi, la rivolta dei mercenari. «Dove passa la guerra - dice - sono sempre i più deboli a pagarne le conseguenze». Un ricordo personale doloroso. Nel 1996, i Ruandesi penetrano in Congo in sostegno a Kabila. Un mattino, padre Fausto si trovava in riunione con il vescovo di Bukavu e il provinciale dei Padri Bianchi. Nel pomeriggio venne poi a sapere dell’assassinio del vescovo da parte dei ruandesi e del ferimento del provinciale. I ricordi più belli? La generosità dei Congolesi nel Centro per handicappati di Bukavu e nel lebbrosario, la disponibilità dei catechisti nelle succursali, la solidarietà. I poveri sanno aiutare i poveri.
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Testimonianze preziose La missione è l’annuncio del Vangelo, ma attraverso la vicinanza fraterna con il popolo cui si è inviati. Il missionario è segno di speranza e di riconciliazione, sempre, nelle ore felici come nel momento della prova. È questa la testimonianza che ci lasciano i 4 giubilari. Ora che sono ritornati, la loro missione non è finita: continua attraverso la preghiera, esprimendo la comunione nella fede con i senza voce e i senza forza.
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