Africa Nr 4-2013 Luglio-Agosto 2013

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n.4 luglio-agosto 2013

anno 91

www.missionaridafrica.org

nigeria Nigeria

Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 , DCB Milano.

Nel regno del terrore

namibia Namibia

Al di lĂ delle dune

Ruanda

un Un eroe missionario

Marocco

donne Donne a tutto gas

Congo

il popolo del fiume


A. Semplici

Dialoghi sull’Africa

e n o i z i d e 3a

Un weekend di incontri per capire, conoscere e confrontarsi

Geneviève Makaping, giornalista e antropologa Raffaele Masto, scrittore e giornalista Marco Pastonesi, giornalista a La Gazzetta dello Sport Alberto Salza, antropologo Pietro Veronese, giornalista a la Repubblica M. Merletto

Claudio Agostoni, giornalista a Radio Popolare Marco Aime, antropologo Valentina Furlanetto, giornalista a Radio 24 Francoise Kankindi, Ass. Bene Rwanda Elisa Kidanè, missionaria e giornalista

Quando: sabato 23 e domenica 24 novembre 2013 Dove: redazione Africa, Treviglio (BG) Quota di partecipazione: 200 euro, studenti 150 euro Numero partecipanti: 30 Info: animazione@padribianchi.it 334.2440655 www.missionaridafrica.org I primi 8 iscritti possono fruire dell’ospitalità, semplice ma gratuita, offerta dai missionari Padri Bianchi

LIONS CLUB – TREVIGLIO HOST


editoriale

Sete di Libertà Mentre ci accingiamo a mandare in stampa questo numero, giungono notizie sempre più allarmanti sullo stato di salute di Nelson Mandela. Volendo rendere omaggio al grande leader sudafricano, pubblichiamo uno stralcio dalla sua autobiografia Long Walk to Freedom

gress, e la mia sete di libertà personali si è trasformata nella sete più grande di libertà per la mia gente. Non sono più virtuoso e altruista di molti, ma ho scoperto che non riuscivo a godere nemmeno delle piccole e limitate libertà che mi erano concesse sapendo che la mia gente non era libera.

«S

ono nato libero di correre nei campi vicino alla capanna di mia madre, di nuotare nel limpido torrente che scorreva attraverso il mio villaggio, di arrostire pannocchie sotto le stelle, di montare sulla groppa capace dei lenti buoi. Solo quando ho scoperto che la libertà della mia infanzia era un’illusione, che la vera libertà mi era già stata rubata, ho cominciato a sentirne la sete. Dapprima, quand’ero studente, desideravo la libertà per me solo, l’effimera libertà di stare fuori la notte, di leggere ciò che mi piaceva, di andare dove volevo. Più tardi, a Johannesburg, 1

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quand’ero un giovane che cominciava a camminare sulle sue gambe, desideravo le fondamentali e onorevoli libertà di realizzare il mio potenziale, di guadagnarmi da vivere, di sposarmi e di avere una famiglia, la libertà di non essere ostacolato nelle mie legittime attività. Ma poi lentamente ho capito che non solo non ero libero, ma non lo erano nemmeno i miei fratelli e sorelle; ho capito che non solo la mia libertà era frustrata, ma anche quella di tutti coloro che condividevano la mia origine. È stato allora che sono entrato nell’African National Con-

La libertà è una sola: le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti, e le catene del mio popolo erano anche le mie. È stato in quei lunghi anni di solitudine che la sete di libertà per la mia gente è diventata sete di libertà per tutto il popolo, bianco o nero che sia. Sapevo che l’oppressore era schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità. Da quando sono uscito dal carcere, è stata questa la

mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori. Alcuni dicono che il mio obiettivo è stato raggiunto, ma so che non è vero. La verità è che non siamo ancora liberi: abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi, il diritto di non essere oppressi. Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo su una strada che sarà ancora più lunga e più difficile; perché la libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri. Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi circonda, per guardare la strada che ho percorso...». • Nelson Mandela


sommario

lo scatto Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) EditorE

Prov. Ital. della Soc. dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi dirEttorE rEsponsabilE

Alberto Rovelli

dirEttorE EditorialE

Paolo Costantini CoordinatorE

Marco Trovato wEbmastEr

Paolo Costantini amministrazionE

Bruno Paganelli

promozionE E UffiCio stampa

Matteo Merletto

progEtto grafiCo E rEalizzazionE

Elisabetta Delfini

dirEzionE, rEdazionE E amministrazionE

Cas. Post. 61 - V.le Merisio 17 24047 Treviglio (BG) tel. 0363 44726 - fax 0363 48198 africa@padribianchi.it www.missionaridafrica.org http://issuu.com/africa/docs

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copertina

40 Il popolo delle cateratte di Andrew McConnel

attualità

3 4 Esilio tuareg 10 Lady Sicurezza 12 Nel regno del terrore 18 L’Africa aiutata dai migranti 20 Pesca grossa Africanews

a cura della redazione

di E. Zuccalà e L. Savino di Thomas Winchester

di D. Bellocchio e M. Gualazzini di Raffaele Masto

foto

Copertina Andrew McConnell/ Panos Pictures Si ringrazia Olycom CoordinamEnto E stampa

Jona - Paderno Dugnano

Periodico bimestrale - Anno 91 luglio-agosto 2013, n° 4

Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la testata e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 196 del 30/06/2003 - tutela dei dati personali).

di F- Abdiwahab e S. Price

società

24 I mulini di William 28 Due ruote di libertà 32 A scuola con i clown 34 Soweto Glamour

di C. Gouverneur e O. Touron di S. Tadili e C. Fohlen di Damiano Rossi

di Daniele Tamagni

africa rivista

@africarivista

8. Contro la casta Kenya

38. La meglio gioventù Tunisia

cultura

50 Cairo, laboratorio creativo 54 Da emigrato a ministro 56 È tempo di bang! di Bruno Zanzottera di Anna Pozzi

di Paola Marelli

viaggi

58 Pianeta Namibia

di Alessandro Gandolfi

sport

64 Duelli a Dakar

di L. De Michele e A. Vanni

chiesa

68 74 Notizie in breve togu na 76 vita nostra 77 «Non sono un eroe»

di M. Trovato e B. Zanzottera A cura di Anna Pozzi

a cura della redazione

a cura della redazione

libri - musica

48 Libri e musica

di P. M. Mazzola e C. Agostoni

COME RICEVERE AFRICA per l’Italia:

Contributo minimo consigliato 30 euro annuali da indirizzare a: Missionari d’Africa (Padri Bianchi) viale Merisio, 17 - 24047 Treviglio (BG) CCP n.67865782 oppure bonifico bancario su BCC di Treviglio e Gera d’Adda Missionari d’Africa Padri Bianchi IBAN: IT 93 T 08899 53640 000 000 00 1315

per la Svizzera:

Ord.: Fr 35 - Sost.: Fr 45 Africanum - Rte de la Vignettaz 57 CH - 1700 Fribourg CCP 60/106/4

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news

a cura della redazione

Africanews, brevi dal continente 1 Senegal, costosissimo Obama Il viaggio in Africa che il presidente americano Barack Obama ha effettuato a fine di giugno è costato ben 100 milioni di dollari. In Senegal, Sudafrica e Tanzania l’amministrazione Usa ha inviato centinaia di militari e 56 mezzi terrestri di supporto, tra cui 14 limousine e 3 camion pieni di lastre di vetro antiproiettile per le finestre degli alberghi.

2 Nigeria, pirati del petrolio Il Golfo di Guinea è diventato più pericoloso del Corno d’Africa: nel corso dell’ultimo anno i pirati hanno messo a segno 966 attacchi in Africa occidentale (contro 851 lungo le coste della Somalia), prendendo di mira le navi che trasportano il petrolio nigeriano. Cinque delle 206 persone prese in ostaggio sono state uccise.

3 Burundi, stampa imbavagliata È entrata in vigore la contestata legge sulla stampa voluta dal presidente Pierre Nkurunziza. La nuova norma obbliga i giornalisti a rivelare l’identità delle loro fonti in merito a pubblicazioni che riguardano la pubblica sicurezza e prevede pesanti sanzioni e multe che hanno la finalità di intimidire i cronisti.

4 Mali, pace ed elezioni Il governo di Bamako e i ribelli tuareg del nord hanno siglato un accordo di pace cruciale in vista delle elezioni presidenziali del 28 luglio. Al centro dell’intesa c’è il dispiegamento dell’esercito regolare nella città di Kidal e il disarmo dei combattenti tuareg che controllano ancora il capoluogo nord-orientale.

5 Zimbabwe, elezioni roventi Non si placa lo scontro politico ad Harare. Il capo di Stato Robert Mugabe ha convocato le elezioni presidenziali e legislative per il 31 luglio. Ma la decisione è stata contestata dal primo ministro Morgan Tsvangirai, leader del principale partito di opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico, il quale chiede che prima di andare alle urne sia approvata una nuova legge elettorale e garantito un maggior pluralismo dell’informazione.

6 Rep. Centrafricana, ancora sangue Sedici persone sono rimaste uccise e altre decine ferite, negli attacchi messi a segno in giugno dai ribelli ugandesi dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) nella regione diamantifera di Bria (nordest). Le autorità di Bangui

hanno lanciato un’operazione militare per stanare i miliziani dell’Lra.

7 Sudan, due mesi per la pace Due mesi di assemblee e dibattiti sulla guerra, ma anche preghiere e incontri tra differenti comunità religiose ed etniche: ha preso il via il processo di “riconciliazione nazionale”, in programma dal primo luglio a fine agosto, promosso dalle Chiese del Sud Sudan in collaborazione con il governo di Juba. Obiettivi dichiarati: consolidare la pace, superare le barriere politiche, riconciliare tutti i sud-sudanesi.

sud-est del Paese, il Parco di Sapo ospita 125 specie di mammiferi e 590 di uccelli, tra cui figurano molte a rischio estinzione, come il gatto dorato, la civetta africana o gli ippopotami pigmei.

9 Gabon, petrolio senza lavoro Il petrolio non crea lavoro: lo confermano i dati diffusi dalla Banca mondiale sul Gabon, quarta potenza petrolifera dell’Africa subsaharianadove il tasso di disoccupazione tra i giovani supera il 30%. Malgrado la crescita economica del Paese, il problema occupazionale non diminuisce. Fonti: Bbc, Jeune Afrique, Misna, Reuters

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8 Liberia, ritorno alla natura Inaugurato un centro di studi e ricerca nel Parco nazionale di Sapo, una delle aree protette di foreste tropicali più estese dell’Africa occidentale. Cuore della sua attività sarà la formazione di esperti liberiani nella tutela della biodiversità. Situato nel

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attualità

testo di Emanuela Zuccalà foto di Loris Savino

Esilio tua L’

Gli scontri armati nel nord del Mali tra soldati regolari (appoggiati dall’esercito francese) e milizie jihadiste hanno provocato un’ondata di profughi e sfollati, in maggioranza tuareg. Vi raccontiamo la loro odissea 4

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uomo sulla cinquantina avvolto in una tunica lilla siede nell’aria densa di sabbia fuori dalla sua capanna. Lui non legge le notizie di cronaca. Non sa che potrebbe essere un testimone chiave nell’inchiesta che la Corte penale internazionale ha avviato in gennaio sui massacri di civili nel Nord del Mali. «Andavo a vendere merci a Niono», racconta. «Sul furgone con me c’erano degli sconosciuti. A un posto di blocco, al crepuscolo, dei militari ci hanno fermati e all’improvviso hanno aperto il fuoco contro di noi. Io ho cominciato a correre, ho corso per cinque giorni e cinque notti.

Tornato qui mi hanno detto che, di 18 che eravamo sul furgone, eravamo sopravvissuti solo in due». Era il massacro di Diabaly dell’8 settembre 2012, in cui furono uccisi 16 religiosi disarmati. Una delle stragi delle quali la Corte dell’Aia cerca le responsabilità. Ma il nostro testimone non ha dubbi: «È stato l’esercito maliano a sparare». Siamo nel campo di rifugiati di Mberra, nell’estremo sudest della Mauritania. A soli 50 chilometri da qui inizia l’Azawad, il grande Nord del Mali in guerra: un caos in cui l’esercito regolare, appoggiato dalla Francia, fronteggia le milizie terroristiche di matrice

fondamentalista che imperversano nella regione. E intanto è strage di civili.

Oasi di tende Mberra è un agglomerato di tende e baracche nel cuore del Sahel, a mezz’ora di jeep dal villaggio mauritano di Bassikounou. Si atterra qui su piccoli velivoli del Programma alimentare mondiale, e per noi europei ci vuole un permesso del governo mauritano e dell’Onu perché il rischio di essere rapiti dai terroristi è altissimo. I rifugiati sono 70mila, ma i dati fluttuano continuamente: ogni giorno, in media, 250 maliani attraversano la frontiera di Fassala e chiedono asilo per sfuggire al san-


areg gue e ai saccheggi. Sono soprattutto donne e bambini perché molti uomini restano in Mali con il loro bestiame, pregando che il flagello si plachi. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, la crisi scoppiata in Mali lo scorso anno ha generato 430mila profughi: 260mila sfollati interni, mentre gli altri sono riparati in Burkina Faso, Niger, Algeria. Ma è la Mauritania ad accoglierne il numero maggiore, cresciuto da gennaio dopo l’operazione Serval della Francia. «I rifugiati sono al 90% tuareg», spiega Elizabeth Kabankaya di Intersos, l’unica organizzazione umanitaria presente a Mberra.

E passa in rassegna le emergenze principali del campo: «Le complicazioni al parto, le infezioni respiratorie, la dissenteria, la malnutrizione dei bambini». La rabbia e l’esasperazione della gente. Quella che indurisce gli occhi di Sanou Mint Alhad, quarantenne di etnia songhai. Un anno fa, nella regione di Timbuctu, il marito andava a vendere vacche nella città di Léré: «È stato ucciso perché era con un gruppo di Tuareg. Sono morti tutti». Sanou parte alla ricerca del cadavere, lo trova, lo carica su un carretto e lo seppellisce accanto a casa. Poi, con i 7 figli e i 7 nipoti già orfani, fugge a Mberra. Immobile

Mauritania, reportage tra i profughi maliani in fuga dalla guerra nel caldo avvilente, continua a chiedersi perché.

Terrore nel deserto In Mali la linea del fronte è porosa. La lotta contro i jihadisti si confonde con gli antichi conflitti etnici fra i Tuareg del Nord e i Bambara del Sud. Secondo i primi, da sempre emarginati, sono i Bambara dell’esercito maliano a uccidere la gente comune al Nord. Il governo del Mali punta invece il dito contro le bande islamiste che imperversano ormai in tutto il Sahel, e che secondo Bamako si sarebbero alleate con i secessionisti tuareg dell’Mnla, il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad. Questi a loro

volta si proclamano estranei al terrore e alla jihad, e unica guida possibile per un Nord laico e indipendente. Un groviglio di accuse incrociate. «Non sforzatevi di dare una visione logica delle dinamiche dei gruppi ribelli: se ne formano sempre di nuovi, con nuove alleanze», ci allerta Alessandra Giuffrida, un’antropologa italiana specialista di società tuareg in visita a Mberra. «I terroristi erano già presenti nell’area nel 2006 - prosegue - e ora c’è il rischio che il conflitto si estenda ai Paesi confinanti». Molti rifugiati sono convinti che il governo del Mali abbia dilapidato in ville con piscina e auto africa · numero 4 · 2013

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attualità

L’instabilità del nord del Mali alimenta l’esodo dei civili tuareg in fuga dei miliziani jihadisti legati ad Al Qaeda. Le agenzie umanitarie incaricate di assistere gli sfollati in Mauritania hanno lanciato un allarme per le disastrose condizioni dei campi profughi

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di lusso i milioni stanziati dagli Stati Uniti contro il terrorismo nel Sahel, per poi scaricare sui Tuareg la colpa dell’anarchia di oggi.

Aiuti italiani Deija Mint Saloum ha 22 anni e i nervi tesi. «Studiavo scienze politiche all’università di Bamako - dice - ma gli eventi sono precipitati e tutta la mia famiglia è fuggita, così ho dovuto interrompere gli studi: chi mi restituirà questo tempo perduto?». Deija vuole diventare magistrato per difendere i diritti delle donne: la incontriamo al centro di ricezione dei rifugiati, dove chi ha appena passato la frontiera attende nella flebile ombra di una pensilina. Persone di ogni età, uniformi negli sguardi disorientati. Deija parla tutte le lingue del Mali: Intersos l’ha scelta tra i mediatori che sondano i bisogni dei rifugiati, e ora dialoga con una giovane che ha in braccio due gemelli neonati, magri e silenziosi, partoriti sulla strada dell’esilio. In una delle sei scuole



lo scatto

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contro testo di Nzioka Museru foto di Tony Karumba/Afp

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kenya

la casta M

anifestanti kenioti prendono a calci un maiale di cartapesta imbrattato di sangue: è l’insolita protesta anti-casta andata in scena nelle scorse settimane davanti al Parlamento di Nairobi, la capitale del Kenya. Centinaia di persone sono scese in piazza per contestare la decisione dei deputati locali - già tra i più pagati al mondo - di aumentarsi lo stipendio, portandolo a circa 8mila euro al mese (oltre 100 volte superiore al salario medio di un lavoratore). Ai cortei hanno partecipato anche decine di veri suini liberati dai dimostranti nelle strade della città. «I maialini simboleggiano l’ingordigia dei nostri politici», ha spiegato Boniface Mwangi, leader del gruppo Occupy Parliament che è finito in manette insieme a dozzine di altri manifestanti. •

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attualità

testo di Thomas Winchester

In Zimbabwe difendersi dai delinquenti è affare di donne

Divine Ndhlukula, 52 anni, guida la maggiore società nel settore della vigilanza e protezione privata in un Paese alle prese con il crescente problema della criminalità 10

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a rivista Forbes nel 2001 l’ha proclamata «imprenditrice africana di maggior successo». L’anno scorso si è aggiudicata il prestigioso concorso Africa Awards for Entrepreneurship, sbaragliando la concorrenza di 3.500 manager del continente. La Bbc le ha appena dedicato una puntata della trasmissione African Dream.

Lotta ai pregiudizi Divine Ndhlukula, 52 anni, nata e cresciuta in Zimbabwe, avrebbe più di un motivo per montarsi la testa. Ma è una donna prudente, abituata a tenere i piedi ben piazzati per terra. Del resto vive e lavora in un nazione fragile, alle prese con una difficile situazione economica e politica (vedi box...), dove il

Eletta Donna Africa dell’anno per il 2013 il 16 marzo scorso, Devine Ndhlukula, ha dedicato questo premio al suo Paese e «a tutte le donne africane che lottano ogni giorno per la giustizia, la pace e la prosperità»



attualità

testo di Daniele Bellocchio foto di Marco Gualazzini

Nel regno

terrore 12

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Reportage dal cuore ferito della Nigeria

del Il Paese più popoloso d’Africa è scosso dagli attentati della setta islamica Boko Haram. Ma la lunga scia di sangue non è il frutto dell’odio religioso, a fomentare le violenze ci sono questioni politiche africa · numero 4 · 2013

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attualità

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amminano trascinandosi i segni del massacro sul corpo e la vendetta sul volto, gli abitanti di Dogon Hawa: stato del Plateau, Nigeria centrale. È in questo piccolo paese nelle vicinanze di Jos che si riflette la guerra che sta insanguinando la nazione ormai da quasi quindici anni.

La prima strage È la notte del 7 marzo 2010: pastori fulani di fede musulmana armati di machete e kalashnikov piombano sul villaggio; lo circondano e poi scatenano la carnefi14

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cina. «Erano le tre di notte, stavamo dormendo, quando incominciammo a sentire spari provenire da tutte le direzioni», rammenta Polina Moddy, 40 anni e una mano senza dita, marchio indelebile di quell’incubo. «Io incominciai a correre con i miei bambini, scappavamo nel buio, nessuno sapeva dove andare, venni afferrata da alcuni uomini, uccisero i miei figli e mi colpirono col machete». Non c’è sopravvissuto alla strage che non abbia visto morire amici o parenti, o che non porti impresse nel

I musulmani attaccano le chiese, i cristiani attaccano le moschee. Ma non è una guerra di religione

corpo le ore infernali di quegli attimi di terrore. È seduto fuori dal baracchino che vende bibite nella piccola piazza Elisha Bot, 32 anni un braccio ricucito d’emergenza e l’altro marchiato dai segni delle pallottole. «Io sono cristiano; Dio e la mia religione mi insegnano a perdonare. Non è facile, ma di una cosa sono certo: anche se fossi in grado di farlo, non potrei però mai dimenticare».

Ingiustizia sociale Ma l’origine della strage va ricercata in un altro epi-



attualità

testo di Raffaele Masto

L’Africa aiutata Gli effetti benefici del denaro inviato dalla diaspora africana

L

a vera cooperazione tra Paesi ricchi e poveri del mondo la fanno i migranti. È un dato di fatto. Un recente studio realizzato da Adams Bodomo, professore ghanese di studi africani all’Università di Hong Kong, afferma che nel 2010 le rimesse dei migranti in Africa valevano poco meno di 52 miliardi di dollari, mentre gli aiuti allo sviluppo elargiti da Europa e Stati Uniti non hanno superato i 43 miliardi di dollari. Uno stacco netto a favore dei migranti di quasi 10 miliardi di dollari.

La vera cooperazione Il dato da solo però non esprime la differenza. Dagli aiuti allo sviluppo di Europa e Stati Uniti vanno sottratte, diciamo così, tutte le spese di produzio18

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Le rimesse degli immigrati africani in Europa e Stati Uniti valgono più degli aiuti allo sviluppo forniti dai governi stranieri. Lo rivela lo studio di un economista ghanese che ribalta il concetto stesso di cooperazione ne per realizzare gli aiuti, cioè pagamento di stipendi a cooperanti, affitto di locali e uffici, mezzi di locomozione, carburante ecc. Si tratta di costi non indifferenti che certamente si avvicinano a dimezzare

gli stanziamenti originari. Lo stacco netto a favore dei migranti, dunque, aumenta ulteriormente anche perché i 52 miliardi di dollari di rimesse si trasformano quasi integralmente in “aiuti allo sviluppo”. Gli africani in Europa infatti inviano denaro nei propri Paesi per mandare a scuola fratelli e sorelle, per cure sanitarie dei propri parenti, per la costruzione della casa di famiglia, per acquistare prodotti di prima necessità come riso, mais, fagioli, miglio, abiti, scarpe, dei quali la crisi ha fatto schizzare alle stelle i prezzi. Scuola, istruzione, sanità, alimentazione, gli stessi ambiti dei normali progetti di cooperazione, che però “costano” molto di più. Lo afferma anche Bodomo, nel suo studio: «Il valore

Nel 2011 l’Italia progettò di introdurre una tassa sui trasferimenti in denaro effettuati dagli immigrati presenti nel nostro Paese. Il progetto per il momento è stato accantonato aggiunto delle rimesse sta nella capacità di venire incontro a bisogni reali. Sono più efficienti - sottolinea lo studioso - perché si fondano su informazioni più precise; un migrante che vive all’estero sa di


Eritrea, regime fiscale

dai migranti cosa ha bisogno la sua famiglia in Africa, si tratti di soldi per pagare la retta scolastica, costruire una casa o avviare un’attività imprenditoriale».

Nel 2012 l’Africa ha ricevuto aiuti per 30miliardi di dollari: il 9% in meno rispetto al 2011. La crisi economica ha fatto crollare le donazioni dal nord del mondo

Chi aiuta chi? Se le cose stanno così, verrebbe da dire che chi volesse fare cooperazione dovrebbe mettersi al servizio dei migranti, cioè favorire le rimesse, magari organizzarle per villaggi, per zone rurali, per quartieri nelle baraccopoli delle grandi megalopoli in modo da renderle ancora più efficaci.

Una cosa che, concretamente, in Europa e Stati Uniti si potrebbe fare è quella di detassare gli invii di denaro. Lo scrive anche il ricercatore ghanese: «Circa il 12% del denaro inviato dalla diaspora attraverso i canali finanziari ufficiali viene inghiottito

dai costi bancari. Più che sugli aiuti dall’estero i governi dovrebbero puntare su una riduzione di queste tariffe». Infine, un’ultima riflessione che ci riguarda. Gli aiuti allo sviluppo di Europa e Stati Uniti, quei 43 miliardi di dollari di cui sopra, in buona parte si trasformano in stipendi di cooperanti, impiegati, funzionari, direttori, logisti europei e nordamericani. In sostanza sostengono l’occupazione in Paesi messi in ginocchio dalla crisi economica. In Italia uno studio di qualche tempo fa affermava che intorno al settore della cooperazione, delle Onlus, delle associazioni, delle Ong girassero tra le 30-40mila persone più o meno occupate. Insomma noi aiutiamo l’Africa e l’Africa aiuta noi: non dimentichiamolo. •

L’economia dell’Eritrea - messa in ginocchio da anni di malgoverno e di isolamento internazionale sopravvive solo grazie alle rimesse degli emigrati. Ma per far quadrare i conti dello Stato, il regime di Asmara, guidato da Isaias Afewerki, impone ai cittadini della diaspora un tributo pari al 2% dei redditi. Ogni migrante è obbligato a pagare. Altrimenti si vede rifiutare dalle ambasciate il rinnovo dei documenti necessari per tornare in patria e inviare aiuti alle famiglie. I controlli delle sedi consolari per evitare l’evasione fiscale sono stringenti. Ma tra le comunità di eritrei in Europa monta la protesta contro questa tassa gravosa (che naturalmente si somma ai tributi da versare agli Stati ospitanti) imposta da un regime autoritario che gode - dentro e fuori dall’Eritrea - di sempre meno simpatie e appoggi. (Enrico Casale) africa · numero 4 · 2013

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attualità

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testo di Fatima Abdiwahab foto Stuart Price/AFP/AU-UN

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A Mogadiscio torna in piena attività il mercato del pesce

Pesca grossa Dopo vent’anni di guerra civile e violenze fratricide, la capitale della Somalia cerca una difficile normalità. E i suoi pescatori riprendono a fare affari tra le macerie della città

È Un pescatore somalo trasporta uno squalo tra le macerie del quartiere portuale di Mogadiscio, devastato da ventidue anni di guerra civile. Dal mare al mercato in pochi minuti: il pesce venduto a Mogadiscio è freschissimo, malgrado il sole cocente. Tre anni fa il governo somalo controllava solo una piccola area di Mogadiscio, mentre i miliziani di Al Shabaab imponevano la sharia su gran parte del Paese. Oggi i miliziani sono stati cacciati da Mogadiscio

una processione inarrestabile, un incessante andirivieni di persone e pesci che si rinnova puntuale ogni mattina. Uomini e ragazzini con il volto imperlato dal sudore, curvi sotto il peso di enormi squali o pescispada. Fin dalle prime luci dell’alba fanno la spola tra il porto di Mogadiscio e il vecchio mercato ittico nel quartiere di Hammer Wayne. Camminano con passo deciso tra macerie di palazzi fatiscenti, muri cri-

vellati dai proiettili, strade sventrate dalle esplosioni. Impassibili e ostinati, portano sulle spalle il frutto del loro lavoro quotidiano, un bottino strappato con tenacia alle acque generose dell’oceano Indiano.

Voglia di normalità Sono il simbolo del desiderio di riscatto e di normalità di un intero popolo martoriato da oltre vent’anni di scontri armati e attentati terroristici. Dal 1991 la capitale della Soafrica · numero 4 · 2013

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attualità

malia è teatro di violenze fratricide che hanno contrapposto milizie tribali, soldati regolari, gruppi islamisti e signori della guerra. Nei momenti più bui della crisi umanitaria con il completo isolamento internazionale, i commerci paralizzati e l’intera città in balia dell’anarchia - l’in-

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defesso lavoro dei pescatori ha permesso di sfamare gran parte della popolazione civile. Dalle campagne non arrivava frutta né verdura, lo storico mercato di Bakaara (creato nel 1972 sotto il regime di Siad Barre) si era svuotato di generi alimentari: i sacchi di grano,



società

testo di Cédric Gouverneur foto di Olivier Touron/LightMediation

All’età di 14 anni William Kamkwamba ha realizzato uno stupefacente mulino a vento assemblando vecchie ferraglie e materiali di recupero. Da quel momento la sua vita è cambiata. E anche quella del suo villaggio

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ta calando la notte sul piccolo villaggio di Masitala, nel Malawi centrale. William Kamkwamba, studente in una prestigiosa università in Sudafrica, è tornato a casa per le vacanze di Natale. Nel cortile illuminato da una lampadina, parenti e amici si sono raccolti attorno a questo ragazzo di 23 anni dal fisico muscoloso e lo sguardo ispirato. Alle spalle della piccola folla si sente il rumore del mulino che ha cambiato la

Malawi, visita al villaggio illuminato (grazie al vento) da un ragazzo prodigio

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I mulInI dI africa · numero 4 · 2013


vita di William e dell’intero villaggio.

Anni tremendi In Malawi solo il 2% degli abitanti dispone di energia elettrica. Per chi vive in campagna la corrente è un lusso proibitivo. Nella maggior parte dei villaggi la notte è nera come la pece e al calar del sole ogni attività si ferma. Gli alunni non possono più leggere, qualsiasi lavoro diventa impossibile. Ma William Kamkwamba, figlio di po-

veri contadini, è riuscito a fornire energia alla sua famiglia e ai suoi compaesani. Per farlo ha utilizzato un mucchio di vecchia ferraglia. Ma soprattutto tanta intelligenza e tenacia. Non è una favola. La storia ha inizio nel 2001. Quell’anno, una tremenda siccità colpì le regioni centrali del Malawi. I raccolti andarono persi. La fame e la carestia colpirono milioni di persone. Nel villaggio la gente moriva a causa della malnutrizione e del

colera. «Eravamo diventati come scheletri», racconta William che all’epoca aveva tredici anni. «Ho ancora ben impresso nella memoria i sacrifici di quei terribili giorni… In casa mancava il cibo, a Natale masticammo solo la pelle bollita di una vecchia capra».

Studio e lavoro William giurò a sè stesso che si sarebbe impegnato per evitare che in futuro si ripetessero simili tragedie. Il ragazzo era sveglio, cu-

rioso, ambizioso. Sognava di diventare uno scienziato. Ma ben presto William fu costretto a lasciare la scuola: i suoi genitori erano troppo poveri per pagare la retta annuale di 80 dollari. Quando il padre gli comunicò la notizia, il ragazzo cadde nello sconforto. «Il mio futuro era segnato: avrei dovuto passare il resto della mia vita a spaccarmi la schiena nei campi di mais, per sopravvivere». William obbedì al padre: dalle quattro del mattino

dI WIllIam

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società

Il libro Armato di un vecchio manuale e di un mucchio di ingranaggi e pezzi di metallo raccolti in una discarica, William Kamkwamba realizzò la sua personale magia: imbrigliare la forza del vento e trasformarla in luce, acqua, vita. La sua storia vera è raccolta in un libro per tutte le età. Il ragazzo che catturò il vento di William Kamkwamba (Rizzoli 2010, pp. 312, euro 15,00.

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lavorava nelle piantagioni. Ma dopo pranzo cominciava la sua seconda occupazione: lo studio. «Prendevo in prestito i quaderni degli amici che avevano la fortuna di frequentare la scuola. I libri li recuperavo nella piccola biblioteca del villaggio».

Un libro speciale Un giorno tra le mani di William capitò un libro di fisica: s’intitolava Using Energy. Sfogliando le pagine di quel volume lo sguardo del ragazzo fu rapito dallo schema di un mulino a vento che mostrava il funzionamento di quello strano strumento. «Creare energia elettrica con il vento: straordinario», mi dissi. «Posso provarci anche io». William era cresciuto con l’arte dell’arrangiarsi. Come tutti i bambini del villaggio, aveva imparato a costruirsi da sé i propri giocattoli utilizzando barattoli di latta e

Generatori eolici o pannelli solari non fanno più notizia da noi. Ma la storia di William Kamkwamba è rilevante perché ambientata in un piccolo villaggio dedito a un’agricoltura di pura sussistenza

bastoni. Divenuto ragazzo si divertiva a riparare piccoli apparecchi elettrici e a migliorarne il funzionamento. Aveva collegato la sua radio alla dinamo di una bicicletta. «Risparmiavo le batterie ma dovevo pedalare per ascoltare la musica e le notizie del giorno».

Solo contro tutti Leggendo il libro recuperato in biblioteca, William capì che il vento, come una pedalata, avrebbe potuto azionare una dinamo e produrre dell’elettricità. Seguirono mesi di studio e lavoro. William trascorreva i suoi pomeriggi a ricercare materiali riciclabili

per realizzare il progetto che aveva in mente. Giorno dopo giorno, accumulava nel cortile di casa pezzi di plastica e metallo. I genitori cominciarono a temere per la sua salute mentale. I bambini del villaggio lo prendevano in giro chiamandolo misala, “pazzo”. Qualcuno si spinse addirittura ad accusarlo di stregoneria. Solo il suo migliore amico Gilbert e suo cugino Geoffrey aiutavano l’aspirante scienziato. «Assieme inchiodammo tante tavole di legno fino a costruire una sorta di torre». In cima William piazzò la ventola del radiatore di un vecchio trattore in disuso a cui aveva appiccicato delle eliche di plastica. Lo strano congegno era collegato con del filo elettrico alla dinamo di una bicicletta.

Quella luce prodigiosa «Ricordo perfettamente il momento in cui misi in funzione per la prima volta



società

testo di Sara Tadili foto di Corentin Fohlen/LightMediation

Due ruote di

In Marocco scendono in strada le prime

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società

testo e foto di Damiano Rossi

A scuola

Uganda, le spassose

L

a musica finisce, il sipario cala. La lezione è finita. Gli studenti, centinaia di sguardi di meraviglia, hanno appena assistito ad uno show

L’intervista Giacomo Babaglioni, bresciano, odontotecnico, da oltre dieci anni vive in Africa. Ha lavorato in vari ospedali in Etiopia, Ghana, Malawi e, dal 2010, Uganda. Com’è nata l’idea del circo? Per metafora professionale mi definisco un esperto di sorrisi. E in Uganda c’è bisogno di regalare sorrisi: è il secondo Paese più giovane al mondo, con metà della popolazione - 17 milioni di persone - che ha meno di quindici anni. Chi significato ha il nome? In inglese hiccup significa “singhiozzo”, e ho nitidi ricordi di fanciullezza di un 32

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carissimo amico che quando rideva iniziava a singhiozzare a più non posso. Quali sono gli obiettivi del progetto? Introdurre le arti circensi in Uganda e usare queste abilità come strumenti sociali, educativi e d’intrattenimento rivolti ai più giovani. Progetti per il futuro? Trasformare il nostro piccolo circo in una compagnia di livello nazionale che possa esibirsi nelle grandi città come nei piccoli villaggi. Per aiutarli: roma@hiccupcircusuganda.org Per conoscerli: facebook.com/hiccupcircus.uganda

dell’Hiccup Circus Uganda: la più imprevedibile delle attività scolastiche. Il circo è stato fondato di recente da un giovane italiano, Giacomo Babaglioni, che tre anni fa ha deciso di trasferirsi in Uganda. «È la nazione più giovane d’Africa», spiega il ragazzo. «E ovviamente i nostri spettacoli sono rivolti agli alunni delle scuole primarie e secondarie, ma anche ai bambini che vivono in orfanotrofi e campi profughi». Non solo divertimento. «Si tratta anzitutto di un progetto culturale, educativo e partecipativo. Un circo sociale itinerante, senza animali, eseguito da giovani ugandesi per giovani ugandesi».


con i clown

lezioni dell’Hiccup Circus

Il palcoscenico dell’Hiccup Circus Uganda può essere il cortile di una scuola, come in questo caso, oppure un campo da basket, la piazza di un villaggio, un parco cittadino

Imparare sorridendo Gli spettatori, dai sei ai quindici anni di età, seguono le esibizioni con la bocca aperta. Uno dopo l’altro entrano in scena i clown, gli acrobati, i giocolieri, i mangiafuoco, i trampolieri. Alla fine tocca alla mascotte del circo: Kato, un enorme uomo di cartapesta che lascia tutti di stucco. Tra una prova di funambolismo e un balletto coreografico, i pro-

tagonisti dello spettacolo trovano modi e parole efficaci per affrontare importanti temi sociali e civici: a cominciare dal rispetto per il prossimo e per l’ambiente. «Siamo fortemente impegnati a promuovere una cultura nonviolenta e di accoglienza della diversità». Non solo. Gli artisti insegnano ai bambini a lavarsi e a non mettersi in situazioni pericolose. Al tempo stesso regalano valanghe di risate. In uno sketch c’è un personaggio maleducato che comincia a spargere bottigliette di plastica per terra. I piccoli spettatori intervengono prontamente e, a ritmo di musica, si danno da fare per raccoglie-

re le bottiglie in un sacco di juta. Per festeggiare, il pagliaccio dall’aria goffa prende in mano una chitarra e comincia a strimpellare.

Crescere e cambiare «Sfruttiamo l’arte circense come mezzo per l’apprendimento informale, flessibile e creativo», chiarisce Giacomo Babaglioni. «Educhiamo i giovani a pensare e ad agire. I nostri personaggi parlano del mondo reale, offrendo dei mezzi per comprenderlo e cambiarlo in meglio». I protagonisti dell’Hiccup Circus Uganda puntano a diventare una compagnia di livello nazionale, che possa esibirsi in ogni

regione del Paese, specie le più remote. In fondo è questa la filosofia di ogni circo: dimostrare che ciò che sembra impossibile è in realtà possibile. «Non pretendiamo certo di salvare la povera gente dai problemi che li attanaglia», prosegue Giacomo. «Ma vogliamo contribuire a realizzare un Paese migliore: promuovendo l’educazione, informazione e il buonumore… Non desideriamo sostituirci alla scuola, sappiamo però che ogni diverso approccio alla conoscenza ha un suo valore intrinseco. E per rendere migliore la società c’è bisogno di tutti: professori, alunni, clown e giocolieri». • africa · numero 4 · 2013

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società

testo e foto di Daniele Tamagni

Soweto Glamour In Sudafrica vanno sempre più di moda gli stilisti “smarteez” 34

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lo scatto

tunisia

La meglio

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testo di Paola Marelli foto di Hichem Borni/LightMediation

Q

uattro ragazze tunisine del movimento Femen manifestano nella capitale. Lo scorso 13 giugno tre militanti europee sono state condannate a quattro mesi di carcere da un tribunale di Tunisi per essersi denudate per protesta contro l’arresto della blogger Amina Tyler, imprigionata per aver tentato di scrivere su un muro uno slogan contro le discriminazioni alle donne. Amina aveva già fatto scandalo nel mondo arabo pubblicando la scorsa primavera delle sue foto a seno nudo con la scritta «il mio corpo mi appartiene». Femen è un movimento femminista fondato in Ucraina nel 2008, famoso per manifestare in topless contro il sessismo e altre discriminazioni sociali. In Tunisia è approdato nel 2001, all’indomani della caduta di Ben Ali. Oggi conta una cinquantina di giovani attiviste in lotta contro i movimenti islamisti radicali. •

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giovent霉

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copertina

testo e foto di Andrew McConnell/ Panos Pictures traduzione di Silvana Leone

Il popolo delle cateratte

Le straordinarie immagini di una trib霉 di pesc 40

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la popolazione dei Wagenia, che vive da secoli in simbiosi con il grande fiume nel cuore del congo, ha ideato un’incredibile tecnica di pesca che sfida la furia della corrente e sfrutta l’acqua tumultuosa delle sue rapide

atori che vive in bilico sul fiume Lualaba africa · numero 4 · 2013

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Il racconto dell’autore

reporter sulle rapide

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el 1876 Henry Morton Stanley si imbatté nel fiume Lualaba, in quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo. L’esploratore era convinto che il Lualaba fosse collegato al grande fiume Congo, che i portoghesi avevano avvistato per la prima volta 400 anni prima sulla costa occidentale dell’Africa. Nonostante si fosse rivelato più facile che viaggiare attraverso il paese via terra, il fiume gli presentò delle pericolose navigazioni, soprattutto quando la sua spedizione incontrò la tribù Wagenia e le cateratte del Congo centrale (Middle Congo, conosciuto anche come Congo Francese).

pioggia di frecce Le cateratte sono una serie di sette rapide estese per oltre cento chilometri. Per aggirare quell’ostacolo insormontabile Stanley fu costretto a percorrere quel tratto trascinando le

L’autore delle foto di questo servizio, l’irlandese Andrew McConnell, 36 anni, residente a Nairobi, è uno dei più grandi fotografi al mondo. Ha vinto più volte i maggiori concorsi di fotogiornalismo (tra i quali, World Press Photo e Best of Photojournalist). Le sue immagini, distribuite dall’agenzia Panos Pictures, sono regolarmente pubblicate dai magazine più prestigiosi: National Geographic, Newsweek, Time, The New York Times, The Guardian, ecc. Il reportage “Le cateratte” è stato realizzato nel 2010 sul fiume Congo. Ma come è riuscito Andrew a scattare queste eccezionali foto? Quante volte è caduto nel fiume? E i pesci catturati dai Wagenia erano davvero saporiti? Ecco il racconto del reporter.

Cose da pazzi Quando ho visto i ponteggi di legno sulle rapide e tutti quei pescatori arrampicati là sopra, ho pensato “questi ragazzi sono dei pazzi”, ma dopo pochi giorni ero lassù anch’io, a penzoloni, proprio come i Wagenia. Era tutto molto stabile e non mi sono mai sentito in pericolo; in realtà era molto emozionante stare disteso su una trave di legno a due metri sopra un fiume in piena. Ho fatto molti scatti in cima ai tolimos (impalcature di legno); ma la cosa più pericolosa era cercare sulle rapide una buona posizione per fare uno scatto dal basso. Le rocce sott’acqua erano come vetro e così era difficile spostarsi, soprattutto perché il torrente cercava costantemente di spazzarti via. Eppure i pescatori correvano avanti e indietro senza problemi - veri funamboli delle acque -, e mentre loro si muovevano senza sforzo,

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libri

di Pier Maria Mazzola

Poteri territoriali presso i Bofin della Lobaye

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La storia e perduta e ritrovata dei migranti

L’industria della carità

Cristiani si diventa

Capo Verde un luogo a parte

di Angelo Turco

di Mauro Armanino

di Valentina Furlanetto

di Albert Nolan

di Marco Boccitto

Il colonialismo è finito da mezzo secolo. Era durato, in fondo, “nemmeno” cent’anni: ha senso, allora, continuare a parlare di Africa alla luce di un passato ormai remoto? Sì, secondo l’autore, ordinario di Geografia umana alla Iulm. Nel suo nuovo studio - questa volta su una prefettura della Repubblica Centrafricana - Turco mostra l’impatto devastante di pochi decenni di presenza francese. Un territorio ricco di numerosi riferimenti simbolici; non solo: la sua gestione è assicurata da poteri locali costituitisi nel tempo. Il sistema coloniale, sconfessando il suo stesso patrimonio di riflessione sviluppatosi in madrepatria, li ha destrutturati, imponendo nelle colonie il suo «approccio predatorio al concetto di risorsa». Ferita insanabile.

Il sottotitolo «Il fattore religioso dentro e fuori i cancelli del carcere» restringe l’orizzonte ampio del titolo; scopriamo poi un ulteriore “restringimento”: quello che costringe i detenuti stranieri nel carcere di Marassi. È la terra di missione che padre Mauro (ora in Niger) ha non solo servito con generosità ma anche studiato (il libro è la sua tesi di laurea in Antropologia), regalandoci uno dei rari testi italiani sull’argomento. Autorevole prefazione di Bruno Amoroso: «Il testo di Mauro Armanino non è solo denso di riferimenti a studi e pensieri importanti sul tema, ma anche e soprattutto un viaggio con persone da lui incontrate nel carcere di Genova che si affiancano nel cammino da lui intrapreso da anni nel Centro Storico» della città.

Il tema è dei più delicati, rischiando di gettare il discredito sulle “imprese della bontà”: ong, onlus, agenzie piccole e grandi che gestiscono la “beneficenza”. Il libro, difatti, non ha mancato di suscitare le rimostranze delle associazioni che non si riconoscono nelle denunce, ma temono di rimanerne comunque infangate. Il dibattito non è nuovo, ha al suo attivo molti titoli, diversi dei quali usciti dagli ambienti stessi delle charity. Ciò non toglie che certe testimonianze sul train de vie di certi operatori umanitari lasciano allibiti. Si parla di Africa e di sud del mondo ma anche di Italia (Abruzzo). La richiesta “minima” che la giornalista avanza, supportata da un testimonial come Alex Zanotelli, è di rendere trasparenti, sul web, i bilanci delle organizzazioni.

«Per una spiritualità della libertà radicale» è il sottotitolo della nuova edizione di un libro che ha molto beneficiato del passaparola. «Quella di Gesù è solo suggestiva utopia? Io propongo di imparare a prendere sul serio Gesù», provoca l’autore. Sudafricano bianco, fu eletto dai Domenicani Maestro generale dell’ordine; ma nel 1983 l’apartheid era una realtà sanguinante: padre Nolan rinunciò alla carica per rimanere nel suo Paese.

Brevi capitoletti per accostare senza annoiarsi la storia e l’indole eccezionale di questo arcipelago «senza capo né verde»: dal 1456 ad Amílcar Cabral fino a... ieri mattina. Capo Verde, teatro di uno straordinario fenomeno di meticciamento. Questo, per la prima parte; la sezione successiva esplora l’altrettanto eccezionale universo sonoro capoverdiano, di cui Cesária Évora è l’ambasciatrice mondiale ma non l’unica né la prima esponente. Generi (con una curiosa digressione sui possibili etimi di “morna”), strumenti, compositori, interpreti nei quali continua ad essere determinante l’altro grande fenomeno capoverdiano, il partire: il Paese conta all’estero il doppio della popolazione presente entro i suoi umidi confini…

Unicopli 2012 pp. 291, 18 euro

Gammarò 2013 pp. 213, 16 euro

Chiarelettere 2013, pp. 245, 13,90 euro

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Emi 2013 pp. 252, 15 euro

IL GRIOT DI TRASTEVERE

Difficile trovare, in Italia, botteghe di libri specializzate sull’Africa. Ce n’è una sola, forse: in via di Santa Cecilia 1/A, a Roma. Si chiama Libreria Griot e organizza anche incontri con gli autori, laboratori di scrittura e corsi di lingue come il kiswahili o l’amarico.

Naturalmente è anche online: libreriagriot.it

Exòrma 2013 pp. 191, 12,90 euro


musica

di Claudio Agostoni

Great OrOmO musiC Ali MohAMMed BirrA

Un musicista che ha fatto ballare una generazione di giovani. Nato nel 1950 nel villaggio di Lagaharrè nelle vicinanze di Dire Dawa, a 13 anni Ali Birra entrò negli Afran Qallo, gruppo culturale impegnato, in modo non ufficiale, nella diffusione e nella divulgazione della musica e della cultura oromo, importante etnia in Etiopia. Nel 1965, a causa della dura repressione del regime di Haile Selassie, che mise fuori legge il gruppo arrestandone alcuni membri, fu costretto alla fuga e a trasferirsi ad Addis Abeba. Ben presto la sua fama si diffuse in tutta la città, per la sua capacità di cantare in molte lingue etiopiche: amarico, arabo, somali, larari e, ovviamente, oromo. Questa preziosa antologia è il 28esimo volume della serie Éthiopique: 15 brani registrati per lo più tra il 1973 e il 1975, più 3 inediti di metà anni 60.

Destinée

Pierre Akendengue

È la ventesima produzione discografica del cantante gabonese Pierre Akendengue, una delle icone della musica africana. Approdato in Francia da studente, per seguire studi di psicologia, si fece conoscere negli anni ’70 grazie a qualche comparsata televisiva. All’epoca era un giovanotto timido accompagnato dalla sua chitarra, che tentava i suoi primi passi nella trasmissione tivù “Le Petit Conservatoire de Mireille”, una sorta di “X Factor” ante litteram. Il primo 45 giri (Ghalo Ghalo, 1972) non gli impedì di continuare gli studi e di ottenere finalmente il dottorato in psicologia nel 1987. Registrato a Libreville e a Parigi, il lavoro include una bonus track (disponibile solo se scaricata dalla rete). Il brano si chiama Deux Mocrates, probabilmente una delle canzoni più politiche dell’intera carriera di Akendengue.

nO PLaCe fOr my Dream FeMi kuti

È il figlio maggiore di Fela, a cui assomiglia fisicamente (anche se non ne condivide la smisuratezza caratteriale). Come lui soffia e sputa in sax e trombe. Con la stessa determinazione del padre denuncia i mali di un’Africa depredata dalla corruzione dei potenti. Canzoni dalla possanza sonora, solo un po’ più diluite e accattivanti rispetto a quelle del capostipite dell’afro-beat. In Nothing to show for it si scaglia contro il malcostume neocolonialista, smascherando l’ipocrisia della presunta democrazia nel suo Paese, la Nigeria. Ancora sferzate contro l’ingiustizia e la corruzione governativa arrivano nei ritmi intricati di Politics na Big Business, accesa da una potente sezione fiati, mentre No Work, No Job, No Money è un crudo commento, dominato da accenti reggae, a ciò che sta accadendo in molte parti del mondo.

the ViLLaGe Monoswezi

Un album che celebra il debutto discografico di una formazione meticcia, che di più non si può. A partire dai membri della band che include la frontwoman mozambicana e suonatrice di mbira Hope Masike. Il percussionista e voce maschile Calu Tsename e tre musicisti scandinavi (fiati, basso e batteria). La suadente ritmica africana ed il jazz nordeuropeo sembra siano stati separati alla nascita e poi reincontrati nella maturità…

LA TOScAnA E L’AfRIcA DELL’OVEST

Meeting Mama Africa, 29/7-4/8, è un festival dedicato alle arti espressive dell’Africa occidentale. È giunto all’ottava edizione e come negli altri anni sarà all’insegna dell’incontro delle culture e delle diversità. L’iniziativa, organizzata dal comitato Arci di Massa Carrara, è un’occasione per affrontare i temi che riguardano le popolazioni migranti, partecipare a corsi e assistere a coinvolgenti concerti. www.meeting.mamaafrica.it africa · numero 4 · 2013

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cultura

testo e foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero

Pennelli, scalpelli, chitarre, macchine fotografiche e cineprese… Dalla primavera araba alla nuova e incerta fase politica, i giovani egiziani usano ogni mezzo per esprimere l’energia di una generazione in cerca di riscatto

L’artista muLtimediaLe Bassem Yousri è un giovane artista visuale che ha studiato negli Stati Uniti. Nel primo anniversario della primavera araba ha realizzato al Cairo un’installazione video-pittorica dal titolo The Parliament of the Revolution, in cui un potente personaggio politico, interpretato da lui stesso, si scopre improvvisamente vulnerabile e viene ucciso dal popolo.

A

l Cairo i giovani sono in grande fermento. La rivoluzione ha alimentato un vero e proprio movimento artistico: variegato, sorprendente, capace di utilizzare strumenti e modalità comunicative diverse. La fine del regime di Mubarak e la nuova, convulsa fase politica - piena di incognite e di tensioni - ha fatto sbocciare una generazione di pittori, scultori, musicisti, poeti, fotografi, videomaker, artisti multimediali… Ragazzi e ragazze che uniscono l’arte alla militanza politica, il privato al sociale, la creatività al bisogno di esprimere in piena libertà il proprio disagio e le proprie speranze e che si definiscono “rivoluzionari”. •

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La scuLtrice Houreya Elsayed è una giovane scultrice e pittrice. Fin dall’inizio della rivoluzione si è impegnata per portare l’arte tra la gente organizzando corsi di pittura e scultura nelle piazze e nei quartieri popolari. Racconta: «Trovo ispirazione al Museo egizio davanti alla statua di Bastet, antica divinità dalla testa di gatto venerata per la sua forza e agilità, incaricata di distruggere i nemici dell’Egitto».



cultura

testo e foto di Anna Pozzi

Da emigrato a

Sierra Leone, il trionfante ritorno in Africa

Vent’anni fa lasciò il suo Paese in guerra cercando rifugio in Italia. A Roma si è laureato, a Milano ha trovato lavoro. Rientrato in patria, è stato nominato ministro del turismo e dei beni culturali. Una storia di emigrazione di successo

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volte ritornano perché hanno nostalgia di casa o perché il viaggio della speranza è naufragato. Peter Bayuku Konteh, cinquant’anni, ministro del Turismo e dei Beni culturali della Sierra

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Leone, è tornato in Africa per rimettersi in gioco e dare una mano alla sua gente. Era fuggito in Italia negli anni Novanta, quando il suo Paese era sconvolto dalla guerra civile. Grazie all’interessamento di monsignor Giorgio Biguzzi, l’allora vescovo di Makeni, aveva ottenuto una borsa di studio a Roma. In pochi anni si era laureato in Filosofia e in Scienze sociali all’Università Gregoriana. Sposato con un’italiana, aveva trovato lavoro a Milano in una multinazionale delle telecomunicazioni.

Una decisione difficile Era un immigrato pienamente integrato, ma non aveva dimenticato la propria terra d’origine. «Stavo bene in Italia», dice mentre sorseggia del vino di palma a Yagala, il suo

villaggio natale. «Mi sentivo a casa. Ma non ho mai pensato di rimanere lontano dall’Africa per sempre. Volevo tornare per fare qualcosa di utile per la mia gente… Il mio Paese ha sofferto troppo: morte, distruzione, migliaia di persone a cui sono stati amputati gli arti e una miriade di bambini-soldato… Bisognava ricostruire non solo in termini materiali. Si trattava di ridare un po’ di speranza alla gente. E allora ho deciso che anch’io dovevo fare la mia parte». Ha cominciato dal suo villaggio, dove oggi vive la sua numerosissima famiglia. All’inizio faceva la spola tra Milano e Yagala per portare aiuti materiali. Poi, nel 2008 ha deciso di rientrare defini-

tivamente. Una decisione non facile, sia a livello personale che professionale. Significava lasciare molte certezze per affrontare le incognite e i rischi di una nuova vita in un Paese poverissimo e arretrato, confinato agli ultimi posti delle classifiche mondiali dello sviluppo.

Amato dalla gente Rientrato in Sierra Leone, Peter si è lasciato tentare dalla politica. «Eravamo alla vigilia delle elezioni amministrative e mi è stato chiesto di candidarmi come governatore della mia regione, Koinadugu, una della più povere e arretrate. Dopo qualche esitazione, ho pensato che poteva essere un modo per servire la mia gente». Ha



cultura

testo di Paola Marelli

È tempo di bang! il mensile delle nuove donne d’Africa La tanzaniana Emelda Mwamanga ha creato una rivista di costume e di moda che riscuote grande successo. Perché sa raccontare meglio di tutti il nuovo corso dell’Africa

N

on ha frequentato una scuola di giornalismo. Quello che c’era da apprendere sull’informazione e sulla comunicazione l’ha imparato lavorando. Emelda Mwamanga, 34 anni, tanzaniana, è la nuova regina africana della carta stampata. Nel 2004 ha creato dal nulla una rivista patinata per raccontare «la nuova Africa». Aveva in tasca 3mila dollari, ne chiese il doppio in prestito in banca. Oggi la sua rivista, Bang!, vende migliaia di copie in Tanzania, Uganda, Kenya e Zambia. La sua casa editrice Relim Entertainment fattura 250mila dollari l’anno. «Il

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Emelda Mwamanga, la nuova regina della carta stampata in Africa. Prima di fondare la rivista Bang! si è laureata in Scienze sociali all’Università di Città del Capo e ha lavorato per la Coca-Cola

nostro successo non ha segreti - ha raccontato Mwamanga alla Bbc -: oggi la gran parte dei giornali si ostina a occuparsi solo dei problemi del nostro continente, dando risalto a notizie di guerre, miseria, malattie, corruzione. Ma c’è un’Africa bella e vivace. Piena di creatività e di energie positive. Che sa esprimere grandi talenti nel mondo dell’imprendi-

toria, della moda, dell’arte e dello sport».

Niente è impossibile La grande platea dei lettori di Bang! si aspetta di sfogliare delle pagine che mostrano e raccontano anche questa faccia dell’Africa, ignorata dai grandi media occidentali. Se nel nord del mondo la carta stampata vive un momento di crisi nera (i giornali sono in ginocchio per il crollo delle vendite e della pubblicità), Emelda Mwamanga guarda al futuro con ottimismo. «La concorrenza dei siti internet è spietata, ma i lettori sanno apprezzare un magazine di qualità», dice convinta. «Ho in program-



viaggi

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testo e foto di Alessandro Gandolfi / Parallelozero

Pianeta Namibia

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Alla scoperta di un Paese pieno di contrasti e di ricchezze «D

opo avere collocato tutti gli animali e i vegetali sulla terra», raccontano i boscimani, «Dio si accorse che gli erano rimaste una manciata di piante. Così le prese e le scagliò a testa in giù. Atterrarono nell’Etosha». A guardarli oggi, i Moringa ovalifolia paiono davvero conficcati con le radici verso il cielo, e ce ne sono sparsi per tutta la Namibia. Certo non sono l’unica specie vegetale curiosa in questo secco angolo d’Africa: le lithops sembrano pietre (finché non fioriscono), i dollar bush hanno foglie che paiono monete, le narras producono un melone commestibile amato dagli sciamani. E poi ce n’è una che è la più strana di tutte. È la tweeblaarkannie-

dood, una pianta bassa che vive fino a 2mila anni. Gli studiosi pensavano ci riuscisse grazie a una radice profonda cento metri, destinata a prelevare l’acqua dalle falde. Sbagliavano: sono le sue due grandi foglie che, oltre ad assorbire l’umidità delle nebbie (qui piove pochissimo), convogliano le gocce rimaste verso le radici sottostanti, innaffiandole.

Vivere in mezzo al nulla

Sulle coste della Namibia i venti marini e il Benguela, la fredda corrente atlantica, si infrangono contro il muro di aria calda e secca che fuoriesce dalle dune; il risultato è una nebbia fitta, notturna, che penetra per una ventina di chilometri all’interno del

deserto e si dissolve con il caldo pomeridiano. Stretto fra il più ampio Kalahari e l’Atlantico, considerato il deserto più antico del mondo (è vecchio ottanta milioni di anni e molte specie animali e vegetali si sono adattate, cosa unica al mondo, a vivere tra le dune), il Namib pur sfiorando la costa rimane in gran parte un luogo arido, avaro di vegetazione, «dove i pochi alberi - spiega Peter Woolfe - sono diventati spugne per assorbire l’umidità, dove i boscimani riescono a percorrere cinquanta chilometri senza bere un goccio d’acqua e dove le femmine delle antilopi rimangono incinte solamente se percepiscono, non si sa come, che la stagione successiva pioverà».

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Peter è una guida bianca che abita a un centinaio di chilometri da Maltahöe, a sud della capitale Windhoek. Vive in mezzo al nulla. È nato in Perù, è vissuto a Londra e a sedici anni si è innamorato della Namibia: «Ha due milioni di abitanti ed è tre volte più grande della Gran Bretagna. Come potevo non innamorarmi di un posto così?». Il suo territorio è un immenso spazio fatto di altipiani che rinsecchiscono e diventano depressioni, di savane che mutano in deserti scivolati lentamente verso il mare, di dune che cambiano colore e si ergono come palazzi di cinquanta piani fino a toccare altezze che sfiorano i quattrocento metri. Ce ne sono di tutti i tipi e di tutte le forme, più o meno mobili a seconda del vento e della loro conformazione, ma tutte nascondono dietro quell’immagine di aspra desolazione, un micromondo che vi brulica attorno. Fra la sabbia vivono piccoli animali, gechi, coleotteri, ragni e lucertole danzanti che si nutrono di una vegetazione spesso invisibile; ma basta spostarsi sulle pianure ghiaiose per incontrare anche struzzi, zebre, iene e manguste.

Svizzera d’Africa? La Namibia è una delle nazioni meno popolose del continente: ha una densità di 2,5 abitanti per chilometro quadrato. Qui convivono popoli di varie etnie (gli Owambo, i pastori Herero, gli antichissimi San, i Da-

mara di origine bantu ma anche i sudafricani, i tedeschi e vari altri europei di diversa provenienza) in un contesto di sicurezza sociale assai diffusa. Questa è infatti una repubblica giovane, indipendente dal 1990 (è stata per molti anni un protettorato del Sudafrica), politicamente stabile e mediamente più ricca degli altri Paesi africani. Ha un basso livello di corruzione, ottime strade, una popolazione ben istruita e sempre più neri che, nel rispetto delle leggi locali, rivendicano il loro diritto a occupare i posti del potere. Insomma, a ragione e sempre di più sono coloro che la definiscono una vera e propria Svizzera d’Africa. «Se guardiamo fuori dalla Namibia - esordisce Elka - vediamo solo guerre, conflitti, problemi. Non c’è un luogo più sicuro di questo». Elka ha la pelle bianca e stamattina è seduta insieme a un’amica dalla pelle nera sul molo di Swakopmund («alle sette arrivano puntuali i delfini»). Ma il colore della pelle qui non conta e lei non vuole sentire parlare di conflitti razziali: «Qui in Namibia - dice - prima che bianchi o neri ci sentiamo davvero tutti namibiani».

il viAggio Quando . Il periodo ideale per partire è durante la stagione secca, da maggio ad agosto. Documenti . Basta il passaporto valido almeno sei mesi. Valuta . Un euro vale circa 13 dollari namibiani (Nad). Lingua . Ufficiale è l’inglese ma più diffusi sono l’afrikaans e il tedesco. Ora . È un’ora in avanti rispetto all’Italia (nessuno scarto quando in Italia vige l’ora legale). Come andare . Il tour operator Il Viaggio (www.ilviaggio. biz) organizza viaggi con camion attrezzati e pernottamenti in piccoli alberghi, bungalow e campi tendati, da 7 giorni a un mese. African Explorer propone tour di 8-12 giorni per coloro che desiderano conoscere i siti più belli di questo affascinante Paese: il deserto del Namib, la città portuale di Swakopmund, il Damaraland con la visita al popolo himba, l’immenso parco Etosha. Prezzi da 3.150 euro. www.africanexplorer.com

Problemi irrisolti La Namibia di oggi si è sviluppata, ha imparato a sfruttare le sue immense risorse (diamanti e uranio su tutti) e si sta imponendo agli occhi del mondo come uno degli scenari africani più suggestivi. Anche l’industria cinematografiafrica · numero 4 · 2013

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sport

testo di Luciana De Michele foto di Alida Vanni

Duelli

Sciabola e fioretto: in

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africa 路 numero 4 路 2013


a Dakar

Senegal cresce la passione per la scherma Nelle povere palestre della capitale senegalese centinaia di ragazzi e ragazze si allenano ogni giorno a menare fendenti. In attesa di mettere a segno la stoccata vincente

Spadaccino nero La scherma è una disciplina olimpica ispirata agli antichi duelli tra i cavalieri dell’Europa rinascimentale. Roba da toubab, vezzo degli uomini bianchi. È insolito vedere uno spadaccino nero ai tropici. «Tutto è iniziato quando mio cognato americano,

Luciana De Michele

M

amadou Keïta ha 28 anni e da quando ne aveva 19 si dedica anima e corpo alla sua unica grande passione: la scherma. Vincitore indiscusso di ogni competizione nazionale e due volte campione d’Africa (nel 2008 e 2009), è il più grande schermidore di Dakar. «Mi alleno da solo: in tutto il Senegal non esiste un coach al mio livello», spiega il giovane mentre mostra la collezione di trofei e medaglie esposte nella vetrina di casa sua.

Nella spiaggia di Dakar il pluricampione Mamadou Keïta, 28 anni, si allena con Alassane Ba, 19 anni, nuova promessa della scherma senegalese. Sotto, gli allievi di Keïta si allenano all’ombra delle gradinate dello stadio della capitale senegalese

un amatore della scherma, è venuto a trovarmi qui a Dakar», chiarisce Mamadou. «Nel tempo libero andava in spiaggia ad allenarsi. Un giorno l’ho seguito, l’ho osservato e… Mi sono innamorato di questo sport», racconta il campione. «Ho cominciato ad allenarmi con lui. Non avevamo divise né spade, provavamo i movimenti usando dei bastoni. Quando poi mio cognato è rientrato in patria, ho coinvolto una ventina di amici con cui ho continuato a esercitarmi». Dagli Stati Uniti è arrivata l’attrezzatura. Ora Mamadou prosegue i suoi allenamenti da professionista. «Un tempo lavoravo come elettricista, ma poi ho lasciato tutto per dedicarmi alla scherma. Devi dare il massimo se vuoi arrivare in alto!».

Regalo francese La scherma è approdata in Senegal molto prima che Mamadou impugnasse le armi. «Sono stati i coloni francesi, verso la metà del africa · numero 4 · 2013

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Luciana De Michele

Senza divise elettrificate che aiutano ad assegnare i punti, la correttezza degli incontri è affidata all’onestà degli schermidori

imprescindibile per chiunque voglia praticare questo sport». I problemi però non mancano: «Il principale è la fuga dei cervelli», continua la donna. «Una volta formati, molti maestri preferiscono volare in Europa o in Medio Oriente, dove la scherma è più diffusa e dove possono aspirare a buoni stipendi». Per tamponare l’emorragia

dei tecnici, oggi la scuola di Dakar impone agli allievi di firmare un contratto che li obbliga a prestare servizio in Senegal almeno tre anni. «Non abbiamo risorse», si lamenta Faye. «Lo Stato non ci aiuta, gli spazi a nostra disposizione sono pochi e inadeguati. Gli insegnanti sono pagati con aiuti che provengono dall’estero. Ogni

tanto riceviamo in dono dall’Europa degli equipaggiamenti. La Federazione Italiana Scherma sostiene la formazione dei nostri allenatori, ma avremmo bisogno di aiuto per inviare i migliori atleti alle gare internazionali», conclude la donna.

Sogni olimpici A Dakar la gran parte degli allenatori lavora a titolo gratuito, per il piacere di farlo. Mamadou Keïta gestisce «per passione» la palestra del Sifa (Senegalese International Fancing Academy), frequentata da decine di bambini e ragazzini. Thierno Ndong ha 14 anni: «Ho iniziato qualche mese fa… Ero curioso di questa strana disciplina, ora ne sono entusiasta», dice. «Chissà, un giorno questo sport potrebbe diventare anche un’opportunità di lavoro». La scherma, sinonimo di nobiltà, pare essersi ben ambientata al clima del Senegal. Sciabola, fioretto, spada: oggi i giovani di

Dakar possono praticare ogni genere di disciplina. Negli scantinati che ospitano i vari club, anche le ragazze si addestrano con attacchi e parate. «Sogno di diventare una campionessa - dice Ndey Fatou, 15 anni -, ma per il momento mi sto preparando a vincere la prossima gara: un passo per volta». Per primeggiare serve prontezza di riflessi, sangue freddo e mente brillante. Tutto ciò che possiede Maty Diouf, astro nascente del fioretto rosa senegalese. «Mio padre è fiero di me - racconta la ragazza mentre si toglie il caschetto protettivo -, vorrei continuare la scherma anche quando mi sposerò e avrò dei figli». Sarà dura. «Purtroppo molte donne vengono costrette dalle famiglie ad abbandonare la pratica», spiega Papis Massali, allenatore e membro della squadra nazionale, medaglia d’argento ai campionati d’Africa. «Le giovani promesse della spada sono ancora vittime di pregiudizi e discriminazioni». Se in Europa la scherma è un’arte aristocratica, in Senegal è una chance preziosa per dare una svolta alla propria vita. «Tanti giovani calcano le pedane fantasticando un futuro di gloria», commenta Ibrahima Keïta, direttore amministrativo della palestra Sifa. «Si allenano con impegno e costanza. Si preparano al meglio alle gare. Sperano di approdare alle Olimpiadi. E sognando di mettere a segno la stoccata vincente». • africa · numero 4 · 2013

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chiese

testo di Marco Trovato

Durante il genocidio del 1994, costato un milione di vittime, un missionario bergamasco riuscì a salvare tremila persone dai machete dei carnefici. «Ancora oggi fatico a credere di essere riuscito a sopravvivere a quei giorni infernali» 68

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Bruno Zanzottera/Parallelozero

«Non sono un eroe» Incontro con padre Mario Falconi, missionario coraggioso in Ruanda

U

na coltre di nuvole grigie ha inghiottito le colline del Ruanda. La stagione delle piogge è arrivata in anticipo. I primi temporali hanno trasformato le piste in torrenti in piena. Non è stato facile raggiungere la remota missione di Muhura, nei pressi del confine ugandese, 120 chilometri a nord della capitale Kigali. Il fuoristrada arrancava sulle salite, scivolava sulle pietraie, sprofondava nella fanghiglia. «Temevo che non ce l’aveste fatta a giungere fin quassù», ci accoglie padre Mario Falconi, settant’anni, fisico asciutto e slanciato, avvolto in una lunga tunica bianca. «Siete arrivati giusto in tempo per il pranzo: accomodatevi a tavola, così potremo parlare».

Situazione esplosiva

Questo missionario barnabita, nato in un paesino della provincia di Bergamo e trasferitosi quarant’anni fa nel cuore dell’Africa, ha una storia importante da raccontare: una storia personale che s’intreccia con quella di migliaia di altre persone. Ascoltiamo il suo racconto sotto una tettoia in lamiera percossa da scrosci rabbiosi. «Pioveva a dirotto anche in quella dannata primavera della 1994», ricorda il sacerdote, capelli brizzolati, naso aquilino, il volto solcato dalle rughe, occhiali enormi che riflettono lampi di luce. «Ero arrivato da poco in Ruanda, dopo diciott’anni di missione nell’Est del Congo. Qui trovai una situazione politica e sociale molto tesa».

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Padre Mario sulle scale del campanile della chiesa di Muhura. Il nome del sacerdote è stato inserito tra i “Giusti del Ruanda” che si sono prodigati a salvare vite di innocenti durante il genocidio del 1994. Chi desidera sostenere le attività del missionario può inviare una mail a padremariofalconi@yahoo.fr

I rapporti tra l’etnia hutu (in prevalenza composta da contadini), che rappresentava l’85% della popolazione, e il gruppo 70

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Bruno Zanzottera/Parallelozero

Bruno Zanzottera/Parallelozero

chiese

minoritario dei Tutsi (tradizionalmente nomadi) erano pessimi. Il sacerdote faticava a distinguere gli uni dagli altri. Ma l’appar-

tenenza etnica era indicata per legge sui documenti d’identità. Il regime hutu aveva occupato tutti i posti del potere, cacciando i Tutsi ai margini della vita sociale e politica. Dai villaggi giungevano notizie di violenze tribali. Da una parte i teorici della superiorità hutu scatenavano veri e propri pogrom contro i cittadini del gruppo etnico rivale. Dall’altra i ribelli tutsi del Fronte patriottico ruandese (Fpr), in gran parte esiliati in Uganda, compivano incursioni armate e minacciavano di rovesciare il governo di Kigali.

Cattivi presagi In pochi si illudevano che il fragile accordo di pace firmato ad Arusha, in Tanzania, potesse tenere. «Ma nessuno aveva previsto l’inferno che ben presto si sarebbe scatenato», commenta amaro il missionario italiano. L’unico presagio sinistro era giunto

dalla collina di Kibeho, nel sud del Ruanda, balzata all’onore della cronaca per una serie di apparizioni della Vergine Maria, dove cinque giovani veggenti certificate tali dalla Chiesa cattolica - riferirono di nuove e inquietanti visioni mariane: la Madonna appariva in lacrime tra colline rosse coperte di cadaveri. La notte del 6 aprile l’aereo del presidente Juvénal Habyarimana, che stava tornando in patria da un colloquio di pace, venne misteriosamente abbattuto da un missile. La notizia rimbalzò in ogni villaggio sulle onde di Radio Mille Colline che già incitava «i patrioti hutu a vendicarsi del brutale assassinio presidenziale schiacciando i Tutsi come scarafaggi». «Mi sentii gelare il sangue nelle vene», ricorda padre Falconi. «Era il segnale che annunciava l’inizio del genocidio». Migliaia di giovani membri dell’Interahamwe,



chiesa in africa

a cura di Anna Pozzi

centrAfricA

Solo parole?

Le dichiarazioni di Michel Djotodia, leader della coalizione ribelle Seleka (“unione”, in lingua sango), che ha conquistato il potere lo scorso 24 marzo, non rassicurano del tutto i cristiani del Centrafrica. «Il nostro Paese è laico», ha dichiarato l’autoproclamato Presidente. «La laicità è il principio di separazione tra il potere e la religione. In Centrafrica lo Stato è imparziale e neutrale nei confronti delle diverse confessioni religiose, quindi non esiste una religione di Stato». Nei fatti, però, la situazione è un po’ diversa. Causa, infatti, la presenza di molti miliziani ciadiani e sudanesi, la ribellione ha rivelato una forte impronta islamista e alcuni gruppi hanno attaccato luoghi di culto cristiani, saccheggiato chiese e missioni, ucciso civili e costretto centinaia di migliaia di persone a lasciare le proprie case. «Abbiamo un certo timore - ha detto il pastore Pascal Guérékoyamé -. Al capo dello Stato viene attribuita l’intenzione di voler islamizzare il Paese e per questo siamo preoccupati». Per rispondere a queste preoccupazioni il Presidente ha nominato il pastore José Binoua consigliere della presidenza per le questioni religiose e delle minoranze. 74

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Tanzania • Violenza

S

embrava uno dei Paesi più pacifici dell’Afr ica. Con l’eccezione, certo, di Zanzibar, paradiso per turisti stranieri, spesso funestato da conflitti interni con matrice religiosa. Ma ora questi conflitti sembrano essersi spostati anche sulla terraferma, dove in questi ultimi decenni si è consolidata la presenza di correnti islamiche molto più integraliste che in passato. Secondo mons. Tarcisius Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa e presidente della Conferenza episcopale tanzaniana, i recenti attacchi a edifici della Chiesa «non sono fatti isolati e separati», ma fanno parte di una precisa strategia di organizzazioni islamiste straniere che hanno come obiettivo quello di islamizzare l’Africa. In particolare, ha destato molto sgomento e preoccupazione l’attacco kamikaze avvenuto lo scorso 5 maggio alla parrocchia di San Giuseppe ad Arusha, in occasione dell’inaugurazione della nuova chiesa. L’esplosione ha ucciso tre persone e provocato il ferimento di molte altre. Erano presenti anche l’arcivescovo di Arusha e il nunzio apostolico, mons. Francisco, rimasto illeso, ma molto scosso: «L’intera Chiesa della Tanzania è sotto shock - ha dichiarato -. In Tanzania sono arrivati elementi radicali che vogliono alimentare il caos e che in qualche caso potrebbero essere strumentalizzati a fini politici». «I comuni musulmani - analizza mons. Ngalalekumtwa - non hanno nulla contro la religione cristiana e la fede cattolica. Sono i fondamentalisti, influenzati dall’esterno, ad essere ostili. I rapporti tra cristiani e musulmani in Tanzania sono sempre stati cordiali; per questo le ultime violenze ci lasciano sbalorditi. Siamo tutti esposti a intimidazioni, ma siamo anche molto uniti, ci incontriamo e preghiamo insieme regolarmente per darci coraggio». All’indomani dell’attentato, leader religiosi cristiani e musulmani hanno pubblicato un comunicato congiunto per dire «stop ai discorsi di incitamento all’odio religioso». L’attentato di Arusha fa rileggere con occhi diversi anche i precedenti episodi di violenza contro persone o strutture cristiane. Lo scorso febbraio, infatti, La Segretaria generale del sull’isola di Zanzibar (a maggioranza musulmaConsiglio delle Chiese in Zambia, na) è stato ucciso padre Evarist Mushi, mentre a Suzanne Matale e padre Cleophas Natale era stato gravemente ferito don Ambrose Lungu, Segretario della Conferenza Mkenda. Inoltre, sono state saccheggiate alcune episcopale dello Zambia chiese. A ottobre, invece, un gruppo di manife-

Zambia • un


religiosa

R.D. CONGO

Il gusto amaro dell’abbandono «Le popolazioni dell’est della RD Congo hanno in bocca il gusto amaro di appartenere a comunità spogliate, violentate, abusate, umiliate e abbandonate dal loro Stato e dalla comunità internazionale». È l’ennesima denuncia dei vescovi della Provincia del Kivu. Da quasi vent’anni, questa regione non conosce pace, a causa della presenza di milizie e gruppi ribelli, spesso sostenuti dai Paesi limitrofi, interessati a saccheggiare le enormi ricchezze del sottosuolo. In particolare, i vescovi denunciano l’assenza dello Stato, l’impotenza della Missione Onu (presente in R.D. Congo con ben 22mila uomini) e puntano il dito contro il gruppo M23, responsabile «di omicidi e stupri e dello sfollamento delle popolazioni». In questo travagliato contesto si inserisce anche il rapimento otto mesi fa di tre religiosi dei quali si è tuttora senza notizie, come pure i rapimenti di civili a scopo di estorsione. Ancora il 23 maggio scorso altre 15 persone sono state rapite a pochi passi dall’accampamento dei militari inviati per proteggere la popolazione.

stanti musulmani aveva cercato di attaccare alcune chiese cristiane nella capitale Dar es Salaam. Infine, molti leader cristiani continuano a ricevere minacce e intimidazioni attraverso i media o altre pubblicazioni.

atttacco premeditato? «Scioccati e sconvolti». Così si definiscono i partecipati al raduno di preghiera organizzato dall’Oasis Forum, lo scorso 31 maggio, attaccati da un gruppo di uomini armati appartenenti al Fronte patriottico (FP, il partito di governo) all’interno di una chiesa a Lusaka. «L’Oasis Forum spiega padre Cleophas Lungu, Segretario della Conferenza episcopale dello Zambia - raggruppa le principali confessioni cristiane dello Zambia. Questo raduno era stato convocato insieme a diverse organizzazioni della società civile per pregare e protestare pacificamente contro l’abolizione da parte del governo dei sussidi all’agricoltura e per l’acquisto di mais e carburante». Che i quadri del partito abbiano attaccato, armati di bastoni e di ogni sorta di strumenti offensivi, cittadini innocenti, dirigenti della Chiesa, giornalisti, cameraman e alcuni politici in una chiesa, è senza precedenti e assolutamente sconvolgente, sottolinea un comunicato dell’Oasis Forum che accusa gli assalitori di aver commesso un atto di violenza «premeditato e pianificato».

EGITTO •

Sulle rive del Nilo

N

egli ambienti bene informati del Cairo circolava l’ipotesi di una “mediazione ecclesiale” tra il Patriarca della Chiesa ortodossa d’Etiopia Abuna Mathias I e il Patriarca copto ortodosso egiziano Tawadros II sulla spinosa questione della diga della Grande Rinascita che sta incrinando i rapporti tra Egitto e Etiopia. L’Etiopia, infatti, progetta di costruire sul Nilo Azzurro la più grande diga d’Africa, che dovrà produrre 6.000 megawatt di energia elettrica. Tuttavia, lo stesso Patriarca Tawadros II, aveva smentito tale ipotesi e il rinvio della visita in Egitto del Patriarca etiope Mathias I - che avrebbe dovuto tenersi il 17 giugno - sembra andare nello stesso senso. La Chiesa ortodossa d’Etiopia è stata vincolata al Patriarcato copto di Alessandria d’Egitto fino al 1959, quando il Patriarca copto Cirillo VI l’ha riconosciuta come Chiesa autonoma.

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lettere Fuga da Malindi attualità

testo di Claudia Crisafulli

Malindi addio Più criminali, meno turisti: si appanna il mito della Little Italy africana Per decenni è stata meta di fughe esotiche, rifugio prediletto di pensionati, vip e fuggiaschi, paradiso per imprenditori. Ma oggi il sole delle coste del Kenya non scalda più il cuore degli italiani

H

anno lo sguardo mesto e rassegnato i beach boys che ciondolano tra le palme di Malindi. I turisti in spiaggia si contano col contagocce, gli affari latitano per gli irriducibili mercanti di souvenir, safari e sesso. «Meno trenta per cento di prenotazioni in pochi mesi», riferisce l’agente di 6

un tour operator. «Colpa della recessione, dell’Imu, dello spread, dell’Agenzia delle Entrate… E, soprattutto, colpa dei delinquenti che terrorizzano la gente».

Cronaca nera La località keniana più amata dagli italiani, sinonimo di vacanze spensierate, oggi fa paura. Un’ondata di insicurezza e di violenza si è abbattuta come uno tsunami sui suoi resort lussuosi bagnati dalle acque turchesi dell’oceano Indiano. L’ex

paradiso africano - buen retiro per vip, pensionati e fuggiaschi del Belpaese - è diventato “insicuro”. La Farnesina raccomanda di «esercitare la massima cautela e di adottare ogni utile misura per ridurre al minimo l’esposizione al rischio di atti ostili». Precauzioni più che mai giustificate. Lo scorso marzo un commando di sei persone incappucciate ha assaltato con pistole e machete un gruppo di ville private per derubarle. Un italiano è stato ferito a colpi d’arma

Un angolo di paradiso costa mille euro al metro quadro. Ma non tutti riescono a vivere di rendita…

africa · numero 3 · 2013

da fuoco, un altro è stato accoltellato a una mano. Poche settimane prima, in un resort a Watamu Bay, una turista bresciana era sopravvissuta per miracolo dopo essere stata colpita alla testa da una pallottola durante una rapina. A novembre altri tre nostri connazionali furono malmenati e feriti da una banda criminale. Non c’è pace per le coste del Kenya, già sconvolte da recenti scontri tribali, rivolte a sfondo politico (nella vicina Mombasa), raid armati

e rapimenti di turisti (attuati a Lamu dai terroristi somali). Una marea di brutte notizie che ha deturpato l’immagine rassicurante del luogo-simbolo del relax da cartolina.

Enclave italiana Gli hotel hanno ricevuto una pioggia di disdette, le compagnie low cost hanno dilatato i loro voli, i villaggi orlati di palme si sono svuotati di vacanzieri. A Malindi sono rimasti un migliaio di italiani residenti. Sono loro a gestire africa · numero 3 · 2013

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Sull’ultimo numero di Africa ho letto con interesse, e senza alcun dispiacere, la notizia della crisi che pare abbia colpito la comunità italiana di Malindi. Ho visitato questa città del Kenya cinque anni fa durante una vacanza estiva e vi confesso di essere rimasto inorridito dal malcostume esportato da tanti nostri connazionali che hanno deciso di rifarsi una vita al sole. Vedendo la maleducazione che regnava sovrana nei locali e in spiaggia sono scappato a gambe levate dalla “little Italy africana”. Emanuele Buontempo, Padova

Ricordi libici Attraverso la vostra rivista vorrei far conoscere un mio lavoro narrativo incentrato sull’occupazione italiana in Libia: Il gran-

a cura della redazione

de ghibli. Il saggio trae ispirazione da vicende famigliari che mi hanno idealmente condotto laggiù e in un tempo lontano. Chi è interessato a riceverne copia può mettersi in contatto con me via mail. sergiodamaro@tiscali.it Sergio D’Amaro

Cinema 3D in Ruanda

Mi allaccio all’interessante articolo Benvenuti a Hillywood dedicato al cinema ruandese pubblicato sull’ultimo numero di Africa, per segnalarvi la notizia che da poche settimane a Kigali è attivo il primo cinema 3D dell’Africa nera. La futuristica sala cinematografica è stata allestita all’interno della Kigali City Tower, in pieno centro. Da quando è stata inaugurata, i giovani della capitale ruandese fanno la fila per non perdersi lo spettacolo. Daniela Redaelli, via mail

Volontari in Sudafrica

Mi chiamo Sabrina, vivo in Sudafrica e lavoro a Leo Africa (www.leoafrica.org), un programma di volontariato incentrato sulla conservazione e il monitoraggio di leoni e rinoceronti neri nella Selati Game Reserve. Scrivo in quanto vorrei far conoscere attraverso la vostra rivista le nostre attività e trovare nuovi sostenitori e volontari. Allego una foto scattata nella riserva. Chiunque è interessato a saperne di più può contattarmi via mail. enquiries@leoafrica.org Sabrina Colombo (Leo Africa Manager)

La mia bionda preferita Nella mappa delle migliori birre africane pubblicata sull’ultimo nu-

mero di Africa vi siete dimenticati la mia preferita: la Windhoek Lager, un’ottima “bionda” prodotta in Namibia... Ex colonia tedesca dove l’amore per la birra è molto diffuso. Mauro Lo Giudice Novara

Maschilisti a São Tomé? cultura

testo e foto di Marco Trovato

L’

arrivo dell’imperatore è annunciato da squilli di trombe e rulli di tamburi. La folla si accalca eccitata ai bordi della strada, la frenesia è elettrizzante, i bimbi sgattaiolano in prima fila per non perdersi lo spettacolo. Carlo Magno cammina con passo solenne, portamento ieratico, sguardo impassibile. Sulla testa fa sfoggio della corona dorata. Con una mano impugna lo scettro, con l’altra accarezza la spada nel fodero. Alle sue spalle un paggio sostiene il lungo mantello rosso dietro cui si è accodata la processione dei cortigiani.

Pascal Maitre - Olycom

togu na - la casa della parola

Isole senza tempo

Carlo Magno ALL’EQUATORE IL CELEBRE SOVRANO DEL MEDIOEVO RIVIVE IN UN SPERDUTO ARCIPELAGO AFRICANO 50

La compagnia teatrale Florentina Reynaldo de Montavan. Composta da attori non professionisti, mette in scena nei villaggi di São Tomé uno spettacolo ambientato nell’Europa medioevale… Rimodernato con maschere e personaggi di nuova concezione

Sulle isole di São Tomé e Príncipe vanno in scena singolari spettacoli teatrali ambientati in epoca medievale, importati dai colonizzatori portoghesi e rielaborati nei secoli dalla popolazione locale

africa · numero 3 · 2013

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africa · numero 4 · 2013

carolingia, scritto nel XVI secolo da Baltazar Dias (poeta e drammaturgo cieco originario dell’isola di Madeira), e importato dai conquistadores portoghesi in epoca coloniale.

Il teatro dei bianchi A partire dal 1600 le autorità di Lisbona inviarono periodicamente sulle “loro” isole africane (approdi fertili e strategiche per il commercio negriero) diverse compagnie teatrali allo scopo di allietare i funzionari coloniali e gli amministratori 51

Sono rimasta sbigottita leggendo l’articolo sul teatro di São Tomé Carlo Magno all’Equatore, dove ho scoperto che alle donne di quel piccolo Paese africano è vietato recitare. Ma stiamo scherzando? Faccio parte di una compagnia teatrale itinerante composta da sole donne e proporrò alle mie compagne di realizzare un tour sulle isole di São Tomé e Principe per infrangere questo ignobile tabù. Mariateresa Limonta, Milano

Cosa pensi della nomina a ministro per l’Integrazione di Cécile Kyenge, medico di origini congolese? È un segnale di civiltà che modernizza l’Italia È un gesto ipocrita: l’Italia resta razzista È inopportuno: divide l’opinione pubblica Valuterò le qualità del ministro a prescindere dal colore della pelle

Le donne non possono recitare. I ruoli femminili sono interpretati da attori travestiti da cortigiane dell’Europa medievale

africa · numero 3 · 2013

sondaggIo ParerI raCColtI sulla PagIna FaCebooK dI aFrICa 70% 10% 0% 20%

Sembra di assistere a un tipico corteo storico in costumi medievali, una di quelle rivisitazioni sceniche che si tengono periodicamente nei borghi antichi di mezza Europa. Ma qui il sovrano ha la pelle scura come il bronzo, non ci sono castelli né fortezze agghindate. E la scenografia - palme da cocco e palafitte in legno - ha un sapore decisamente esotico. Siamo nell’arcipelago di São Tomé e Príncipe, un solitario microstato che galleggia sulle acque dell’Atlantico nel Golfo di Guinea. Su queste isole ancorate all’Equatore la lancetta della storia sembra essersi fermata all’epoca del Sacro Romano Impero. Non sorprende nessuno veder sfilare tra la vegetazione tropicale una parata di nobili, cava-

lieri, dignitari e chierici che paiono appena usciti da una macchina del tempo. Da quattrocento anni le compagnie locali del teatro Tchiloli, patrimonio nazionale di São Tomé e Príncipe, mettono in scena la tragedia del Marchese di Mantova e dell’Imperatore Carlo Magno: un poema epico ambientato nell’età

africa rivista


n. 4 luglio . agosto 2013 www.missionaridafrica.org

Padri Bianchi si diventa… Un cammino di adesione e di scelta della Missione

di Emmanuel Ngona

O per interesse o per curiosità, molti chiedono che cosa bisogna fare per diventare Padre Bianco. Ce lo spiega padre Emmanuel Ngona, congolese La Società dei Missionari d’Africa, meglio conosciuti come Padri Bianchi, è stata fondata nel 1868 dal cardinale Carlo Lavigerie, arcivescovo di Algeri. Dopo quasi 150 anni di esistenza, la Società conta oggi 1400 membri, sacerdoti e laici consacrati. Pensando a quanto diceva il cardinale: «L’Africa sarà evangelizzata solo dagli africani stessi, diventati cristiani e apostoli», si sarebbe anche tentati di credere che la missione dei Padri Bianchi sia terminata e che la Società si stia avviando alla fine. Anche le statistiche ci spingerebbero a pensarlo, visto la morte di 60 confratelli a fronte di una ventina di nuove ordinazioni sacerdotali ogni anno.

Il cammino verso la Missione

Sono più di 400 i giovani candidati che, nelle varie fasi di formazione, si preparano alla Missione, in provenienza dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina e, pochi, dall’Europa. Li attende una formazione

lunga dieci anni e suddivisa in quattro tappe, che li prepara a scoprire, condividere e apprezzare la cultura africana. La prima fase ha luogo normalmente in patria ed è soprattutto consacrata agli studi filosofici e umanistici. Per i pochi candidati europei vi sono varie soluzioni tra cui seguire i corsi o all’università o in un seminario vivendo in una comunità di Padri Bianchi. La seconda tappa, chiamata anno di spiritualità, è già più specifica e viene vissuta in Africa in tre centri: in Burkina Faso, per i francofoni; in Tanzania e in Zambia per gli anglofoni. In questa fase, il candidato approfondisce la sua vita spirituale e la sua relazione con Gesù Cristo, si familiarizza con le tradizioni dei Padri Bianchi e viene iniziato alla vita in comunità internazionali e interculturali. È un anno che può rivelarsi difficile a causa dello scontro delle culture e delle mentalità, ma che può essere coinvolgente e profetico. Nella terza fase della formazione, denominata “stage”, il

CANDIDATI PADRI BIANCHI IN FORMAZIONE provenienza

africa

americhe

asia

europa

totale

anno di spiritualita

52

4

1

57

stage di due anni

37

4

3

44

teologia

78

4

9

3

94

167

4

17

7

195

TOTALE

candidato è inviato per due anni in un altro Paese, in una comunità di Padri Bianchi, dove muove i primi passi del suo impegno missionario. Grande importanza è data all’apprendimento della lingua, degli usi e costumi e della cultura del popolo con cui si vive. Scoprendo l’esperienza di una Chiesa diversa e di un quotidiano vissuto in una piccola comunità, si scopre la povertà - e la ricchezza - della popolazione e, a volte, anche situazioni umane faticose e violente a causa dei conflitti. Si sperimenta soprattutto la snervante realtà di non avere la soluzione a tutto e quindi della necessità di radicare il Vangelo e la fiducia in Dio nella propria vita. Al termine di questo periodo, il candidato dovrà chiedersi se può vivere felice e realizzato come missionario lontano dalla sua Patria e dai suoi familiari. Rimane l’ultima tappa, quella dell’approfondimento teologico in un centro internazionale. Il candidato, che ha ormai trascorso almeno sette anni con i missionari, ha già una certa esperienza della missione. Chi in precedenza ha avuto delle responsabilità, può forse trovare questa tappa meno stimolante perché non è facile accettare di essere ancora “in formazione” ed eventuali critiche e osservazioni quando si sono già avute responsabilità. È un’altra sfida: riconciliare il proprio sviluppo personale con le esigenze della nostra Società e della Missione. La nostra missione di Missionari d’Africa continua dunque, in Africa e in Europa, con una nuova generazione di missionari all’ascolto di ciò che lo Spirito suggerisce.

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«Rendiamoci inutili»

Colloquio con il nuovo vescovo di Beira Monsignor Claudio Dalla Zuanna, missionario italiano, è stato chiamato alla guida di un’importante diocesi nel cuore del Mozambico. Ecco le sue riflessioni sul ruolo della Chiesa Sacerdote italiano di 55 anni, don Claudio Dalla Zuanna, dehoniano, è dal 29 giugno 2012 vescovo di Beira. Nato in Argentina da una famiglia di emigranti, rientrata in Italia quand’era bambino, è stato molto segnato da quell’esperienza, da cui è nata anche l’idea di essere missionario e di partire per un altro Paese. È arrivato in Mozambico nel 1895, dove ha lavorato nella pastorale e nella formazione. Dopo la fine della guerra civile (1992), si è trasferito nella regione della Zambezia. «Vedo la mano di Dio in questo mio essere figlio di emigranti - dice - nato in una terra che non è la mia; cresciuto nella mia terra per qualche tempo; e poi di nuovo in giro per il mondo. Il mio essere vescovo missionario è la continuazione di quello che è stata la mia vita sin da bambino». Un vescovo missionario ed europeo: una scelta che sembra contraddire

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di Claudio Zuccala

tutto lo sforzo del passato di “africanizzare” la Chiesa mozambicana. Sono cambiati i tempi? Rimango dell’idea che il lavoro del missionario è quello di rendersi “inutile”, cioè di non essere più essenziale alla Chiesa locale. Quindi, anche qui mi sento provvisorio. Però, ogni Paese ha la sua storia. Il Mozambico ha celebrato i 500 anni di evangelizzazione, ma, in effetti, il Vangelo ha raggiunto in modo massiccio gli africani solo a partire dagli anni ‘40/’50 del secolo scorso. Poi c’è stata l’indipendenza, il difficile rapporto Chiesa-Stato marxista e l’accelerazione forzata del passaggio di consegne da una gerarchia ecclesiastica straniera a una locale. Si tratta di una Chiesa molto giovane, bisogna dare tempo al clero locale perché possa crescere, maturare e prepararsi. Inoltre, c’è bisogno anche di teologi, di altre competenze e ministeri. Da parte mia, sono co-


LE MISSIONI I Padri Bianchi sono arrivati nella diocesi di Beira nel giugno del 1946, su invito del vescovo Sebastião Soares de Resende. Il primo gruppo di missionari fu inviato a Murraça, la prima missione sulla riva destra dello Zambesi, a 400 km a nord di Beira. Nel 1971, a causa di forti tensioni con la gerarchia cattolica del Paese - che all’epoca era composta esclusivamente da prelati portoghesi - i Padri Bianchi decisero di andarsene in massa per lanciare un forte segnale di protesta. Tre riusciranno a rientrare alla vigilia dell’indipendenza nel 1975, prima dell’inizio di una violenta campagna anti-religiosa da parte del Frelimo. Il governo riaprirà le porte ai missionari solo negli anni Ottanta. Al momento i Missionari d’Africa hanno due comunità a circa venti chilometri da Beira. Vari confratelli italiani hanno lavorato in Mozambico: i padri Bertulli, Marostica, Masera, Morell, Rovelli, Pirotta, Locati, Zuccala e fratel Pinna.

mozambico L’arcidiocesi di Beira

Eretta 4 settembre 1940 Superficie 78mila kmq (più di Piemonte, Lombardia e Toscana riunite) Abitanti circa 2 milioni Cattolici 58,6% della popolazione Parrocchie 46 Sacerdoti e diaconi 69 Seminaristi 27 Istituti religiosi 12 femminili e 7 maschili

sciente di essere un elemento di transizione, ma questo non mi impedisce di dedicare tutta la mia vita a quest’incarico. Sono pure cosciente dei miei limiti, uno dei quali è di non appartenere a questo popolo. Sento invece come un ostacolo il fatto di non conoscere nessuna lingua locale. Quali sono le aree che hanno più bisogno di un intervento urgente? Penso alla formazione dei preti diocesani e dei seminaristi. Una cosa è la teoria che si impara in seminario; un’altra è la pratica, l’esperienza sacerdotale. Finora è mancato questo passaggio: imparare a fare il prete accanto a qualcuno che agisse da modello. Poi viene l’attenzione all’evangelizzazione, che parte dalla catechesi e arriva all’organizzazione dei vari servizi. Un terzo punto è quello della

dimensione sociale del nostro essere Chiesa. Dobbiamo essere vicini alle persone e alla loro vita reale. In diocesi ci sono alcune scuole e progetti sociali, ma è necessario che questo non sia solo il lavoro di qualche individuo, ma diventi una maniera fondamentale di essere Chiesa. L’ultimo punto, che entra trasversalmente in tutto, è quello di far rinascere e coltivare un senso di appartenenza, unità, comunione e collaborazione in tutti i campi. La Chiesa è stata una delle poche organizzazioni che ha sempre parlato apertamente, soprattutto nei momenti più duri e cupi. Negli ultimi anni, però, sembra aver perso un po’ il suo ruolo profetico. È d’accordo? Durante la guerra c’era un problema ben chiaro e la Chiesa ha colto quello che era il desiderio di tutti: come arrivare alla pace e alla riconciliazione. Finito il conflitto, c’è stata un po’ di dispersione. Gli orizzonti si sono ampliati. La Chiesa non solo non può intervenire su tutto, ma ha anche difficoltà a identificare le priorità su cui concentrarsi. Certamente siamo più sollecitati e più distratti. Penso che sia necessario fare un lavoro di verifica e di discernimento su come essere più vicini alle persone e ai loro problemi, a cominciare dalla mancanza di lavoro e di prospettive specialmente per i giovani. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a due Sinodi speciali per l’Africa, che hanno proposto idee e iniziative

interessanti. Quali le sembrano utili e necessarie alla sua diocesi? Prenderemo certamente spunto dalla riflessione sulla Chiesa in Africa. Alcune sono urgenti. Penso al ruolo della donna nella Chiesa e nella società, alla pressione cui è sottoposta l’Africa, ai salti culturali cui è costretta la gioventù. Sinceramente, mi trovo di fronte a un mare aperto. Il punto di partenza, però, rimane chiaro: dobbiamo farci carico della difesa delle nostre popolazioni, che si trovano a fronteggiare situazioni più grandi di loro, vedi ad esempio l’accaparramento della terra. Dobbiamo farci cassa di risonanza per chi non ha i mezzi o le capacità di farsi sentire. Dobbiamo fare più attenzione ai problemi quotidiani delle persone. Il mio piano e il mio ideale è costruire una Chiesa che riesca a sentirli e viverli.

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PRoGettI sostenUtI

da aMICI deI PadRI BIanChI - onlUs Progetto 01-10 Rd Congo Centro nutrizionale e acquedotto Referente: padre Italo Iotti

Progetto 04-10 Mali Chiesa di Masina Referente: padre Alberto Rovelli

Progetto 07-10 Borse di studio aiutare i seminaristi Padri Bianchi Referente: padre Luigi Morell

Progetto 09-10 Mozambico adotta un bambino Referente: padre Claudio Zuccala

Progetto 04-11 Mali Un dispensario a Gao Referente: padre Alberto Rovelli

Progetto 13-11 Kenya a scuola grazie a suor agata Referente: padre Luigi Morell

Progetto 14-12 Rd Congo Con i giovani di Goma Referente: padre Giovanni Marchetti

Progetto 15-12 Mali lotta contro la carestia Referente: padre Vittorio Bonfanti

Per ogni invio, si prega di precisare sempre la DEsTINAZIONE del vostro dono (numero progetto, sante messe, rivista, offerte, ecc) ed il vostro COgNOME E NOME

DONAZIONI (assegni, bonifici e versamenti) Amici dei Padri Bianchi CCP: N. 9754036 IBAN: IT32 E076 0111 1000 0000 9754 036 Credito Cooperativo di Treviglio Bg IBAN: IT73 H088 9953 6420 0000 0172 789 Info: 0363 44726 - africa@padribianchi.it

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indirizzi Case deI PadRI BIanChI In ItalIa

PadRI BIanChI In ItalIa CASTELFRANCO VENETO BORTOLI Tarcisio CECCON Mariano CECCON Ugo COSTA Luigi GUAZZATI Fausto LAZZARATO Luigi LAZZARATO Silvio

CASTELFRANCO VENETO Via Ponchielli, 6 31033 Castelfranco V. (TV) Tel. 0423 494100 - Fax 0423 494005 mafrcasteo@padribianchi.it TREVIGLIO Viale Merisio, 17 - C.P. 61 24047 Treviglio (BG) Casa Provincializia Tel. 0363 41010 - Fax 0363 48198 provincia@padribianchi.it economato@padribianchi.it Redazione Rivista Africa Tel. 0363 44726 - Fax 0363 48198 africa@padribianchi.it Casa di Residenza Tel. 0363 49681 - Fax 0363 48198 cstgvn@padribianchi.it

TREVIGLIO BERTELLI Gustavo BONFANTI Vittorio CASTAGNA Giovanni COLOMBO Luciano COSTANTINI Paolo GAMULANI Abdon MATTEDI Giuseppe PAGANELLI Dante Bernardo PAGANELLI Bruno PINNA Franco PIRAZZO Romeo PLEBANI Luigi REDAELLI Giuseppe ROVELLI Alberto

CASA GENERALIZIA Via Aurelia, 269 - C.P. 9078 00165 Roma Tel. 06 3936341 - Fax 06 39363479 m.afr@mafrome.org www.mafrome.org

ROMA VEZZOLI Michele (Casa generalizia) ALTRI ALBIERO Sergio (Trebaseleghe, PD) BOLOGNA Giuseppe (San Damiano d’Asti, AT) FABBRI Guido (Corporeno, FE) GHERRI Walter (Poviglio, RE) PIROTTA Pierangelo (Sturno, AV) SCREMIN Gaetano (Novale, VI)

P.I.S.A.I. (Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica) Viale Trastevere, 89 00153 Roma Tel. 06 58392611 - Fax 06 5882595 info@pisai.it www.pisai.it

Case deI PadRI BIanChI In svIzzeRa

PadRI BIanChI all’esteRo BENACCHIO Nazareno

BRASILE

AFRICA CAZZOLA Gaetano GIANNASI Aldo GODINA Arvedo IOTTI Italo LOCATI Giuseppe LUCCHETTA Giuseppe MARCHETTI Giovanni MORELL Luigi PIRAZZO Giancarlo ZUCCALA Claudio

R.D. CONGO ALGERIA MALI R.D. CONGO R.D. CONGO RUANDA R.D. Congo KENYA BURKINA FASO ZAMBIA

FRIBURGO Africanum Route de la Vignettaz, 57 CH - 1700 Fribourg Tel. 0041 26 4241977 Fax 0041 26 4240363 C.C.P. 17-1818-3 friprov@bluewin.ch Per Africa: Africanum Route de la Vignettaz, 57 CH - 1700 Fribourg C.C.P. 60-106-4


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