Africa Nr 5 - Settembre-Ottobre 2010

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anno 88

n.5 settembre-ottobre 2010

Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Milano.

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reportage

LA REGINA DEL TANGANICA Guinea

Bella e dannata

Pigmei

Piccoli e felici

Algeria

Storia

I monaci L’impresa di Tibhirine di Bikila


africa

Le nostre mostre fotografiche disponibili per esposizioni in tutta Italia Le mostre possono essere allestite in scuole, biblioteche, parrocchie e centri culturali. È richiesto un contributo minimo di 200 euro per l’esposizione più il rimborso delle spese di spedizione. Per prenotazioni e informazioni rivolgersi alla redazione, tel.0363 44726, africa@padribianchi.it Anteprime su www.missionaridafrica.org

Donna Africa

Un collage di sguardi d’autore sull’universo femminile africano di Andrea Semplici e Bruno Zanzottera

L’Africa di Edo

Uno sguardo al continente africano e alla sua gente litografie di Edoardo di Muro

L’Africa nel pallone

Venti fotografi illustrano sogni e illusioni del calcio africano

Figli maledetti

I piccoli dannati del Congo di Marco Trovato

Contattaci per informazioni

africa@padribianchi.it Tel. 0363 44726

Nei giardini di Allah

Viaggio tra le sabbie del Sahara di Marco Trovato

Sulle strade di Maputo

I “meninos de rua” del Mozambico di Giovanni Diffidenti


editoriale

di Paolo Costantini

Un colpevole silenzio

H

o sorriso amaramente, lo scorso 30 luglio, quando ho letto che l’Onu aveva approvato una dichiarazione che riconosce come un “diritto umano fondamentale l’accesso all’acqua e ai servizi fognari”. Sì, perché proprio pochi giorni prima, l’Alta Corte del Botswana aveva negato ai Boscimani il diritto all’acqua, vietando loro l’accesso all’unico pozzo presente nella Central Kalahari Game Reserve, una delle regioni più aride del mondo e da sempre la loro terra. È anche vietato portare acqua ai parenti e famigliari assetati che vivono nella riserva. La colpa dei Boscimani? Quella di sempre: abitare in luoghi che fanno gola. Infatti, nella riserva, è stata autorizzata l’apertura di un lussuoso complesso turistico della Wilderness Safaris, con bar e le inevitabili piscine perché i turisti possano

“rinfrescarsi” dopo le gite naturalistiche. «È assurdo vedere i turisti che visitano le nostre terre, bere finché vogliono, mentre noi moriamo di sete», dice Jumanda Gakelebone, un boscimane del posto. Eppure la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche, approvata all’Onu nel 1992, proclama: “Gli Stati proteggeranno l’esistenza e l’identità nazionale o etnica, culturale, religiosa e linguistica delle minoranze all’interno dei rispettivi territori e favoriranno le condizioni per la promozione di tale identità”. Parole al vento. Ma i Boscimani non sono l’unica minoranza etnica a subire simili discriminazioni. In Etiopia, una grave minaccia incombe su circa 200mila persone, di etnie diverse, che da secoli vivono

nella bassa Valle dell’Omo. Presto un’enorme diga distruggerà il loro habitat, un ambiente ecologicamente fragile, mettendo in ginocchio le economie di sussistenza legate al fiume e ai cicli naturali delle sue esondazioni (vedi Africa 1- 2010). In Kenya, almeno altre due etnie sono minacciate: i famosissimi Masai (ridotti a fare da figuranti davanti ai turisti) e gli Ogiek. I primi sono stati progressivamente costretti ad abbandonare il bestiame poiché i loro territori sono stati trasformati dalle autorità in aziende agricole o in parchi naturali. Così i Masai si ritrovano confinati nelle zone più aride e sterili del Paese. Non è andata meglio agli Ogiek, sfrattati dal governo di Nairobi. Le ultime famiglie assistono inermi alla distruzione della loro foresta per il taglio del le-

gname e le piantagioni di tè. In questo numero di Africa parliamo dei Pigmei Bambuti dell’Ituri, nel nord-est del Congo. Anche la loro esistenza è minacciata non solo dalle violenze in atto nella regione, ma soprattutto dal disboscamento selvaggio. Un amaro destino che li accomuna alle comunità pigmee sparse in Ruanda, Camerun e Repubblica Centrafricana. La lista di popoli discriminati, schiacciati e condannati a sparire perché la nostra società ha bisogno del benessere ad ogni costo, di minerali costosi, legnami preziosi, prodotti energetici, vacanze “speciali”, sarebbe interminabile… Tutti, giustamente, gridiamo basta genocidi, eppure ho l’impressione che oggi stiamo assistendo a tanti lenti genocidi. Previsti, voluti e programmati. E stiamo zitti. • africa · numero 5 · 2010

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sommario

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DIREZIONE, REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE

viale Merisio, 17 24047 Treviglio (BG) tel. 0363 44726 - fax 0363 48198 africa@padribianchi.it www.missionaridafrica.org DIRETTORE

Paolo Costantini COORDINATORE

Marco Trovato WEBMASTER

Paolo Costantini AMMINISTRAZIONE

Bruno Paganelli

PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA

Luciana De Michele PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE

Elisabetta Delfini FOTO

Copertina Marco Garofalo Si ringrazia Olycom COLLABORATORI

Claudio Agostoni, Marco Aime, Giusy Baioni, Enrico Casale, Giovanni Diffidenti, Matteo Fagotto, Emilio Manfredi, Diego Marani, Raffaele Masto, Pier Maria Mazzola, Giovanni Mereghetti, Aldo Pavan, Piero Pomponi, Giovanni Porzio, Anna Pozzi, Andrea Semplici, Daniele Tamagni, Alida Vanni, Bruno Zanzottera, Emanuela Zuccalà

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Periodico bimestrale - Anno 88 settembre-ottobre 2010, n° 5

Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la testata e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 675/96 - tutela dei dati personali).

La regina del Tanganica di Marco Trovato e Marco Garofalo

attualità

3 Equatoriale. 4 Guinea Bella e dannata 11 Chi ha paura della Cina? 12 I paradisi dei pirati informatici 14 L’invasione della plastica 18 Il cuore nuovo di Khartoum Africanews

a cura della redazione

di Sergio Ramazzotti

di Fortuna Mambulu Ekutsu di Paola Marelli

di Ludovico de Maistre di Matteo Fagotto

COORDINAMENTO E STAMPA

Jona - Paderno Dugnano

copertina

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popoli R.D. Congo. Piccoli e felici di Anna Pozzi e Bruno Zanzottera

società

28 Tanzania. Mister Coca Cola 31 Arriva la bici in bambù nuovo calcio? United 32 IlL’Afro-Napoli

di Matteo Tortone e Alida Vanni di Luca Spampinato

COME RICEVERE AFRICA per l’Italia:

Contributo minimo di 25 euro annuali da indirizzare a: Missionari d’Africa (Padri Bianchi) viale Merisio, 17 - 24047 Treviglio (BG) CCP n.67865782 oppure con un bonifico bancario sul conto della BCC di Treviglio e Gera d’Adda intestato a Missionari d’Africa Padri Bianchi IBAN: IT 93 T 08899 53640 000 000 00 1315

per la Svizzera: Ord.: Fr 35 - Sost.: Fr 45 da indirizzare a: Africanum - Route de la Vignettaz, 57 CH - 1700 Fribourg C.C.P. 60/106/4

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48 46 La seconda vita delle auto 48 Mozambico. Reporter tra i rifiuti di Luca Spampinato di Sara Milanese

libri e musica

52 Libri e musica

di P.M. Mazzola e C. Agostoni

viaggi

54 Una Panda in Africa

di Ludovico de Maistre

chiese

60 Algeria. Gli spiriti di Tibhirine 66 Brevi

di Anna Pozzi e Bruno Zanzottera a cura di Anna Pozzi

storia

68 Quando Bikila entrò nella storia 72 Etiopia. Il cardinale esploratore togu na 76 vita nostra 77 di Enrico Casale foto Olycom di Diego Marani

a cura della redazione

a cura della redazione

di Roberto Paolo

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news

a cura della redazione

Africanews, brevi dal continente 1 Mozambico, uccidono ancora Due ragazzi sono morti a Ntcheu, nell’esplosione di una mina anti-uomo, residuato della guerra civile conclusasi 16 anni fa. Il fatto si è verificato durante una battuta di caccia nella zona, non distante dalla frontiera con il Malawi. I giovani hanno ritrovato l’oggetto metallico e, incuriositi, hanno deciso di portarlo a casa. Durante il tragitto l’ordigno è esploso uccidendoli e ferendo una terza persona. Nella guerra civile in Mozambico si fece un largo uso di mine anti persona che, a distanza di tempo, uccidono ancora.

2 Sudafrica, priorità businnes Nel mese di agosto il presidente sudafricano Zuma ha compiuto una visita in Cina accompagnato da una delegazione di 300 persone tra imprenditori e ministri. Obiettivo: cooperazione economica bilaterale e sviluppo di joint venture per gli investimenti in Africa dove entrambi i paesi sono, ormai, tra i più grandi investitori del mondo. Yacob Zuma ha compiuto questo viaggio mentre il suo paese era investito da una ondata di scioperi senza precedenti nel dopo apartheid. Gli scioperi erano proclamati dal glorioso sindacato della lotta contro la segregazione

razziale, il Cosatu, e hanno mobilitato almeno due milioni di lavoratori.

3 Africa orientale, forme di cooperazione nascono In un vertice a Nairobi, nell’agosto scorso, è nato il Mercato Comune dell’Africa Orientale su iniziativa di cinque paesi: Kenya, Tanzania, Uganda, Burundi e Ruanda. L’iniziativa consentirà di rafforzare le attività commerciali tra i paesi aderenti. Si tratta della prima iniziativa di questo genere nel Continente africano che vedrà però la sua attuazione concreta solo tra qualche anno. Per rendere il Mercato funzionante è necessario, infatti, attivare un processo di riforme interne in ognuno dei paesi coinvolti. Gli obiettivi sono ambiziosi: entro il 2012 dovrebbe addirittura esserci una unione monetaria.

4 Nigeria, ladri di petrolio La compagnia petrolifera Royal Dutch Shell non ha potuto rispettare i previsti livelli di produzione di greggio dai giacimenti in Nigeria. Ufficialmente a causa dei numerosi sabotaggi subiti dagli oleodotti nel sud est del paese. La filiale nigeriana della Shell ha dovuto proclamare lo stato di “Forza Maggiore”, un cavillo contrattuale che consente alla compagnia di non pagare le

penali previste nel caso di mancate consegne. A prova di quanto affermato, la Shell ha reso pubbliche una serie di immagini che mostrano numerosi segni di perforazione e tagli, utilizzati dai ladri di petrolio che poi lo rivendono sul mercato nero.

5 Liberia, a volte ritornano La commissione elettorale ha annunciato il calendario delle elezioni generali previste nell’Ottobre del 2011. La registrazione degli elettori si svolgerà tra gennaio e giugno e sarà seguita dal-

6 Sudan, torna a casa e vota Il governo semi autonomo di Juba ha lanciato una campagna per il ritorno degli abitanti del Sud Sudan, emigrati al nord o nei paesi vicini durante la guerra civile conclusasi nel 2005, in vista del referendum sull’autodeterminazione previsto nel gennaio prossimo. La “Campagna Torna a Casa per Scegliere” propone inoltre sussidi economici alle famiglie più indigenti che intendono tornare a vivere nelle regioni meridionali di origine. Fonte: AgiAfro, Bbc, Jeune Afrique, Misna

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la nomina dei candidati, mentre la campagna elettorale comincerà ad agosto e finirà il 9 ottobre 2011. Tra i candidati alla più alta carica dello stato l’attuale presidente Ellen Johnson Sirleaf e l’ex calciatore George Weah.

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attualità

testo e foto di Sergio Ramazzotti/Parallelozero

Una chiesa semi abbandonata a Batete. La gran parte della popolazione della Guinea Equatoriale è cristiana. Ma la religione di Stato venera il dittatore Teodoro Obiang Nguema. A destra, vecchio cannone spagnolo nei pressi della capitale 4

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Bella

e dannata Guinea Equatoriale, un’eterna dittatura

L’

inferno ha anche un girone degli innocenti: lo popolano in 630mila, colpevoli solo d’essere nati entro i suoi confini e condannati a vivere e a morire tra le fiamme della repressione. Sono i cittadini della Guinea Equatoriale, ex colonia spagnola, una fetta d’Africa schiacciata tra Camerun, Gabon e il Golfo di Guinea, due province popolate da etnie rivali - i Bubi e i Fang - riunite sotto la stessa bandiera da una scellerata operazione chirurgica condotta negli anni Quaranta dal governo di Madrid.

È un piccolo Paese che galleggia su un mare di petrolio. Ma la sua popolazione vive nella povertà assoluta. Colpa di un tiranno spietato che pensa solo ad arricchirsi. E ad eliminare qualsiasi oppositore

L’incubo dell’indipendenza Il demonio che domina indisturbato su questa terra di fucili, di frustate e di uniformi maculate porta il 46 di scarpe, indossa il doppiopetto gessato e si sposta su una Mercedes blindata. Il suo nome è Teodoro Obiang Nguema, 68 anni, Presidente e padrone del Paese dal

1979. Sono passati 42 anni da quando Madrid concesse l’indipendenza, e sono bastati due Nguema a devastare la Guinea Equatoriale. Il primo, l’“Unico Miracolo” Francisco Macías, prese il potere nel 1968 e in

ventiquattr’ore trasformò la Guinea da regno del cacao (era il primo produttore mondiale con 320 dollari di reddito pro capite, uno fra i più elevati d’Africa) a regno del terrore: fece strappare tutte le bandiere spagnole

dai pennoni e sbarrò le porte del Paese come si sbarra il ponte levatoio di un mastio medievale. Dichiarò la pesca illegale e ordinò la distruzione delle piroghe, chiuse le chiese, espulse i missionari, fece massacrare 50mila civili (allora un sesto della popolazione) e razziò le casse dello Stato ammassando un patrimonio personale di 105 milioni di dollari. Qualcuno racconta ancora sottovoce del Natale del 1977, che Nguema senior festeggiò facendo fucilare un gruppo di prigionieri politici nello stadio della capitale Malabo, mentre la banda dell’esercito suonava i suoi motivi preferiti.

Un regime spietato La spirale di follia terminò nel 1979, quando il colonnello Teodoro Obiang, nipote di Macías, organizzò un colpo di Stato e fece fucilare lo zio: non poteva sopafrica · numero 5 · 2010

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attualità

Sulle mura di un edificio governativo spagnolo a Ureca. In Guinea Equatoriale l’istruzione primaria è a un livello pietoso e le classi elementari sono composte di almeno 80 alunni

portare che avesse ordinato, tra i tanti, anche l’omicidio di suo fratello. La popolazione tirò un sospiro di sollievo. Il Fratello Militante Obiang, un insipido socialista dell’etnia 6

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fang gradito alla Russia, alla Cina e alla Corea del Nord, rilasciò i prigionieri politici, riaprì le porte delle chiese e ripristinò le relazioni ufficiali con la Spagna. Nel 1982 arrivò in visita ufficiale anche Papa Woytjla. Ma il sangue che corre nelle vene degli Nguema non si smentisce: la Guinea Equatoriale è ancora una repubblica fondata sulla paura, sul sospetto e sulla delazione. Lo senti camminando per le vie sonnolente di Malabo, disseminate di miliziani col basco rosso

fuoco e il mitra in vista, di buche dove potrebbe sparire un uomo e di cumuli di spazzatura che marciscono al sole. Gli occhi del dittatore ti fissano dalle camicie di regime stampate con la fiaccola del suo Partito Democratico (Pdge). Nel 1991 Obiang introdusse il multipartitismo: «Una circostanza che poche volte si ripete nella storia dei popoli», disse. Nacquero 14 partiti nello spazio di una notte: negli anni, 7 sono stati comprati dal Pdge e si sono coalizzati con il regime; gli altri, di et-

nia bubi, sono asfittici, senza fondi, senza sostenitori, con i dirigenti in esilio. Il Partito del Progresso, principale movimento d’opposizione, è stato messo al bando, e l’alta corte di Malabo ha condannato il fondatore Severo Moto (esule in Spagna) a un secolo di carcere per alto tradimento, con l’accusa, fra l’altro, di aver tentato di organizzare nel 2004 un colpo di Stato con la complicità di Mark Thatcher, figlio dell’ex premier britannico, e del mercenario inglese Si-


mon Mann. «Che diritto ha l’opposizione di contestare l’operato del governo?», ha dichiarato pubblicamente Obiang.

Vivere nella paura «Nessuno ha il coraggio di votare contro il Pdge», dice Javier M., studente universitario di filosofia a Malabo. «Alle ultime elezioni, si appoggiava la scheda sul tavolo e si metteva la croce sotto gli occhi di un poliziotto armato. Io il coraggio non l’ho avuto, señor». Non l’hanno avuto 96 cittadini

su 100, e Obiang sarà ancora presidente fino al 2016. Come ogni guineano suo coetaneo, alle elementari Javier fu costretto a imparare a memoria la frase «Dio creò la Guinea per volontà di Papà Macías». Per pagarsi l’università, la cui retta annuale costa come un mese di salario medio (circa 40 euro), fa lavori di fatica, quando ne trova: il tasso di disoccupazione supera il 30%. «Soffriamo molto, señor» sussurra. Si scusa di parlare a voce così bassa, ma dice che per questa chiacchierata con uno straniero rischia di finire in una sala di tortura nelle cantine del palazzo presidenziale, le cui mura bianche inglobano la piazza della cattedrale e mezzo centro storico della città. Capitò a suo padre, e gli andò bene perché rimase storpio per tutta la vita: molti altri sono usciti su un furgone nero diretto all’obitorio. «Obiang ha adottato lo stesso sistema di suo zio. I ministri, i generali e i capi della polizia sono tutti suoi parenti. I miliziani sono tutti della stessa etnia del Presidente. Anche il rettore dell’università è suo parente, e una volta che gli studenti si permisero di criticare i programmi d’insegnamento arrivò il ministro dell’Istruzione in persona, estrasse di tasca una pistola automatica, la poggiò sulla scrivania di fronte a sé e ci fece un discorso sul comportamento da tenere in aula».

A COLPO D’OCCHIO Superficie . 28.051 chilometri quadrati (un decimo dell’Italia) Lingua . spagnolo, francese, portoghese (uff.); fang, bubi Abitanti . 630mila (1 milione di guineani vive all’estero) Capitale . Malabo (50mila abitanti) Religione . cristianesimo 90%, animismo 7%, islam 3% Aspettativa di vita . 43 anni per gli uomini, 44 per le donne Settori economici . petrolio, legname, gas naturale, cacao Partner commerciali . Usa, Spagna, Cina, Corea del Sud Curiosità . i confini nord, est e sud coincidono con meridiani e paralleli, ricordo dell’epoca coloniale

Un popolo rassegnato Secondo Trinidad Morgades, direttrice della scuola nazionale di Agricoltura, in africa · numero 5 · 2010

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attualità

La prosperosa esuberanza della natura contrasta con l’estrema povertà della popolazione

Approfondire Il massimo esperto mondiale di Guinea Equatoriale è lo svizzero Max Liniger-Goumaz, ottant’anni, economista, sociologo, geografo e politologo. Liniger-Goumaz ha curato svariati volumi dedicati al piccolo Paese africano, tra cui la Bibliografía General (Les Editions du Temps), giunta ad oggi al XII volume ed in continuo aggiornamento. In italiano ha pubblicato La Guinea equatoriale. Trenta anni di dittatura (L’Harmattan Italia, 2000). I suoi studi hanno portato alla coniatura del neologismo “democratura”, unione dei termini democrazia e dittatura, che intende evidenziare l’aspetto di una dittatura camuffata da democrazia.

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Tutto in famiglia Ex colonia spagnola, indipendente dal 1968, la Guinea Equatoriale è stata finora governata solo da due uomini, entrambi appartenenti alla stessa famiglia, che si sono contraddistinti per una sistematica violazione dei diritti umani.

Guinea Equatoriale «la gente non ha più voglia di protestare. Non sappiamo nulla di ciò che succede nel mondo, non abbiamo giornali né televisione: ci si è atrofizzato il cervello. Non c’è luce? E vabbè, diciamo, non c’è luce. L’acqua corrente arriva solo all’alba e al tramonto? Scrolliamo le spalle e ce ne facciamo una ragione. Per i Romani bastavano panem et circenses a tenere buono un popolo: qui il pane scarseggia e alla partita di calcio il Presidente chiama l’arbitro sotto la tribuna d’onore e gli dà istruzioni sui falli da fischiare. In Guinea sopravvivi solo se ti convinci che si tratta di una situazione temporanea, destinata a cambiare». Morgades continua a ripeterselo da più di vent’anni: ai tempi del vecchio Nguema era fuggita in Marocco con il

marito e i figli, e l’elezione di Obiang l’aveva fatta sperare. Da qualche tempo spera nel petrolio, negli americani della Mobil che hanno invaso gli alberghi della capitale e che «forse porteranno un soffio di libertà. L’industria petrolifera straniera sarà il cavallo di Troia della democrazia».

Lo scandalo del petrolio Per il momento, però, l’industria suddetta, con la Exxon-Mobil in testa, è troppo impegnata a prosciugare i giacimenti offshore scoperti nell’ultimo decennio al largo di Bioko (1,1 miliardi di barili di riserve, con una produzione di 360mila barili al giorno) e non si cura dei discorsi deliranti pronunciati da Obiang, che a proposito di democrazia ha detto «Non capisco che cosa c’entri con i diritti

umani». Anzi, all’epoca del suo sbarco nel Paese - era la fine degli anni Novanta - la Mobil pensò bene di foraggiare il ministro degli Idrocarburi, fratello del Presidente, con un credito di 10 milioni di dollari. Soldi spariti nel nulla. Nonostante un prodotto interno lordo pro capite di oltre 36mila dollari, che ne fa uno dei Paesi più ricchi d’Africa, la Guinea Equatoriale rimane inchiodata al 121esimo posto su 177 nella classifica mondiale di sviluppo umano dell’Onu, i black-out sono all’ordine del giorno, la povertà è dilagante e il traffico di esseri umani è una piaga sempre più diffusa.

L’attuale Presidente Teodoro Obiang Nguema, al potere dal 1979 dopo aver defenestrato lo zio Francisco Nguema, è stato rieletto nel dicembre 2002 con il 97% dei voti, tra denunce di brogli e irregolarità. Nel 2004 mercenari europei e sudafricani hanno tentato di destituirlo con un colpo di Stato, ma hanno fallito. Nella foto sotto, l’oppositore Severo Moto.

Amici occidentali E non c’è soltanto la Mobil tra gli amici eccellenti del regime di Nguema: c’è anche il governo spagnoafrica · numero 5 · 2010

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attualità

Conti segreti

Negli ultimi anni la Guinea Equatoriale è diventata uno dei principali produttori di petrolio d’Africa. Non tutti ne hanno però beneficiato, anche per la diffusissima corruzione. Quasi nulla si sa delle entrate derivate dal greggio, coperte dal segreto di Stato. Quel che è certo è che la famiglia Nguema è di fatto padrona dell’intero Paese.

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lo che, nonostante Madrid condanni ufficialmente il regime di Malabo, rimane il suo secondo più importante partner commerciale dopo gli Usa (contribuisce al 18% del bilancio delle esportazioni). A sostenere Nguema sono stati per lungo tempo anche la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, con decine di milioni di dollari di finanziamenti i quali, a quanto si può constatare nella capitale, non sono serviti né a costruire una rete fognaria, né a organizzare una raccolta dei rifiuti che formano una vera e propria catena montuosa, né a garantire alla popolazione elettricità e acqua corrente senza interruzioni. A partire dalla fine degli anni Novata, tuttavia, le due istituzioni hanno terminato i programmi di aiuti, a causa della corruzione dilagante e della scoperta dei giacimen-

Specchi in vendita al mercato centrale di Malabo. La minuscola capitale si trova sulla piccola isola di Bioko che galleggia nel Golfo di Guinea

ti petroliferi. Questi ultimi, infatti, hanno reso la cricca al potere più prospera che mai. E i guineani sanno di non aver molto da sperare. Anzi, sono talmente disperati che qualcuno ha intravisto un segno di democrazia nel fatto che le sbarre lungo la strada dell’aeroporto della capitale, quelle che il vecchio Macías faceva abbassare quando andava a prendere il suo jet personale, ora non si chiudano più, nemmeno quando passa il corteo di Obiang. Peccato che, per un decreto del Presidente, siano state dichiarate monumento nazionale. •


attualità

testo di Fortuna Mambulu Ekutsu

Chi ha paura della Cina? Luci e ombre dell’invasione cinese in Africa In Africa la classe politica e il ceto medio salutano con favore i colossali investimenti di Pechino. Ma nell’opinione pubblica crescono perplessità e inquietudini

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a presenza cinese nell’economia africana è decuplicata nell’ultimo decennio. Il valore degli scambi commerciali tra il continente nero e il gigante asiatico nel 2000 era di 10 miliardi di dollari, oggi supera i 107 milìardi. La Cina esporta prodotti e manodopera a basso costo e, in cambio, importa materie prime strategiche: soprattutto il petrolio africano, che assicura un terzo

del suo fabbisogno di greggio. Nemmeno l’attuale crisi economico-finanziaria ha frenato la corsa cinese ai mercati del continente. Gli investimenti di Pechino in Africa oggi superano i 10 miliardi di dollari. Un enorme flusso di denaro che naturalmente preoccupa i partner tradizionali del continente, ovvero le ex potenze coloniali d’Europa e gli Stati Uniti, che temono di perdere il dominio sull’ac-

Africani d’Oriente

La Cina va in Africa, l’Africa va in Cina. Nella provincia di Guangdong, cuore pulsante dell’industria manifatturiera cinese, c’è una vivace comunità di immigrati subsahariani: a migliaia hanno trovato lavoro nelle fabbriche e nei magazzini all’ingrosso, ma ci sono anche centinaia di uomini d’affari, ristoratori, traduttori e professionisti dell’import-export. E poi oltre cinquemila studenti universitari: la nuova Africa vuole sentirsi parte della globalizzazione.

cesso ai mercati di materie prime africane. L’Africa è diventata il terreno di una nuova guerra fredda tra Cina e Occidente con, tra l’altro, accuse reciproche di sfruttamento e di violazioni dei diritti dei lavoratori.

Chi ci guadagna? Ma come gli africani giudicano o percepiscono la presenza cinese nel continente? Alcune ricerche accademiche svolte attorno alla questione hanno rivelato che, tra la classe dirigente africana e la società civile, vi è una disparità di visione sul tema. Secondo uno studio della Nanyang Technological University di Singapore, la stragrande maggioranza dei membri dell’élite politica ed economica d’Africa è soddisfatta della

presenza cinese. Tra questi c’è senz’altro l’ex Presidente del Botswana Festus Mogae, uno dei leader politici africani più rispettati, che ha dichiarato: «I cinesi ci trattano come pari, gli occidentali come ex subordinati: questa è la verità. Io preferisco l’atteggiamento del governo di Pecchino a quello degli occidentali». Oltre al fatto di ritrovarsi di fronte a un interlocutore politico poco ingombrante, i dirigenti africani apprezzano la cooperazione con la Cina per l’ingente apporto di denaro (tra cui prestiti agevolati che, per i prossimi tre anni, raggiungeranno i 12 miliardi di dollari) e la realizzazione di grandi opere infrastrutturali (che indubbiamente accrescono il consenso elettorale). La stessa ricerca rivela però che una crescente fetta dell’opinione pubblica percepisce gli interventi cinesi con scetticismo e inquietudine. Il risultato non sorprende: le imprese di Pechino usano poco la manodopera locale nei cantieri, preferendo sfruttare gli operai cinesi. Gli unici attori economici che paiono soddisfatti della cooperazione sino-africana appartengono alla classe media, come gli operatori commerciali impegnati nell’import-export. • africa · numero 5 · 2010

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attualità

testo di Paola Marelli foto di Marco Trovato

I paradisi dei pirati

informatici

Camerun e Nigeria, rifugi delle truffe online Partono dal cuore dell’Africa le minacce più insidiose alla sicurezza dei nostri computer. Dalle false lotterie alle mail che annunciano improbabili eredità o vincite, fino ai virus che rubano i dati personali

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el 2009 il centro contro i crimini informatici dell’Fbi ha raccolto mezzo milione di denunce. Più o meno lo stesso numero è stato registrato dalla polizia postale e delle telecomunicazioni in Europa. Gli inganni più diffusi in internet sono le false vincite alla lotteria, i furti d’identità, le vendite all’asta truc-

cate. Ma la frode che ha “bruciato” il maggior numero di soldi è la famigerata lettera nigeriana che propone «urgenti relazioni d’affari» da parte di poco credibili funzionari del governo federale o del ministero del Petrolio: una missiva che chiede un prestanome discreto per sbloccare il conto in banca e riscuotere una


Come difendersi

Il buon senso è il primo antidoto contro i crimini informatici: mai cedere a sconosciuti informazioni riservate (numero di carta di credito e altri dati personali). Alle aste su internet verificare gli obblighi del compratore e del venditore prima di acquistare. Cercare il maggior numero di informazioni su chi vende e diffidare delle apparenze: bastano poche ore per realizzare una pagina web. Infine denunciare ogni truffa o segnalare siti sospetti alla polizia postale e delle comunicazioni.

La nuova truffa? Un pacco

La truffa del momento funziona così: una falsa organizzazione umanitaria recluta via web delle persone disposte a collaborare a favore di popolazioni bisognose dell’Africa. Ai nuovi “volontari” viene chiesto di ricevere a casa propria merce oggetto di donazioni benefiche. A questo punto i truffatori, utilizzando carte di credito clonate, comprano su internet oggetti costosi e forniscono, per la spedizione, il nome e l’indirizzo del volontario appena arruolato, al quale viene consegnata la merce. Il pacco viene poi ritirato da un furgone dell’organizzazione. In questo modo, il destinatario della merce si ritrova complice di una truffa. E rischia fino a 8 anni di reclusione.

grossa eredità. I pirati informatici nigeriani hanno fatto affari d’oro inviando in mezzo mondo caterve di mail-tranelli. E la loro abilità criminosa di spillare soldi nel web ha fatto scuola in Camerun, che quest’anno è diventato il Paese più pericoloso del mondo per chi naviga in internet. Un primato rivelato dalla società statunitense McAfee (specializzata in programmi antivirus) che ha condotto uno studio su circa 27 milioni di siti web.

Errori rischiosi «Più della metà di quelli con il dominio “.cm” (ovvero quelli registrati in Camerun) nasconde attività criminali - hanno fatto sapere gli analisti americani - come l’installazione di software per il furto di password e altri dati riservati». Nel cuore dell’Africa è stata individuata un’impressionante concentrazione di phishing, spamming, spoofing e cyberstalking… ovvero ogni genere di stratagemma informatico per rubare i dati personali di un individuo e farne

uso illecito. Il motivo per cui i cybercriminali (di ogni nazionalità) si sono concentrati in Camerun - spiegano gli esperti della McAfee - è la somiglianza del suo dominio con il più diffuso “.com” che indica i siti commerciali. Capita spesso infatti di digitare, per errore, “.cm” al posto di “.com”: una svista sfruttata abilmente dai pirati informatici. Sempre dal Camerun è partita, l’anno scorso, la truffa dei cani di razza offerti, gratuitamente, sul web. Una serie di falsi annunci prometteva gli animali in cambio del biglietto aereo per trasportare i cani dall’Africa in Europa. Dopo aver intascato i soldi del volo e, in alcuni casi, per inesistenti visite veterinarie, i truffatori facevano perdere ogni traccia. Solo in Italia oltre 25mila persone sono cascate nell’imbroglio, per un giro d’affari di almeno 10 milioni di euro. • africa · numero 5 · 2010

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attualità

testo e foto di Ludovico de Maistre

L’invasione della plastica

Milioni di sacchetti soffocano l’Africa occidentale Per anni hanno invaso strade, fiumi e campi e ora minacciano la salute dell’uomo. Per questo alcuni Paesi hanno deciso di vietare le buste di plastica o di trasformarle in catrame per le strade 14

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C’è chi dice no

L’

Africa occidentale è alle prese con una vera e propria emergenza ambientale. Da Bamako a Dakar, da Lagos a Ouagadougou, milioni di sacchetti di plastica stanno devastando il territorio. Responsabili dell’inquinamento chimico del sottosuolo e delle falde acquifere, con gravi conseguenze per l’agricoltura, le buste di plastica impiegano tra 150 e 400 anni per scomparire del tutto.

Una grave minaccia per la salute delle popolazioni.

Sos ambientale L’ultimo grido di allarme è stato lanciato dal senegalese Elhadj Guissé, rappresentante dell’Onu per i diritti economici e sociali. «I sacchetti di polietilene intasano i canali di scolo, favorendo la stagnazione delle acque in luoghi che diventano in seguito nidi di zanzare, vettori della malaria». I sacchetti in Africa

In Mali e Niger donne e bambini hanno cominciato a recuperare i sacchetti sparsi in giro: ricevono 7 centesimi di euro per ogni chilo di plastica riciclata

vengono utilizzati senza parsimonia. E quel che è peggio vengono abbandonati senza alcuna accortezza: per strada, nei fiumi, nei campi. Lo smaltimento è praticamente inesistente e il miglior rimedio escogitato per

La prima nazione africana che ha dichiarato guerra alla plastica è stata il Sudafrica: nel 2003 ha vietato la distribuzione gratuita dei sacchetti più sottili, impossibili da riutilizzare. Il Ruanda nel 2006 ha proibito i sacchetti “usa e getta” (inferiori a 50 micron di spessore): i cittadini hanno il divieto di usarli e gli stranieri non possono importarli dall’estero (previsti controlli dei bagagli alla frontiera). Sempre nel 2006 la Tanzania ha annunciato il divieto di fabbricazione e vendita di sacchetti di plastica e l’ordine di utilizzare materiali riciclabili o biodegradabili, come la rafia (una fibra ricavata da una varietà di palme). Nel 2007 è toccato all’Etiopia e al Kenya vietare l’importazione e l’uso dei sacchetti sottili. Purtroppo molti di questi divieti sono rimasti solo sulla carta. africa · numero 5 · 2010

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attualità

I sacchetti abbandonati favoriscono la diffusione della malaria. L’acqua si deposita al loro interno, attirando così le zanzare che trovano le condizioni ideali per riprodursi e moltiplicarsi

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campagna L’associazione Lvia, con sede a Cuneo, ha avviato la campagna “Molla la plastica” per incentivare il riciclaggio dei rifiuti in Africa occidentale. Dal Burkina Faso al Senegal fino alla Mauritania centinaia di persone hanno cominciato a raccogliere la plastica, ripulendo campi e città, per lavorarla e rivenderla. Risultato: come per magia, i sacchetti di polietilene diventano gadget, kit scolastici, souvenir o borse alla moda… Info: www.lvia.it

sbarazzarsene è il più nocivo: il fuoco. Nuvole di fumi velenosi si alzano in cielo, intossicando l’aria, come non bastasse

lo smog causato dai mezzi di trasporto obsoleti che intasano il traffico cittadino. Nemmeno i patrimoni dell’Unesco, come il centro storico della cittadina di Djenné in Mali e l’isola di Gorée in Senegal, vengono risparmiati. Le colture non riescono a crescere su terreni coperti di plastica, gli animali nei parchi nazionali muoiono soffocati da sacchetti. Il danno ecologico aumenta ogni giorno. Ma qualcosa sta cambiando.

Strade ecologiche Il Gabon ha appena vietato le buste di plastica sull’intero territorio nazionale. Una decisione analoga è stata presa, in Africa orientale, dai governi di Tanzania, Etiopia e Kenya. Ora anche le autorità ghaneane e senegalesi promettono di

puntare sulle buste biodegradabili. «Il problema - fa sapere Henri Michel Auguste, presidente della Ong H20 - è che alcune di queste buste possono non essere ecologiche perché contengono prodotti chimici che accelerano la loro degradabilità inquinando come le altre: servono controlli rigorosi sui sacchetti di nuova generazione, per non rischiare di peggiorare la situazione». Nel frattempo, Mali e Niger stanno sperimentando una via alternativa: la trasformazione dei sacchetti di plastica in lastre per la pavimentazione delle strade. Nelle città di Niamey e Mopti sono attive delle fabbriche che producono un nuovo tipo di lastricato “riciclato”. La tecnica consiste nel far sciogliere la plasti-

Una busta di plastica dispersa nell’ambiente impiega fino a quattrocento anni per scomparire

ca e mischiarla con la sabbia per ottenere una sorta di catrame. Un’attività che dà lavoro a decine di operai e a centinaia di donne e ragazzi che recuperano sulle strade i sacchetti di plastica. La Fondazione Aga Khan, impegnata nel progetto, sta anche sensibilizzando la popolazione alla raccolta differenziata attraverso la distribuzione di pattumiere alle famiglie. • africa · numero 5 · 2010

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attualità

testo di Matteo Fagotto

Il cuore nuovo di Khartoum La storica isola sul Nilo minacciata dal cemento La graziosa isoletta di Tuti, in mezzo alla capitale sudanese, è stata per secoli un’oasi di verde e tranquillità. Ma ora tutto sta cambiando

S

draiato al riparo di una tettoia in legno e paglia, Abdel Hamid Hali si riposa dalle fatiche mattutine mentre lancia uno sguardo sui rigogliosi campi che lo circondano tutt’attorno, splendenti sotto il primo sole pomeridiano di Khartoum. Il pensiero che tra qualche anno tutto questo verde possa scomparire in nome dello “sviluppo” della sua isola non lo preoccupa. «Il progresso è una

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buona cosa per gli abitanti di Tuti», sentenzia deciso. «Non potevamo continuare a vivere come fossimo ancora nel Medioevo».

Fuori dal tempo Sessantasette anni, la maggior parte dei quali trascorsi a fare il contadino sulle sponde del Nilo, Abdel Hamid è uno dei circa 15mila abitanti dell’isola di Tuti, un’oasi verde nel mezzo della capitale sudanese

Khartoum. Grande circa otto chilometri quadrati e situata alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro, per secoli Tuti è stata la principale produttrice (e riserva) di frutta e verdura della città. Ancora oggi, campi e fattorie circondano l’unico villaggio dell’isola, le cui strade strette e silenziose contrastano con i grandi viali caotici di Khartoum. Popolata inizialmente dai discendenti della tribù ma-

has, un sottogruppo delle popolazioni nubiane che abitano il nord del Sudan, per secoli l’isola è rimasta tagliata fuori dal resto della città, preservando la propria cultura e le proprie tradizioni. Fino a quando le autorità di Khartoum, in pieno boom edilizio foraggiato dall’arrivo dei petrodollari, non hanno messo gli occhi sulle terre dell’isola, varando un grandioso progetto di sviluppo che potrebbe metterne a rischio ecosistema e stile di vita. Oggi, Tuti è al centro di un disegno faraonico che coin-


volge autorità e investitori privati provenienti, oltre che dal Sudan, da Cina, Egitto e Malaysia. Perfettamente al centro della capitale, grazie a una serie di ponti e cavalcavia l’isola diventerà il principale raccordo stradale della città, collegando Khartoum, Omdurman e Bahri (le tre principali aree del centro abitato) e risolvendo, almeno nelle intenzioni, i cronici problemi di traffico della capitale sudanese. Una serie di altri progetti prevedono poi la trasformazione dell’isola in una meta turistica esclusiva, grazie alla costruzione di resort e alberghi a cinque stelle e la creazione di amenità quali piscine e campi da golf. Una specie di mini-Dubai al centro di Khartoum, riservata a stranieri facoltosi e all’emergente classe medio-alta sudanese, in crescita grazie al boom petrolifero.

Il ponte del progresso Lo scorso novembre, gli abitanti dell’isola hanno avuto un assaggio del “nuovo corso” con l’apertura di un ponte che collega Tuti a Khartoum. Prima di allora, i collegamenti erano assicurati solamente da un traghetto che faceva la spola tra le sponde del Nilo, e il cui servizio terminava al tramonto. «Il ponte ci ha risolto tanti problemi, perché ci permette di usare i servizi della città», spiega ancora Abdel Hamid. «I costi di trasporto per noi agricoltori sono calati, e finalmente possiamo trasportare i malati sulla terraferma in pochi minuti. Prima ci voleva almeno mezz’ora, e se qual-

cuno si sentiva male durante la notte non si poteva portarlo neanche in ospedale». Non tutti, però, la pensano allo stesso modo. Arbab el-Agaied, una casalinga di mezza età, teme che le novità possano stravolgere l’isola, cambiandone irrimediabilmente non solo l’aspetto, ma anche la società. «Siamo una comunità particolare, fiera della propria storia», spiega mentre attende il suo turno nell’unica farmacia del paese. «La prima donna a frequentare l’Università di Khartoum veniva da qui, così come la prima ostetrica

Una mini Dubay al centro di Khartoum

della città. A me l’isola piace così com’è». A dire il vero, qualche cambiamento l’isola l’ha già vissuto negli ultimi decenni. Gli abitanti, prima gelosi della propria “purezza”, hanno cominciato a mescolarsi con la popolazione di Khartoum e ad accettare i matrimoni misti. Oggi, la maggior parte dei giovani dell’isola studia e lavora nella capitale, ma anche se gli isolani hanno cambiato le proprie abitudini non tutti sono disposti ad accettare le conseguenze del progresso. «Negli anni Ottanta, gli abitanti di Tuti rifiutarono un programma di sviluppo proposto dall’allora Presidente Nimeiri», ricorda Ahmed Wahid, custode di una delle cinque moschee presenti sull’isola. «Stavolta è diverso, e molti hanno accolto bene gli investimenti. Ma vogliamo che il governo venga qui a discutere con noi i progetti, invece che

Due giovani sudanesi chiacchierano davanti all’esclusivo hotel Borj al-Fateh, finanziato dai libici, emblema della nuova Khartoum

decidere a tavolino». Una linea sposata da molti residenti, che finora hanno visto solo alcuni degli effetti della speculazione edilizia dell’isola. Se le ruspe non sono ancora arrivate, decine di ettari di terreno sono già stati acquistati da investitori locali e stranieri, cosa che ha contribuito a far salire il prezzo dei lotti. Alcuni abitanti hanno già venduto i propri e Abdel Hamid aspetta solo una buona offerta. «Lavorare i campi sotto questo sole stanca», spiega. «Se comprassero la mia terra potrei finalmente prendermi un minibus e diventare un tassista. Lo sogno da tanto tempo…». • africa · numero 5 · 2010

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popoli

testo di Anna Pozzi foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero

Nell’impenetrabile foresta dell’Ituri i Pigmei Bambuti vivono in simbiosi con la natura. Malgrado le tensioni con i popoli circostanti, il disboscamento selvaggio e le violenze dei miliziani in guerra. Il loro segreto? Uno spirito semplice e libero

Piccoli

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e felici

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popoli

Viaggio tra gli ultimi Pigmei della selva congolese

L

a strada che porta da Mambasa a Nduje, nel cuore della boscaglia, è quasi impraticabile. Solo le moto e le biciclette riescono in qualche modo a transitarvi. Ma motociclisti e ciclisti sono spesso costretti a scendere e a spingere. Questa striscia di terra rossa e scivolosa è la porta d’ingresso di un mondo a parte, antichissimo, incontaminato, misterioso, primigenio: quello della foresta pluviale della Repubblica democratica del Congo e dei suoi abitanti, i Pigmei. Un mondo che suscita inquietudine e incanto, turbamento e meraviglia.

Papà Bruxelles Attorno a Nduje ci sono diversi accampamenti di Bambuti, fatti da non più di 8/10 capanne, costruite rigorosamente dalle donne. Una di loro è appena uscita dalla selva con in mano un gran mazzo di foglie. Deve riparare la porta della sua capanna, costruita come una cupola, con rami sotti22 africa · numero 5 · 2010

Il regno dei Pigmei Bambuti è la foresta dell’Ituri, un’area vasta quasi quanto l’Austria, che si estende nella parte orientale del bacino fluviale del fiume Congo

li, rivestiti di grandi fronde. Le capanne sono disposte a semicerchio intorno a uno spiazzo, abbastanza largo per lasciar spazio alle danze. Al centro c’è il fuoco. In ogni accampamento si contano una ventina di adulti e moltissimi bambini e ragazzi. Il più anziano ha l’autorità morale. Papà Bruxelles dice di essere il capo dei Pigmei che vivono in questa zona. Ma è piuttosto un riferimento per gli stranieri che vi si avventurano. O, perlomeno, lo è per la nostra guida, Bo, un Lese - un semibantu - nato e cresciuto da queste parti, fianco a fianco con i Pigmei. Sembrano intendersi bene, anche se a volte ci si perde in una babele di lingue. Papà Bruxelles, come gli altri Pigmei, parla il dialetto efe, molto simile al linguaggio di Bo. Anche se molti, ormai, conoscono un poco di swahili, la lingua veicolare e commerciale della regione, e talvolta qualche parola di francese.


I Pigmei, famosi per la bassa statura, dovrebbero essere conosciuti per la loro grande saggezza. Conducono un’esistenza semplice, immutata nei secoli, in simbiosi con la natura

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popoli

Artisti della natura In occasione delle cerimonie tradizionali, alcuni gruppi di Pigmei Bambuti dell’Ituri si vestono di cortecce decorate. Le chiamano murumba e rappresentano una rarità antropologica. Ricavate da un albero particolare, il ”fico strangolatore”, le cortecce vengono prima trattate dagli uomini, e poi decorate dalle donne. I colori vengono realizzati riducendo in polvere carbone, legni e radici. Con un rametto, le donne tracciano sulle cortecce segni geometrici, simili a rombi, che assomigliano molto a quelli che i Pigmei si dipingono sui volti. Usano i rametti a mo’ di stampini, per fare dei cerchi e delle specie di croci. Poi con le dita spruzzano strati di colore rosso e giallo. Le cortecce vengono quindi messe ad asciugare, protette da un fissante naturale. Presto saranno utilizzate per le festose cerimonie che scandiscono la vita dei Pigmei.

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Figli della foresta Il miscuglio di lingue non impedisce però la comunicazione, fatta anche di calorosi gesti di accoglienza e faticose trattative, di rivelazioni sorprendenti e di interminabili attese. Gli Efe, che vivono attorno a Nduje, sono uno dei cinque gruppi di Pigmei Bambuti in questa regione del Congo. Si distinguono dagli altri per il fatto di cacciare solo con arco e frecce e non con le reti. Ma in realtà sono più le similitudini che le differenze che caratterizzano quest’insieme di popolazioni seminomadi di cacciatori-raccoglitori, ormai ridotte a poche decine di migliaia. Sono stati definiti “il popolo della foresta”. Un appellativo che suona un po’ letterario e un po’ leggendario, finché non si entra effettivamente nella giungla con loro. È questa l’esperienza più suggestiva e sconvolgente. La foresta, per chi non la conosce, è un mondo a sé: luogo di tenebre e di misteri - oltre che di animali e insetti più o meno pericolosi - dove è impossibile orientarsi e trovare dei punti di riferimento. Per i Pigmei, invece, la foresta è casa. Ancor più dell’accampamento o delle capanne di foglie che servono giusto per dormire o ripararsi dalle piogge. Piedi scalzi, un pagne in vita, o pochi vestiti stracciati, vi si muovono con una naturalezza impressionante. Accompagnano la marcia con grida rapide e acute, degli yeye, che potrebbero essere richiami, ma anche risposte a suoni più miste-

Un gruppo di ragazze Bambuti, fresche di iniziazione. Tra poco inizieranno le danze in onore dello spirito della foresta

riosi. L’effetto è di grande suggestione. Dicono che servono anche a tenere lontani gli spiriti cattivi.

Liberi dal tempo In mano hanno archi e frecce per la caccia, e qualche lancia. E soprattutto un tizzone ardente. Il fuoco è una costante nella vita dei Pigmei. Resta acceso nell’accampamento e accompagna le incursioni in foresta, specialmente quando vanno a caccia, l’attività principale di uomini e ragazzi. Serve ad assicurarsi la benevolenza dello spirito della foresta e a ristabilire l’armonia dopo che un animale è stato ucciso. Appena entrati, accanto a un tronco, l’uomo che regge il tizzone raduna alcuni rametti secchi. I ragazzini che ci accompagnano fanno lo stesso, soffiando poi energicamente perché prendano fuoco. Serve a propiziarsi lo spirito della foresta. I Pigmei Bambuti sono un popolo sereno e tranquillo. È una cosa che colpisce, una sensazione che ritorna a più riprese, specialmente in foresta, quando sembra che perdano un tempo infinito a caccia di un piccolo animale o alla ricerca di un poco di miele, in cima a un albero altissimo. E invece, loro il tempo se lo prendono, con una naturalezza sconcertante per chi,


Origini misteriose

La storia dei Pigmei si perde nei secoli. Gli studiosi ritengono che anticamente abitassero nel Medio Oriente e che, da qui, furono costretti a migrare per la scomparsa delle foreste. Di recente un gruppo di ricercatori francesi dell’Istituto Pasteur, grazie a uno studio sul Dna dei Bambuti, ha dimostrato che i Pigmei odierni derivano da un gruppo molto ristretto di antenati giunti nelle foreste pluviali circa 70mila anni fa. (L.S.)

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popoli Vecchi pregiudizi Gnomi, folletti, spiritelli: fin dall’antichità la fantasia dell’uomo ha dato vita a innumerevoli leggende che hanno storpiato l’immagine dei Pigmei. E l’arroganza dei primi esploratori bianchi ha alimentato il pregiudizio sui piccoli uomini delle foreste africane. Fino alla metà del secolo scorso molti studiosi pensavano che la loro piccola statura comportasse una cultura altrettanto ridotta. Oggi i Pigmei sono considerati dagli antropologi come autentici scienziati della natura e il loro straordinario bagaglio di conoscenza sugli ecosistemi forestali non finisce di stupire i ricercatori. (L.S.)

Perfetti per l’ambiente Per lungo tempo lo strano meccanismo chimico che frena la crescita dei Pigmei è rimasto un affascinante segreto per i genetisti occidentali. Solo trent’anni fa gli scienziati hanno scoperto che la loro anomalia ormonale è identica a quella riscontrata nei soggetti affetti da nanismo. Ma per i Pigmei - hanno osservato gli scienziati - si tratta di una particolarità funzionale, una sorta di regalo della natura, o forse il risultato di un lento processo di evoluzione darwiniana (gli alberi della foresta lasciano filtrare poca luce solare di cui l’organismo ha bisogno per sintetizzare la vitamina D necessaria alla crescita del tessuto osseo). In ogni caso, la statura ridotta li rende più agili nei loro continui spostamenti e nella caccia. (L.S.)

come noi, è abituato a infarcirlo di mille cose da fare. Sono un popolo felice di “essere” e non di “fare”. E questo continua ad essere vero nonostante i profondi cambiamenti che stanno stravolgendo il loro stile di vita e le relazioni con le popolazioni circostanti.

L’iniziazione dei bianchi L’avvicinamento alla strada, la “contaminazione” con le popolazioni bantu, lo sfruttamento da parte di queste ultime, tentativi non sempre edificanti di “civilizzarli” ne hanno fatto in alcuni casi delle persone senza identità, disorientate, sfruttate in condizioni

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molto simili alla schiavitù, ripagate con birra di palma, ridotte ad alcolizzati… Poi, però, non appena ci si allontana dalla strada, si ritrova la vita più autentica dei Pigmei, un’esistenza scandita, oltre che dalle principali occupazioni di caccia, raccolta e preparazione del cibo, dalle innumerevoli occasioni dedicate alle danze, ai canti e ai racconti. Sono queste le attività primarie che si svolgono nell’accampamento. E se le barriere linguistiche impediscono di accedere alle narrazioni e ai rituali, la naturale accoglienza dei Pigmei permette con estrema facilità di assistere alle


Se per le popolazioni bantu la foresta è pericolosa, per i Bambuti è una madre che li accoglie, li protegge e li nutre: selvaggina, miele selvatico (a destra), pesce, ecc.

danze o anche di parteciparvi, non prima però di aver superato (o subìto!) una sorta di rito di iniziazione, con tanto di prova del sangue (un piccolo taglietto, in realtà, da cui però deve sgorgare almeno una goccia di sangue).

L’orrore del cannibalismo I Pigmei Bambuti, con il loro animo mite e docile, hanno subito a più riprese l’aggressione e la prepotenza delle popolazioni circostanti. La recente guerra nella foresta dell’Ituri ha aggravato la loro condizione di sottomissione con risvolti raccapriccianti. Nell’ottobre del 2002 i miliziani si resero protagonisti di violenze e atti di cannibalismo contro i Pigmei: decine di Bambuti furono massacrati, fatti a pezzi e mangiati dai ribelli.

Canti e danze di gioia Le danze - che possono avvenire di giorno, ma soprattutto di sera, prolungandosi spesso per tutta la notte - sono sempre accompagnate da canti struggenti. Si tratta di canti particolarissimi, fatti di suoni e non di parole, che si susseguono e s’intrecciano, creando melodie sincopate e polifo-

niche che si sovrappongono ai ritmi dei tamburi e dei flauti tradizionali. La musica dei Pigmei Bambuti è un elemento di comunione con l’ambiente, un inno di ringraziamento alla foresta dispensatrice di beni. I loro canti servono a rinsaldare i legami intimi con la natura, talvolta disat-

tenta al destino degli esseri umani. Attraverso la musica e le danze esprimono gratitudine e gioia sincera. Perché, malgrado il loro arcaico mondo sia minacciato di sparire per sempre, i piccoli grandi uomini delle foreste africane sono ancora un popolo felice. • africa · numero 5 · 2010

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società

testo di Matteo Tortone foto di Alida Vanni

Un pittore tanzaniano promuove la celebre bevanda

Mister Co

Nella città di Mwanza sorge un importante stabilimento della Coca Cola. Che non perde occasione per farsi pubblicità. Sfruttando il talento di un decoratore locale

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’ultimo muezzin finisce la preghiera mattutina alle sei e trenta, quando il sole inizia a scaldare le rocce levigate che costellano, sinuose, la case di Mwanza (seconda città della Tanzania, con un milione di abitanti).

Deogratias Mwingula, 47 anni, è già all’opera, con camice blu e pennello in mano. «Approfitto delle ore più fresche per portarmi avanti con il lavoro», spiega. È una giornata intensa per Mister Coca Cola. «Devo disegnare un logo nuovo e


ca Cola ritoccare alcuni disegni nel pomeriggio», spiega mentre pulisce con uno straccio la superficie rocciosa e dà una mano di vernice bianca. La sua vita è cambiata nel 1995 quando a Mwanza è stato aperto uno stabilimento della Coca Cola. «Prima

di allora - racconta Deogratias - dipingevo per barbieri e parrucchieri: insegne, cartelloni pubblicitari, piccoli murales». Un giorno decise di presentarsi agli uffici dello stabilimento della Coca Cola: era appena nata la sua secondogenita e Deogratias

Deogratias Mwingula, 47 anni, è sposato con tre figli. Da dodici anni dipinge cartelli pubblicitari per la Coca Cola. «Un tempo ero solo a fare questo mestiere» dice il decoratore-pubblicitario. «Oggi invece c’è molta, troppa, concorrenza»

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società A Mwanza ogni muro di fango, ogni superficie rocciosa, ogni tetto di lamiera è ormai ricoperto di loghi Coca Cola. I disegni vengono ripassati ogni 8-12 mesi

Bottiglie vuote A Mwanza una bottiglia d’acqua (prodotta nello stabilimento locale della Coca Cola) costa 1000 scellini, cinquanta centesimi di euro: un’enormità. La stragrande maggioranza della popolazione, che sopravvive con 15-20 euro al mese, non può certo permettersela. La gente semmai è interessata alle bottiglie di plastica, vuote. Vengono usate come recipienti ma anche come galleggianti dai pescatori. Le bottiglie sono vendute al mercato, spesso da ragazzini di strada, che passano le giornate recuperandole nei canali di scolo o in mezzo alla spazzatura. Un incessante lavoro di riciclaggio che permette loro di procurarsi una manciata di riso.

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cercava un lavoro sicuro, che gli garantisse la possibilità di pagare la scuola alla prima figlia e di assicurare l’indispensabile alla neonata. «Mi presentai - ricorda proponendomi di disegnare i simboli della bevanda sui muri delle case e sui tetti in lamiera». Gli fecero fare una prova sul muro di cinta dello stabilimento e lo assunsero seduta stante. Oggi Mister Coca Cola disegna ogni settimana tra i quindici e i venti cartelloni pubblicitari. È persino riuscito ad aprire un piccolo studio di grafica: “Colour Craft Centre”, una stanza con scrivania e magazzino, in cui lavora con una squadra di otto collaboratori. «Di recente abbiamo decorato il grande stadio di Nyamagana», racconta Deogratias. Lo stadio, in centro città, è interamente ricoperto di loghi della Coca Cola. «Sono orgoglioso del mio lavoro», dice. Eppure per i suoi figli sogna un futuro diverso. «Io non ho avuto la possibilità di andare all’università. Ma ora sto mettendo da parte i soldi che guadagno affinché i miei figli possano studiare e magari fare carriera». Chissà, un giorno potrebbero diventare dirigenti dell’azienda che Mister Coca Cola ha contribuito a promuovere nel cuore dell’Africa. •


società

testo di Paola Marelli

Arriva la bici in bambù Buone nuove per l’AfricA che pedAlA

L’

industria dei pedali, rivela un recente studio del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), ha già contribuito a creare migliaia di posti di lavoro in Kenya, Tanzania e Uganda. Il piccolo miracolo economico parte dai porti di Mombasa e Dar es Salaam dove ogni giorno arrivano container pieni di bici fiammanti fabbricate in India e Cina. Hanno telaio in acciaio, forcelle ammortizzate, copertoni da fuoristrada, tecnologia rudimentale: l’ideale per circolare sulle disastrate piste africane. Soprattutto costano poco, meno di 40 euro, il che favorisce gli affari dei rivenditori locali. Il nuovo ciclo-business alimenta il lavoro dei meccanici, chiamati a garantire la manutenzione dei mezzi, mentre la categoria dei fabbri si è specializzata nella produzione di specchietti retrovisori e portapacchi over-size. Equipaggiamenti da carro-merci, indispensabili per trasportare sacchi di riso, caschi di banane, casse di bevande e articoli di contrab-

bando. Frotte di ragazzini si guadagnano la giornata spingendo la mercanzia accatastata in precario equilibrio sulle due ruote.

Pedali vegetali E poi, naturalmente, ci sono i cosiddetti boda-boda (storpiatura dell’inglese border to border), i ciclo-tassisti che assicurano i collegamenti sulle tortuose strade transfrontaliere. In Ciad e Centrafrica sono assoldati dagli ospedali per guidare delle bici-ambulanze, con tanto di barella mobile attaccata alla ruota posteriore. In Etiopia e Nigeria fanno circolare i chioschi ambulanti che spacciano caffè, gelati e sandwich. In Burundi e Ruanda sono persino chiamati a trasportare i defunti ai

Il futuro dell’Africa corre su due ruote. Ne sono convinti gli esperti del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo che hanno individuato nella bicicletta la chiave per mettere in moto la crescita del continente cimiteri. E la bici funeraria non è neppure la più incredibile delle notizie. A Kumasi, seconda città del Ghana, stanno sperimentando una bicicletta fatta di bambù (tranne catena e cerchioni). Il progetto è promosso da un gruppo del Lamont-Doherty Earth Observatory di New York in collaborazione con un’azienda locale, la Kpmg. L’obiettivo: fabbricare le prime bici vegetali. Leggere, economiche, robuste. Autenticamente africane. Un’iniziativa analoga è stata lanciata in Ken-

ya da un team di ricercatori americani dell’Università Columbia nella città di Kisumu, regno dei boda-boda locali. Qui si sta tentando di aprire la prima industria africana di bici in bambu. Foreste di questa pianta abbondano nella regione, ma le autorità ne limitano giustamente il taglio e lo sfruttamento. Per il momento è partito un esperimento su piccola scala che pare funzionare. Non resta che seguire gli sviluppi sul blog del Bamboo Bike Project (http://bamboobike.org). •

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società

di Roberto Paolo

da vedere L’avventura dell’Afro-Napoli United è un esempio raro e prezioso di integrazione riuscita. A questa storia è dedicato un capitolo del filmdocumentario Un Paradiso di schiavi. Sogni e tragedie di un popolo migrante. Trailer su youtube.com

Il nuovo calcio?

L’Afro-Napoli 32 africa · numero 5 · 2010


A Napoli c’è una squadra composta da diciassette immigrati africani che hanno già vinto la sfida dell’integrazione. E ora, sognando le imprese di Maradona, vogliono trionfare nel mondo del pallone

R

am è senegalese, qui in Italia fa il muratore e si sveglia alle sei del mattino per andare a lavorare. Alì viene dall’Algeria, ha 37 anni, moglie e figli: a Napoli ha aperto un negozio di telefonia. Amadan invece è della Tanzania, è arrivato qui da un anno e tutto il giorno va in giro per le strade del centro a vendere bigiotteria: è un “vu’ cumprà”. E poi c’è chi viene dalla Costa d’Avorio e chi dalla Nigeria. Che cos’hanno in comune? La passione per il calcio che qui a Napoli ha trovato uno sbocco fortunato. Dismessi gli abiti da lavoro, dimenticati i problemi con permessi di soggiorno e vigili urbani severi, la sera indossano la maglietta della loro squadra, la Afro-Napoli United, e scendono in campo. Tutti assieme, africani e napoletani. In meno di un anno hanno raggiunto risultati insperati, vincendo la coppa provinciale Aics.

Come una famiglia

United

«Siamo metà italiani e metà stranieri, ma gli africani giocano di più perché fisicamente sono più forti», spiega Antonio Gargiulo, commercialista, 39 anni, che di questa squadra è l’inventore e l’allenatore (ma qualche volta, quando gli assenti sono troppi, scende ancora in campo). Si occupa di cooperative sociali e terzo settore, la passione per il calcio ce l’ha da sempre. «Spesso giocavo con Johnny: è stato lui ad avere l’idea. Creare una squadra per la solidarietà e l’integrazione. Io ci ho creduto subito». Anche Johnny viene dal Senegal, ha 33 anni e un fisico minuto. In Italia vive da sei anni, è un mediatore culturale, lavora per associazioni impegnate nell’integrazione, come Giovani africani di Napoli. «Tutto è nato nel settembre del 2009. Abbiamo sentito di un torneo amatoriale. Abbiamo detto: perché no? Io già da tempo avevo in mente di creare una squadra di africani. Ma poi con Antonio abbiamo pensato che si poteva fare di più. Così è nata Afro-Napoli United. Ora, dopo un anno, in squadra ci sentiamo come una famiglia. La sera ci vediamo per mangiare il kebab o una pizza assieme. In campo, quando giochiamo, dimentichiamo lo stress dei nostri problemi. E se qualcuno ha un guaio, tutta la squadra prova ad aiutarlo». africa · numero 5 · 2010

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società

Da leggere Gli ultimi Mondiali hanno lasciato l’amaro in bocca agli estimatori del calcio africano. Non resta che rifarsi con la lettura: Africa Bomber (Add Editore 2010, pp. 192, € 15,00), scritto dal giornalista Goffredo De Pascale, racconta la vera storia di Kalapapa “Kalas” Ngeri, giovane talento nigeriano ricercato dalla polizia per il suo attivismo politico, fuggito in Italia dove ha ottenuto lo status di rifugiato politico, l’ingaggio in una squadra di calcio… e l’opportunità di rifarsi una nuova vita. Un altro gustoso libro fresco di stampa è Africa, boma ye! (Domenico Ricci Editore 2010, pp. 252, € 13,00) che ripercorre trent’anni di storia del football africano attraverso i ricordi e gli aneddoti di uno dei massimi esperti italiani in materia, Domenico Ricci, già allenatore di successo nello Zaire di Mobutu, diventato talentscout di giovani promesse dei vivai subsahariani (ha portato in Europa Kuffour, Appiah, Muntari, Mudingayi, Diamoutene, ecc). Un racconto agrodolce che denuncia ipocrisie e porcherie del mondo del calcio. www.africabomaye.com

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Il bomber-badante I risultati, in soli pochi mesi, non sono mancati. Quarti al campionato Aics, poi l’AfroNapoli United ha inaspettatamente vinto la Coppa Partenope 2010. «Per noi è stato come conquistare la Champions», sorride Gargiulo. «Ma la vittoria più importante è stata quella dell’integrazione», ci tiene a ribadire Johnny. Del resto gli scogli da superare per una simile compagine non sono pochi. Molti di loro fanno lavori duri, si alzano presto, finiscono alle otto di sera. Essere costanti agli allenamenti non è sempre possibile. Per non parlare di una certa ostilità esterna, che va sempre messa in conto. Un esempio? Dopo che il loro nome è finito su un giornale

locale, la polizia si è presentata nella sede dell’Aics per controllare i documenti dei giocatori dell’Afro-Napoli United. Cercavano eventuali clandestini. E il razzismo? «Qualche insulto può capitare che arrivi, ma è nella norma», racconta Tafà, 31enne senegalese. Prima di arrivare a Napoli ha giocato nella serie A del suo Paese e poi anche con

opo il fallimento degli D Azzurri di Lippi ai Mondiali, la Federcalcio ha deciso di

Una squadra multirazziale irrompe nel campionato dilettanti

dimezzare il tesseramento degli extracomunitari nei campionati professionistici. Obiettivo: salvaguardare i giocatori nostrani. Decisione giusta? Ne abbiamo parlato con Malu Mpasinkatu, 31enne di origine congolese, italiano d’adozione (vive nel nostro Paese da 28 anni), opinionista sportivo di Sky. Primo direttore sportivo africano a diplomarsi nella scuola di Coverciano, Malù ha lavorato per il Cesena e per una squadra bulgara. Ora è direttore sportivo della nazionale della Repubblica democratica del Congo. E senza dubbio, è uno dei più acuti osservatori del calcio globale.

una squadra minore in Portogallo. Qui a Napoli segue un corso per diventare badante e nella squadra è il bomber. «Più che altro ispiriamo simpatia, poi qualche stupido che ti urla “andate a raccogliere le banane” c’è sempre. Però a fine partita spesso vengono a scusarsi», aggiunge Johnny.

In alto il camerunense Samuel Eto’o, stella dell’Inter. A destra, il senegalese Khouma Babacar, ingaggiato dalla Fiorentina. Le nuove restrizioni della FIGC non riguardano i giocatori extracomunitari già tesserati nei nostri campionati. Sopra l’intervistato, Malu Mpasinkatu


“Ma la serie a discriMina i talenti africani” Malu Mpasinkatu è esperto di calcio africano, commentatore tv, direttore sportivo e talent scout. Lo abbiamo incontrato. Per capire gli effetti della nuova controversa norma che chiude le porte dell’Italia ai giocatori extracomunitari Ripartono i grandi campionati europei, sull’onda del successo dei Mondiali sudafricani. Cosa rimane in Africa di quella scommessa? Stadi fantastici che potranno essere sfruttati per nuove manifestazioni. E tanto ritrovato orgoglio: il Sudafrica ha mostrato al mondo, con umiltà, un’organizzazione perfetta. Ora Johannesburg si meriterebbe di ospitare le Olimpiadi del 2020. Sono in tanti a guardare con speranza all’Africa del calcio. Ma la FIGC, per tutelare i vivai nazionali, ha imposto alle squadre italiane l’acquisto di un solo giocatore extracomunitario.

Decisione giusta? Assolutamente no. È una normativa anacronistica, fatta in fretta e furia per rimediare al fallimento della Nazionale ai Mondiali. Ma come può giovare ai giovani italiani se invece di undici giocatori africani o brasiliani ne giocano undici tedeschi o spagnoli? Così si penalizzano i talenti extracomunitari che non avranno più possibilità di emergere nel nostro calcio. Col tuo lavoro sei sempre in cerca di nuovi talenti… Sì, io e il mio staff scandagliamo i campi di calcio in tutto il mondo per scovare giovani promesse. In Congo ci spingiamo nelle province più sperdute, dove organizziamo tornei di scouting: da lì spesso arrivano le sorprese migliori. Sarebbe un peccato negare a questi ragazzi il sogno di approdare in una grande squadra italiana. Con la ripresa del campionato tornerà il problema del razzismo negli stadi. Come rimediare? Gli insulti e gli ululati razzisti vanno sempre condannati. Ma non credo sia utile sospendere le partite. Si dà troppa importanza ai pochi imbecilli che fischiano cercando solo un po’ di visibilità. Meglio ignorarli. E riportare la nostra attenzione sul calcio. Luca Bolognesi

Senza disciplina Dopo i successi della passata stagione, l’Afro-Napoli ora coltiva un sogno: trionfare nel campionato di seconda categoria Figc che partirà a settembre. «L’obiettivo è anche di allargare il gruppo, integrare altri ragazzi», spiega ancora Johnny. «Ce ne sono tanti di immigrati che sono ottimi calciatori, ma non hanno la possibilità di esprimersi, non trovano spazio per giocare nelle squadre regolari». Come Mohammed, 20 anni, l’ultimo arrivato in squadra, che ha da poco superato gli esami per il diploma di scuola media. «Il nostro punto debole è la disciplina. Tra africani e napoletani non so chi sia peggio. Ci mancano organizzazione e costanza agli allenamenti», ride Antonio Gargiulo. «Però abbiamo già fatto un mezzo miracolo a mettere assieme tutti questi ragazzi diversi. Mi hanno regalato soddisfazioni uniche». Invece, sembra che proprio Napoli sia stato il fattore decisivo per un simile fenomeno. Come dice Johnny, «Napoli è un po’ una città africana. Qui ci si sente come a casa». • africa · numero 5 · 2010

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copertina

testo di Marco Trovato foto di Marco Garofalo e Marco Trovato

È il più antico traghetto del mondo ancora in funzione. Un cimelio coloniale tedesco, affondato durante la prima guerra mondiale, recuperato dai britannici e mantenuto in attività dai tanzaniani. Da quasi un secolo solca le acque del lago Tanganica

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La del


regina Tanganica africa 路 numero 5 路 2010

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copertina

In viaggio sulla m Liemba nel cuore

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otonave L dell’Africa

a notte ha inghiottito il Tanganica: ondeggiamo nel buio assoluto. I motori del battello si sono fermati, le eliche hanno smesso di schiumare, i fumaioli non sbuffano più dense nubi velenose. Lo sciabordio monotono dello scafo ha lasciato il posto a un silenzio inquietante. Il Liemba sembra sospeso nel nulla. All’improvviso due colpi di sirena squarciano l’aria e una lama di luce fende l’oscurità che avvolge il lago. Davanti ai nostri occhi si materializzano una decina di piroghe gremite di gente sbraitante. Sono lanciate a tutta velocità verso di noi e, in un turbinio di pagaiate furibonde, fanno a gara per superarsi come se stessero partecipando a una regata. Ancor prima di raggiungerci, gli uomini a bordo scagliano delle corde di ancoraggio e saltano nel vuoto, tentando di aggrapparsi ai fianchi della nave. Qualcuno finisce in acqua. Da ogni parte si levano

urla, imprecazioni e insulti rabbiosi. Sembra un arrembaggio.

Scene da film «Tranquillo, è tutta gente pacifica», mi rassicura un tizio in canottiera e braghe mimetiche, impegnato a stringere le cime che piovono sul ponte. «Siamo arrivati al piccolo villaggio di Kibwesa. Qui non c’è il molo per attraccare, abbiamo gettato l’ancora a circa 200 metri dalla riva. Appena siamo stati avvistati, l’intero paese si è precipitato in acqua. Nessuno vuole perdere l’appuntamento settimanale con il Liemba». I passeggeri salgono e scendono dalla nave passando da un portellone laterale affiancato dalle piroghe. Nell’oscurità si intravvedono schiere di persone - tra cui vecchi, disabili e donne coi bimbi avvinghiati sulle schiene - costrette a trasbordare in precario equilibrio tra i

flutti minacciosi. A poca distanza, nel cerchio di luce proiettato sul lago, alcuni barcaioli improvvisano un mercato galleggiante. È tutto uno sventolio di pesci barbigli, caschi di banane, scimmie abbrustolite, galline terrorizzate, mazzi di soldi che passano di mano in mano… Un caotico intreccio di commerci e trattative che infiammano la folla affacciata al parapetto del traghetto. A prua nel frattempo sono iniziate le operazioni di carico e scarico delle merci. Un braccio meccanico preleva dalle canoe i pacchi più ingombranti mentre schiere di giovani muscolosi, piegati dai fardelli che portano sulle spalle, si fanno strada a spintoni e irrompono sulla nave. Il ponte principale viene invaso da sacchi di sardine, taniche di olio di palma, fascine di legna, piante tropicali, cesti di vimini: una valanga di uomini e mercanzie che travolge

Anche di notte barconi e piroghe si accostano al battello. Le strade sono state spazzate via dalla pioggia e dall’incuria. Solo il Liemba rompe l’isolamento della popolazione

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copertina

A bordo

La motonave MV Liemba salpa ogni mercoledì pomeriggio da Kigoma, in Tanzania, alla volta di Mpulungu, in Zambia, dove arriva il venerdì mattina. Le cabine di prima classe, provviste di 2 cuccette pulite, costano 55 dollari americani (pagamento solo in contanti) e vanno prenotate con qualche giorno di anticipo alla biglietteria del molo. La seconda classe (cabine con 4 cuccette) e la classe economy (sedili in stiva) costano, rispettivamente, 45 e 40 dollari. A bordo funziona un buon ristorante che assicura colazioni e pranzi. Il traghetto riparte da Mpulungu il venerdì alle 14 e arriva a Kigoma la domenica pomeriggio.

ogni cosa, seminando confusione e nervosismo. A tenere sotto controllo la situazione ci pensa un giovane ufficiale dallo sguardo imperturbabile che sta in piedi accanto al boccaporto. Si chiama Leonard Watson, ha il compito di annotare sul suo registro tutto ciò che scompare nella pancia, apparentemente insaziabile, del Liemba. «Alla fine del viaggio avremo stivato 200 tonnellate di carico», dice con soddisfazione. «Senza contare i quasi 600 passeggeri coi loro bagagli… Mica male per un battello che tra poco festeggerà un secolo di vita!».

L’odissea del traghetto L’orgoglio del marinaio è quanto mai giustificato: dopo 97 anni di onorato servizio, il Liemba può fregiarsi di essere il più longevo traghetto del mondo anco40 africa · numero 5 · 2010


SUL TANGANICA

Il lago Tanganica con i sui 673 chilometri è il bacino d’acqua dolce più lungo del mondo e il secondo per profondità con 1470 metri (il più profondo è il lago Baikal, in Siberia, con 1620 metri). Formatosi tra i 10 e i 12 milioni di anni fa, è anche uno dei laghi più antichi del pianeta. Il Liemba effettua svariate soste nei villaggi situati lungo le sue sponde, tra cui Lagosa (per il Mahale Mountains National Park), Kalema (a sud-ovest di Mpanda), Kipili (antica stazione missionaria) e Kasanga (porto tanzaniano a sud-ovest di Sumbawanga).

In alto, il battello attraccato al porto tanzaniano di Kigoma. Nella pagina accanto, sotto, i passeggeri di terza classe, spossati dal caldo e dal rumore della sala macchine. Sopra un cameriere in cambusa.

ra in attività. Fu l’imperatore tedesco Guglielmo II a ordinarne la costruzione nel lontano 1913: al Kaiser serviva una nave che pattugliasse il lago Tanganica, avamposto commerciale e militare delle colonie germaniche. Dieci mesi dopo i cantieri navali Meyer Werft di Papenburg diedero alla luce un gioiello d’ingegneria nautica di 1500 tonnellate, 70 metri di lunghezza e 10 di larghezza. Fu chiamato Graf Von Gotzen, in onore a un ex governatore dell’Africa Orientale Tedesca. Il bat-

tello fu smontato in ogni sua parte, ridotto a un puzzle di 5mila pezzi d’acciaio, e trasferito con un mercantile al porto di Dar es Salaam. Qui venne caricato su un treno e trasportato per 1.250 chilometri fino alla città di Kigoma sulle sponde del lago, dove arrivò alla vigilia della prima guerra mondiale. Riassemblato a tempo di record, il vaporetto venne equipaggiato con mitragliatori e cannoni di grosso calibro per fronteggiare gli eserciti britannico e belga che stringevano in una morsa le truppe tedesche. Nel giugno del 1916 fu colpito da una bomba e un mese dopo, il suo capitano, ormai costretto alla resa, decise di affondarlo per non farlo cadere in mani nemiche. Il Graf Von Gotzen sparì nelle acque del Tanganica. Ma nel marzo del 1924 i britannici riuscirono a re-

cuperarlo e a rimetterlo in funzione. Lo ribattezzarono con il nome di MV Liemba: così gli indigeni chiamavano il lago che aveva cullato - e custodito - il prezioso relitto.

Una storia senza fine Una storia incredibile che ha ispirato il celebre film d’avventura L a regina d’Africa (tratto dal romanzo omonimo di Cecil S. Forester), diretto nel 1951 da John Huston e interpretato da Humphrey Bogart e Katharine Hepburn. Ma l’odissea del battello non si è conclusa come aveva previsto la fantasia di Hollywood. Malgrado gli acciacchi dovuti alla sua veneranda età, il Liemba naviga ancora nel cuore dell’Africa. Ogni settimana fa la spola tra la città tanzaniana di Kigoma e Mpulungu, il porto zambiano

all’estrema punta meridionale del Tanganica. Nei due giorni e mezzo di traversata fa scalo in una ventina di piccole località disseminate lungo la costa. Sono villaggi di pescatori, vecchie stazioni missionarie, ex covi di negrieri o commercianti d’avorio. Difficile distinguerli. Di tanto in tanto la foresta pluviale che accerchia il lago si apre e tra gli alberi carichi di liane compaiono grumi di capanne di paglia sperdute in mezzo al nulla. Nel buio della notte si vedono solo i falò sulle spiagge e le luci tremolanti delle lampare che fluttuano nell’acqua. Paesaggi fuori dal tempo che paiono usciti del romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad. «Le terre che attraversiamo sono governate ancora dalla magia», assicura un cameriere del ristorante di bordo, camicia candida, vezzoso africa · numero 5 · 2010

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copertina Le soste durano poco e, a volte, il trasbordo può rivelarsi un’esperienza terrificante

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papillon al collo, gilet nero come il caffè che serve a colazione. «Gli spiriti invisibili del lago possono scatenare furiose tempeste, guastare i motori della nave, provocare terribili epidemie a bordo… Guai a farli arrabbiare». Fino a pochi anni fa, quando il battello passava nelle vicinanze dei monti Kaboko, il comandante ordinava di spegnere i motori: si diceva che da quelle parti si nascondesse un terribile mostro lacustre. «Tutti i passeggeri si riversavano sul ponte a pregare per scongiurare un attacco», ricorda il vecchio responsabile della cambusa. «Oggi invece tiriamo dritto senza neppure rallentare», aggiunge scuotendo la testa.

Imprevisti a bordo Il Liemba procede il suo viaggio a una velocità media di 10 nodi, circa 18 chilometri orari. Dietro di sé lascia una lunga scia nera. Il motore a vapore è stato sostituito nel 1970 da un diesel tedesco da 500 cavalli… molti dei quali paiono sfiancati dalla vecchiaia. «Da qualche tempo non è più lo stesso», ammette l’uomo che sorveglia la sala macchine, il volto imperlinato di sudore, la tuta lercia di grasso, i sandali immersi nei rivoli oleosi che scorrono sul pavimento. Un paio di pistoni sembrano ansimare mentre il macchinista grugnisce contro una valvola difettosa. «Potrebbero andare avanti ancora degli anni, ma sarebbe meglio non rischiare», avverte. Se dovessero fermarsi, sarebbe un disastro.

«La vita di decine di migliaia di persone dipende dal Liemba», ricorda il capitano Titus Benjamin, 42 anni, gli ultimi dieci passati al timone del battello. È un uomo massiccio dai modi gentili e pacati, che parla con un filo di voce. «Siamo l’ultimo collegamento esistente in una regione isolata dal resto del mondo. Garantiamo alla gente del lago le provviste, i commerci e le comunicazioni. Trasportiamo in ospedale i malati che necessitano di cure urgenti. E quando scoppia una guerra o una crisi umanitaria, in Burundi o nella Repubblica Democratica del Congo, ci prodighiamo per mettere in salvo migliaia di profughi. A costo di rischiare la nostra incolumità». Tempo fa il battello ha dovuto respingere l’attacco di un gruppo di banditi, più di recente è stato bersagliato dai proiettili di una banda di miliziani. «Viaggiamo in una terra di nessuno a cavallo tra frontiere irrequiete», riflette il capitano che comanda un equipaggio di 53 persone addestrate a gestire ogni tipo di emergenza. «Ci capita di dover sedare delle risse tra i passeggeri, ma anche di recuperare qualche ubriaco finito in acqua o di salvare dal linciaggio un ladro colto sul fatto… A volte dobbiamo assistere delle donne in travaglio: abbiamo già fatto nascere a bordo 5 bambini, l’ultima neonata è stata chiamata Liemba», racconta con fierezza.

Uomini d’affari e turisti Il battello brulica di vita. Sul ponte di prua la gente bivacca fra tappeti di sardiafrica · numero 5 · 2010

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copertina

Da sotto, in senso antiorario: la bolgia della terza classe nel ponte inferiore; il trasbordo acrobatico di un passeggero; la sala di comando; il ristorante di bordo e il ponte della nave ingombro di merci e persone

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ne distese a seccare al sole. Una radio gracchia canzoni swahili. Due fedeli musulmani pregano in ginocchio sotto l’albero della nave che ricorda il minareto di una moschea turca. A poca distanza un pastore evangelico tiene un sermone dai toni apocalittici a un capannello di passeggeri persi in ben altri pensieri. Papy Okita, trafficante congolese di diamanti, ha l’aria preoccupata. «Mi sposto ogni mese col traghetto», racconta. «Il capo della polizia di frontiera è un amico fidato, ma in questi giorni si trova in congedo per problemi famigliari. E il suo vice è una carogna: pretenderà un sacco di soldi per lasciarmi passare». Rashidi Muyella, ingegnere civile tanzaniano, sta recandosi in un cantiere. «Sto costruendo un dispensario per una missione cristiana sul lago», spiega porgendomi il suo biglietto da visita. «I la-


vori si sono fermati perché è finito il cemento. Sul battello ne ho caricato mezza tonnellata». Saimon Kifunda, commerciante zambiano vestito da notabile, ha riempito la stiva di sacchi di pesce disidratato. «Lo compro dai pescatori sul lago e lo rivendo nel mio Paese, guadagno circa 10 euro a sacco». Gli uomini d’affari del Liemba viaggiano in cabine di prima classe dotate di lavabo, guardaroba, scrittoio e zanzariere alle finestre. «Il massimo del comfort: vanno prenotate con almeno una settimana di anticipo», avverte mister Mohamedi, inserviente di rango che distribuisce lenzuola inamidate ai facoltosi passeggeri del ponte principale. «A volte mi capita di servire dei ragazzotti europei in vacanza: gentaglia!», dice con aria sprezzante. «Nascondono rotoli di banconote nelle mutande, ma non scucio-

no mai la mancia». L’unico turista a bordo è un gigante biondo che girovaga sul ponte cercando di rintracciare la connessione satellitare per il suo smartphone. È un trentenne norvegese, sta girando l’Africa con la carta di credito del padre. «Ho pagato due biglietti in first class per non dover condividere la camera con qualche sconosciuto», spiega prima di rintanarsi nella sua cuccetta.

In terza classe Fortuna per lui che c’era posto, altrimenti sarebbe finito nel ponte inferiore. Lì si viaggia ammassati in spazi claustrofobici e maleodoranti tra caterve di passeggeri dall’aria incarognita. «La bolgia, il caldo, una birra di troppo: basta niente perché scoppi una zuffa», avverte Juma Ramadan, venditore di ananas, che ciondola sul battello con un vassoio di frutta succulenta.

I passeggeri di terza classe stanno incastrati sottocoperta in un groviglio inestricabile di valigie e animali. Una mama straripante occupa un’intera panca di legno, ma nessuno osa protestare. «Se vuoi stravaccarti devi scendere giù», fa sapere, con tono perentorio, indicandomi una rampa di scale che sprofonda nelle viscere del battello. In fondo alla stiva c’è un tugurio buio senza oblò. L’aria è pesante come il piombo, da un tubo nero sgorgano zaffate di gasolio. Nugoli di donne e bambini schiantati dal caldo boccheggiano per terra. In un angolo alcuni ragazzotti piluccano un cartoccio pieno di pesciolini fritti e polenta di manioca. Sono burundesi, vanno a cercare fortuna nelle miniere di rame e di oro dello Shaba. «Adesso viaggiamo rintanati qui sotto, ma torneremo a casa ricchi sfondati», urla uno di loro, per

superare il rumore del motore. E giù a tracannare un bidone di vino di palma. Il trambusto nella stiva si affievolisce quando il battello rallenta la sua corsa nei pressi di un villaggio. Le soste durano solo una manciata di minuti. Le piroghe che serpeggiano nervose attorno al traghetto afferrano al volo drappelli di persone stremate dal viaggio e scaraventano a bordo nuovi passeggeri. Ogni fermata è una baraonda di spinte, strattoni, litigi furiosi. Dal ponte di comando gli ufficiali del traghetto schiumano di rabbia e urlano nel vano tentativo di riportare l’ordine. Solo il fischio della sirena interrompe lo scompiglio. Una dopo l’altra, le piroghe si staccano dal battello e si allontanano verso riva. Svaniscono nel buio della notte, mentre l’ombra del Liemba riprende a scivolare silenziosa sulle acque scure del Tanganica. • africa · numero 5 · 2010

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società

di Luca Spampinato

Vetri rotti Parabrezza danneggiati? Lunotti o finestrini scheggiati? I vecchi cristalli della vostra vettura non sempre finiscono in discarica. Una parte finisce nel cuore dell’Africa. A Kinshasa, capitale della RD Congo, ci sono commercianti specializzati nella vendita di vetri deteriorati o incidentati. I parabrezza arrivano dall’Europa e costano cinquanta volte di meno dei cristalli nuovi. In teoria il codice della strada li vieterebbe. Ma alla maggior parte degli automobilisti (e dei poliziotti) congolesi vanno benissimo.

La seconda vita Sulle Strade d’africa rinaScono le vec Nei porti africani approdano ogni giorno migliaia di auto che in Europa non possono più circolare. Vecchie utilitarie, furgoni arrugginiti, ex macchine di lusso. Ma ora il mercato dell’usato è insidiato dai cinesi

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il futuro? auto nuove low-cost Il colosso Great Wall Motor ha decuplicato in un anno il numero dei suoi rivenditori africani. La Chery ha aperto uno stabilimento in Egitto. La Beijing Automotive sta sviluppando dei modelli economici specifici per il continente nero. L’industria automobilistica cinese sta conquistando l’Africa con un ampio ventaglio di veicoli - utilitarie, suv e mezzi commerciali - che costano assai meno dell’usato europeo. Un duro colpo per gli importatori (africani, europei e libanesi) che si sono arricchiti finora riciclando i nostri vecchi rottami.

Sulle strade di Asmara, in Eritrea, circolano ancora delle vecchie Fiat 1100, retaggio dell’epoca coloniale

delle auto chie carrette europee S

barcano ogni giorno a migliaia nei porti di Dakar, Abidjan, Cotonou, Lomé, Lagos e Douala. Hanno carrozzerie consumate, motori rumorosi e acciaccati, pneumatici sbrecciati, tubi di scappamento che sbuffano veleni. Mercedes d’altri tempi, Citroën decrepite, Volkswagen incidentate, Toyota passate di moda. Vetture fuori produzione da decenni, con almeno 100mila chilometri di strada alle spalle. Vecchie carrette a quattro ruote che in Europa

non vuole più nessuno. Dovrebbero essere rottamate, fatte a pezzi. E invece finiscono sui mercantili che fanno rotta verso l’Africa. Qui riconquistano interesse e valore (dai 3mila fino ai 6mila euro: un’enormità). Il business internazionale delle auto usate è esploso vent’anni fa, quando nei Paesi dell’Unione Europea sono entrate in vigore norme più rigide che hanno limitato o vietato la circolazione a milioni di vetusti furgoncini, fragili utilitarie, ex auto

di lusso senza più appeal o troppo inquinanti. In Africa le leggi per la sicurezza e per la tutela dell’ambiente, assai più indulgenti offrono un’opportunità preziosa per i grossisti dell’import-export. Come per magia i veicoli più obsoleti sono resuscitati. E hanno cominciato una nuova vita (destinata fisiologicamente però a durare pochi anni) nelle caotiche strade delle metropoli africane. Le Fiat Regata del 1983 si sono trasformate in taxi nuovi di zecca in Guinea, le Opel Corsa del 1982 hanno ritrovato lo smalto di un tempo in Camerun e Ghana, le Renault 5 del 1978 hanno ripreso a ruggire orgogliose in

Costa d’Avorio. Negli ultimi due decenni il commercio dei veicoli di seconda mano in Africa è cresciuto a ritmi pazzeschi. Oggi, rivela uno studio della Banca Mondiale, questo mercato garantisce 20mila posti di lavoro, muove ogni anno 700mila veicoli e frutta un giro d’affari di oltre 2 miliardi di dollari. Ma le cose sono destinate a cambiare. L’invasione delle auto low-cost cinesi e indiane in Africa minaccia le esportazioni dell’usato europeo. Oggi a Luanda o a Maputo, con lo stesso prezzo di una scassata Peugeot si può acquistare un Suv nuovo fiammante della cinese Chery o dell’indiana Tata. Non sarà il massimo dalla qualità. Ma rispetto a un vecchio trabiccolo europeo inquina di meno e dura di più. • africa · numero 5 · 2010

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Reporter testo di Sara Milanese

tra i rifiuti

Dalla discarica di Maputo fioriscono 48 africa · numero 5 · 2010


Hanno meno di vent’anni e vivono in uno dei quartieri più difficili della capitale mozambicana. Fino a poco tempo fa passavano le giornate a raccogliere e riciclare la spazzatura. Oggi si guadagnano da vivere con la fotografia

L

a discarica per noi è tutto: ci permette di vivere, di mangiare, di lavorare. Se non ci fosse, non so cosa ne sarebbe di noi». Jerson parla con tono deciso e un po’ rassegnato. Vive nel bairro di Hulene, quartiere della periferia di Maputo, vicino alla Lixeira, la grande discarica che raccoglie i rifiuti di tutta la città. Come lui, gli abitanti di Hulene le sono legati a doppio filo: è la loro condanna e insieme salvezza. Ogni giorno vi entrano per raccogliere plastica, carta, vetro, soprattutto metalli, ferro, ottone, alluminio. Ci guadagnano il minimo necessario per vivere.

«

A scuola di fotografia

fotografi

Oggi però Jerson coltiva un sogno: diventare fotografo. Dal 2008 frequenta un laboratorio di fotografia nella scuola gestita dalle Missionarie dell’Immacolata, nella vicina parrocchia di Malavane. Il nome del progetto, A Mundzuku Ka Yina, è stato scelto dalla quindicina di ragazzi che come lui frequentano il corso. In lingua shangaan significa “Il nostro domani”. Albuquerque, Avelino, Fabião, Watara, Nuro, Zacarias, Paulo, José… Tutti sotto i 20 anni, molti già con uno o due figli da mantenere, nessuno con un lavoro sicuro. Roberto Galante, fotografo e regista italiano, con il sostegno dell’Associazione Basilicata-Mozambico di Matera, ha dato loro in mano per la prima volta una macchina fotografica professionale. Risultato: il mondo della discarica immortalato dai ragazzi è risultato assurdo e

Jerson

Albuquerque

Avelino

Fabião

Watara

Nuro

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società

Il progetto Un laboratorio di comunicazione per i ragazzi della discarica di Maputo. Il progetto è stato lanciato nel 2008 dal fotografo italiano Roberto Galante

con il sostegno dell’Associazione BasilicataMozambico di Matera. Oggi nel laboratorio s’insegna fotografia, video ed elaborazione digitale delle immagini, ma di più si cerca d’intercettare l’intensa, a volte caotica vitalità che i ragazzi esprimono. Per saperne di più www. amundzukukayina.org 50 africa · numero 5 · 2010

paradossale, ma sempre colorato, vitale e intenso. «Li ho spinti soprattutto ad esprimere il loro punto di vista. Questi ragazzi hanno una creatività che lascia senza parole», racconta Roberto. «Ma la sfida più importante non è insegnare loro a scattare una foto, devono imparare disciplina e rispetto: per gli altri, per gli orari di lezione, per i ruoli. Questi ragazzi crescono da soli, senza regole, devono combattere anche contro i pregiudizi sociali».

Storie da raccontare Il corso dura dieci settimane e prevede un rimborso, perché i frequentanti non hanno il tempo di lavorare. «In discarica però ci vanno lo stesso: dall’alba fino alle 8, e poi la sera, dopo le 17.

Qualcosa riescono a guadagnare», continua Roberto. Alcuni di loro non vivono a Hulene, e non sono cresciuti nella discarica, come Miguel, che ha lasciato un lavoro saltuario di carpen-

tiere per scoprirsi un vero e proprio talento per le foto. «Come gli altri, prima di cominciare questo corso non sapevo niente di fotografia. È stata una rivelazione, mi ha dato un nuovo modo


Zacarias

Paulo

Josè

Il luogo dove le cose vanno a morire è il paradossale inizio di un’altra vita, fatta non solo di disperata sopravvivenza ma anche di pulsante, inesauribile vitalità di comunicare». Già cinque ragazzi del laboratorio, tre fotografi e due grafici, sono stati assunti presso @Verdade, un settimanale di Maputo a distribuzione gratuita. Dopo aver raccontato la Lixeira e i suoi protagonisti attraverso le foto, i ragazzi stanno ora realizzando un documentario sulla vita a Hulene, a partire dai loro stessi racconti. «Il nostro

Nelson

Miguel

obiettivo più ambizioso è però quello di riuscire a dare continuità al progetto, perché questo laboratorio diventi una struttura permanente nel quartiere»,

conclude Roberto. «Questo quartiere e questa città nascondono centinaia di storie. E loro le sanno raccontare meglio di chiunque altro».•

Juel

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libri

di Pier Maria Mazzola

L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico

di John Thornton

«Gli africani furono commercianti esperti, che non subirono il dominio dei mercanti europei né in virtù di un presunto controllo che questi ultimi esercitavano sui mercati né di una presunta superiorità nelle tecniche commerciali o di produzione». Una delle “novità” di questo studio (la prima edizione in lingua inglese risale al 1992) sta nel rendere gli africani protagonisti anche nel contesto della tratta. Trascurando però che la schiavitù autoctona era prevalentemente domestica, e quella promossa dagli europei era “industriale” e crudele. All’autore va riconosciuto nondimeno il merito di restituire agli africani la loro soggettività, non solo in Africa ma anche nel Nuovo Mondo. Qui essi seppero modellare una vera «struttura cultura neoafricana promossa da diverse nazioni». Il Mulino 2010, pp. 498, € 38

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Black Bazar Da qualche di Alain Mabanckou

Guida per difendersi Domande dal razzismo parte in Africa islamiche, di Khaled Fouad Allam di Helder Macedo risposte cristiane e Mimmo Calopresti di Christian W. Troll

«Non è per vantarmi, ma i miei vestiti sono confezionati su misura. Li compro in Italia e più precisamente a Bologna». Chi parla è il Sederologo, un congolese sapeur a Parigi («Se mi vesto in giacca e cravatta è perché bisogna “mantenere la pressione”, come noi diciamo noi della Sape, la Società delle persone eleganti che fanno atmosfera»). Il suo scrivere in prima persona è mot ivato d a l l’essersi ritrovato un bel dì da solo: la compagna se n’è andata portandosi via la loro figlioletta preferendogli l’Ibrido, uno spiantato suonatore di tam-tam. È tutto il piccolo mondo africano di un quartiere della capitale francese che scorre sotto la penna di Mabanckou, che dopo Verre cassé e Memorie di un porcospino si conferma autore di talento, cultura, ironia, satira sociale e… divertimento.

Un romanzo, ma intriso di autobiografia. L’autore, nato in Sudafrica da una famiglia di amministratori coloniali portoghesi, fino ai dodici anni vive in Africa prima di conoscere il Portogallo, da dove poi si esilierà per la sua opposizione a Salazar. I curatori ci fanno notare che il libro, edizione originale 1991, «per la prima volta nella narrativa portoghese affronta lo spettrale passato coloniale non come fantasma, che pertanto si prolunga nel presente, ma come passato e dunque spazio di memoria e interrogazione sul presente». Una chicca è l’aneddoto che vede il nonno di Macedo, direttore sanitario in Zambesia, scartare «a favore di un raccomandato bianco l’infermiere nero che aveva ottenuto il primo posto nel concorso». Quel mozambicano discriminato si chiamava Samora Machel…

I temi sono dodici: dalla parola di Dio alla divinità di Cristo, dalla Chiesa alla «essenza del cristianesimo». Con uno schema costante, ogni capitolo è introdotto da alcune delle domande più comuni che i musulmani sollevano; queste sono seguite dalla «visione musulmana» e da quella «cristiana»; infine, «i cristiani rispondono». Non è tanto un voler “convincere” i seguaci del Profeta quanto un riscoprire, da parte dei cristiani, i fondamentali della propria fede a partire dalla sfida che ci viene dal musulmano nostro vicino. È insomma una sort a d i cat e ch ismo, che prende spunto dall’esperienza - citata dall’autore - di Robert Caspar, il Padre Bianco (deceduto 3 anni fa) attorno al quale a Tunisi si raccoglieva, dal 1974, un gruppo di cristiani per mettere a punto le proprie “risposte”.

Giudizio Universale, l’intelligente mensile «che recensisce tutto», non esce più in edicola da qualche tempo. In compenso c’è un sito sempre aggiornato (www.giudiziouniversale.it) e, di nuovo in forma cartacea, una collana di guide che escono con scadenza semestrale. Questa dedicata al razzismo va dal lemma «Altri» a «Zingari», alternando chiare spiegazioni del sociologo italoalgerino (come nel caso di «Politically correct»), a pagine del regista calabrese, in cui prevale lo stile narrativo. A proposito di «Salvini», per esempio: «È il leghista lombrosiano, l’archetipo della Lega Nord. (…) Le sue argomentazioni sono bisogni che si sono intorcinati nello stomaco e devono salire verso l’alto per poter tracimare al di là del corpo e diventare atto di piacere: “Non affittiamo agli stranieri!”»…

66thand2nd 2010, pp. 238, € 16

Diabasis 2010, pp. 251, € 18

Queriniana 2010, pp. 184, € 15,50

Giudizio Universale 2010, pp. 147, € 15


musica

di Claudio Agostoni

“SMOD”

SMOD . BECAUSE MUSIC / SPIN-GO

Chitarra acustica, tre voci e qualche campionamento. Questi gli ingredienti “rap & folk” dei maliani SMOD. Acronimo di Sam, Ousco e Donsky. La “M” sta per Mouzy, con cui tutto è iniziato nel 2000 e che oggi non fa più parte della band. In compenso c’è Keny Arkana, un rapper marsigliese di origini argentine. E quel piccolo-grande uomo di Manu Chao, autore di Fitri Waleya (già videoclip su YouTube) e responsabile della produzione dell’album. 13 canzoni che ruotano intorno a melodie semplici, dolci e ipnotiche. La produzione di Manu Chao rende il tutto più pop, come aveva fatto con il lavoro di Amadou et Mariam, i genitori di Sam. Da parte loro i tre ragazzi parlano senza peli sulla lingua. Nel brano d’apertura denunciano i politici africani «che parlano, mangiano e truffano, ma non fanno niente per la gente». Una filastrocca engagé eppur leggera, con valenze non solo africane.

NEXT STOP… SOWETO (VOL I, II E III) AUTORI VARI . STRUT / AUDIOGLOBE

Tre perle edite dalla tedesca Strut che, dopo le “esplorazioni” in Nigeria ed Etiopia, si butta sulle sonorità sudafricane popolari tra Sessanta e Settanta. Il primo “tomo” è dedicato al township jive (o mbaganga), un minestrone a base di jazz, sonorità rurali zulu, armonie vocali e strumentazione occidentale. Il secondo si presenta compiutamente con il sottotitolo: Soul, funk & organ grooves from the townships 1969 - 1976 1976. Il terzo volume non poteva che essere dedicato al jazz (gli anni presi in considerazione spaziano dal 1963 al 1984). E così ci imbattiamo nel sax di Dudu Pukwana e nella batteria di Earty Mabuza. E nelle potenti melodie soul jazz dei The Heshoo Beshoo, artisti capaci di fondere le vibrazioni e le influenze americane con la tradizione africana. La prossima volta che qualcuno mi chiederà un cd rappresentativo della scena sudafricana, saprò cosa consigliare.

GHANA SPECIAL

AUTORI VARI . SOUND WAY / SPIN-GO

Ai mondiali sudafricani abbiamo tutti tifato per il Ghana, la squadra che poteva regalare un sogno all’intero continente africano. È andata come sappiamo, e per consolarci regaliamoci questa raccolta. Un elegantissimo libro ricco di informazioni e splendide fotografie. E due cd che raccontano molto sull’highlife e sul ghanaian blues. Quattordici anni (1968-81) raccontati attraverso 33 canzoni che ci permettono di rinverdire i fasti di band come The Sweet Talkes (imperdibile Adam & Eve, ovviamente il loro “primo” album). City Boys Band, il gruppo di Odofo, il Cinese nero. Basa Basa Sound, letteralmente il “sound del caos”… Ascoltando questi ritmi, ancestrali e modernissimi, probabilmente è riuscito a tirarsi su il morale anche Gyan Asamoah, il responsabile del rigore sbagliato all’ultimo secondo di Ghana-Uruguay.

JOYSTONE

JIMI TENOR & KABU KABU . SÄHKÖ /AUDIOGLOBE

Finlandese doc, ma lontano anni luce dalla canonica “freddezza nordica”, Jimi Tenor è un artista poliedrico e curioso, capace di spaziare in molti generi musicali diversi, lasciando su ognuno il segno della sua prorompente personalità. Da parecchi mesi, dopo averli scoperti a Berlino, si accompagna con i Kabu Kabu, una band nigeriana con cui propone la sua personalissima e originale versione dell’Afro Beat. Una esperienza non nuova per lui, visto che la sua ricchissima discografia include anche un lavoro con Tony Allen, il mitico percussionista di Fela Kuti. Anche Nicholas Addo Nettey, uno dei musicisti dei Kabu Kabu, ha avuto un glorioso passato nella band del Black President. Certo, visti dal vivo il giorno dopo del concerto della band di Seun Kuti, ci si rende conto che il suono di Tenor non è made in Nigeria. Ha preso molto dall’Afro Beat, ma ha inventato qualcosa di suo. africa · numero 5 · 2010

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viaggi

testo e foto di Ludovico de Maistre

Una Panda

La mitica auto italiana protagonista Tre piloti torinesi hanno partecipato ad una corsa benefica di novemila chilometri in Africa occidentale. Un’avventura piena di emozioni e di imprevisti, raccontata da uno dei protagonisti

L

o scorso inverno ho partecipato assieme a due amici di Torino alla spedizione umanitaria Adventurists Africa Rally. Il regolamento ci imponeva di guidare un’auto con cilindrata massima di 1000cc. Abbiamo scelto una Fiat Panda 4x4 del 1987: un pezzo d’antiquariato capace ancora di ruggire.

Primo, la burocrazia L’impatto con l’Africa occidentale è stato piuttosto impegnativo. Quaranta gradi all’ombra col 90% di umidità, traffico e smog. A Dakar ci sono voluti 4 giorni per recuperare la macchina dal porto: un inferno burocratico fatto di dogane, uffici, firme, code, litigi… Ma il 31 dicembre siamo riusciti a partire per la nostra avventura. Il viaggio è iniziato subito in salita, con molti posti di blocco e qual54 africa · numero 5 · 2010

che poliziotto che ha tentato di confiscarci i documenti. A fine giornata chiedevamo ai capivillaggio il permesso di montare la nostra tenda. Molti sorrisi, qualche scambio di battute, un regalo simbolico e dormivamo tranquilli… Abbiamo guidato per migliaia di chilometri su piste sterrate e isolate; la gente del luogo, vedendo la macchina e il carico che portavamo, ci guardava incredula dicendo che non ce l’avremmo fatta.

L’Africa Rally è una spedizione benefica che parte ogni anno da Londra e arriva in Camerun. Una corsa a sfondo umanitario, a cui partecipano auto e piloti da ogni parte del mondo. L’obiettivo era coniugare l’avventura del rally con l’impegno umanitario


in Africa

di un rally umanitario

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viaggi

Una corsa solidale

Il regolamento del rally impone di raccogliere una somma minima da devolvere ad un progetto benefico. La squadra italiana ha scelto “Send a Cow” (www.sendacow.org. uk), che promuove programmi di agricoltura sostenibile e insegna ai piccoli allevatori africani come gestire al meglio il bestiame. «Le donazioni sono state raccolte attraverso internet e qualche grigliata tra amici», spiegano i piloti torinesi.

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Il rally avrebbe dovuto attraversare la Mauritania ma il rischio di attentati da parte di Al-Qaeda ha indotto a cambiare i programmi. Un diario di viaggio è stato pubblicato su: www.taurinorumtravelteam.com


Il percorso L’Africa Rally è partito da Dakar, capitale del Senegal. Ha fatto tappa a Bamako e Mopti, in Mali. Ha attraverso la regione dei Dogon, è sceso in Burkina Faso ed è proseguito nel nord del Benin e della Nigeria. La corsa si è conclusa alla città di Limbe, in Camerun.

In panne La Nigeria ci ha riservato numerose sorprese. Speravamo di guidare velocemente e attraversarla tutta in 3 giorni, invece ci sono volute più di 7 ore per fare i primi 80 chilometri, tra

guadi e vere e proprie voragini create dalle piogge torrenziali. Ai nostri occhi si è svelato un Paese bellissimo, ma paralizzato dalla cronica instabilità politica e sociale (proprio nei giorni del no-

L’autore

Ludovico de Maistre (nella foto coi due compagni di viaggio, Carlo Alberto Biscaretti di Ruffia e Paolo Rignon) è nato a Torino nel 1984. Aspirante documentarista, appassionato di fotogiornalismo, ha visitato più volte l’Africa. Nel 2010 ha partecipato alla spedizione Adventurists Africa Rally. Il sito www. lcphotographers.com pubblica alcuni suoi reportage.

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viaggi Le auto Fiat non sono molto diffuse in Africa occidentale: cercare i pezzi di ricambio è stata un’avventura

stro viaggio sono scoppiati i tumulti a Jos tra cristiani e musulmani, che hanno causato centinaia di vittime). Nei luoghi più isolati abbiamo incontrato persone che non avevano mai visto un bianco: piene di curiosità, ci guardavano, ci fissavano e ci toccavano braccia e mani. Avremmo voluto tanto sapere che cosa passava nelle loro teste. Proprio in Nigeria, a causa della pessima situazione delle strade, abbiamo avuto i primi problemi 58 africa · numero 5 · 2010


Il libro meccanici. Una balestra posteriore ha ceduto, i differenziali hanno iniziato a perdere olio, qualche fascetta del tubo della benzina si è allentata, la frizione iniziava ad essere stanca di tutte quelle arrampicate fuoripista.

Missione compiuta Lungo la strada, per nostra fortuna, abbiamo incontrato molte persone che ci hanno aiutato a risolvere gli inconvenienti. Con un martello, qualche

vite, un flessibile e una saldatrice, la balestra è stata rimessa a nuovo. Il 17 gennaio siamo entrati in Camerun. Ci sono voluti 3 giorni per fare i 300 chilometri di piste che attraversano il cuore del Paese. Abbiamo concluso la spedizione completamente ricoperti di polvere rossa. La Panda è stata venduta ad un’asta pubblica il giorno successivo e il ricavato è stato interamente devoluto a sostegno di progetti umanitari in Camerun.

L’intero evento ha raccolto più di 60mila sterline (circa 70mila euro), assegnate interamente alle associazioni benefiche che le squadre hanno scelto di sostenere. Così, dopo 22 giorni di guida, un totale di poco più di 9mila chilometri, oltre 700 litri di benzina bruciati e innumerevoli scatole di sardine consumate, siamo arrivati sulla costa lavica di Limbe, dove abbiamo realizzato improvvisamente di aver concluso con successo la nostra missione. •

Sognate di attraversare l’Africa con la vostra auto? Prima di intraprendere il viaggio vi consigliamo di fare tesoro dei preziosi consigli di Diego Assandri, un veterano delle spedizioni transafricane. Il suo TransAfrica (scritto in italiano, inglese e francese) è un vademecum indispensabile per guidare in sicurezza da Algeri a Città del Capo. www.diegoassandri.net Amici del Sassello 2009, pp. 112, 12 euro.

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chiesa

testo di Anna Pozzi foto di Bruno Zanzottera

Gli spiriti di Quattordici anni fa, sette monaci furono rapiti da un commando di terroristi algerini. I loro corpi furono trovati decapitati. Siamo tornati sulle montagne in cui avvenne quel terribile e misterioso massacro. Ecco cosa abbiamo scoperto

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Tibhirine L

ungo la strada che taglia la valle della Chiffa, salendo verso Medea, i gendarmi a sirene spiegate ci intimano di fermarci. Sono la nostra scorta. In ritardo! Il padre Jean-Marie Lassausse c’è abituato e sorride per nascondere l’impazienza. È dal 2004 che gli impongono questo corteo di auto o moto che sfrecciano a tutta velocità sul tragitto Algeri-Tibhirine. Padre Jean-Marie, della Mission de France, si occupa da 10 anni del monastero da cui furono rapiti e poi uccisi sette monaci trappisti nel 1996. Ma non gli è permesso di restare. E allora due volte la settimana fa la navetta da Algeri. E due notti si ferma a dormire al monastero. Senza un vero e proprio permesso. Sino ad ora, però, le autorità hanno chiuso un occhio…

Misteri irrisolti È una mattina brumosa quando saliamo sulle montagne che circondano Medea. La gendarmeria ci ferma proprio a pochi metri da dove sono state ritrovate le teste decapitate dei monaci. I sette trappisti erano stati rapi-

ti nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 dai terroristi del Gruppo islamico armato (Gia); vennero uccisi il 21 maggio e le teste ritrovate qualche giorno dopo. Una strage tuttora coperta da molti misteri, nonostante il governo francese abbia deciso, lo scorso novembre, di togliere il segreto di Stato da importanti documenti confidenziali che tuttavia non fanno ancora completa chiarezza sulle circostanze della prigionia e della morte dei monaci. Resta da chiarire la dinamica dell’uccisione, attribuita dalla versione ufficiale algerina ai terroristi islamici. I nuovi documenti desecretati dai servizi segreti francesi avallerebbero un’altra teoria, secondo cui i monaci sarebbero stati uccisi da un raid aereo dell’esercito algerino. Il caso è controverso ed estremamente sensibile. E rinvia a tante ferite aperte e questioni mai risolte, che riguardano sia le vicende interne all’Algeria - e in particolare agli anni bui del terrorismo islamista (1992-2000) - sia i rapporti quanto mai complessi e tesi con l’ex potenza coloniale.

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chiesa

Un monastero in sopravvive all’or Oasi di pace Nonostante il peso di una simile tragedia, il monastero - l’unico in Algeria, Paese quasi esclusivamente musulmano - continua a vivere, in maniera diversa, ma con lo stesso spirito di allora. Un segno di fedeltà a quei luoghi e a ciò che rappresentano: una possibilità di incontro e di dialogo con il mondo musulmano, che avviene attraverso gli strumenti semplici e quotidiani del lavoro e della preghiera. È quanto emerge anche dal film del regista francese Xavier Beauvois, premiato a Cannes, in uscita a settembre nelle sale: Des hommes et des dieux. Ed è quello che continua a fare ancora oggi padre Jean-Marie, che insiste nel coltivare quella terra insieme alle stesse persone che lavoravano con i monaci. Ingegnere agronomo, padre Jean-Marie ha lasciato la sua missione in Egitto per affrontare questa nuova sfida. «Da dieci anni - dice - faccio la spola tra Algeri e Tibhirine, un centinaFondato nel 1938 dai monaci trappisti dell’abbazia di Aigueville, il monastero di Tibhirine sorge tra rilievi fertili e coltivati. Ogni settimana suor Agnès, monaca ad Algeri, sale a Tibhirine per pulire il monastero e garantire un poco di manutenzione nell’immenso edificio

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io di chilometri più a sud, per continuare a far vivere questo monastero così duramente segnato dalla violenza e dalla morte, ma che oggi continua a parlare soprattutto di vita». E allora, dopo una visita al cimitero, dove i sette monaci sono seppelliti, padre Jean-Marie mostra con orgoglio i sette ettari coltivati essenzialmente a ortaggi e alberi da frutta. Nonostante l’inverno particolarmente rigido, ha buone speranze per i raccolti: orzo, avena, fagiolini, ma soprattutto mele, ciliegie, cachi, more, fichi e rabarbaro, con cui produce ottime marmellate, da vendere ad Algeri. Il resto finisce sul mercato locale di Medea.

Scorci di luce «Come all’epoca dei monaci - spiega padre Jean-Marie - il lavoro agricolo ci permette di tessere relazioni con gli abitanti del villaggio e della zona. Un segno di incontro, dialogo e amicizia. È questa essenzialmente la nostra testimonianza cristiana in terra d’islam». Mentre visitiamo le coltivazioni, il cielo finalmente si apre e il sole illumina la vasta vallata di fronte al monastero. Una terra, anche questa, che parla di violenze e massacri. Nel villaggio di fronte, Tamesguida, sono stati uccisi


Algeria rore della storia

il massacro

Il 30 ottobre 1993, il Gruppo islamico armato (Gia) lancia un ultimatum a tutti gli stranieri presenti in Algeria, intimando loro di lasciare il Paese entro trenta giorni. Alle parole seguono i fatti. Il 15 dicembre dello stesso anno vengono uccisi dodici lavoratori croati a Tamesguida, nei pressi del monastero. La vigilia di Natale gli stessi monaci vengono minacciati dall’emiro del Gia, Sayah Attyah, che fa irruzione nel monastero. Poi, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, sette monaci vengono sequestrati, mentre altri due, i frères Amédée e Jean-Pierre, di cui i terroristi ignoravano la presenza, vengono risparmiati. Il 21 maggio un comunicato del Gia rivendica l’assassinio dei monaci, di cui vengono ritrovate le teste decapitate, alcuni giorni dopo, nei pressi di Medea. africa · numero 5 · 2010

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chiesa

La memoria di Tibhirine resta viva, al di là delle polemiche e dei misteri che continuano ad avvolgere il massacro dei monaci

Estate di sangue

Negli stessi giorni del massacro di Tibhirine la Chiesa d’Algeria visse un altro grave lutto, la morte del cardinal Ètienne Duval, il 30 maggio, grande figura di dialogo e riconciliazione. I suoi funerali, insieme a quelli dei monaci, vennero celebrati il 2 giugno 1996, con una folla immensa ed enormi apparati di sicurezza. La serie degli omicidi che interessano religiosi rimasti in Algeria (19 in tutto) si concluse con l’assassinio del vescovo di Orano, Pierre Claverie, fatto saltare in aria con un’autobomba insieme al suo autista Mohamed, il 1° agosto del 1996. 64 africa · numero 5 · 2010


il film Uscirà nei prossimi giorni anche nelle sale italiane Des hommes et des dieux. Il film di Xavier Beauvois, nella foto sotto, liberamente ispirato alla storia dei monaci di Tibhirine, racconta la storia di questo piccolo gruppo di uomini consacrati alla preghiera, che nel corso degli anni avevano creato forti e sincere relazioni di vicinanza e amicizia con la gente del villaggio. Soprattutto attraverso i lavori agricoli e la cinquantennale attività di medico di frère Luc. La pellicola, girata in Marocco, ha vinto il Gran premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes.

I monaci avevano deciso di restare a Tibhirine, nonostante le minacce e l’insicurezza, come segno di fedeltà a quei luoghi e alla popolazione con cui avevano deciso di vivere

nel 1993 dodici lavoratori croati, la cui colpa era quella di essere cristiani. Sulle pendici della montagna di fronte viveva un eremita che per ragioni di sicurezza ha dovuto lasciare il suo rifugio. Anche i monaci rapiti nel monastero sono stati costretti a spostarsi. Racconti dolorosi, a cui padre Jean-Marie non si sottrae. Anche se lui preferisce

guardare avanti, nonostante la precarietà di quella presenza che non permette di fare programmi a lungo termine. Per il momento, è impossibile immaginare una presenza fissa qui. Le autorità non lo consentono, per motivi di sicurezza, anche se la situazione pare del tutto tranquilla. Gli stesso motivi giustificano anche l’imposizione della scorta

a padre Jean-Marie. Il contrasto è forte. Il silenzio e la calma del monastero, all’interno dei muri di cinta, e le sirene spiegate della polizia appena fuori dal cancello. Ma è solo una delle molte contraddizioni di questo Paese. Dove tuttavia il monastero di Tibhirine continua a vivere come luogo di pace, incontro e dialogo.• africa · numero 5 · 2010

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chiesa in africa Kenya •

«Vogliamo la verità» A dieci anni dalla morte di padre John Anthony Kaiser, missionario statunitense di Mill Hill, la Chiesa cattolica del Kenya chiede la riapertura delle indagini. «Preghiamo intensamente perché un giorno la verità venga rivelata da chi ha ucciso il nostro amato fratello», ha detto mons. Zachaeus Okoth, arcivescovo di Kisumu e presidente della Commissione episcopale Giustizia e Pace. Nell’agosto 2007 un tribunale keniano aveva concluso i propri lavori, raccomandando l’istituzione immediata di un’inchiesta supplementare da parte della polizia, al fine di stabilire in modo definitivo l’identità di coloro che hanno ucciso padre Kaiser. Da allora, precisa mons. Okoth, «nessuna azione rilevante è stata presa al riguardo». Il missionario si era opposto strenuamente alla pulizia etnica nella Rift Valley ed era fortemente critico nei confronti del regime dell’ex presidente Daniel Arap Moi.

a cura di Anna Pozzi

Sudafrica •

Sciopero si, ma nel rispetto dei più deboli

F

orte indignazione da parte della Chiesa cattolica sudafricana per il venir meno dei servizi sanitari di base in seguito allo sciopero dei dipendenti pubblici che ha paralizzato il Paese lo scorso agosto. «Siamo sconvolti dal fatto che l’assistenza viene negata ai più deboli e ai più vulnerabili», si legge in un comunicato della Southern African Catholic Bishops’ Conference (Sacbc) a firma del cardinale Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban. Il settore sanitario è stato particolarmente colpito dalla protesta. Gli scioperanti, infatti, hanno impedito l’accesso delle ambulanze, dei medici e degli stessi pazienti agli ospedali. Secondo un’emittente locale, almeno sette persone, tra cui tre neonati, sarebbero morte a causa di questa forma di boicottaggio. Per questo, i vescovi hanno chiesto a tutti gli scioperanti di «prendere in seria considerazione i poveri, i deboli, i malati, i giovani che lottano disperatamente per una vita migliore». E hanno invitato in particolare i lavoratori cattolici «a fare un esame di coscienza e di agire con serietà». Pur riconoscendo e sostenendo il diritto di sciopero, i vescovi hanno chiesto agli scioperanti di «riconoscere i diritti degli altri di scegliere liberamente» se aderire o meno.

R.D. CONGO •

La chiesa contro i «mineraLi

Schierata in prima linea per denunciare la guerra e il caos che favoriscono il saccheggio dei cosiddetti «minerali insanguinati», la Chiesa cattolica congolese ha accolto con favore anche l’impegno del Congresso degli Stati Uniti che ha approvato una nuova legge in proposito. Il presidente della Conferenza episcopale congolese e vescovo di Tshumbe, mons. Nicolas Djomo Lola, si è detto molto favorevole a questa iniziativa. Il Congresso Usa, infatti, ha approvato una legge che regola le transazioni finanziarie, nella quale è inserita una norma che impone 66 africa · numero 5 · 2010

alle aziende americane di rendere note le procedure da adottare per assicurare che i propri prodotti come cellulari, computer e apparecchiature mediche, non contengano i “conflict minerals”. Molti di questi minerali - e in particolare il coltan -, provengono dalle regioni orientali del Congo (soprattutto Nord e Sud Kivu) interessate da oltre quindici anni da conflitti, violenze e instabilità. La legge, tuttavia, non prevede alcuna sanzione per le imprese, ma dovrebbe consentire ai consumatori di scegliere più consapevolmente i prodotti


Guinea Bissau •

Rifessioni su un censimento

foto Bruno Zanzottera

È uno dei Paesi più piccoli e disastrati dell’africa. che dopo una serie di colpi di stato e lunghi momenti di instabilità ora prova a guardare avanti. Lo fa a partire da un censimento generale che ha permesso alla guinea Bissau di avere finalmente una fotografia più precisa della propria situazione. su cui anche la chiesa locale sta facendo alcune riflessioni. secondo i dati del censimento oggi la popolazione è di 1.520.830 abitanti: il che significa un aumento significativo rispetto al precedente censimento del 1991, quando gli abitanti erano 979.203. il tasso dei cattolici si aggira attorno al 20 per cento e la popolazione più giovane si concentra nei centri urbani. «in questo contesto - ha commentato padre Domingos cá, vicario generale di Bissau - la chiesa deve rafforzare le sue capacità e la sua presenza». in particolare, dovrà affrontare nuove sfide soprattutto nei centri urbani, dove è in crescita l’affluenza dei giovani alle catechesi per gli adulti e dove è già stato necessario aumentare il numero delle messe.

insanguinati» da acquistare. Alcuni esperti, tuttavia, hanno già sollevato dubbi in merito alla tracciabilità di alcuni minerali. Molte materie prime congolesi - specialmente oro e coltan - vengono infatti vendute sul mercato internazionale con i certificati di origine di Ruanda e Burundi, in particolar modo, Paesi che non ne posseggono nel proprio sottosuolo. Una grande truffa, nonché una plateale ipocrisia, in cui sono implicate anche imprese americane.

Nigeria •

Burkina Faso •

La conferenza episcopale della nigeria ha deciso di lanciarsi in un nuovo ambizioso progetto mediatico. consapevole dell’importanza di comunicare con tutti gli strumenti a disposizione, ha infatti promosso la nascita di una emittente satellitare cattolica 24 ore su 24, in collaborazione con la televisione africana indipendente (tai). il progetto dovrebbe diventare operativo nel gennaio 2011. «L’obiettivo - scrivono i vescovi nigeriani - è quello di fornire programmi religiosi autentici, con una prospettiva nigeriana, e destinati ai cattolici non solo del Paese, ma anche di tutto il mondo». Per questo i vescovi chiedono a tutti i cattolici (e non solo) di «sostenere l’iniziativa, finalizzata al risanamento spirituale della società».

L’Unione cattolica internazionale della stampa (Ucip) terrà per la prima volta il suo Congresso Mondiale in un Paese africano. L’incontro, che si svolge dal 12 al 19 settembre a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha per tema: “Media al servizio della giustizia, della pace e della buona governabilità in un mondo di disuguaglianza e povertà”. Secondo gli organizzatori «il Congresso è un’occasione straordinaria per comprendere la vera vita in Africa e le sue distinte realtà, in un mondo in cui la concentrazione dei mezzi di comunicazione e il potere sono sempre più in poche mani e raramente si ha l’opportunità di raggiungere la comprensione dell’Africa degli stessi africani». Nell’ambito del Congresso si terrà anche la convention mondiale dei giovani giornalisti con meno di 35 anni, che potranno incontrarsi e condividere preoccupazioni e progetti.

Un ambizioso progetto mediatico

L’Ucip per la prima volta in Africa

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storia

di Enrico Casale

Bikila

Quando entrò nella storia Il 10 settembre 1960 l’etiopie Abebe Bikila vinceva la maratona a Roma. Fu il primo storico trionfo di un atleta africano alle Olimpiadi, simbolo del riscatto di un intero continente. Ecco come avvenne l’impresa

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C

orri, ragazzo, corri. Dietro le tue spalle c’è una storia da dimenticare, e davanti a te un futuro da costruire. Corri, ragazzo, corri. Al tuo fianco non c’è solo la gente dell’Altopiano, ma tutto un continente in cerca di riscatto. Corri, ragazzo, corri. I sampietrini tagliano i piedi nudi. Ma tu sei abituato a soffrire, stringere i denti e tirare avanti. Corri, ragazzo, corri. La medaglia d’oro non ripagherà solo i tuoi sforzi, ma quelli di tutti gli africani appena usciti dalla pagina

più buia della loro storia... E Abebe Bikila corse. Corse forte. Vinse quella maratona a Roma, davanti a un mondo incredulo. La sua medaglia d’oro fu la prima conquistata da un africano in un’Olimpiade. La sua vittoria fu il simbolo della riscossa africana, il riscatto di un continente che si stava affrancando dalla presenza europea: solo nel 1960, l’anno in cui l’etiope vinse, diventarono indipendenti 17 Stati, tra i quali la Somalia, ex colonia italiana.

L’allenatore svedese… Abebe (il cognome) e Bikila (il nome) nasce il 7 agosto 1932 a Jato, un villaggio a sud di Addis Abeba. Il fato vuole che proprio quel giorno si corra la maratona olimpica a Los Angeles. Un destino che pare scritto nelle stelle, anche se all’inizio non sembrava. Come molti figli dell’Etiopia, Bikila nasce povero. Suo padre è un pastore e fatica a mantenere la famiglia numerosa. Così decide di arruolarsi nella polizia. Si trasferisce ad Addis Abeba, la capitale. Come agente riesce a guadagnare un po’ di soldi, che regolarmente invia alla famiglia. Quel lavoro gli piace e lo fa con serietà e devozione. Tanto che viene trasferito nelle guardie del corpo dell’imperatore Hailé Selassié. Lo appassiona anche lo sport, ma lo pratica solo a livello dilettantistico: calcio, tennis, pallacanestro. È l’incontro con l’allenatore svedese Onni Niskanen a cambiargli la vita. Il coach nordico intuisce le potenzialità di quel giovane e investe su di lui. Nel 1954 - Bikila ha 22 anni - lo iscri-


L’arrivo vittorioso di Bikila a piedi nudi immortalato in una foto divenuta storica

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storia

Una brutta copia

In Italia, quest’anno, un altro etiope ha vinto correndo scalzo. Si chiama Siraj Gena e si è aggiudicato la 16° Maratona di Roma del 20 marzo. In realtà ha corso solo gli ultimi 500 metri a piedi nudi. E, dietro al suo gesto, si nascondono ragioni economiche. Sebbene abbia dichiarato di aver cercato di ripetere le gesta del grandissimo connazionale a mezzo secolo di distanza, Gena non ha disprezzato il bonus di 5mila euro che lo sponsor gli aveva promesso se fosse riuscito a battere il tempo di Abebe Bikila (2h 15’ 17”) e fosse arrivato al traguardo scalzo. Il tempo è stato battuto e l’atleta è arrivato senza scarpe ai piedi. Ma lo stile di Abebe Bikila era un’altra cosa.

ve ai campionati militari nazionali. Con lui gareggia anche il fuoriclasse Wami Biratu. Per la maratona, tutto lo stadio di Addis Abeba aspetta di veder entrare per primo il campionissimo. Invece arriva un giovane atleta sconosciuto, che tra sé e Biratu ha scavato un solco incolmabile. Il successo lo 70 africa · numero 5 · 2010

porta alla ribalta. La fama cresce quando polverizza, in rapida successione, anche i record dei 5mila e dei 10mila metri. Con questa dote si presenta ai Giochi olimpici di Roma.

A piedi nudi Quelle di Roma sono Olimpiadi speciali in un anno

speciale. Nel 1960 il processo di indipendenza delle colonie subisce un’accelerazione. Per gli africani, quindi, gareggiare in Europa è una sfida sportiva ma è anche motivo di rivalsa. Per gli etiopici poi il significato è ancora più grande: Roma è la capitale dell’Italia, quello Stato che nel 1936 aveva ag-

gredito e conquistato la loro nazione. Bikila si iscrive alla maratona, che si disputa il 10 settembre. Deve vedersela con il sovietico Sergej Popov, detentore del record mondiale, e con il fortissimo marocchino Abdesalem Rhadi. Lui, ormai celebre in patria, a livello internazio-


wolde, l’amico maledetto nale è considerato poco più che un outsider. Sono giorni di caldo soffocante per Roma. Così gli organizzatori decidono di far correre la maratona di notte. Al nastro di partenza Abebe Bikila si presenta con una maglietta verde, un paio di calzoncini bianchi e scalzo. La stampa dirà che la squadra etiope era troppo povera per fornire le scarpette ai suoi atleti. In realtà Bikila le scarpe le aveva, ma gli erano state fornite solo il giorno prima e trovandole scomode aveva deciso di correre senza.

Sogni infranti La gara inizia male. Il coach gli aveva detto di tenere d’occhio il numero 26, cioè Abdesalem Rhadi, che invece era partito con il numero 185. Bikila per un po’ corre nel gruppo di testa poi, pensando che l’avversario fosse più avanti, stacca il gruppetto e si lancia nell’improbabile inseguimento. Quando entra nello stadio è solo e primo. Per gli africani diventa un eroe. Un simbolo di come l’Africa possa guardare a testa alta il resto del mondo. Quattro anni dopo corre la maratona a Tokyo. Si presenta ai nastri di partenza in cattive condizioni di for-

Un momento della storica corsa lungo l’Appia antica affollata da tifosi entusiasti

ma. Solo sei settimane prima ha subito un intervento all’appendice ed è ancora convalescente. Questo non lo ferma. E compie un’altra impresa: diventa il primo atleta a vincere due maratone olimpiche di seguito. A Città del Messico l’impresa non gli riuscirà più. L’età (ormai 36 anni), l’altitudine, gli infortuni lo costringono al ritiro. Sarà la sua ultima Olimpiade. L’anno successivo (1969) rimane vittima di un incidente stradale nei pressi della sua città. L’opinione pubblica mondiale si mobilita per assicurargli le cure migliori. Ma è tutto vano. L’atleta che aveva stupito il mondo per la sua agilità e resistenza rimane paralizzato dalla vita in giù. Le gambe sulle quali aveva corso il sogno africano non si muovono più. E anche quel sogno, svanite le speranze post-indipendenza, si è ormai trasformato in un incubo fatto di dittature, economie al collasso, stragi, guerre, ingerenze delle multinazionali. Abebe Bikila muore il 25 ottobre 1973 per un’emorragia cerebrale. Aveva 41 anni. •

La gloria e la polvere. Mamo Wolde ha conosciuto tutte e due: la fama di eroe sportivo e la polvere delle carceri. Nato nel 1932 in un piccolo villaggio a Sud di Addis Abeba, rimasto orfano in giovane età, decide di arruolarsi nell’esercito. È un soldato disciplinato e lo promuovono alla corte del negus Hailé Selassié. Tra le guardie imperiali fa amicizia con un ragazzo con la storia simile alla sua e come lui appassionato di sport: un tale Abebe Bikila. Mentre Bikila vince le Olimpiadi di Roma e Tokyo, Mamo colleziona delusioni. Ma nel 1968 a Città del Messico compie un’impresa straordinaria: vince l’ oro della maratona in 2.20’ 26”, in una gara massacrante, ad alta quota e con una temperatura elevata, mentre Bikila è costretto a ritirarsi. Dopo la vittoria rende omaggio all’amico: «Abebe non stava bene. Se fosse stato in forma, non avrei potuto sconfiggerlo». Lasciate le corse all’età di 40 anni, Mamo presta servizio nell’esercito del dittatore Menghistu Hailé Mariam. Proprio come ufficiale si dice partecipi alle dure repressioni degli oppositori. Così, quando il regime del «negus rosso» cade, Mame viene processato e condannato per l’omicidio di un giovane. Lui proclama la sua innocenza, ma non basta. Sconta nove anni in cella. Viene rilasciato solo nel 2001. Mamo Wolde ha 69 anni e soffre di fegato e di bronchite cronica. «Grazie a Dio sono fuori - sono le sue prime parole -. Giuro su Gesù di non aver mai fatto male a nessuno». La sua vita di uomo libero dura quattro mesi e otto giorni. Muore il 28 maggio 2002. Oggi riposa in una tomba a fianco di quella del suo amico Abebe Bikila. (D.M.)

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storia

di Diego Marani

Massaja, missionario e viaggiatore sulle strade dell’Etiopia

IL CARDINALE ESPLORATORE Umile frate cappuccino, infaticabile vescovo italiano, pioniere delle esplorazioni nelle terre più estreme del Corno d’Africa, il cardinal Guglielmo Massaja ha vissuto una vita intensa e avventurosa negli anni difficili del colonialismo 72

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assaja si spostava per l’Etiopia a piedi, spesso scalzo. Camminava con un bastone - a lui particolarmente caro perché arrivava dalla Terra Santa - in maniera semplice, spesso vestendo e mangiando come un africano. Un altro grande vescovo missionario di quei tempi ne rimase impressionato: «Massaja - scriveva Daniele Comboni - stette 15 anni scalzo, senza mai portare né scarpe né calze né sandali, nulla. A me che conosco l’Africa, in cui non vi sono strade, e solo spine e triboli, ciò fa grande impressione».

L’amico di Menelik Lorenzo Antonio Massaja nacque duecento anni fa (8 giugno 1809) in provincia di Asti, da una numerosa famiglia contadina. Il paesino si chiamava Piovà e dal 1940 si chiama Piovà Massaja proprio in suo onore. Dopo essere entrato in seminario, a 17 anni Massaja diventa frate minore cappuccino, prendendo il nome di Guglielmo, e nel 1832 è sacerdote. Dal 1834 al 1836 sarà cappellano dell’ospedale mauriziano a Torino (dove mostra interesse per la medicina), poi docente di filosofia e teologia. Carlo

EXPLORADORES Agli esploratori (che in portoghese significa anche “sfruttatori”), i quali hanno contribuito in maniera decisiva a disegnare le mappe nonché l’immaginario occidentale del “continente nero”, Africa dedica una serie di articoli. Dopo Livingstone, Stanley, Brazzà, Ca’ da Mosto, Ibn Battuta, Alexandrine Tinne, Zheng He, Burton, Speke e i meno celebri viaggiatori italiani, i missionariesploratori in Sudan ed il card. Massaja in Etiopia. Nella prossima puntata presenteremo il principe esploratore: il Duca degli Abbruzzi


Il papa Leone XIII, nel 1884, decise di premiare l’infaticabile frate missionario concedendogli la porpora cardinalizia

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storia

leggere I miei trentacinque anni di missione nell’alta Etiopia (Roma 1885-1895) è il testo autobiografico di Massaja: da cercare in biblioteca. Fra i titoli più recenti sul cardinale, segnaliamo: Tra Africa e Occidente. Il cardinale Massaja e la missione cattolica in Etiopia di Mauro Forno (Il Mulino 2009, pp. 440, € 31); Tanta strada sotto quei sandali di Alessandro Pronzato (Gribaudi 2009); Guglielmo Massaja e il colonialismo italiano di Salvatore Tedeschi, in Servo di Dio Guglielmo Cardinale Massaja dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini a cura di Antonino Rosso (Pinerolo 2003). Sul web visitate il sito www.cardinalmassaja.it

Alberto gli affida l’istruzione religiosa del figlio Vittorio Emanuele, il futuro re d’Italia. Nel 1846 Massaja viene ordinato vescovo per aprire e coordinare le future missioni in Etiopia tra i Galla, popolazione a cui dedicherà tutta la vita, e che oggi è conosciuta come Oromo il termine galla è considerato dispregiativo. Gli Oromo sono un popolo numeroso, diviso in gruppi distinti sparsi non solo nell’Etiopia meridionale ma anche in alcune zone del Kenya settentrionale. Nel 1886 Massaja diventa uno dei più stretti consiglieri di Menelik II, potente nobile locale aspirante al trono d’Etiopia. Un rapporto che durerà una decina di anni.

Medico stregone

Dal punto di vista medico, il nome di Massaja è legato alla lotta al vaiolo. Massaja era favorevole alle vaccinazioni di massa e per questo si era portato i vaccini dall’Europa, deteriorati però nel lungo viaggio. Massaja dovrà usare un “vaccino” estratto localmente dal bestiame ammalato… La campagna di vaccinazione avrà successo ma costerà a Massaja le accuse di essere uno stregone.

Missione e politica Johannes IV - l’imperatore etiope - temendo la crescente influenza di Menelik nel 1879 espelle Massaja dal Paese, ingiungendogli di viaggiare non via mare ma via terra, cioè di passare per Khartoum e scendere il Nilo. Un viaggio

massacrante, soprattutto per un uomo di 70 anni. Massaja abbandona l’Etiopia proprio quando l’Italia intensifica la sua azione coloniale. Nel 1882 le truppe italiane entreranno nella baia di Assab, nel 1885 occuperanno il porto di

Sotto, Firenze, giugno 1886, convento dei cappuccini di Montughi. Massaja, al centro con il bastone. Alla sua destra padre Egidio da Cortona, ex ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini

Da vedere

Abuna Messias di Goffredo Alessandrini è un vecchio film che racconta - in maniera un po’ strumentale - la vita di Massaja: si tratta di un kolossal degli anni Trenta, con imponenti scene di massa, oggi restaurato e disponibile in dvd (distribuzione San Paolo). Ben diverso è invece il documentario Un illustre conosciuto (girato da Paolo Damosso e distribuito da Nova-T) uscito nel bicentenario della nascita. 74

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MASSAJA IN FUMETTI In occasione del bicentenario della nascita del card. Massaja, è stato pubblicato anche un fumetto, Abuna Messias, con sceneggiatura e testi di A. Maraffa e M. Missaglia e illustrazioni di B. Maraffa. L’album coglie graficamente la personalità del Massaja inserendola nel contesto storico e culturale dell’epoca. Un album prezioso ed istruttivo, per ragazzi e adulti. Contattare: centrostudi@cardinalmassaja.it

Il cardinal Massaja e alla sua sinistra monsignor Cocchia, storico dell’Ordine dei Cappuccini ed ex delegato di Santo Domingo

Massaua, nel 1890 arriveranno a controllare l’intera colonia eritrea. La conquista coloniale è interrotta bruscamente nel 1896 dalla disfatta di Adua: una sconfitta vergognosa per Roma, una vittoria epocale per l’Etiopia. Massaja, lo ripetiamo, con tutto questo non c’entra nulla. Eppure la propaganda fascista, che presenterà la guerra e l’invasione dell’Etiopia nel 1935-36 come la rivincita di Adua, cercherà non senza qualche successo di presentare il cardinale come un precursore del colonialismo italiano, una sorte di “padre nobile e buono”.

Un uomo semplice Massaja rimase tra i Galla 35 anni: non in modo continuativo ma con numerosi viaggi (tra cui 8 traversate del Mediterraneo e 12 del

mar Rosso), alcuni pellegrinaggi in Terra Santa e soprattutto una serie di viaggi che hanno compreso

anche catture e prigionie. Dopo aver ormai definitivamente lasciato l’Africa, diventò cardinale nel 1884

Numeri impressionanti Oltre 7mila chilometri percorsi a piedi o sul dorso di asini e cammelli, 36mila persone battezzate, circa 40mila vaccinate contro il vaiolo. Sono i numeri sbalorditivi dell’impegno missionario di Guglielmo Massaja (1809-1889), frate cappuccino di origini piemontesi trapiantato in Etiopia per quasi quarant’anni. Il calcolo è stato effettuato dallo studioso Mauro Forno che ha di recente dedicato all’infaticabile frate il libro Tra Africa e Occidente (Il Mulino, pp. 431, 31 euro).

e morirà nel 1889. Durante la sua vita intensa e avventurosa, Massaja aveva fatto di tutto un po’: dal sarto al calzolaio, dal contadino al diplomatico, dall’infermiere al vescovo. Nel 1851 risalì il Nilo dal Cairo a Khartoum travestito da esploratore… Eppure fino alla fine si è considerato un uomo semplice, umile, francescano di abito e di vita, un «figlio di contadini». • africa · numero 5 · 2010

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togu na - la casa della parola lettere Gli aiuti del Governo I nostri politici al potere dovrebbero vergognarsi: l’Italia è diventato il Paese europeo che dona meno aiuti ai poveri. Il governo di Roma ha ridotto gli aiuti allo 0,20% del PIL: 5 volte meno degli scandinavi, 3 volte meno dei britannici, meno della metà rispetto a francesi o tedeschi. Meno anche dei greci, che pure stanno vivendo una profonda crisi economica. E quest’anno il divario si è allargato: Roma ha tagliato gli aiuti di un terzo, più di tutti, mentre da Parigi, Londra e Bruxelles i fondi aumentavano. E tutto ciò avviene mentre il Premier Silvio Berlusconi, abile parolaio senza vergogna, presiede ai Summit dei paesi ricchi, parlando di “solidarietà internazionale”, “lotta alla fame”, “sostegno allo sviluppo dell’Africa”… Ma chi gli crede più? Eliana Cavestro, Inverigo (CO)

Pane e film Trovo assurdo che in un Paese povero come il Mali, dove metà della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, qualche cineasta-filantropo possa pensare di spendere centinaia di migliaia di dollari per ristrutturare un vecchio cinema ormai in disuso. Va bene la promozione dell’arte e della cultura, ma qui si sta esagerando: il pubblico non si può nutrire di film, ha bisogno di mangiare. Marco Ferrarella, Pistoia 76 africa · numero 5 · 2010

a cura della redazione

Riapriamo i cinema Pochi sanno che i film dei più grandi registi africani non vengono distribuiti e proiettati in Africa. Vengono premiati nei Festival di mezzo mondo, sono diffusi nei cinema d’essai in Europa e Usa. Ma non trovano visibilità nei loro Paesi d’origine. Ben venga, quindi, l’iniziativa di aprire nuove sale cinematografiche nelle grandi città sub sahariane: io che amo il cinema, specie quello emergente, darò il mio contributo tramite il sito che avete segnalato. Giovanna Martinaro, Alba Adriatica (TE)

Adozioni scandalose Dopo 3 anni di attesa, inutile e snervante, io e mio marito abbiamo rinunciato all’opportunità di adottare un bambino in Africa. Intendiamoci, abbiamo passato tutto l’iter del tribunale, per la verifiche psicologiche, legali, economiche. Tutte finalizzate alla salvaguardia dei minori adottabili. Ma poi la nostra pratica - come quella di molte altre coppie - si è impantanata nella burocrazia e nell’inefficienza delle associazioni che pensano solo al business che si cela dietro al mondo delle adozioni internazionali. Iolanda Pes, Cagliari

Carissimo karitè Ho letto il vostro interessante articolo sulla cosmesi africana. Sono da anni una convinta sostenitrice del burro di karitè: lo uso regolarmente per la cura della mia pelle e di quella dei mie figli. I risultati sono eccezionali. Peccato che costi

una fortuna, in erboristeria e in farmacia… Ho l’impressione che dietro il commercio del karitè in Italia ci sia un’ingiustificata speculazione. Sto programmando un viaggio in Mali o Burkina Faso per fare un po’ di scorta: mi verrà a costare di meno. Anna Martino, Reggio Calabria

Vino tanzaniano Ho letto con piacere il vostro articolo sul vino tanzaniano. Mi piacerebbe testarne la qualità, mi potete indicare un punto vendita in Italia? Grazie Enrico Salvion, Vicenza Gentile lettore, può contattare l’azienda vitivinicola di Dodoma tramite www.cetawico.com

Dal Benin Siamo vostri abbonati da tanti anni, e seguiamo con interesse il vostro lavoro, perché riteniamo i contenuti corretti, imparziali, precisi. Siamo un’associazione onlus attiva da 10 anni in Benin, ci occupiamo della salvaguardia culturale di questo Paese, intervenendo anche con azioni di solidarietà come: tutela dell’infanzia, formazione artigianale, difesa dell’ambiente. Vi segnaliamo il nostro sito www.atoutafricanarch.org. Barbara Borgini, via mail

Una firma per i saharawi Scrivo a nome di Western Sahara Resource Watch (Wsrw). Stiamo promovendo una campagna contro l’imminente rinnovo dell’accordo di pesca UE-

Marocco. Le pretese del Marocco sul Sahara Occidentale sono state respinte dalla Corte Internazionale di giustizia, e non sono riconosciute dalle Nazioni Unite. Nonostante questo, l’UE paga milioni di euro ogni anno ad un regime occupante per avere accesso alle risorse del Sahara occidentale, contro l’esplicita volontà dei legittimi proprietari di tali risorse, il popolo Saharawi. Invitiamo a firmare la petizione online per chiedere all’Unione europea di fermare la pesca nei Territori Occupati: www.fishelsewhere.eu Lucia Corridoni, via mail

Solidarietà tra carcerati Sono una vostra abbonata. Da diversi anni mi occupo di detenuti nelle carceri africane: assieme alla Comunità di Sant’Egidio, aiuto a sostenerli con cibo e cure mediche e pagando le spese processuali. L’anno scorso abbiamo lanciato una campagna di solidarietà internazionale in tutti i penitenziari italiani. Con i soldi donati dai detenuti italiani abbiamo già migliorato le condizioni di vita in alcune carceri mozambicane e della Guinea Conakry. Mentre i politici europei si dimenticano dell’Africa, dal carcere giungono preziosi gesti di solidarietà. Giuliana Osella, via mail Prendete anche voi la parola nella “Togu na”. Scrivete a: Africa C.P. 61 24047 Treviglio BG oppure mandate una mail: africa@padribianchi.it o un fax: 0363 48198


n. 5 settembre.ottobe 2010 www.missionaridafrica.org

ALa casa scuola di missione di formazione dei Padri Bianchi in Kenya A Nairobi 28 giovani di nazioni diverse si preparano a diventare missionari. A stretto contatto con la dura realtà delle baraccopoli, per imparare a varcare i confini del mondo

Il quartiere di “South B” a Nairobi è pieno di contrasti. Vi si trovano palazzi e villette, accanto a baracche di lamiera. Qui ha sede una casa di formazione dei Missionari d’Africa (Padri Bianchi). Una struttura di recente costruzione, aperta una decina di anni fa, che ospita 28 seminaristi e 4 padri. I giovani studenti affrontano l’ultimo quadriennio di studi per diventare missionari. All’inizio dell’ultimo anno, pronunciano il giuramento missionario e vengono ordinati

diaconi. E nel contempo hanno l’opportunità di entrare in contatto con le ricchezze e le contraddizioni dell’Africa vera. A “South B” convivono persone che possono permettersi un appartamento moderno, e persone che, avendo un salario bassissimo spesso al di sotto del minimo previsto dalla legge, vivono in tuguri senza luce né acqua. Attraverso la parrocchia locale, i nostri aspiranti missionari hanno l’opportunità di impegnarsi sul territorio, tramite attività di volontariato svolte nelle piccole comunità cristiane del quartiere, nei centri per ragazzi di strada, o nei progetti di formazione per i giovani disoccupati della baraccopoli. Gli studenti devono recarsi ogni giorno al Tangaza College, dove si tengono le lezioni di teologia, una struttura situata ad una quindicina di chilometri dalla nostra casa. Il traffico intenso e piuttosto caotico di Nairobi obbliga gli studenti ad essere mattinieri per arrivare in tempo alla lezioni. Bisogna infatti contare quasi un’ora di strada con i famosi matatu, pulmini da quattordici posti (almeno!) che percorrono

di Luigi Morell la città in lungo e in largo, offrendo un servizio di trasporto pubblico a basso costo. L’inconveniente è che, essendo privati, i prezzi e le destinazioni cambiano un po’ secondo la volontà del conducente e bigliettaio…! Oltre al corso di teologia, il Tangaza College offre altre possibilità quali un centro di studi africani, corsi per comunicazioni sociali, pedagogia, catechesi e pastorale giovanile. Sul migliaio di studenti iscritti quest’anno al College, circa 500 tra seminaristi, suore e laici frequentano il corso di teologia. Studenti e docenti provengono da diverse nazioni dell’Africa. I candidati alla vita missionaria devono abituarsi a vivere con confratelli di culture molto diverse. Questo è indubbiamente una ricchezza. Ma richiede flessibilità e molta buona volontà. Anche lo sfondo religioso è diverso. Tanti provengono da famiglie che sono cristiane da generazioni. A volte i loro papà sono

Prestazione del giuramento missionario di alcuni candidati Padri Bianchi

padri bianchi . missionari d’africa

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catechisti o maestri di scuola. Altri, invece, provengono da famiglie non cristiane.

Uno studente, ordinato sacerdote un paio di anni fa, era di famiglia musulmana. A 15 anni ha sentito la chiamata a diventare cristiano e missionario! L’internazionalità e l’interculturalità sono un dono dello Spirito Santo che aiuta la Chiesa, e le Chiese tutte, a vivere il mandato del Cristo risorto di annunciare il vangelo a tutti e in tutti i luoghi e tempi. Questa presa di coscienza, latente da sempre nella Chiesa e nel mondo e forse alla quale oggi siamo diventati più attenti, ha delle conseguenze su come si svolge l’attività missionaria. L’internazionalità del

Burkina Faso

personale porta allo scambio. Se fino ad un passato recente la missione partiva principalmente dall’Europa e America del Nord verso gli altri continenti, ora il personale missionario è di origini più variegate. Nel campo della missione e nella vita degli Istituti missionari i confini di Stato hanno perciò valenza molto relativa. A tutti, però, viene chiesto un tempo di adattamento e di studio per entrare nel vivo della cultura e della storia della gente a cui siamo inviati. Un passaggio obbligato per imparare a varcare senza paura i confini del mondo.

testo di Maurice Oudet foto di Andreas Gopfert

Tutto il mondo in una bottega

Vorrei invitarvi oggi a visitare la bottega di Madame Kaboré, in un quartiere di Koudougou, la terza città del Burkina. Entriamo. In sé, la bottega non ispira troppa fiducia e passa facilmente inosservata. Eppure, se vi prendete la briga di guardare la merce esposta e di leggerne le etichette, resterete sorpresi: nello spazio di neanche un’ora e di qualche metro quadrato, potete fare il giro del mondo.

Maurice Oudet, Padre Bianco francese, si occupa di informazione e formazione nel mondo rurale.In queste poche righe ci descrive la globalizzazione vissuta in un negozietto nel cuore del Burkina Faso.

Che cosa vediamo? Scatole di sardine del Marocco, marmellata che viene dalla Francia (fragola e pesca), altra marmellata fatta in Burkina (mango, ananas e guaiava), riso tailandese (di qualità) e cuscus tunisino: 5 Paesi di 3 continenti diversi

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In un altro scaffale, vicino a della pasta proveniente dal Ghana, intravediamo dei pacchetti di zucchero di canna del Burkina Faso e pasta della Costa d’Avorio e del Togo. Sotto la pasta, ci sono delle scatolette di concentrato di pomodoro. Tutte di marca italiana, ed effettivamente sono inscatolate in Italia. Il concentrato, però, viene importato dalla Cina in barili di 200 litri stivati in container. La ditta italiana ha preferito delocalizzare la produzione in Cina, dove la manodopera è meno cara… Vicino a sacchetti di sale di provenienza sconosciuta, troviamo diversi tipi di aceto burkinabè e una bottiglia di aceto di alcool colorato, importato dalla Francia. Sotto si scorge appena appena del latte in polvere “Bonnet Rouge”, olandese; poi dell’olio di palma della Costa d’Avorio, olio di cotone “Savor” della Snctec, una filiale della società cotoniera Sofitex (Burkina Faso). Su questi bidoni d’olio, a partire dall’anno prossi-

mo, si dovrebbe poter leggere «Garantito 80% Ogm».Infine, ancora olio di palma della Costa d’Avorio e olio d’oliva importato dalla Francia. Si vedono diversi sacchetti di latte in polvere, alcuni dei quali senza marca. Più che “latte in polvere”, dovremmo chiamarlo “polvere di latte”... Si tratta di latte dove talvolta la panna è stata sostituita con grassi vegetali. Il latte arriva in sacchi di 25 chili e confezionato in sacchetti dal rivenditore. Vediamo quindi il famoso latte “Nido”, della Nestlé, poi il latte “Viva Lait” della Candia, Francia. C’è del patè della Danimarca con altri tipi di patè di pollo provenienti da Stati Uniti, Francia e da altri Paesi. Vediamo poi delle scatolette di sardine e di sgombro in salsa di pomodoro prodotte in Thailandia e in Ghana. Nel ripiano inferiore, margarina olandese e del Ghana, maionese americana, francese e olandese, come pure la senape. Infine, troviamo del tè dello Sri Lanka, pata-

tine cinesi, cioccolato della Costa d’Avorio e della Turchia, biscotti provenienti da Paesi disparati: Emirati Arabi, India, Malesia, Francia, Turchia. Ma non ci sono biscotti burkinabè, neanche a base di mais o di riso!

Qualche riflessione

Che cosa dedurre da questa breve visita? Una prima osservazione: gli effetti della globalizzazione sono ben presenti In un negozietto di un qualunque quartiere, abbiamo trovato prodotti che provengono da 28 Paesi: 7 asiatici; 6 europei; 6 dell’ Africa occidentale; 6 del resto dell’Africa; 3 americani. Sorge anche qualche interrogativo. Solo sette prodotti burkinabè: va già molto meglio di qualche anno fa, quando a Lomé non trovavi nessun prodotto togolese e assolutamente nulla del Benin a Cotonou. Ma perché, mi chiedo, non troviamo del riso burkinabè quando quello della regione di Sourou è buono quanto quello importato dalla Thailandia e costa la metà? Il governo ha annunciato la creazione di una fabbrica di trasformazione di pomodori. Benissimo. Ma ci vogliono anche delle misure accompagnatorie. Per esempio, il concentrato di pomodoro importato dovrebbe essere tassato al 35%, come previsto dal Tec (Tarif Extérieur Commun) che definisce i diritti di dogana dell’Africa occidentale. Altrimenti anche la nuova fabbrica rischierà il fallimento, come già successo ad altre. I consumatori e gli agricoltori dovrebbero unirsi per esigere una vera politica agricola e alimentare. È il solo mezzo per proteggersi da prodotti di pessima qualità e sviluppare un’industria di trasformazione dei prodotti locali.

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Kenya

Un camioncino per St. mary a mUkUrU

SOLIDARIETà

I progetti sostenuti da Africa 1-10 RD Congo Sostegno al Centro nutrizionale di Kisenso Referente: padre Italo Iotti Raccolti al 30/06/2010: 20.000 euro

4-10 Mali Una motozappa a Kolongotomo Referente: padre Alberto Rovelli Raccolti al 30/06/2010: 700 euro

5-10 Mali Sostegno al Centro di formazione di laici Referente: padre Arvedo Godina

6-10 Burkina Faso Dori - Il mulino della speranza Referente: padre Pirazzo Gabriele Raccolti al 30/06/2010: 35 euro

7-10 Borse di Studio Per studenti Padri Bianchi La situazione

Mukuru è una baraccopoli sita tra l’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta ed il centro di Nairobi. La popolazione proviene da tutti i gruppi etnici del Kenya ed è costituta da operai non specializzati con salari molto bassi (40/60 euro al mese) che devono accontentarsi di una baracca dove acqua, luce, servizi igienici restano un sogno. E quando il sogno si fa accessibile, è spesso per vie illegali: connessioni abusive, senza sicurezza alcuna. Il precariato regna sovrano, senza alcuna copertura sociale o assicurativa: il lavoratore può essere licenziato da un momento all’altro e gli incidenti sul lavoro sono frequenti. Le cure mediche sono limitatissime e la scolarizzazione è ridotta a qualche anno. La promiscuità, poi, innalza il tasso di HIV/AIDS Qui, la parrocchia di St Mary’s si sforza di

animare sei centri localizzati nelle varie sezioni della baraccopoli. Provvede all’assistenza spirituale della popolazione cattolica piuttosto numerosa e promuove opere sociali, formative ed educative aperte a tutti senza discriminazione alcuna.

Referente: padre Luigi Morell Raccolti al 30/06/2010: 2.081 euro

La richiesta

9-10 Mozambico Centro Angeli innocenti

I sei centri si trovano in zone con strade sterrate e in pessime condizioni, soprattutto quando piove. Per raggiungerli e portarvi il materiale scolastico e le vettovaglie (le scuole offrono un pasto al giorno ai bambini) ci vorrebbe un camioncino doppia cabina. Questo permetterebbe anche il trasporto degli ammalati quando è necessario un ricovero. Il costo preventivato si aggira sui 25.000 euro. Africa lancia un appello ai suoi lettori anche per questo progetto.

Francobolli per le missioni Raccogliamo francobolli usati. Inviare a: P. Sergio Castellan Padri Bianchi

Casella Postale 61,

24047 Treviglio (Bergamo)

80 africa · numero 5 · 2010

8-10 Congo Rcostruzione maternità Aboro Referente: padre Pino Locati

Referente: padre Claudio Zuccala

12-10 Kenya Un camioncino per St. Mary Referente: padre Luigi Morell

Grazie a tutti per l’aiuto Come contribuire? • Usando il CCP 67865782 allegato alla rivista • Bonifico bancario intestato a Missionari d’Africa IBAN: IT93 T088 9953 6400 0000 0001 315 • Assegno non trasferibile intestato a Missionari d’Africa

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informazioni

Dacci oggi la nostra acqua quotidiana Un vescovo in Patagonia a difesa del creato Dacci oggi l’acqua quotidiana è la lettera pastorale che mons. Luis Infanti ha dedicato all’oro blu e ai “profondi motivi e interessi sociali, etici, politici, religiosi, culturali, economici” che si intrecciano attorno a questo indispensabile elemento. Un j’accuse alla privatizzazione e alla mercificazione dell’acqua, che nella diocesi di Aysén, in Patagonia, si traduce in un drammatico progetto di cinque grandi dighe. Vi è coinvolta anche l’italiana Enel. di Luis Infanti de la Mora, pp. 128, 10 euro. Ediz. EMI-Bologna - www.emi.it

Il Ventre del pitone «Sentivo che con il salto che stavo per compiere iniziava il lungo percorso della mia vera vita. Confusamente, percepivo forse di non essere più la ragazzina che ero stata». - Basato su una storia vera, Il ventre del pitone è il romanzo di Cunégonde, una giovane donna che lascia la natia Costa d’Avorio per l’Europa. Quando sbarcherà a Palermo, dopo un lungo itinerario attraverso l’Africa occidentale, sarà già madre. In Italia troverà marito e una sistemazione, oltre che una nuova figlia. Ma, quasi d’un tratto, il matrimonio salta... di Barnabà Enzo, pp. 192, 12 euro. Ediz. EMI-Bologna - www.emi.it

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