AFRICA N. 1 GENNAIO-FEBBRAIO 2016 - ANNO 95
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Il futuro abita qui
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Sommario COPERTINA 38 Benin,
bambini di legno
ATTUALITÀ 6
4 Panorama
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Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo
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Ritorno a Mogadiscio
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«Il terrorismo è colpa vostra»
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Nel sangue diverrai donna
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Ghana, il futuro abita qui
24 LO SCATT O
Voglia di volare
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Plinio il Vecchio (I secolo d.C.)
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Enrico Casale PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA
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SOCIETÀ 26 Sudafrica.
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Sogni sulle punte
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Ruanda. I postini volanti
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Kung Fu Kampala
Claudia Brambilla
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Etiopia, regina di fiori
EDITORE
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Un’esplosione di colori
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SPORT Il derby di Soweto
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CULTURA L'ultimo imperatore
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Jona - Paderno Dugnano, Milano
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Nairobi Style
LO SCATT O Karma e sangue freddo
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RELIGIONE Il viaggio di Francesco
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RELIGIONE Desmond Tutu
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Periodico bimestrale - Anno 95 gennaio-febbario 2016, n° 1 Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 SEDE
Viale Merisio, 17 C.P. 61 - 24047 Treviglio BG 0363 44726 0363 48198 Africa Rivista @africarivista www.africarivista.it info@africarivista.it UN’AFRICA DIVERSA La rivista è stata fondata nel 1922 dai Missionari d’Africa, meglio conosciuti come Padri Bianchi. Fedele ai principi che l’hanno ispirata, è ancora oggi impegnata a raccontare il continente africano al di là di stereotipi e luoghi comuni. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la rivista e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 196 del 30/06/2003 - tutela dei dati personali).
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La misura della felicità Come si valuta la salute di un Paese? I maestri del mestiere mi hanno insegnato a consultare i report del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In quelle colonne di dati statistici un tempo cercavo di capire come stava la nazione che mi apprestavo a visitare. Ma con il passare degli anni ho cominciato a diffidare dei numeri o, meglio, ho imparato a non considerarli l’unico metro di misura del benessere. Prendiamo l’esempio dell’ultimo viaggio fatto poche settimane fa in Ghana. Gli studi dicono che il Pil stia correndo: +5%. Ma in Ghana ho capito che quella crescita è gonfiata dalle esportazioni (petrolio, cacao e oro) e che l’economia locale – quella delle imprese, dei servizi, delle attività commerciali – avanza con più difficoltà. Prima di partire avevo letto dati allarmanti sulla disoccupazione giovanile, ma non ho visto un solo ragazzo ghanese passare il tempo con le mani in mano: il cosiddetto settore informale, quello dei lavori a giornata, non rientra nelle statistiche pur sfamando una larga parte della popolazione. I numeri non spiegano tutto, ma possono aiutare a capire. Basta saperli interpretare. Per valutare la salute di un Paese, io utilizzo una mia personale unità di misura: il sorriso orario (in breve: Sm/h, dove “Sm” sta per “smile”). Come funziona? Semplice: quando mi trovo su un taxi o su un pullman e attraverso una grande città (per esempio nel tragitto da e per un aeroporto o una stazione), guardo fuori dal fine-
strino e conto i sorrisi che vedo per strada nell’arco di un’ora (la durata media di un trasferimento nelle congestionate metropoli africane). Ai fini del rilevamento non importa il motivo per cui la gente sorride: l’importante è che lo faccia. Ovviamente è una misurazione imprecisa, soggetta a errori e omissioni. Non ha alcun valore scientifico. Ma, per quanto mi riguarda, non è meno interessante di un dato macroeconomico. Per le strade di Accra, capitale del Ghana, ho contato un numero impressionante di sorrisi: ben trentotto (a Milano, quando sono tornato a casa, ne ho visto solo uno – ma forse era colpa della nebbia). È il record assoluto da quando ho cominciato a prendere nota dei valori di Sm/h nei Paesi africani. Ricordo nitidamente l’allegria contagiosa di alcune scene che ho osservato per le strade di Accra: la venditrice di banane arrostite che scherzava coi clienti, la coppia di fidanzati che flirtava su una panchina, tre vecchietti seduti ad un chiosco che si davano amichevoli pacche sulle spalle, una mamma che giocherellava con due bambini, un uomo d’affari in giacca e cravatta che scherzava con il garzone di un’officina meccanica. Avevo in mente quei sorrisi, segni di vitalità e buonumore, quando ho deciso di cambiare il titolo al reportage che pubblichiamo in questo numero. Avrebbe dovuto essere “Ghana, il miracolo dimezzato”. Ma ho preferito un titolo decisamente più ottimista: lo trovate a pagina 18. Marco Trovato
RICEVI AFRICA A CASA La rivista (6 numeri annuali) si riceve con un contributo minimo suggerito di: · rivista cartacea (Italia) 30 € · formato digitale (pdf) 20 €/Chf · rivista cartacea (Svizzera): 40 Chf · rivista cartacea (Estero) 45 € · rivista Cartacea+digitale (Italia): 40 € · rivista Cartacea+digitale (Svizzera): 50 Chf · rivista Cartacea+digitale (Estero) 55 €
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Ahmed al-Tayeb Imam egiziano della moschea di al-Azhar, principale istituzione dell’islam sunnita, ha condannato il jihadismo invitando a distinguere «l’islam [da] una piccola minoranza che non rappresenta nulla»
Abdul Qadir Mumin Leader militare e spirituale di al-Shabaab, il movimento jihadista somalo, ha giurato fedeltà all’Isis inasprendo ancora di più la lotta contro il governo di Mogadiscio
4 africa · numero 1 · 2016
KENYA, MURO ANTITERRORISMO Il Kenya ha iniziato la costruzione di un muro lungo 700 chilometri lungo il confine con la Somalia. L’obiettivo è bloccare i combattenti di al-Shabaab che hanno ripetutamente attraversato la frontiera per compiere attentati che, negli ultimi due anni, hanno fatto 400 vittime. Il
muro di mattoni e posti di osservazione si estenderà da Mandera a nord fino a Kiunga nel sud.
SALVIAMO LA BIBLIOTECA ASHANTI Si chiama «OneGhana» la raccolta fondi lanciata dalla giornalista Fremah Boakye per salvare la Bilioteca Ashanti, la più antica del Ghana. Nata nel 1951, la biblioteca conserva volumi sull’Impero ashanti e sulle guerre ottocentesche con gli inglesi. Negli ultimi anni, però, locali e libri hanno subito un degrado inesorabile. Da qui l’idea di una rac-
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SENEGAL, DUELLI IN CARCERE «La liberté en prime» è l’ultimo documentario del regista francese Nils Tavernier e racconta l’esperienza di un carcere minorile in Senegal dove i detenuti praticano la scherma (disciplina importata dai colonizzatori francesi) come forma di rieducazione. A Dakar hanno sede diversi club di schermidori e la storica
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a cura di Enrico Casale NEWSNEWS
colta fondi per recuperare questo patrimonio.
L’ETIOPE DIBABA ATLETA DELL’ANNO Genzebe Dibaba è stata eletta atleta dell’anno dalla Iaaf (Federazione internazionale di atletica). Etiope, Genzebe Dibaba, dopo aver migliorato il primato mondiale dei 5.000 m indoor (14’18”86), ha stabilito il nuovo record nei 1.500 m (3’50”07).
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École Internationale des Maîtres d’Armes, l’unica scuola di formazione africana per maestri d’armi. MAROCCO, GREEN ECONOMY Nel 2016 riprenderà la costruzione (ora bloccata per mancanza di fondi) del parco eolico di Khalladi in Marocco. Questa centrale, insieme ad altre simili (tra le quali quella solare di Ouarzazate
inaugurata a novembre), permetterà a Rabat di coprire, entro il 2020, il 42% del fabbisogno con fonti rinnovabili. COCAINA DALL’AFRICA
Secondo i dati dell’Undoc (l’agenzia Onu che si occupa di stupefacenti e criminalità), nel 2015 sono transitate per l’Africa occidentale fra le 35 e le 40 tonnellate di cocaina destinate all’Europa. I principali corridoi della droga si trovano in Guinea-Bissau, Senegal, Mauritania, Algeria e Marocco.
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LA FRASE
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L’impegno della mia famiglia per affermare in Gabon una vera democrazia ha sempre guidato la nostra politica
BURKINA FASO, SI SVOLTA? Nel 2015, a causa dell’instabilità politica, l’economia del Burkina Faso ha rallentato. Ma, secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2016 il Pil tornerà a crescere del 6-7%... se il nuovo presidente Roch Marc Christian Kaboré, salito al potere a dicembre, saprà mantenere la pace. CORRUZIONE DILAGANTE Secondo uno studio congiunto di Transparency International e Afrobaro-
125milioni il numero stimato delle spose bambine africane. Secondo l’Unicef, raddoppierà entro il 2050. In Africa centrale e occidentale il 42% delle ragazze minorenni sono costrette a subire un matrimonio combinato dalle famiglie.
Ali Bongo, presidente dal Gabon dal 2009 e figlio di Omar Bongo, a sua volta presidente dal 1967 al 2009 meter, almeno 75 milioni di africani hanno pagato una tangente nel 2015. I dirigenti di polizia sarebbero i principali corruttori, gli uomini d’affari le vittime più colpite. Il Paese più interessato dalla piaga della “mazzetta” è la Liberia, dove, si stima, sette persone su dieci hanno pagato una bustarella. SUDAFRICA, OTTIMA VENDEMMIA La vendemmia 2016 in Sudafrica sarà caratterizzata da un calo della produzione di vino, che però sarà di buona qualità. Lo sostiene VinPro, l’associazione dei viticoltori, secondo la quale il caldo della primavera e dell’estate 2015 ridurrà la
quantità di uva. La qualità del raccolto sarà invece buona, perché la stagione secca ha, in parte, messo l’uva al riparo da funghi e parassiti. ZAINI SOLARI
Solar BackPack è uno speciale zainetto per scuola brevettato da una studentessa keniota, Salima Visram. Dotato di un minipannello solare, di una batteria e di una lampada led, permette agli alunni di procurarsi l’energia elettrica indispensabile per poter studiare a casa dopo il tramonto. Quattro ore di cammino sotto il sole consentono di immagazzinare l’energia per sette ore di luce: un’alternativa ecologica e allo stesso tempo economica (trenta dollari) rispetto al kerosene, impiegato oggi da circa il 92% delle famiglie nelle aree
rurali del Kenya. I primi 500 zaini sono stati forniti agli allievi della scuola elementare di Kikambala, a Mombasa. ALGERIA, ECONOMIA IN CRISI Nel 2016 l’Algeria sarà duramente colpita dalla caduta dei prezzi del petrolio che, insieme al gas, fornisce il 98% delle entrate in valuta estera del Paese. Secondo il governo di Algeri, i proventi toccheranno i 26,4 miliardi di dollari contro i 33,8 del 2015. Questa crisi porterà anche a un crollo delle riserve in moneta estera, da 151 miliardi del 2015 a 121 nel 2016. Ciò permetterà all’Algeria di avere importazioni garantite per soli 23 mesi.
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ATTUALITÀ testo di Daniele Bellocchio - foto di Marco Gualazzini
Ritorno a Mogadiscio
6 africa · numero 1 · 2016
REPORTAGE DALLA CAPITALE SOMALA, DEVASTATA DA VENTICINQUE ANNI DI GUERRA, ALLA DISPERATA RICERCA DI NORMALITÀ
La Somalia prova a risorgere dalle macerie. I mercati riprendono a funzionare, i locali tornano ad affollarsi, gli imprenditori rientrano dall’estero. Ma la rinascita è ostacolata dai miliziani jihadisti che seminano morte e terrore Un’esplosione e poi, immediata, un’altra deflagrazione. Qualche istante ed ecco le raffiche di kalashnikov e delle mitragliatrici echeggiare per le vie della capitale somala. Un commando di al-Shabaab, nel centro di Mogadiscio, assalta il Sahafi Hotel. I combattimenti proseguono per ore, intervengono gli uomini dell’esercito somalo e pure il contingente dell’Unione Africana. I terroristi si appostano sul tetto, agli ingressi, la battaglia perdura. Le urla di resa s’infrangono contro un muro di Allahu Akbar,
quelle di pietà invece non hanno nemmeno il tempo di levarsi. Lo scontro insiste in un luogo simbolo della testimonianza del conflitto in Somalia. Il Sahafi Hotel era infatti l’albergo che ospitava i giornalisti durante gli anni Novanta: la terrazza accoglieva le telecamere delle televisioni internazionali, era la finestra dalla quale il mondo si affacciava sulla guerra. Oggi, invece, le cineprese sono puntate verso quella terrazza perché nell’ex colonia italiana sono cambiati gli attori, le
◀ I giovani di Mogadiscio hanno ricominciato a giocare a pallone sulla spiaggia del Lido Beach, sfidando le rigorose proibizioni imposte dagli integralisti del gruppo al-Shabaab
▼ Bambini somali imparano a nuotare in un centro di formazione alla pesca allestito dall’Unicef nella regione sudorientale di Banaadir, quella dove sorge la capitale Mogadiscio
africa · numero 1 · 2016 7
Bosaso
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ETIOPIA
KENYA
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MOGADISCIO Jamame Kismayo
parti in causa: dai signori della guerra agli islamisti di al-Shabaab, dalle truppe internazionali al contingente dell’Unione Africana, ma la tragedia, nella sua ontologia primaria, fatta di morti e feriti, è rimasta immutata. Dopo ore di colpi ed esplosioni all’interno del Sahafi il bilancio parla di quindici morti, tra cui un giornalista della televisione qatariota Al Jazeeera e il suo operatore, l’ex generale delle forze armate somale e un membro del Parlamento. È solo l’ultima delle azioni eclatanti condotte dai terroristi di al-Shabaab; nei mesi antecedenti ci sono state le autobombe contro il palazzo presidenziale, l’esplosione con un camion imbottito di tritolo al Jazeera Hotel e i combattimenti quotidiani con le truppe Amisom, il contingente Onu di peacekeeping, che han8 africa · numero 1 · 2016
SOMALIA no dichiarato di aver perso più di mille uomini dal 2009 ad oggi. Guerra e pace Le strade di Mogadiscio sono un susseguirsi di check-point. Le “tecniche”, jeep con montate mitragliatrici anticarro sul cassone, come ai tempi dei signori della guerra Aidid e Ali Mahdi, sono tornate a presidiare la città. Ad ogni incrocio, accanto a muri sforacchiati dai colpi di mitragliatori e lanciarazzi, oppure vicino ai cantieri che negli ultimi anni sono stati aperti, ci sono drappelli di militari coi fucili a tracolla e le guance gonfie dal qat, foglioline con proprietà psicotrope masticate per combattere la fame e avere uno stato di perenne eccitazione. La tragedia infinita sembra non voler abbandonare la Somalia. Tuttavia, nonostante le
problematicità titaniche, la società civile mostra una volontà di rinascita autentica, un’esigenza primaria di cambiamento di uno stato delle cose che ha imposto la violenza come unica legge e la morte come ventennale tutrice dell’ordinario. Tuffi di libertà Sul lungomare di Mogadiscio le immagini del conflitto si scostano, lasciando lo sguardo libero di penetrare nel desiderio di cambiamento somalo. Gruppi di donne passeggiano in spiaggia, indossando niqab e hijab, ma è religione, non imposizione teocratica. La libertà è manifesta nei tuffi, nei bagni tra le onde e nelle chiacchierate sugli scogli. Ci sono uomini che prestano giubbotti di salvataggio e insegnano ai più giovani a nuotare. Ci sono risate e partite di pallone. Da un lato il mare, dall’altro i ristoranti; e poi l’eloquenza della transizione: all’ombra di un muro che porta impressi i segni dei combattimenti, un gruppo di ragazzi gioca a dadi e Abdulaziz Ahmed, su una sedia a rotelle per una scheggia che l’ha colpito alla schiena sei anni fa, ripara biciclette e le noleggia ai bambini della capitale, facendo così conoscere loro il sogno di un avvenire diverso. Proseguendo poi dal lido verso il centro città, si trovano mercati, negozi, incontri sportivi negli stadi, e la sera non mancano i locali dove la gioventù somala si ritrova a fumare narghilè,
ascoltare musica e fare le prove di una pièce teatrale. Reporter valorosi In prima linea nel raccontare il cambiamento in atto ci sono i giornalisti somali. «Solo diffondendo notizie, denunciando le problematicità, può esserci una trasformazione radicale. Occorre uscire dall’oscurantismo con la conoscenza e ricostruire con il sapere l’avvenire di questo Paese». A parlare è il vicedirettore di Radio ▶ Uno scorcio del mercato centrale di Baidoa, una delle più importanti città della Somalia, tornato a essere popolato come una volta ▶ Abdalla Ali, rifugiato yemenita, con moglie e due figli: fuggiti in Somalia, a Bosaso, nel 2015 in seguito alla guerra civile che ha sconvolto lo Yemen. «La nostra casa è stata distrutta», racconta. «Siamo fuggiti tra le bombe. Abbiamo perso tutto» ▶ Due pescatori impegnati a riparare le reti al porto di Mogadiscio. I pescherecci stranieri saccheggiano illegalmente le ricche acque somale (frequentate anche da mercanti di droga e di armi) ▶ Giovani di Mogadiscio impegnati ad una partita di mancala, un gioco simile alla dama. Anche se l’incubo degli attentati è costante, emerge la volontà della popolazione di riappropriarsi del domani ▶ Nei pressi di una moschea a Mogadiscio due donne compiono le abluzioni – ovvero il lavaggio rituale di mani, piedi e volto a scopo di purificazione spirituale – prima della preghiera pomeridiana. La gran parte della popolazione somala professa un islam rigoroso ma tollerante
ATTUALITÀ di Meeri Koutaniemi
Nel sangue Nei villaggi masai di Kenya e Tanzania le bambine devono subire l’escissione dei genitali femminili. Un rituale cruento e pericoloso, cui è necessario sottoporsi per essere considerate vere donne
Isina e Nasirian (nomi di fantasia) sono due sorelle gemelle di 14 anni, vivono in un villaggio masai in una zona remota del Kenya. Come tutte le bambine della loro età, si sono dovute sottoporre all’emuatare, il rito femminile di passaggio all’età adul-
ta: l’escissione dei genitali femminili. Il reportage che pubblichiamo in queste pagine, realizzato da una reporter freelance finlandese, documenta e denuncia questa cruenta pratica tradizionale, che consiste nel taglio netto del clito-
IL REPORTAGE CHE DOCUMENTA E DENUNCIA IL SANGUINOSO RITO DI PASSAGGIO ALL’ETÀ
ride e delle piccole labbra da parte di un gruppo di donne anziane armate di coltelli e lamette. È un rituale pericoloso, ma ritenuto ineluttabile dalla comunità: solo colei che è “circoncisa” viene considerata donna, può sposarsi e fare figli.
ADULTA PER LE BAMBINE MASAI
Tre milioni a rischio Le mutilazioni genitali femminili (Mgf) vengono eseguite principalmente in 28 Paesi dell’Africa subsahariana e danneggiano fortemente la salute psichica e fisica di bambine e ragazze. L’Organizzazione Mondiale della Sa-
Isina e Nasirian, sorelle masai, qui fotografate il giorno prima di sottoporsi all’emuatare, il sanguinoso rito di passaggio all’età adulta per le femmine. L’indomani mattina subiranno il taglio dei genitali poiché risultano promesse spose per l’anno venturo. La circoncisione delle ragazze è illegale in Kenya dal 2001, ma tra alcune tribù, come i Masai, è una tradizione ancora diffusa
14 africa · numero 1 · 2016
ATTUALITÀ di Marco Trovato
Ghana, il futuro abita qui Il castello di Elmina fu costruito dai portoghesi nel 1482 sulle coste dell’attuale Ghana. Durante i secoli della tratta venne usato per imprigionare migliaia di uomini, donne e bambini destinati a essere imbarcati sulle navi negriere. Oggi è un’attrazione turistica protetta dall’Unesco
18 · numero 1 · 2016 Svenafrica Torfinn/Panos/Luz
REPORTAGE DALLA NAZIONE SIMBOLO DEL RISCATTO DELL’AFRICA, TRA OPPORTUNITÀ DI BUSINESS E PROBLEMI IRRISOLTI
È un modello di sviluppo. Esporta cacao, oro e petrolio. Gode di stabilità e democrazia. Ha una popolazione giovane e intraprendente. Ma in tanti restano tagliati fuori dal boom economico e si affidano ai profeti cristiani che promettono miracoli Il pastore Joseph Doak, “infallibile messaggero dei cieli”, garantisce la salvezza eterna. Il reverendo John Mason, “prediletto del Signore”, dispensa solenni benedizioni per sconfiggere il male. L’apostolo Chris Vainner, “inviato speciale del Messia”, custodisce la chiave della santità. Sua Eminenza Patrick Rushton, “ambasciatore del Redentore”, ha la speciale missione di spezzare le catene degli oppressi. Le strade di Accra, capitale del Ghana, sono tappezzate di manifesti che annunciano raduni e veglie di preghiera al cospetto di autoproclamati profeti di Cristo. Sono predicatori locali, esorcisti nigeriani, santoni sudafricani, prelati statunitensi di sette evangeliche, apocalittiche e pentecostali. Impossibile contarli. I loro ritratti austeri, i loro sguardi sornioni, campeggiano ad ogni incrocio. Ai devotissimi seguaci che li sovvenzionano promettono un futuro di prosperità. Il business della fede muove enormi quantità di denaro. Ma non è per via del misticismo che dilaga tra religione e marketing se il Ghana è diventato uno dei simboli del “miracolo africano”. L’economia, di-
cono le statistiche, corre: il Pil quest’anno crescerà del 5 per cento. Un trend che dura da oltre cinque anni, grazie alla stabilità politica e all’export triplicato fino a 15 miliardi di dollari. Il peso della storia Un tempo, da questa regione gli europei saccheggiavano oro e schiavi. La costa affacciata sul Golfo di Guinea è disseminata ancora oggi di fortezze che per cinquecento anni hanno difeso gli interessi commerciali – o meglio, le rapine e i soprusi – dei conquistatori bianchi: olandesi, svedesi, portoghesi, francesi e inglesi, uniti dalla brutale volontà di razziare il territorio, allora conosciuto come Costa d’Oro. Nei castelli di Elmina e Cape Coast, monumenti dell’umanità protetti dall’Unesco, si possono visitare le celle buie e maleodoranti in cui venivano ammassati come bestie – dopo essere stati picchiati, incatenati e marchiati a fuoco – miriadi di uomini, donne e bambini destinati a essere imbarcati sulle navi negriere. La tratta degli schiavi ebbe conseguenze economiche e sociali devaafrica · numero 1 · 2016 19
▲ Pesca collettiva nel piccolo villaggio di Aflasco, non lontano dal confine con il Togo ▲ La più antica moschea del Ghana: costruita col fango nel 1421, nella città di Larabanga. Il nord del Paese è abitato in maggioranza da musulmani, mentre il sud è popolato soprattutto da cristiani
stanti. Intere generazioni produttive furono strappate con la forza da questa regione fertile. Con il nome di Ghana, quello di un antico e plurisecolare impero, florido e potente – localizzato tra gli odierni Mali e Mauritania –, fu battezzato il primo Paese dell’Africa subsahariana a conquistare l’indipendenza, nel 1957. Le speranze che quell’evento aveva suscitato nel mondo nero avevano cominciato ad
affievolirsi già prima del 1966, quando il presidente Kwame Nkrumah, padre nobile della patria e profeta del panafricanismo, fu deposto con un golpe militare. Seguirono decenni tormentati, un susseguirsi di colpi di Stato, violenze, disordini, regimi autoritari. L’ora della svolta Acqua passata: dal 2000 si tengono elezioni libere. Quindici anni di sta-
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bilità e democrazia hanno permesso di imboccare la strada dello sviluppo. Il Ghana non viene più considerato un Paese povero: per la comunità internazionale fa parte delle “nazioni a medio reddito”. Affaristi occidentali, cinesi e indiani si sono riversati come api sul miele per sfruttarne le enormi ricchezze naturali: cacao, legname, petrolio, gas, pietre preziose, pesce e frutta tropicale. Secon-
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Sogni sulle punte
La stella del Joburg Ballet, Kitty Phetla, aspetta di esibirsi in una classe della scuola primaria Shalomanne, a Soweto 26 africa · numero 1 · 2016 Afp Photo / Marco Longari
IN SUDAFRICA I GIOVANI FUGGONO DALLA POVERTÀ
Dal degrado delle township ai più prestigiosi teatri del mondo: è il sogno di migliaia di ragazze e ragazzi sudafricani. E a volte il ballo classico può davvero cambiare la vita…
E DALLA VIOLENZA A PASSO DI DANZA
È sabato. Il sole sta tramontando sulle baracche di Khayelitsha, sobborgo alle porte di Città del Capo. Sikhumbuzo Haleni percorre esausto la strada verso casa. Ha i quadricipiti dolenti, le gambe pesanti. È appena sceso dal pullman proveniente dal centro cittadino. Un’ora di viaggio all’andata e una al ritorno per partecipare alle lezioni di danza classica presso il Cape Town City Ballet. Figlio di una famiglia povera, 15 anni, nero, ha sgambettato tutto il pomeriggio insieme a una massa di ragazzine bianche e benestanti avvolte in tutù color pastello. Sikhumbuzo sogna di diventare un ballerino professionista e niente lo può fermare. Gli sfottò dei coetanei che giocano a calcio e gli sguardi altezzosi delle ballerine dell’acca-
demia non lo intimoriscono. Si allena tutti i giorni dopo la scuola, con un turbinio di salti e giravolte davanti alla piccola casa in cui vive con la mamma e le sorelle. Un giorno potrà permettersi una vita migliore, ne è certo. E questo avverrà grazie al ballo. Sono migliaia i giovani sudafricani che, come lui, sognano un futuro sulle punte. Scuola di vita A Città del Capo, l’ex ballerino di danza classica Philip Boyd, 60 anni, ha capito quale importanza possa avere questa disciplina nella vita dei ragazzi delle township di Khayelitsha, Gugulethu, Langa. Ritiratosi dal ruolo di étoile del Cape Town City Ballet, nel 1991 ha fondato la compagnia Dance for All con l’obiettivo di promuovere corsi gratuiti di danza classica, contemporanea e tradizionale. Oggi la scuola dispone di cinque sale da ballo, sparse nelle periferie degradate e frequentate da oltre 400 allievi. «Moltissimi sono orfani», racconta Boyd. «I più fortunati hanno genitori in carcere o disoccupati». Tutti sono costretti a crescere in ambienti segnati da insicurezza, alcoafrica · numero 1 · 2016 27
Una giovane ballerina davanti alla sua casa di Khayelitsha, la più grande township nera, fuori Città del Capo
lismo, droga, violenza e criminalità. «Non importa che i nostri ragazzi diventino famosi, l’essenziale è mettere un po’ di ordine nelle loro vite», confida il fondatore della scuola, che in vent’anni di attività è riuscito a strappare dalle grinfie delle gang centinaia di giovani. Lwando, 16 anni, è uno di loro. «Per strada mi prendono in giro, dicono che la danza è roba da femmine», dice sereno. «Ma non m’importa: da quando ho scoperto
Helene Bamberger /Cosmos/Luz
la gioia del movimento la mia vita è cambiata». Ai tempi dell’apartheid era impensabile per un nero frequentare una scuola di danza. Iniziative come quella di Dance for All abbattono le barriere dell’elitarismo e promuovono l’integrazione razziale in una nazione dove i neri sono ancora emarginati. Sebbene i cosiddetti bantustan – gli Stati-ghetto dove venivano segregati i neri durante l’apartheid – non ci siano più, esiste
ancora una forte disuguaglianza economica e sociale. Il 40 per cento degli abitanti delle township è senza lavoro. Più di quattro milioni e mezzo di persone vivono in estrema povertà. Uno su diecimila Penelope Thloloe, 35 anni circa, è stata la prima studentessa nera della South Africa’s National Arts School di Johannesburg. Un tempo veniva derisa per il colore della sua
pelle dalle altre allieve, figlie della ricca borghesia afrikaner e inglese. Oggi è una delle dieci ballerine professioniste della Ballet Theatre African Dance Academy: viaggia per il mondo e si esibisce sui palcoscenici più prestigiosi. Ma quando torna in Sudafrica non manca di far visita ai luoghi dove è cresciuta. Nel tempo libero insegna danza ai ragazzini di Alexandra, storico quartiere nero di Johannesburg. «Li sprono
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Negli ultimi anni l’Africa è diventata famosa per l’incomparabile bellezza della sua fauna selvaggia, ed ancora oggi rimane il continente che più strettamente si associa all’idea di una natura perfettamente conservata, con la vita degli animali autentica ed originale. Le nostre proposte verso il Kenya, la Tanzania, l’Uganda, lo Zambia e Zimbabwe, il Botswana, sono create apAfrican Explorer S.r.l mondo, per addentrarsi punto per far scoprire questo Piazza Gerusalemme, 4 - 20154 Milano tra i percorsi e i parchi più belli, per cercare, annusare, Tel. 02.4331.9474 - Fax 02.4398.2618 sentire gli animali. info@africanexplorer.com Per far provare quelle sensazioni troppo spesso assopite www.africanexplorer.com che stanno dentro di noi.
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28 africa · numero 1 · 2016
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Ruanda, arrivano i postini volanti Recapitare in tempi rapidi un pacco nel cuore dell’Africa può essere un problema: mancano strade e infrastrutture. Ma presto i fattorini arriveranno dal cielo. Grazie a un progetto avveniristico che – assicurano gli ideatori – potrà salvare migliaia di vite umane Presto nel cuore dell’Africa entrerà in azione una flotta di “postini volanti”. Consegneranno pacchetti in zone isolate dal maltempo, porteranno farmaci d’emergenza in località difficilmente raggiungibili o effettueranno il trasporto urgente di campioni di laboratorio.
30 africa · numero 1 · 2016
Sembra fantascienza, ma è un progetto reale messo a punto dallo studio britannico Foster+Partners insieme all’Istituto Federale di Tecnologia di Losanna (lo stesso che ha già realizzato con successo in Svizzera i primi test per l’impiego di droni per il recapito dei pacchetti postali).
A KIGALI NASCE IL PRIMO AEROPORTO AL MONDO PER IL DECOLLO E L’ATTERRAGGIO DEI DRONI Mai più isolati Cuore pulsante del progetto sarà il primo aeroporto al mondo dedicato esclusivamente al decollo e all’atterraggio di velivoli che viaggiano senza pilota. Sorgerà tra le colline del Ruanda. «Il primo “droneporto” al mondo avrà finalità esclusiva-
mente sociale e servirà al trasporto di materiale medico, occupandosi dell’invio urgente di farmaci o sacche di sangue nelle zone più remote», ci tiene a precisare l’architetto Norman Foster. «Dal momento che la rete stradale e le infrastrutture di trasporto non sono in buono stato,
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32 africa · numero 12··2016 2015 Ackermann / Focus / Luz
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africa · numero 1 · 2016 35
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◀ La scena di un film d’azione. Il set è un vicolo di Wakaliga, baraccopoli di Kampala, già ribattezzata "Wakaliwood". I protagonisti si trovano a dover affrontare una serie di sfide che richiedono coraggio e prodezza fisica
Kasamani / Afp
◀ Attori provano le scene prima del ciak. I protagonisti della nascente industria cinematografica ugandese sono cresciuti guardando i film di Bruce Lee, il mitico attore, artista marziale e regista statunitense di origini cinesi ◀ Attori truccati per una scena truculenta. Un tempo si usava il sangue di vacca, oggi coloranti alimentari: un profilattico che ne è riempito ed esplode al momento giusto è sufficiente per un’efficace ed esplicita scena di morte
Kasamani / Afp
36 africa · numero 1 · 2016 Kasamani / Afp
ness – prosegue Nabwana –, ma perché ho voglia di raccontare una storia. E anche i miei attori sono anzitutto autentici appassionati di cinema». Ogni film ha un budget inferiore ai 200 euro. Appena termina il montaggio, il dvd viene venduto porta a porta dal cast e dai membri della produzione. Una copia costa tremila scellini: meno di un euro. «Distribuiamo dalle seicento alle mille copie, quindi siamo ampiamente in attivo», fa notare con orgoglio il patron della Ramon Film Production. Spesso i film vengono proiettati nelle stamberghe dello slum, a pochi metri dai vicoli maleodoranti che fanno da set. Non mancano le scene truculente. Sangue e finte ferite vengono approntati da un truccatore, dentro una
COPERTINA testo di Alberto Salza - foto di Eric Lafforgue
Bambini di legno
BENIN, ALLA SCOPERTA DELL'INCREDIBILE CULTO DEI GEMELLI MORTI
Sulle coste dell’Africa occidentale i gemelli sono venerati perché si crede che portino fortuna e protezione in famiglia. Quando muoiono, la devozione si trasferisce a statuette che vengono accudite come veri e propri bambini… Ad Abomey, antica capitale del Dahomey (oggi Benin), l’ufficiale religione degli spiriti vodun è una cosa seria da morire. Me ne resi conto appena un gruppetto di volonterosi mi salvò dal fotografare l’altare di Fantômas. «Sei matto? È un feticcio potentissimo! Ti può uccidere», urlavano trascinandomi via. Dopo altri inquietanti incidenti, una folla inferocita spaccò la testa a chi ci aveva guidato verso la cerimonia dei revenants, i morti viventi che originano gli zombi. ◀ Quando un gemello muore, in Benin viene intagliata una statua in legno, hohovi, e viene trattata dalle famiglie come un vero e proprio bambino. Madame Kpsouayo porta sulla spiaggia i bambolotti che rappresentano i due gemelli, morti durante il parto. Li bagna nell’oceano per purificarli
Bambini abbandonati? Decidemmo di lasciare la città e andare a sud. «Uno stop al mercatino, giusto il tempo di comperare un paio di quelle famose statuette di gemelli, e poi ce la filiamo», disse uno dei miei compagni di viaggio. Acchiappò al volo due pezzi di legno dipinto da un cialtrone con cui contrattava da giorni, li buttò sul sedile posteriore, e partimmo. Arrivati all’oceano verso sera, ci accorgemmo che era Natale: per un guasto meccanico ci eravamo fermati in un villaggio dei Fon della costa dove era in corso una festa sincretica vodu-cristiana. Venimmo invitati a partecipare, tra grandi sorrisi e acclamazioni. Detesto le danze sfrenate e i falò, per cui mi misi a trafficare sotto l’autocarro. Vidi
africa · numero 1 · 2016 39
CHI LI VENERA E CHI LI UCCIDE
Tra le popolazioni africane, i gemelli sollecitano comportamenti opposti e contradditori. Tra i Bamana e i Dogon del Mali, così come tra i Fon e i Bariba del Benin, gli Ewe del Togo, gli Yoruba e gli Hausa della Nigeria, i gemelli sono venerati in quanto protagonisti simbolici dell’ordine cosmico e portatori di fortuna. Si tratta di privilegiati: tra i Dogon sono i primi a essere iniziati alla caccia. Per gli Asante del Ghana, gli Ibo della Nigeria, i Mandinke del Futa Jalon, i Kapsiki del Camerun, i Tonga del Sudafrica, gli Ndembu e i Lele del Congo – tra molti altri –, i gemelli sono invece temuti; i Luba del Kasai li definiscono “i bambini della sfortuna”. L’ambivalenza è evidente tra i confinanti Ibo – che abbandonano nella foresta i gemelli, avvolti in pelli, fino alla morte – e Yoruba, che invece fabbricano preziose statuette per “tenere in vita” i gemelli, simbolo dell’intervento divino sulla fecondità tramite la coppia primordiale. Tra gli Tswana del Botswana, le pratiche di elaborazione del lutto dei gemelli, considerati innaturali e quindi portatori di disgrazia, duravano anche sei mesi onde purificare totalmente la madre; al contrario, Zulu e Xhosa, in Sudafrica, ritenevano i gemelli segno di buona sorte. L’ambivalenza parrebbe sostenuta dal considerare comunque i gemelli come derivanti diretti dal mondo degli spiriti, esseri in grado di nuocere o di fare il bene. Di conseguenza si attuano pratiche di evitamento (fino all’uccisione) o di venerazione (comunque reverenziale, per timore più che per rispetto), a seconda del tipo di tradizione che si afferma localmente. Diverso è il caso dei cacciatori-raccoglitori, come i San del Kalahari, o i pastori nomadi, vedi i Maasai di Kenya e Tanzania, dove il mantenimento di due bambini al contempo è reso impossibile dai continui spostamenti in cerca di risorse sparse su vasti territori. In tali casi, uno dei gemelli viene soppresso; in funzione di demografia e tendenza climatica del momento, si elimina il gemello maschio nell’abbondanza o la femmina nella scarsità. Le pratiche di eliminazione vanno rapidamente scomparendo. A Mananjary, in Madagascar, i gemelli venivano dati in adozione, in quanto portatori di sciagure. Oggi un comitato di madri sta cambiando le cose, accettando una mediazione: i gemelli si possono tenere, ma senza nome. (A.S.)
un sacco di piedi: tutti si affacciavano ai finestrini per vedere se recavamo doni. All’improvviso l’atmosfera mutò. I miei compagni vennero respinti con bastoni, tra urla furibonde. Saltai in piedi e vidi una ragazza che, indicando il sedile posteriore dell’autocarro, incitava alla violenza: i gemelli di legno dipinto erano lì, abbandonati senza cura, privi di coperta e senza la brandina di bambola per accogliere il loro sonno. Che razza di persone eravamo noi? A chi avevamo rapito quei bambini maltrattati? E se li avevamo comperati, non sapevamo forse che la schiavitù tra i Fon era finita da un pezzo? Mia moglie af40 africa · numero 1 · 2016
ferrò i gemelli, se li posò sul ventre e con ampi gesti disegnò un pancione nell’aria, fingendo di essere incinta. Tutti si bloccarono. Poi scoppiarono in grida di sollievo: i gemelli di legno servivano a propiziare il concepimento multiplo per la bianca signora. Le donne sequestrarono mia moglie e, più che altro a gesti, cominciarono a darle consigli su come partorire e allevare figli, magari gemelli. Gli uomini finirono per ammazzarci lo stesso: non a bastonate, ma con l’alcool di palma. Fausto evento Il culto reverenziale dei gemelli morti copre una lunga fascia costiera che
va dalla Nigeria (Yoruba) al Benin (Fon) per arrivare a Togo e Ghana (Ewe). Deriva dal valore creativo e spirituale assegnato al parto multiplo, simbolo dell’ordine perfetto, che in Africa è binario. Per i Fon, i gemelli rappresentano la coppia primordiale generata da madre Nana Buluku, gli ermafroditi Mawu e Lissa. Da essi derivano i quattordici vodun principali che gestiscono il mondo dei Fon. Di conseguenza, partorire gemelli è come riprodurre l’origine del cosmo, una benedizione per il villaggio. In assenza di ecografia, è l’ostetrica tradizionale a visitare le donne fon incinte, in sostituzione dell’antica consultazione
di oracoli. Nel caso si accorgesse per palpazione di un possibile parto gemellare, vincolerebbe tutta la famiglia al segreto, invitandola a prepararsi in modo conveniente per il fausto evento. Il mistero nasconde la paura. Alla nascita dei gemelli, la madre fon deve restare reclusa da tre giorni a tre mesi, fino alla cerimonia dell’“uscita” ufficiale. Mentre la madre presenta i figli alla comunità con una serie di azioni (tra cui toccare il suolo sette volte con il piede destro e sette con il sinistro, ove 7 è la somma di 3-maschio e 4-femmina), il padre porta varie cose, tutte appaiate: due sacchi di farina, due bottiglie di olio di palma, due litri di alcool (sodabi), due zucche (in cui verranno posti i gemelli), due stuoie, due giare, quattro metri di stoffa da dividere in due. Tutti recano doni che vengono spartiti dalla madre e dall’anziana cerimoniera, anche lei madre di gemelli. A quel punto, la madre è autorizzata ad andare dappertutto, tranne che al mercato. Anche per quello ci vorrà un rito costosissimo, con 21 polli da sacrificio, una quantità di cauri (le conchiglie che erano moneta corrente sulla costa), venti litri di alcool (più uno per la terra), cibi vari, stoffe; e la benedizione dei vodun Aizan e Dan, da comprare. Nati nella foresta Prima di arrivare al mercato, simbolo della comunità, i gemelli devono però passare attraverso
SOCIETÀ testo di Ingrid Tamborin - foto di Daniele Tamagni
Nairobi Style
CREATIVITÀ E INNOVAZIONE, COSÌ UNA NUOVA GENERAZIONE STA CAMBIANDO IL VOLTO DELLA CAPITALE DEL KENYA
52 africa · numero 1 · 2016
Moda, arte, design, musica e tecnologia. Nairobi è scossa da un’effervescente stagione di idee alimentata dal talento e dall’estro dei suoi giovani. Più che mai decisi a essere protagonisti del futuro Lo scrittore e poeta nigeriano Wole Soyinka nel suo ultimo libro Africa fa appello alla riscoperta di un continente che non è ancora stato conosciuto nella sua vera bellezza e ricchezza sociale. Nairobi è sicuramente un buon punto di osservazione per chi sia interessato a guardare con occhi diversi all’Africa. Nella capitale del Kenya sta emergendo una nuova generazione di giovani creativi capaci di coniugare tradizione e innovazione, arte e business. Sono i protagonisti di una rivoluzione che sta cambiando il volto della metropoli e che forse cambierà il futuro dell’intero continente.
Non a caso, il presidente americano Obama, durante il suo viaggio a sud del Sahara dello scorso autunno, ha scelto la platea degli studenti universitari di Nairobi per celebrare la nascita di «una nuova leadership africana». «Il mio posto è qui» Nairobi, città brulicante di vita, dinamica ed esuberante, oggi sforna intellettuali, artisti, designer e inventori che hanno sete di successo e che vogliono affermarsi a livello internazionale. La capitale tecnologica della Rift Valley sta attirando, come un’invisibile calamita, investitori e talenti da ogni parte del mondo. Wanjira
Longauer, madre keniota e padre europeo, è cresciuta negli Stati Uniti e da qualche anno ha deciso di ritornare nella sua terra natale, il Kenya. «Il mio posto è qui, non tornerei più a New York. È qui che posso crescere, è qui che le opportunità di lavoro per la mia carriera si stanno presentando». Wanjira lavora in una radio ed è presentatrice televisiva di programmi di talent show. Siamo andati a trovarla nei suoi studi di registrazione, al diciannovesimo piano di un palazzo nel centro di Nairobi. Dalla finestra sembra di poter intravedere il futuro. È incredibile come una vista simile possa capovolge-
re del tutto la percezione dello spazio. Laggiù vediamo un paesaggio che ricorda New York, Berlino, Londra o Tokyo. Sembra di trovarsi al centro del mondo, il posto dove viene scritto il domani. Food e digital Fa impressione l’energia che sprigiona questa città. Ogni settimana nasce una nuova società legata al mondo web, accompagnata dall’apertura di un nuovo ristorante. Food e digital: sono le parole che marchiano la rivoluzione in atto. Tecnologia di avanguardia spesso frutto di hub creativi, in cui studenti e imprenditori collaborano in cerca di nuove
◀ Velma Rossa e Papa Petit, sorella e fratello, sono due famosi fashion blogger. Promotori di tendenze nello stile arte e cultura, curano il blog 2manysiblings ▲ Wanjira Longauer lavora in radio ed è presentatrice televisiva di programmi di talent show ▶ Skydecor sono due giovani interior designer che riciclano pezzi di vecchi aeroplani rottamati per farne oggetto di design creativo. Alle loro spalle, Nairobi: una città di frontiera che mescola grattacieli a edifici decrepiti, energia a disperazione africa · numero 1 · 2016 53
SOCIETÀ/CULTURA di Enrico Casale
L’ultimo imperatore
QUARANT’ANNI FA SALIVA AL TRONO JEAN-BÉDEL BOKASSA, MEGALOMANE SOVRANO DEL CENTRAFRICA
60 africa · numero 1 · 2016
Nel 1976 iniziava l’assurdo regno dell’imperatore Bokassa I, autoproclamatosi “Napoleone d’Africa”, “Tredicesimo Apostolo di Dio”. Un tiranno spregiudicato e stravagante, amico di Parigi, accusato di cannibalismo… Sono passati quarant’anni, ma il ricordo di JeanBédel Bokassa, tronfio sul suo trono tempestato d’oro, è ancora vivido. Nonostante il tempo abbia portato l’oblio sull’ultimo imperatore d’Africa, le immagini della sua fastosa incoronazione e dello stridente contrasto fra tanto sfarzo e la povertà della sua gente destarono il clamore internazionale e rimasero impresse nella mente di un’intera generazione. Ma il personaggio Bokassa non può essere ridotto solo alla farsa della sua intronizzazione: appartiene a quella generazione di leader africani che arrivarono alla stagione delle indipendenze
◀ La cerimonia d’incoronazione dell’imperatore: trono in oro a forma d’aquila di 3 metri d’altezza; corona d’alloro, in oro, come quella di Napoleone; cinquemila invitati al banchetto (container di ostriche, piedi di maiale, vini pregiati: tutto consegnato con voli charter da Parigi) ▶ Bokassa con la sesta moglie, che divenne imperatrice quando il marito salì al trono. In mezzo c’è il loro primo figlio, Jean-Bédel Bokassa Georges: principe ereditario del Centrafrica
e della decolonizzazione totalmente impreparati, e ne furono travolti. Bokassa è contemporaneo dell’ugandese Idi Amin Dada, del congolese Mobutu Sese Seko, del gabonese Omar Bongo Ondiba, ecc. Le loro stravaganze erano figlie di incapacità, ma anche della interessata complicità degli ex colonizzatori.
re nella seconda guerra mondiale, tanto da venire decorato con la Legion d’Onore, la Croce di guerra, ed essere promosso sergente maggiore. Terminato il conflitto, rimane nell’esercito e viene nominato ufficiale. E continua a combattere nella campagna d’Indocina. Nel 1962 viene congedato dalle forze armate francesi e si arruola in quelle del suo Paese, il Centrafrica, da poco diventato indipendente. Leader spregiudicato Jean-Baptiste de la Salle (“Bédel”), però, ha già in
mente la politica. Al potere c’è David Dacko che, oltre a essere un presidente autocratico, è anche suo cugino. Ma Jean-Bédel non si ferma davanti alle parentele: nel 1966 con un colpo di Stato lo abbatte e si autoproclama presidente. Nelle vene di Bokassa non scorre il sangue della democrazia. Abolisce la Costituzione e tutti i partiti (tranne il suo, il Movimento per l’evoluzione sociale dell’Africa nera). Nel 1972 si proclama presidente a vita. I suoi concittadini non apprezzano la svolta autocratica: nel 1969 e nel 1974 tentano di
Amico dei francesi Bokassa nasce nel 1921 in quella che allora si chiamava Africa Equatoriale Francese. Nel 1927, suo padre, che è il capo del villaggio di M’Baka, consigliato da uno stregone, organizza una ribellione contro i francesi; riesce a resistere qualche tempo, ma poi viene sopraffatto e brutalmente ucciso. La madre non riesce a resistere al dolore e si suicida. Il piccolo viene così affidato a una missione cattolica. Inizialmente i missionari ne vorrebbero fare un sacerdote ma, constatata la mancanza di un’autentica vocazione, lo iscrivono a una scuola tecnica. Bokassa s’impegna negli studi e riesce a diplomarsi. Nel 1939, dopo una breve esperienza come cuoco, si arruola nell’esercito francese. Combatte con valoafrica · numero 1 · 2016 61
a incoronarlo). Alla cerimonia segue un banchetto con ogni possibile prelibatezza e, soprattutto, con i camerieri vestiti in livrea ottocentesca. Una messinscena che sfiora il ridicolo e che stride con la povertà della sua gente. Le immagini della sua incoronazione fanno il giro del mondo: quotidiani e periodici pubblicano le foto del nuovo imperatore d’Africa, del suo trono rivestito d’oro e della sua corona. Quasi nessun leader straniero partecipa alla cerimonia che, con i suoi eccessi, svuota le già magre casse statali.
▶ In vestaglia e pantofole, l’ex imperatore Bokassa è fotografato nel 1985 sulla soglia del suo castello di Hardricourt, durante il suo esilio in Francia. L'anno dopo deciderà di rientrare in Centrafrica
rovesciarlo con due golpe, che falliscono. Così come fallisce l’attentato alla sua vita del 1976. L’assurda incoronazione Bokassa è un personaggio stravagante. Nel 1976, per ottenere un prestito da Muammar Gheddafi, si converte all’islam e assume il nome di Salah Eddine Ahmed Bokassa. Ma l’adesione alla nuova fede dura poco e già alcuni mesi dopo torna a professarsi cristiano. Ma il capolavoro della sua bizzarria è la trasformazione della repubblica in monarchia e la sua successiva autoproclamazione a imperatore. Bokassa vive nel mito di Napoleone Bonaparte e sogna di ripetere nell’Africa subsahariana le gesta del grande condottiero francese.
È il 4 dicembre 1977 (un anno dopo l’autoproclamazione da imperatore) quando, con un rituale solenne, con tanto di corteo, cocchio reale, ermel-
lino e corona tempestata da cinquemila diamanti, si fa incoronare nella cattedrale di Bangui dal vescovo (anche se Bokassa avrebbe voluto Paolo VI
Tradito da Parigi La stravaganza dell’imperatore (qualcuno sostiene che sia un folle) non incide sulla realpolitik occidentale. Anzi, la Francia vede in quel personaggio bizzarro un fedele alleato, un amico di cui fidarsi. Valéry Giscard d’Estaing, all’epoca presidente, lo sostiene politicamente e, in cambio, Bokassa lo invita più volte in Centrafrica e organizza per lui banchet-
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Uno storico viaggio
66 africa · numero 1 · 2016
GLI EFFETTI DIROMPENTI DEL PASSAGGIO DI PAPA FRANCESCO
La visita pastorale di papa Bergoglio, lo scorso novembre, in Kenya, Uganda e Centrafrica, è stata un susseguirsi di parole audaci e gesti profetici... Che hanno lasciato il segno
NEL «CONTINENTE DELLA SPERANZA»
Zacharia Adoume. È il nome della prima vittima, un musulmano, della guerra centrafricana all’indomani del decollo del Papa da Bangui. Già finito il clima della vigilia, quando gruppi di musulmani erano usciti dalla loro enclave, il quartiere Pk5, per seguire, dal maxischermo all’esterno dello stadio, la messa del Papa dedicata al passaggio «all’altra riva»: la riva della «speranza» e dell’«entusiasmo per il futuro». La religiosità popolare, coniugata a un disperato bisogno di pace e sicurezza, sa credere nel miracolo. Ma quanti davvero si aspettavano che una profezia di pace – per quanto convinta come quella di Bergoglio – avrebbe prodotto ipso facto la fine di ogni violenza? Già è stata un miracolo l’osservanza della “tregua di Dio” nel corso di tutto il viaggio apostolico. Non solo perché le armi hanno taciuto, quelle della guerra ◀ Francesco celebra la santa messa nello stadio di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Il Papa ha voluto recarsi in questo martoriato Paese sconvolto dalla guerra malgrado l’Unione Europea avesse sconsigliato la visita per timore di violenze
(Centrafrica) come quelle del terrorismo (Kenya), ma soprattutto perché è stato inequivocabilmente spezzato il presunto link tra violenza e religione. È questo il primo messaggio che Francesco ha lanciato dall’Africa, a fianco dei leader di altre confessioni. Uno di loro, l’islamico El-Busaidy, a Nairobi ha citato un teologo cattolico, Hans Küng: «Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni». La saggezza dei poveri Tappa dopo tappa, Francesco ha toccato altri temi cruciali per il continente: la corruzione («È come lo zucchero… e anche il nostro Paese diventa diabetico!»), il tribalismo («Distrugge una nazione»), il dramma ambientale (al cui riguardo «sarebbe catastrofico che gli interessi privati prevalessero sul bene comune»), le relazioni economiche NordSud (siamo lontani da «un sistema commerciale internazionale equo»), i rifugiati e i migranti («Il modo in cui affrontiamo africa · numero 1 · 2016 67
Gesti importanti Si potrebbe anche dire che, in fondo, papa Bergoglio non ha detto granché di nuovo. Che si è attenuto, con linguaggio certo rinnovato, al magistero sociale della Chiesa. Che non ha nemmeno preso di
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tale fenomeno è una prova del nostro rispetto della dignità umana»), il ruolo della gioventù e la povertà nelle sue svariate forme. Quest’ultima ha avuto la sua migliore “trattazione” a Kangemi. Nello slum di Nairobi, il vescovo di Roma ha snocciolato tutta una serie di problemi e bisogni concreti, dall’acqua potabile agli «affitti abusivi», dalle fognature alle agognate infrastrutture sanitarie o ricreative. Ma nel corso della sua denuncia non ha guardato al popolo delle bidonville come a una massa di vittime inerti ,bensì come ai depositari di una «saggezza che scaturisce da un’ostinata resistenza di ciò che è autentico».
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Francesco ha acceso l’entusiasmo e riportato la speranza. Là dove ce n’era più bisogno
petto certe problematiche africane (governanti che si autoperpetuano al potere, discriminazioni degli omosessuali, prevenzione dell’aids…). Gli stessi appelli alla pace sono risuonati, per le orecchie africane più critiche, accalorati ma un po’ generici. Quello che però Bergoglio ha sicuramente capito – e che gli riesce bene – è l’importanza, per gli africani, della relazione. Le parole hanno valore, sì, ma lo attingono dal modo in cui sono pronunciate: in quel frangente, con quei gesti, con quella vicinanza alla gente… Scandire «no all’odio, no alla vendetta, no alla violenza» a Bangui, nella moschea del Pk5, non
è lo stesso che proferirlo in una sala convegni. Evento storico E poi c’è il versante interno, ecclesiale. Aprire la Porta Santa a Bangui è stato un evento storico non solo per la comunità centrafricana, o per tutto il continente, ma per la Chiesa universale. Gesto simbolico che si inscrive nel disegno che Francesco ha lasciato intravedere fin dalla sera della sua elezione e che ha via via esplicitato e confermato: nell’enciclica Evangelii gaudium, nell’annuncio del presente Giubileo, nel corso del Sinodo sulla famiglia: «Avverto la necessità di procedere in una
salutare “decentralizzazione”». Un decentramento che vada a beneficio, in primo luogo, delle periferie della Chiesa stessa. «Incominciamo l’Anno Santo – ha martellato Francesco con parole “improvvisate” – qui, in questa capitale spirituale del mondo, oggi!». Se Roma è Roma perché città di Pietro, dal 29 novembre è chiaro che Roma è ormai ovunque Pietro si trovi. Soprattutto se nel cuore di un continente sfruttato, impoverito, emarginato. «La mia visita – aveva detto a Kampala, accentuando le positività – intende attirare l’attenzione verso l’Africa nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste. Il mondo guarda all’Africa come al continente della speranza». Chiesa in chiaroscuro Ma qual è questa Chiesa africana chiamata ad essere responsabile e prota-
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Desmond Tutu: «Dio è sovversivo»
70 africa · numero 1 · 2016 Ilan Godfrey/ Templeton Prize
NEL LIBRO-TESTAMENTO DEL NOBEL PER LA PACE SUDAFRICANO IL SEGRETO DELLA SUA FORZA E TENACIA
L’arcivescovo anglicano che ha guidato la Commissione verità e riconciliazione nel Sudafrica post-apartheid affida al suo ultimo libro la fede e la spiritualità che lo hanno sostenuto lungo tutta una vita di battaglie Una sera, san Giuseppe supplica il locandiere: «Per favore, mi aiuti! Mia moglie sta per partorire». Il locandiere risponde: «Mi scusi… Non è colpa mia». E Giuseppe: «… ma neanche mia!». È una delle tante barzellette e battute che il Nobel per la Pace sudafricano, 85 anni il prossimo ottobre, ama raccontare e che sottolinea con la sua risata travolgente e sincera. Barzellette di cui peraltro lui è stato anche oggetto, e in cui «facevo sempre una brutta fine», ricorda in Anche Dio ha un sogno (L’Ancora del Mediterraneo). Dopo la morte di Mandela e tante figuracce dell’African National Congress, Desmond Tutu rimane l’ultimo grande testimone del sogno della Nazione Arcobaleno – fu lui a
battezzare in questo modo il Sudafrica del postapartheid. Sua è anche la divulgazione della parola ubuntu, che da termine del gruppo linguistico nguni è divenuto concetto globale. «“Una persona è tale attraverso altre persone”. Non ci concepiamo nei termini “penso dunque sono”, bensì: “Io sono umano perché appartengo, partecipo,
◀ Uno scatenato Desmond Tutu balla nella cattedrale di Saint George di Città del Capo in occasione della cerimonia del Premio Templeton, assegnatogli per il suo impegno a favore della pace. ▼ Assieme alla leader birmana Aung San Suu Kyi, attivista per la democrazia, arrestata più volte del regime, eletta presidente lo scorso novembre con l’80% delle preferenze
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nel 1985 è il primo vescovo nero di Johannesburg e, l’anno seguente, è il primo arcivescovo nero di Città del Capo. Poi, 11 febbraio 1990, la liberazione di Mandela. Madiba trascorrerà la sua prima notte di libertà proprio nella residenza episcopale di Tutu. E quando verrà il momento di scegliere il presidente della Commissione verità e riconciliazione, sarà a lui che, senza esitazione, il presidente del Nuovo Sudafrica penserà. C’è un aneddoto, a proposito di questa coppia an-
tiapartheid, che il Dalai Lama riporta nel suo libro La saggezza del perdono, mettendolo in bocca a Tutu stesso: «Alcuni anni fa, mi trovavo a San Francisco quando una donna si precipitò a salutarmi molto calorosamente. Mi disse: “Salve, arcivescovo Mandela!”»… Immaginiamo la sua risata nel raccontarlo dal vivo! O la terra o la Bibbia E c’è una storiella celebre, quasi una barzelletta, forse la più citata di Tutu ma spesso ricordata solo a metà. È con essa che il suo
ultimo libro apre. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia». «La storiella, però, non è corretta», commenta subito l’arcivescovo. È vero che i missionari sono giunti coi coloni, ne sono anzi stati l’avanguardia. Ma «quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera
dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei». E anche le cure mediche e molto altro. Ma soprattutto la Bibbia, «un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. Era come se la Bibbia fosse stata scritta apposta per sostenere la nostra particolare lotta contro l’apartheid». Il concetto viene ribadito per chi ancora dubitasse: «Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia». E questa, per Tutu, non è una barzelletta.
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GIUSTIZIA E PACE Se si vuole sconfiggere il terrorismo internazionale bisogna togliergli la “scusa” intellettuale e il serbatoio di rabbia che deriva dall’esistenza nel mondo di grande sacche di povertà e ingiustizia. Chiunque produce ingiustizie è connivente anche con il terrorismo, gli fornisce proseliti. Anche le guerre di ritorsione contro il terrorismo internazionale producono nel medio tempo solo risultati peggiori, per non parlare di quelle fatte per imporre la democrazia. Per chi ancora crede che siano utili basta guardare l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Somalia, ecc. Allo stesso modo sono palliativi i muri e i recinti giuridici, che servono solo a lavarsi le mani per cosa capita dall’altra parte. Ezio Elia (presidente ass. LVIA)
AMICI DELL’ISIS? I vostri sforzi di cercare spiegazioni, di fare continui distinguo, di dividere tra un islam buono e un islam cattivo... fanno il gioco dei terroristi. Il jihad fa parte della cultura musulmana, bisognerebbe avere il coraggio di censurare il Corano e gli imam delle moschee. Ambrogio B., Treviso Gentile Ambrogio, rifiutiamo senza esitazione l’equazione musulmani=terroristi. Al contrario di quanto lei sostiene, pensiamo sia bene ribadire questo concetto in ogni occasione e riteniamo che i suoi ragionamenti, intrisi di pregiudizi, facciano il gioco di chi vuole opporre l’islam all’Occidente e strumentalizza la fede per evocare pericolose “guerre di religione”. Padre Paolo Costantini
in
DOVE SONO I LEONI? Sono un vostro nuovo abbonato, originario del Togo. Ho scoperto la vostra rivista per caso, mentre ero nella sala d’attesa del mio medico. Quando ho visto il titolo mi aspettavo una giornale turistico oppure il notiziario di qualche associazione umanitaria. E invece non ho trovato leoni né bambini malnutriti. Sfogliando le vostre pagine ho ritrovato la mia terra, con tutte le sue contraddizioni ma con la sua incontenibile energia vitale. Grazie per il lavoro importantissimo che fate. Djoda Kabyé NEMICI DI ASMARA Ho letto sulla vostra rivista e sul vostro sito molti articoli critici nei confronti dell’Eritrea. Ma perché ce l’avete tanto contro il mio
Paese abitato da gente forse povera ma sicuramente tenace e orgogliosa? Teklé, via mail Gentile lettore non confonda le critiche che facciamo al regime di Asmara con una condanna nei confronti di un’intera nazione. Siamo vicini al popolo eritreo e denunciamo a voce alta i soprusi che è costretto a subire da troppo tempo. Speriamo di poter presto parlare di Eritrea come di un Paese libero e democratico. Raffaele Masto
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