AFRICA N. 4 LUGLIO-AGOSTO 2017 - ANNO 96
RIVISTA BIMESTRALE
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MISSIONE • CULTURA
VIVERE IL CONTINENTE VERO
Nairobi
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 , DCB Milano.
capitale inquieta
Mali
Senegal
Ghana
crociera sul fiume funerali ashanti
RITORNO A TIMBUCTÙ
i vi A ggi di
AFRICA
MISSIONE • CULTURA
BURKINA FASO DAL 2 AL 10 DICEMBRE 2017
con Alberto Salza antropologo e scrittore
Un viaggio d’autore firmato dalla rivista Africa. Accompagnati da un guida d’eccezione. Per conoscere popoli fieri e ospitali, visitare villaggi a moschee di argilla, avvicinarsi a tradizioni ricche di fascino. E scoprire il privilegio di viaggiare con chi l’Africa la conosce davvero. POSTI L IMITATI Quota: 2.150 E a persona volo compreso da Milano Malpensa (su richiesta verifica disponibilità da altre città) In collaborazione con
Programma: www.africarivista.it/burkina Informazioni e prenotazioni: www.africarivista.it - Tel. 349 3027584
Sommario LUGLIO - AGOSTO 2017, N° 4
COPERTINA 40
Luci e ombre a Timbuctù
EDITORIALE Uguaglianza. O equità?
3
di Anna Pozzi di Pier Maria Mazzola
ATTUALITÀ
4
PRIMA PAGINA
AFRICA
5
PRIMO PIANO
6
PANORAMA
8
La fame vista dall’alto
Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo
12
Plinio il Vecchio (I secolo d.C.)
22 La
DIRETTORE RESPONSABILE
28 LO SCATT O
MISSIONE • CULTURA
Pier Maria Mazzola
di Raffaele Masto
di Davide Maggiore NOVITÀ
di Enrico Casale di Kodjo Sena ed Eric Lafforgue
Rd Congo. L’uomo che scopre i minerali maledetti
16 Gambia.
di Marco Trovato
Punto di svolta di Valentina G. Milani e Gabriele Cecconi
nuova Nairobi, vivace e inquieta
di Enzo Nucci e Carlo Ramerino
Ebola, la paura e la speranza
di Andrew McConnell
DIRETTORE EDITORIALE
Marco Trovato WEB
Enrico Casale (news) Raffaele Masto (blog) PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA
SOCIETÀ Liberia. Gli scimpanzé in esilio sulle isole di Valentina G. Milani e Marco Garofalo
30
Matteo Merletto
34
«La mia Somalia ce la farà»
AMMINISTRAZIONE E ABBONATI
36
Sudafrica. Cavalli e vanità
38
Zimbabwe. Savana Circus
Paolo Costantini PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE
Claudia Brambilla EDITORE
Provincia Italiana della Società dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi PUBBLICITÀ
segreteria@africarivista.it FOTO
Si ringrazia Parallelozero In copertina: Ami Vitale / Panos / LUZ Mappe a cura di Diego Romar - Be Brand STAMPA
Jona - Paderno Dugnano, Milano Periodico bimestrale - Anno 96 luglio - agosto 2017, n° 4 Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48
di Enrico Casale
di Virginia Ntozini di Bruno Zanzottera
48 CULTURA I sontuosi funerali degli Ashanti di Alberto Salza e Anthony Pappone 54
CULTURA I fantasmi del Biafra
di Raffaele Masto
58 VIAGGI Crociera tra le sabbie del Sael di Marco Trovato e Irene Fornasiero 65
SPORT Brividi nigeriani
di Omolade Ayodele
SPORT Somalia, scende in campo la speranza di Daniele Bellocchio e Marco Gualazzini
66 70
CHIESA L’inossidabile suora pianista del Negus di T. Gebramariam
CHIESE Kenya. I pacifici legionari di Maria di Maria di Enrico Casale e Fredrik Lerneryd
72
SEDE
Viale Merisio, 17 - C.P. 61 - 24047 Treviglio BG 0363 44726 0363 48198 info@africarivista.it www.africarivista.it Africa Rivista @africarivista @africarivista africa rivista UN’AFRICA DIVERSA La rivista è stata fondata nel 1922 dai Missionari d’Africa, meglio conosciuti come Padri Bianchi. Fedele ai principi che l’hanno ispirata, è ancora oggi impegnata a raccontare il continente africano al di là di stereotipi e luoghi comuni. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la rivista e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 196 del 30/06/2003 - tutela dei dati personali).
INVETRINA
Eventi a cura della redazione Arte e Glamour di Stefania Ragusa 78 Vado in Africa di Martino Ghielmi NOVITÀ 80 Sapori di Irene Fornasiero 81 Solidarietà di Valentina G. Milani 82 Libri di Pier Maria Mazzola 83 Musica di Claudio Agostoni 83 Film di Simona Cella 84 Viaggi di Marco Trovato 86 Web di Giusy Baioni 87 Bazar di Sara Milanese 88 Posta
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Dialoghi sull’ AFRICA
MISSIONE • CULTURA
A Milano un week-end di incontri per capire, conoscere e confrontarsi Sabato 18 e Domenica
19 novembre
WORKSHOP
Venerdì 17 novembre SEMINARIO ECONOMIA E SVILUPPO
Quota di partecipazione: 220 e - studenti 170 e
con: Marco Aime, Stefano Allievi, Maurizio Ambrosini, Pietro Bartolo,
20 e di sconto a chi si iscrive entro il 30 settembre
Daniele Bellocchio, Enrico Casale,
I primi iscritti potranno usufruire dell’ospitalità gratuita offerta dai missionari Padri Bianchi a Treviglio, o del pernottamento scontato in hotel a Milano
Martino Ghielmi, Suor Rita Giaretta,
Luis Devin, Cleophas Adrien Dioma, Marco Gualazzini, Modou Gueye, Germana Lavagna, Raffaele Masto, Pier Maria Mazzola, John Mpaliza, Emanuele Nenna, Enzo Nucci, Blessing Okoedion, Guido Olimpio, Riccardo Petrella, Anna Pozzi, Mario Raffaelli, Yvan Sagnet, Madi Sakande, Alberto Salza, Eustache T. Kakisingi, Efrem Tresoldi, Jean-Léonard Touadi, Marco Trovato, Itala Vivan, Massimo Zaurrini in collaborazione con
Programma e informazioni:
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cell. 334 244 0655
Uguaglianza. O equità? Afp
“Aiutiamoli a casa loro” – e nemmeno serve dire di cosa si parla. Un’esortazione che ha la sua buona dose di ragionevolezza. Peccato che intanto, da ben prima che l’invasione migratoria ossessionasse l’Europa, questa cominciava a smantellare, alla svolta del millennio, un suo fiore all’occhiello: la Convenzione di Lomé, che dal 1975 regolava gli scambi commerciali tra Ue e Paesi del Sud, in gran parte africani. «Un modello della politica occidentale verso il Terzo mondo», la definì La Civiltà Cattolica. Modello che consisteva nel non mettere realtà così diverse, quanto a forza economica, su un forzato piede di parità. Se molti prodotti dei Paesi Acp (Africa, Caraibi, Pacifico) potevano entrare in Europa senza dazi, ed esisteva un meccanismo in grado di dare una certa stabilità ai corsi delle materie prime, l’export europeo verso gli Acp non godeva, per contro, di simmetrici “privilegi”. Ma il turboliberismo, che negli anni Novanta ha sequestrato l’Organizzazione mondiale del commercio, ha imposto la fine di Lomé. D’ora in poi, tutti “uguali”. Sono così nati gli Accordi di partenariato economico (Epa). Non a caso, mentre Lomé era di competenza del dicastero per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo, gli Epa ricadono ora sotto il commissario al Commercio. «La conseguenza sarà drammatica per l’Africa – scrive Alex Zanotelli nel suo recente Europa, che cosa ti è successo? (Emi) –: l’agricoltura europea (sorretta da 50 miliardi di euro di sussidi l'anno) potrà svendere i propri prodotti sui mercati nei Paesi impoveriti. I contadini africani non potranno competere con i prezzi degli agricoltori europei. E l’Africa sarà ancora più strangolata e
affamata in un momento in cui il continente nero pagherà pesantemente per i cambiamenti climatici». Numerose le voci africane che si levano contro questi «accordi di impiccagione». Come quella di Mamadou Cissokho, storico leader di Roppa, la vasta rete di organizzazioni contadine dell’Africa occidentale. A chi lo accusa di protezionismo, risponde: «L’Ue non si è fatta in un giorno. Se oggi è la potenza economica che tutti conosciamo, è anche grazie alle misure di protezione dei propri mercati e prodotti adottate fin dagli anni Cinquanta». Oppure quella del bissau-guineano Carlos Lopes, che l’ottobre scorso si è dimesso da segretario della Commissione economica per l’Africa (Eca), organo Onu, per riconquistare piena libertà di parola. «L’Eca e io personalmente non abbiamo cessato di denunciare gli Epa – dice Lopes –. Non illudiamoci: gli Epa non sono favorevoli all’Africa e costituiscono un freno alla sua industrializzazione». Certo il ritorno alla vecchia Lomé non arresterebbe di colpo gli sbarchi: fenomeni di questo tipo hanno cause molteplici. Ma sarebbe per lo meno un segnale di coerenza, da parte di un’Europa che non sa o non vuole affrontare le ondate di migranti, mantenere una partnership economica di equità (e non di “uguaglianza”). Vorrebbe dire ricercare soluzioni ”a monte”, che, anche se necessitano di tempi lunghi per sortire i loro effetti, sono le più efficaci. In ogni caso, sicuramente le più dignitose. Come diceva don Milani, «non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». Pier Maria Mazzola
RICEVI AFRICA A CASA La rivista (6 numeri annuali) si riceve con un contributo minimo suggerito di: · rivista cartacea (Italia) 35 € · formato digitale (pdf) 25 €/Chf · rivista cartacea (Svizzera): 45 Chf · rivista cartacea (Estero) 50 € · rivista cartacea+digitale (Italia): 45 € · rivista cartacea+digitale (Svizzera): 55 Chf · rivista cartacea+digitale (Estero) 60 €
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NEWSMasto di Raffaele NEWS
UN CONGO DA RIDISEGNARE? La Repubblica democratica del Congo, cuore pulsante dell’Africa, sembra avvitata in una crisi senza soluzioni. Uno scenario di balcanizzazione non è da escludere, né l’effetto domino sul continente Getty
A livello politico, è il solito copione: un presidente – Joseph Kabila – che, secondo Costituzione, ha finito i suoi mandati ma non se ne vuole andare, e punta a emendare la prima legge dello Stato come hanno fatto molti suoi colleghi nel continente. Per farlo, è già ricorso a tutti i trucchi. L’ultimo in ordine di tempo è il varo di un governo di ben sessanta ministri che, secondo accordi mediati dalla Chiesa, dovrebbe portare il Paese a elezioni entro l’anno. Al momento di scrivere questo articolo, però, non c’è nessuna data e la nomina del primo ministro, Bruno Tshibala, ha spaccato il fronte dell’opposizione. Risultato: regna il caos e il capo dello Stato ricopre quel ruolo super partes di cui la crisi non può fare a meno. Esattamente ciò che l’inamovibile Kabila voleva ottenere. KATANGA E KASAI ALZANO LA TESTA C’è, poi, una serie di sotto-crisi che rischiano di far implodere il Congo (grande sette volte l’Italia e abitato da 80 milioni di persone): l’eterna guerra del Kivu e delle regioni orientali, nella quale sono coinvolti a vario titolo i Paesi confinanti, Ruanda, Burundi e Uganda; poi la contrapposizione tra il governo centrale e la ricchisNIGERIA
Le famiglie di 82 studentesse rapite dal gruppo jihadista Boko Haram, e liberate a maggio dopo 3 anni di prigionia, hanno potuto riabbracciare le loro famiglie. Ben 276 giovani nigeriane erano state sequestrate il 14 aprile 2014 mentre erano a scuola nella città di Chibok, nel nord-est del Paese. Da allora, numerose sono state liberate e scambiate con prigionieri rilasciati dal governo, ma cento restano nelle mani dei terroristi.
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sima provincia del Katanga, che in più di un’occasione ha paventato l’ipotesi di secessione per bocca del suo abile e potente governatore Moïse Katumbi, 51 anni, che ha riunito sotto di sé buona parte dell’opposizione ed è certamente l’uomo di cui ha più paura Kabila. Con evidenti buone ragioni, dato che il Katanga è una cassaforte di materie prime strategiche; infine, la crisi più acuta degli ultimi mesi, quella della provincia diamantifera del Kasai, che ha già prodotto un milione di sfollati e migliaia di rifugiati nella confinante Angola, e diverse centinaia di morti. La contrapposizione è tra le forze governative, che non vanno per il sottile, e una formazione di ribelli chiamata Kamwina Nsapu, dal nome del suo leader ucciso, che chiede autonomia e l’uscita di scena di Kabila, accusato di avere dimenticato la loro provincia in termini di investimenti e infrastrutture. RISCHIO IMPLOSIONE Al momento non si vedono soluzioni. Non è del tutto inverosimile pensare che si concretizzino le possibilità di frammentazione. Nella regione dei Grandi Laghi, per esempio, il piccolo – troppo piccolo e troppo popolato EGITTO
L'attentato del 26 maggio contro un bus che trasportava cristiani copti, costato la vita a 28 persone, è l'ennesimo attacco contro questa comunità di 10 milioni di fedeli, che formano il 10% della popolazione di un Paese, l'Egitto, a stragrande maggioranza musulmana. Dal 2013 vi sono stati una quarantina fra aggressioni di cristiani e attacchi a chiese, in pratica un episodio al mese, con decine di morti.
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– Ruanda ha un bisogno vitale di terre e risorse, pena una crisi demografica e di delegittimazione del regime di Paul Kagame. La tentazione del Ruanda di utilizzare il territorio congolese del Kivu si è già manifestata negli ultimi venti anni. Kigali potrebbe ritenere giunto il momento di rendere “istituzionale” la situazione. Avrebbe anche i pretesti giusti: il Kivu è abitato anche da una popolazione di origine ruandese, i Banyamulenge, vecchi profughi dei periodici massacri tra Hutu e Tutsi, e inoltre ci sono i “cattivi”, cioè i miliziani dell’Fdlr, del regime hutu anteriore al genocidio, da tenere a bada e da combattere. La capitale Kinshasa è lontana, un mondo a sé, attraversata da tutt’altri problemi. Se questa strategia si concretizzasse, potrebbe poi dilagare, come avvenne nei Balcani degli anni Novanta: l’Uganda potrebbe ritenersi autorizzata a fare altrettanto con l’Ituri; il Katanga e il Kasai a perseguire la strada della loro indipendenza. UN NUOVO PLANISFERO Fantapolitica? Forse. Sta di fatto che il tabù dei confini immutabili è già stato infranto e ce ne sono due esempi, Eritrea e Sud Sudan. La Rd Congo potrebbe dare la stura a una nuova spartizione del continente. Del resto è palese che gli equilibri geopolitici del pianeta stanno mutando e la vecchia suddivisione in zone di influenza tra le grandi potenze ha fatto il suo tempo. Ne serve una nuova e l’Africa, ancora una volta, potrebbe contribuire in modo determinante agli equilibri strategici di questo terzo millennio, iniziato all’insegna dell’instabilità. Insomma una situazione che fa di questo Congo uno dei Paesi più precari del continente e al contempo una cartina di tornasole delle sorti dell’Africa. SUDAN
L’attrice e regista americana Angelina Jolie è in Sudan per girare un nuovo film, prodotto dal Qatar. La pellicola racconterà la storia dei grandi regni della Nubia, culla di antiche civiltà, di cui abbiamo testimonianza ancora oggi grazie a templi e monumenti sepolcrali. La notizia ha irritato il vicino Egitto, tradizionale set usato da Hollywood per questo genere di film, scatenando quella che la Bbc ha definito «la battaglia delle piramidi».
primo piano
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Zuma e il Sudafrica Il presidente della Repubblica, anziano, festeggia il compleanno tra canti e danze. È circondato dai militanti del partito al potere; i colori del movimento che combatté per la liberazione del Paese dalla segregazione razziale campeggiano sul palco. Altrove, una marcia di protesta organizzata dall’opposizione chiede che il contestato leader lasci il potere. In molti criticano le cifre spese per le celebrazioni, in un Paese dagli indici economici preoccupanti. Fino a poco tempo fa, chi segue le vicende dell’Africa meridionale era abituato ad associare immagini come queste allo Zimbabwe dell’oggi 93enne Robert Mugabe. Ma lo scorso 12 aprile, lo stesso è successo nel vicino Sudafrica, nel giorno del settantacinquesimo compleanno del capo dello Stato, Jacob Zuma. Sotto accusa da parte dell’opinione pubblica per il cosiddetto Guptagate (dal nome della famiglia di imprenditori Gupta, capaci secondo la stampa di influenzare anche nomine e decisioni di governo), Zuma rischia di trascinare nella sua impopolarità l’African National Congress. Il partito che dall’avvento della democrazia ha sempre mantenuto il potere in Sudafrica. Le alternative, per ora, restano nebulose: la Democratic Alliance di centrodestra, considerata da alcuni troppo legata agli interessi della ricca minoranza bianca? O il movimento di sinistra radicale guidato dal controverso Julius Malema? Un nuovo leader ancora da trovare, e non legato a Zuma, per l’Anc? Non ci sono soluzioni a rischio zero, nel Sudafrica che andrà alle elezioni generali nel 2019. E che, per lo scorrere inevitabile del tempo, vede assottigliarsi sempre più il numero di quei veterani della lotta di liberazione capaci di andare oltre la retorica del passato e sottolineare i vizi del potere. Come Ahmed Kathrada, amico e consigliere di Nelson Mandela, morto a fine marzo. Passa per figure capaci di imitarlo, prima ancora che per il nome del futuro leader, la capacità del Sudafrica di non assomigliare ai più criticati tra i suoi vicini. Davide Maggiore
MADAGASCAR
Come ogni estate, sull’altopiano malgascio si celebra la Famadihana (letteralmente “il rovesciamento delle ossa”), conosciuta anche con il nome di “Festa del Ritorno” o “Secondo Funerale”. Da giugno a settembre le salme dei defunti vengono riesumate dalle tombe e riportate alla luce dai famigliari per un giorno di festa che, tra danze scatenate e fiumi di birra e rum, rendono omaggio al caro estinto.
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ATTUALITÀ testo di Kodjo Sena – foto di Eric Lafforgue
La fame vista dall’alto
8 africa · 4 · 2017
LE FOTO SCATTATE DAI DRONI RIVELANO IL DRAMMA DELLA CARESTIA NEL CORNO D’AFRICA
Trenta milioni di persone sono a rischio in Somalia, Etiopia, Sud Sudan e attorno al Lago Ciad. Per le Nazioni Unite è la peggiore crisi alimentare degli ultimi cinquant’anni. Le cause? Siccità e instabilità politica. Le immagini di un disastro evitabile I bollettini delle agenzie umanitarie vengono aggiornati ogni settimana. E vanno di male in peggio. Le stime diffuse dalle Nazioni Unite nel momento in cui mandiamo in stampa questa rivista fanno venire i brividi. In Somalia la siccità minaccia sei milioni di persone. In tutto il Corno d’Africa, nella Nigeria settentrionale, in Sudan e nello Yemen le persone a rischio sono trenta milioni. Secondo la Fao, «siamo di fronte alla peggiore crisi alimentare degli ultimi decenni». Le immagini che arrivano dalle aree più colpite ci portano alla memoria le carestie in Etiopia del 1983 e in Biafra del 1968 (vedi l’articolo alle pagine 54-57): bimbi scheletrici o coi ventri gonfi e malati, madri coi seni avvizziti, campi agricoli e pascoli bruciati dal sole, mandrie di vacche sterminate dalla mancanza di acqua e foraggio, fiumane di disperati in fuga dalla fame. Ma sono le foto aeree dai droni
◀ Le carcasse delle vacche morte per la siccità ricoprono come un macabro presagio le campagne della provincia di Yabelo, nell’Etiopia meridionale. In quest’area, sono 5 milioni coloro che necessitano di assistenza alimentare
che svelano le proporzioni paurose di ciò che sta avvenendo. Bestiame sterminato Intere regioni dell’Africa appaiono spogliate di qualsiasi forma di vita. I villaggi rurali sono spopolati, i laghi e le sorgenti disseccate, le carcasse degli animali punteggiano il paesaggio come lugubri presagi che incombono sulle popolazioni. La situazione appare particolarmente drammatica nei territori al confine tra Etiopia e Somalia dove, per il secondo anno consecutivo, la stagione delle piogge si è dileguata, lasciando all’asciutto pozzi e fiumi. I raccolti nei fazzoletti di terra coltivati dagli abitanti con mezzi arcaici sono andati perduti. Migliaia di vacche e capre sono morte sotto il sole implacabile, condannando alla fame gli allevatori. Nella provincia di Yabelo, Etiopia meridionale, l’80 per cento del bestiame è andato perduto per la siccità. Il governo del Kenya ha dichiarato l’emergenza nazionale: la siccità sta infierendo su metà delle 47 contee. In Somalia, negli ultimi sei mesi sono morti quattrocentomila dromedari destinati all’eafrica · 4 · 2017 9
◀ Una comunità di pastori dassanech, anch’essi colpiti dalla siccità, in un villaggio nei pressi di Omorate, nella Valle dell’Omo, al confine tra Etiopia e Kenya ◀ Le colture dell'altopiano etiopico bruciate dal sole. I raccolti di cereali sono andati perduti ◀ Veduta aerea di una comunità di pastori borana radunatasi per macellare un toro. Il Corno d’Africa sta soffrendo la peggiore siccità degli ultimi decenni, con effetti devastanti sul bestiame, che garantisce la sopravvivenza della popolazione ◀ Villaggio disabitato nelle campagne vicino a Kisimaio, nel sud della Somalia. In questa regione intere comunità hanno dovuto lasciare le loro abitazioni a causa della siccità e ora dipendono dagli aiuti umanitari Dieter Telemans / Panos / Luz
sportazione nella Penisola arabica. La pastorizia e il commercio degli animali – da cui dipende la povera economia rurale – sono in ginocchio. Lo spettro del Niño Nel sud della Somalia, i fiumi Giuba e Uebi Scebeli sono ridotti a dei rigagnoli. Intere comunità non hanno di che sfamarsi e sono costrette a vagare a piedi per chilometri e chilometri in cerca di acqua e di aiuti. I bambini senza infanzia lasciano la scuola, i vecchi senza più forze si lasciano morire. La situazione potrebbe peggiorare nei prossimi mesi. L’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) ha lanciato l’allarme: c’è una forte possibilità che l’assenza di precipitazioni prosegua ancora per mol10 africa · 4 · 2017 Getty
ti mesi. I modelli degli esperti prevedono un probabile ritorno di El Niño – il fenomeno naturale che periodicamente riscalda le acque del Pacifico tropicale contribuendo agli sconvolgimenti globali dell’atmosfera terrestre – nella seconda metà di quest’anno. Il ciclo di El Niño del 2015-16 è stato tra i più intensi e devastanti degli ultimi decenni. Ha portato alluvioni in America Latina e siccità in Africa meridionale e Corno d’Africa, dove ha bruciato i campi e assetato il bestiame. Secondo l’Onu, ha creato problemi di sicurezza alimentare per 60 milioni di persone. Emergenza somala Ma le criticità ambientali sono solo una parte del problema. Ciò che più preoccupa è il persistere dell’instabilità politica e dell’insicurezza, che ostacola le operazioni di soccorso e impedisce di portare assistenza alle popolazioni delle aree più isolate. Le conseguenze sanitarie sono disastrose. La Somalia, con sempre meno acqua pulita a disposizione, deve affrontare un aumento esponenziale di casi di colera: si contano almeno 300 nuovi contagi al giorno, con decine di vittime. Dall’inizio dell’anno, su circa 35.000 infezioni accertate ci sono stati 500 decessi, gran parte dei quali avvenuti in zone controllate dal gruppo jihadista al-Shabaab e quasi inaccessibili agli operatori umanitari. Duecentomila bambini so-
ATTUALITÀ testo di Marco Trovato – foto di Sven Torfinn / Panos / Luz
L’uomo che scopre i minerali maledetti
NELLE FORESTE DEL KIVU UN GEOLOGO CANADESE TENTA DI CONTRASTARE IL CONTRABBANDO DI COLTAN CHE ALIMENTA LA GUERRA
Stop ai minerali insanguinati. Facile a dirsi… Occorre innanzitutto stabilire da dove provengono. È il compito affidato a Uwe Naeher nelle regioni orientali della Repubblica democratica del Congo flagellate da corruzione, instabilità e violenze Da tempo si è abituato al caldo opprimente dell’Equatore, i nugoli di zanzare, l’aria pesante di umidità. Ha lasciato il Canada, sua terra natale, nel 2002. E da quindici anni è in Africa. Ha vissuto e lavorato in Sudafrica, Gabon, Botswana, Ruanda e Burundi. Ora si trova nella Repubblica democratica del Congo, dove gli è stata affidata una missione speciale da portare a termine: fermare il commercio clandestino di coltan, il metallo prezioso che alimenta la ventennale guerra del Kivu. Business criminale Uwe Naeher è un geologo di fama mondiale, dipendente dell’Istituto per le geoscienze e risorse naturali (Bgr), un ente per la ricerca con sede ad Hannover, che lavora per il governo e gli industriali tedeschi, e collabora da anni con la Conferenza internazionale sulla regione dei Grandi Laghi (un organismo intergovernativo
◀ Uwe Naeher nel giardino di casa a Bukavu controlla i risultati delle analisi dei campioni di minerali raccolti nelle foreste del Kivu. I dati verranno inviati in Germania per essere elaborati
regionale a cui aderiscono le autorità di Kinshasa). Il suo compito è verificare l’origine dei minerali che escono dalle foreste del bacino fluviale del Congo, ovvero accertare che le grandi quantità di pietre e polveri preziose spedite ogni giorno in tutto il mondo provengano da miniere ufficiali e non fuoriescano illegalmente da zone controllate da milizie armate. Il Nord-est della Rd Congo è ricco di oro, coltan, tantalio, stagno, tungsteno e molti altri minerali cruciali per le industrie di Cina, Usa, Europa e India. Il giro di affari è stimato in decine di milioni di dollari. Ma la quasi totalità di questo bottino finisce nelle mani delle organizzazioni criminali che operano in Kivu e che hanno fitti rapporti con i Paesi confinanti (soprattutto il Ruanda, ma anche Burundi, Tanzania e Uganda). La competizione per l’estrazione illecita dei minerali è all’origine dell’instabilità nella regione. L’immensa ricchezza celata nel sottosuolo congolese – una potenziale fortuna per la popolazione locale – favorisce la proliferazione di gruppi terroristici, il contrabbando, il riciclo africa · 4 · 2017 13
LUCI E OMBRE DELLA NUOVA LEGGE UE
L’Unione Europea ha definitivamente approvato il regolamento che impedisce l’importazione di tungsteno, stagno, tantalio e oro da zone di guerra. Dopo il sì del Parlamento di Strasburgo (20 maggio 2015), il 17 marzo anche il Consiglio europeo ha dato il via libera alla normativa. In base al nuovo regolamento, gli importatori dovranno garantire che non c’è alcun legame tra la loro catena di approvvigionamento e i gruppi ribelli che operano nelle regioni in cui vengono estratti i minerali. Per questo il lavoro di certificazione portato avanti da Uwe Naeher è fondamentale. «I gruppi armati – ha spiegato Wendy Borg, portavoce della presidenza Ue – spesso fanno uso di lavoro forzato nelle miniere e utilizzano i proventi della vendita per finanziare le loro attività criminali. Questo regolamento dovrebbe spezzare il circolo vizioso che alimenta l’instabilità». L’Unione Europea non ha individuato quali siano le «zone di conflitto», anche se la Repubblica democratica del Congo è stata spesso menzionata nel corso del dibattito, durato circa tre anni. Il nuovo regolamento dovrebbe coprire almeno il 95% di tutti i metalli e di minerali importati in Europa. Tantalio, tungsteno, stagno e oro sono importantissimi per l’industria europea. Senza l’oro proveniente dai Paesi del Sud del mondo, per esempio, la prestigiosa industria orafa europea (soprattutto quella italiana) avrebbe seri problemi. Senza il tantalio, componente essenziale del coltan, uno dei uno dei migliori conduttori, sarebbe impossibile produrre smartphone, computer, tablet. Le organizzazioni della società civile sono parzialmente soddisfatte. Se è vero che la normativa pone limiti all’importazione delle materie prime, è anche vero che la legge non si applica ai prodotti finiti. «Prendiamo l’esempio dei telefoni cellulari “made in China” – afferma Emily Norton, portavoce di Global Witness, ong che lavora contro lo sfruttamento delle risorse naturali –: essi possono contenere minerali provenienti da zone di conflitto dove molti Paesi asiatici continueranno a rifornirsi. Questi telefonini potranno però essere importati nell’Unione Europea perché le nuove norme non lo vietano espressamente». Le ong lamentano anche il fatto che Bruxelles ha escluso dalla norma il cobalto, altro minerale controverso. Al di là delle lacune, frutto di compromessi tra le forze politiche, la legge rappresenta un importante passo avanti nella direzione di un maggior rispetto dei diritti umani delle popolazioni del Sud del mondo. La sua approvazione avviene inoltre in un momento in cui Donald Trump vuole abrogare il Dodd Franck Act, una complessa normativa che regola il mercato finanziario e che impone forti limitazioni all’importazione di minerali provenienti dalle zone in conflitto della Rd Congo. (Enrico Casale)
Gwenn Dubourthoumieu 14 africa · 4 · 2017
transfrontaliero di denaro e l’afflusso di finanziamenti illeciti. Il Kivu è da tempo un inferno di saccheggi, massacri, stupri di massa. I soldati dell’esercito di Kinshasa e i caschi blu della Monusco, la missione Onu in Congo, non riescono a proteggere la popolazione civile. Il commercio occulto dei minerali finanzia l’arsenale di decine di milizie e la diffusione delle armi alimenta la guerra per il controllo delle miniere: una spirale perversa di violenze che va avanti da oltre vent’anni e ha già provocato più di 10 milioni di morti. Gps e microscopio Di recente l’Unione Europea ha approvato una legge che vieta l’importazione dei metalli estratti in zone di guerra (vedi box a fianco). Facile a dirsi, difficilissimo a farsi. La Repubblica democratica del Congo è un Paese corrotto fino al midollo, grande sette volte l’Italia, con confini porosi e insicurezza latente. Per bloccare il commercio dei “minerali insanguinati” occorre anzitutto ricostruire e accertare l’origine delle gemme e delle polveri che fuoriescono dal Kivu. È proprio ciò che tenta di fare Uwe Naeher. «Benché a prima
◀ L’estrazione del coltan avviene in miniere a cielo aperto che punteggiano l’Est del Congo. Voragini all’interno delle quali sprofondano migliaia di lavoratori, bambini compresi
ATTUALITÀ testo di Valentina G. Milani – foto di Gabriele Cecconi
Punto di svolta Per ventitré anni i giornalisti di The Point hanno sfidato il tiranno Yahya Jammeh. Per questo hanno subito intimidazioni, minacce, spietati omicidi. Ma non si sono piegati. E oggi la loro voce libera racconta la delicata transizione democratica della piccola nazione dell’Africa occidentale
Nella redazione di The Point. Il giornale è conosciuto soprattutto per le sue inchieste coraggiose contro i poteri forti
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ABBIAMO VISITATO LA REDAZIONE DELL’UNICO GIORNALE INDIPENDENTE DEL GAMBIA, SIMBOLO DELLA LIBERTÀ RITROVATA
In una stanzetta coi muri scrostati stanno ammassati una mezza dozzina di giornalisti. Schiene curve sulle scrivanie, mani spedite sulle tastiere dei vecchi computer, ogni tanto alzano lo sguardo e si concedono una battuta per farsi due risate. C’è un clima disteso nella redazione di The Point, l’unico giornale indipendente del Gambia, minuscola nazione dell’Africa occidentale. «Non è sempre stato così: fino a poco tempo fa lavoravamo tesi e angosciati», dice Pap
Saine, fisico imponente e modi garbati, direttore e cofondatore del quotidiano che da venticinque anni ha sede nel centro della capitale Banjul. «Durante la dittatura ci poteva accadere qualunque cosa, da un momento all’altro», prosegue a raccontare l’editorin-chief, per quarant’anni corrispondente Reuters, mentre raccoglie dai collaboratori i fogli con le bozze degli articoli. «Era un inferno fare il nostro mestiere, ma non ci siamo tirati indietro».
ATTUALITÀ testo di Enzo Nucci* – foto di Carlo Ramerino
La nuova Nairobi, vivace e inquieta
UN GIORNALISTA ITALIANO RACCONTA LA SUA CITTÀ DI ADOZIONE, SOSPESA TRA GRATTACIELI E BARACCHE
Polo economico, centro politico, hub regionale dell’hi-tech, sede di agenzie umanitarie e grandi multinazionali. Nairobi è una capitale vibrante e moderna. Ma rivela evidenti fragilità e stridenti contrasti. Che affiorano alla vigilia delle elezioni in Kenya Nairobi è un rompicapo che disorienta i visitatori e provoca reazioni contrastanti, oscillanti tra fascino e voglia di oblio. Capire e decodificare questa “strana” città, intrisa di contrasti estremi, è una sfida tutt’altro che semplice. La capitale del Kenya, sospesa tra grattacieli e baracche, non smette di stupire, nel bene e nel male. Eppure non c’è luogo d’osservazione migliore per intuire le sfide e il destino dell’intero continente. Qui tutto pare eccessivo, estremo, contradditorio. Nelle sue lontane zone rurali, decine di presunte streghe (e i loro familiari) vengono bruciate vive senza tanti complimenti sotto l’occhio vigile delle telecamere dei telefonini, che riprendono senza stacchi il rogo “purificatore”. Violenze e tabù È la città dove una rivista letteraria – Kwani? (E allora?) – dal 2003 è diventata la culla degli
◀ Famiglie all'Uhuru Park, il parco adiacente al centro cittadino, dove nel week-end si rilassano i cittadini della capitale Alessandro Gandolfi/Parallelozero
scrittori emergenti, tra cui Binyavanga Wainaina, noto anche in Italia per i suoi articoli pubblicati su alcuni settimanali e per il libro Un giorno scriverò di questo posto. Un romanziere che con enorme coraggio ha fatto coming out nel 2014 pubblicando sul web la confessione “Mamma, sono omosessuale” in una nazione dove l’omosessualità maschile è un reato punibile con una forte ammenda e con la reclusione dai 5 ai 14 anni. Mentre quella femminile non è neanche contemplata dalle leggi: eppure sta crescendo un attivissimo movimento Lgbt proprio con le donne protagoniste indiscusse. Una città violentemente maschilista, dove le ragazze in minigonna “provocano” i viaggiatori sui matatu, i minibus, e questi si sentono autorizzati a sottoporle a stupri di gruppo (sempre ripresi dagli onnipresenti telefonini). Due anni fa ci fu una “epidemia” di queste violenze sessuali, che portarono in piazza a protestare migliaia di donne sulle note della canzone Get up, stand up di Bob Marley. Nel luglio 2015, il presidente statunitense Obama in visita ufficiale africa · 4 · 2017 21
dida Sven Torfinn/Panos Pictures / Luz
Viavai di pedoni su una strada del centro decorata da un murale Un uomo d’affari si allena sul green del Vipingo Golf Club. Adiacente al campo c’è l’eliporto riservato alla facoltosa clientela
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dida
SOCIETÀ testo di Valentina G. Milani – foto di Marco Garofalo
Gli scimpanzé in esilio sulle isole
IN LIBERIA, UN GRUPPO DI VOLONTARI SOCCORRE DECINE DI SCIMMIE ANTROPOMORFE ABBANDONATE DAGLI SCIENZIATI IN MEZZO ALLE ACQUE
Per oltre quarant’anni un laboratorio di ricerca americano ha condotto, vicino a Monrovia, esperimenti sui primati per testare nuovi medicinali. Quando gli scienziati hanno concluso i loro studi, si sono sbarazzati delle cavie… Gli scimpanzé spuntano dalla boscaglia non appena la barca carica di cibo si avvicina all’isola. Gli operatori del “Liberia Chimpanzees Rescue” lanciano frutti tropicali sulla riva scatenando l’agitazione degli animali. I più piccoli si contendono le noci di cocco. Samantha, la più vecchia del gruppo, agguanta una banana, la nasconde dietro
◀ Attivisti di “Liberia Chimpanzees Rescue” distribuiscono il cibo. Lo scimpanzé è prevalentemente vegetariano ed è ghiotto di frutta, semi, fiori, cortecce e resine. Integra la sua alimentazione con miele, insetti, uccelli e loro uova, talora piccoli mammiferi
la schiena e allunga l’altro braccio per chiederne ancora. «Oggi Samantha è di ottimo umore, si vede che sta bene. Ma due anni fa era in fin di vita, come gran parte dei suoi compagni», racconta Jenny Desmond, responsabile delle operazioni di soccorso. Assieme al marito Jimmy, veterinario, è stata la prima a prendersi cura dei primati che vivono sulle isole alla foce del Farmington. «Quando siamo arrivati la prima volta – ricorda la donna, nata negli Usa ma residente da anni in Africa occidentale –, gli animali erano malati, affamati, assetati. Praticamente agonizzanti… Condannati a una fine atroce al termine di una vita da incubo».
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Strage silenziosa In questo arcipelago di isolotti, non lontano dalla capitale Monrovia, si trovano una sessantina di scimpanzé sopravvissuti ai test condotti nel laboratorio Vilab II, un centro di ricerca aperto in Liberia negli anni Settanta dal New York Blood Center. «Per quarant’anni una miriade di esemplari di Pan troglodytes sono stati catturati nelle foreste del Paese al fine di testare nuove cure e medicinali», spiega Jenny mentre cammina tra le vecchie gabbie arrugginite che un tempo rinchiudevano gli animali. Gli scimpanzé sono considerati delle cavie ideali per la loro impressionante somiglianza genetica con l’uomo: il loro Dna è uguale al nostro per il 98,5 per cento. «Qui so-
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CUGINI DELL’UOMO
Lo scimpanzé comune (Pan troglodytes) è un primate della superfamiglia Hominoidea, o delle “scimmie antropomorfe”. Allo stato naturale vive solo nell’Africa centro-occidentale, nella zona equatoriale, e il suo habitat tipico è la foresta tropicale. Insieme al bonobo, appartiene a un ramo evolutivo collaterale alla specie umana, condividendo con essa un antenato comune di circa 5 milioni di anni fa. Il Dna dello scimpanzé infatti corrisponde per circa il 98,5% al Dna umano. Gli scimpanzé sono in grado, allo stato naturale, di usare utensili, come i rametti che inseriscono nei termitai per catturare gli insetti, oppure le pietre che tirano ai predatori. In cattività, dimostrano di poter apprendere il linguaggio dei segni ed esprimere numerosi concetti nonché imparare l’uso di computer e telefoni, o eseguire semplici calcoli matematici, grazie anche alla loro svelta memoria visiva. Ci sono scimpanzé in cattività che guardano la tivù per divertimento, si aprono lattine per bersi le bibite gassate e c’è persino chi si lascia prendere dal vizio del fumo. Gli studi di Jane Goodall in Tanzania hanno dimostrato l’esistenza di una vera e propria cultura nelle comunità di scimpanzé, analoga a quella dei primi appartenenti al genere Homo e Australopithecus. La specie, in pericolo di estinzione, è tutelata a livello internazionale: vige il divieto assoluto di commercio, tranne che per le esigenze della ricerca scientifica. (Fonte: Wikipedia)
no stati uccisi circa 440 scimpanzé in nome della scienza e del progresso. Non ci è dato sapere quali risultati siano stati raggiunti con questa carneficina», conclude con amarezza. Per lungo tempo gli studiosi del Vilab II – in buona parte americani – hanno potuto contare sul sostegno economico di fondazioni scientifiche e colossi farmaceutici. Poi, nel 2006, la crisi economica negli Usa ha prosciugato il flusso dei finanziamenti, obbligando i responsabili del laboratorio a tagliare gran parte dei programmi di ricerca. Condannati a morte Gli studi e gli esperimenti, pur fortemente ridotti, sono proseguiti fino a un paio di anni fa, quando ebola ha fatto fuggire anche gli ultimi ricercatori. A quel punto, il Vilab II è stato chiuso e gli scimpanzé – a cui erano stati inoculati sieri e sostanze chimiche – abbandonati sulle isole circostanti. «Hanno scelto il modo più economico per sbarazzarsi di animali che non dovevano entrare in contatto con l’uomo – fa presente Jenny scrollando la testa –. Ma è stata una scelta dissennata, una sorta di condanna a morte». Gli scimpanzé erano abituati a vivere in cattività. Non sapevano condividere spazi e risorse. Litigavano fra loro e non erano in grado di procurarsi il cibo da soli. Le isole, inoltre, erano sprovviste di sorgenti di acqua dolce. «Qui il fiume Farmington si fonde con l’Oceano Atlantico,
SOCIETÀ testo e foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero
Savana Circus
UNA COMPAGNIA DI ARTISTI CIRCENSI TIENE SPETTACOLI NEI VILLAGGI PIÙ SPERDUTI DELLO ZIMBABWE
Nelle scuole rurali del Matabeleland Settentrionale irrompe una compagnia di clown, giocolieri e acrobati “senza frontiere”. Una pausa di svago tra le lezioni? No, molto di più… Se vi capitasse di viaggiare per lo Zimbabwe, nelle savane che circondano lo Hwange National Park, regno di elefanti e bufali, potreste imbattervi in una piccola carovana di clown e giocolieri. Non stropicciatevi gli occhi: è il circo itinerante di Éric Bouvron, un artista polivalente e senza frontiere (nato in Egitto da madre greca e padre francese, è cresciuto in Sudafrica prima di trasferirsi a Parigi). Di tanto in tanto, Éric torna in Africa australe per far conoscere l’arte circense nelle aree più isolate. «Migliaia di ragazzi non hanno l’opportunità di allontanarsi dai villaggi in cui sono nati», spiega l’artista, specializzato in sketch comici e numeri di illusionismo. Allegria salutare La scorsa estate, Éric ha organizzato una tournée 38 africa · numero 4 · 2017
in alcune scuole del Matabeleland Settentrionale. E ha coinvolto tre amici: Immo, un giocoliere nato in Germania, che si esibisce con torce e palline da ping-pong; Mathos, un percussionista e ballerino congolese; Seán, un coreografo di origini irlandesi specializzato nel realizzare maschere. Per mesi il gruppetto si è esibito in Europa al fine di raccogliere i fondi necessari per il tour nella savana. Gli sforzi sono stati sostenuti da Mark Butcher, general manager di Imvelo, una catena di lodge all’insegna del turismo responsabile (imvelosafarilodges.com). Le fotografie di queste pagine testimoniano l’entusiasmo sollevato dagli show, che ha convinto Éric e compagni a programmare, in collaborazione con il ministero dell’Istruzione di Harare, nuove incursioni nelle scuole.
Gli artisti circensi in piena attività nelle scuole rurali dello Zimbabwe, tra numeri di illusionismo e giocoleria, sketch comici, balli coreografici. Il clou dello spettacolo è una cavalcata su un grande monociclo che lascia i giovani a bocca aperta. barefoot-productions.com/africa
COPERTINA di Anna Pozzi
Luci e ombre a TimbuctĂš
Marco Dormino / Minusma
CINQUE ANNI DOPO L’OCCUPAZIONE JIHADISTA, IL CAPOLUOGO DEL NORD DEL MALI NON HA ANCORA RITROVATO LA PACE
La celebre città alle porte del deserto sta vivendo una stagione segnata dall’inquietudine. I monumenti sfregiati e i libri minacciati dagli integralisti sono stati salvati dalla popolazione. Ma resta l’incubo terrorismo Adagiata al limitare del deserto, sonnolenta e misteriosa, Timbuctù ha attratto per secoli viaggiatori e studiosi, commercianti e sapienti. Sino a non molti anni fa – pur nella sua inesorabile decadenza – la Città dei 333 santi, Patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco, ha conservato un fascino unico e speciale. Oggi, però, appare più isolata e abbandonata che mai. E questo, a causa della persistente instabilità che da quasi cinque anni interessa il Nord-est del Mali. Liberata a metà All’inizio del 2012, Timbuctù non sfuggì all’assalto dai miliziani di Ansar Dine e del Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mujao), due gruppi fondamentalisti legati ad al-Qaeda, nelle cui fila militavano anche ribelli separatisti tuareg. Gli islamisti conquistarono la città e, ispirati da una visione oscurantista della reli-
◀ A Timbuctù, nei pressi della moschea di Djinguereber, una delle tre moschee del Nord del Mali inserite dall’Unesco tra i Patrimoni dell’umanità
gione, distrussero persino edifici sacri e mausolei, instaurarono un sistema fondato sul terrore e imposero l’applicazione più retrograda della sharia: vietarono musica, danze, radio e televisione; obbligarono le donne al velo integrale; chiusero le scuole pubbliche e proibirono ai bambini di giocare a calcio e di fare il tifo per la squadra del cuore. La polizia religiosa rastrellava le case e portava via chiunque fosse accusato di non adeguarsi. I tribunali decretarono fustigazioni, lapidazioni, mutilazioni corporali. I ribelli vennero cacciati nel 2013 anche grazie all’intervento militare francese. Ma, a distanza di oltre quattro anni, è chiaro che la “liberazione” non ha riportato la pace. I miliziani si sono rifugiati nel deserto e dalle loro basi assaltano convogli e postazioni dell’esercito, e seminano il terrore nei villaggi. A maggio, un uomo e una donna tuareg sono stati lapidati a morte a Taghlite dai jihadisti, con l’accusa di convivere fuori dal matrimonio. Un’esecuzione per mano di estremisti di Ansar Dine, un gruppo il cui leader qualche mese fa ha dichiarato africa · 4 · 2017 41
di essersi unito alle formazioni al-Mourabitoun e al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), creando un nuovo gruppo denominato Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimeen, che significa: Supporto all’islam e ai musulmani. Issouf Sanogo / Afp
M. Dormino / Minusma
Alta tensione La strada che collega Timbuctù al resto del Paese è un tormento di checkpoint militari che impediscono il transito dei mezzi civili. Impossibile muoversi coi fuoristrada. Autobus e taxi collettivi sono scortati dall’esercito e spesso bloccati, così come succede al trasporto pubblico fluviale di piroghe e battelli sul Niger. L’aereo bianco della missione Onu di stabilizzazione del Mali (Minusma) è l’unico cordone ombelicale ◀ Un pescatore sul Niger tra Timbuctù e Mopti. Malgrado l’insicurezza, la vita quotidiana scorre sui ritmi di sempre ◀ Caschi blu in pattugliamento per le strade di Timbuctù. La missione dell’Onu in Mali è diventata la più pericolosa nella storia delle Nazioni Unite
M. Dormino / Minusma
◀ Donne all’ombra in un vicolo di Kidal. In questa zona è particolarmente pericolosa la presenza di cellule jihadiste ◀ Fedeli radunati per i lavori di restauro della moschea Sankoré a Timbuctù, risparmiata dalla devastazione jihadista ▶ Tuareg nel deserto, non lontano dalla “Città dei 333 santi” ▶ Un abitante di Timbuctù cammina nei pressi della moschea di Djinguereber, una delle tre moschee del Nord del Mali inserite nella lista dei Patrimoni dell’umanità
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che permette di far arrivare aiuti alla popolazione. Il ritorno di centinaia di sfollati – e dei turisti occidentali che un tempo affluivano numerosi – è ostacolato dalle precarie condizioni di sicurezza. Quasi ogni settimana pervengono notizie di attacchi di matrice jihadista. A inizio giugno, tre caschi blu sono stati uccisi in un assalto condotto a Kidal. Pochi giorni prima, due soldati hanno perso la vita a Aguelhok, nei pressi del confine con l’Algeria, mentre un peacekeeper liberiano è stato ucciso a Timbuctù e due militari maliani sono stati freddati in un agguato ad Almoustarat. Un altro attacco ha provocato nove morti e cinque feriti tra i soldati maliani nella regione di Ségou. Il contingente dei caschi blu – 15.000 uomini dispiegati dal 2014 – sta pagando un prezzo molto alto in termini di vite umane: 122 le vittime ufficiali, soprattutto africane (ciadiane, burkinabé, togolesi, nigerine e nigeriane) in quella che appare ormai la più pericolosa missione di pace nella storia delle Nazioni Unite. Simbolo e frontiera Oggi Timbuctù è il luogosimbolo di una terra ferita e oltraggiata. Quello che per secoli è stato il centro di commerci fiorenti e di un islam illuminato e colto, è diventato il fantasma di sé stesso. La gente, i monumenti, un passato glorioso sono stati violentati dalla furia di manipoli di banditi, che dicono di ispirarsi alla religione “vera” e non sono che cri-
CULTURA testo di Alberto Salza – foto di Anthony Pappone
I sontuosi funerali degli Ashanti
SABATO A KUMASI. NELLA SECONDA CITTÀ DEL GHANA, È GIORNO DI VIVACI E ORIGINALI RITI FUNEBRI
Il popolo ashanti ha sviluppato una spiccata passione per il culto dei defunti e una fervida fantasia nell’organizzazione delle esequie. Per averne conferma, basta visitare Kumasi nel giorno dedicato ai cari estinti C’è qualcosa di morboso nella pulsione dei visitatori bianchi verso l’Africa. Pare che vogliano vedere solamente feste mascherate e cerimonie: matrimoni e funerali su tutti. Se poi a sposarsi o a morire è un re, allora val la pena organizzare i torpedoni e preparare le macchine fotografiche. D’altra parte, tutta la polvere d’oro che cadeva a terra durante le transazioni nel mercato di Kumasi, in Ghana, apparteneva al re degli Ashanti (il termine è coloniale, e andrebbe scritto Asante): quel che luccica non è per la gente comune. Fu per questo che una sera mi imbucai in una cerimonia funebre qualsiasi a Kumasi. Qualche bel costume, soprattutto di colore rosso sgargiante, un sacco di agitazione, canti e danze, ma niente di che. All’ingresso del grande cortile della casa di famiglia, mi venne richiesto solamente di portare da bere. Non venne specifi-
◀ I partecipanti ai funerali fanno sfoggio di grande eleganza. I cortigiani sostengono enormi parasole sulla testa dei dignitari ashanti, massime autorità tradizionali, che ostentano bracciali d’oro e altri segni distintivi della regalità
cato il quantitativo, ma mi si chiarì che ero autorizzato a bere solo una quantità massima pari al mio input alcolico alla festa. L’eventuale surplus (lo sguardo che mi diedero i parenti del defunto pareva negare tale eventualità) sarebbe servito per i più poveri o per i bevitori di terzo livello. Nonostante lo status symbol di modernità, venni sconsigliato di portare Coca-Cola, una bevanda che non viene considerata consona ai funerali: nella morte, in attesa di probabili ibridazioni, per il momento il capitale globalizzato non può essere trasformato in valore culturale locale. Entrai con due casse di birra, suscitando giubilo. Niente paura A quanto pare, qui nessuno ha paura della morte, dato che si deve pur morire per divenire potenti antenati. Nessuno prova a spendere quattrini per aiutare un parente a sfuggire alla morte. Dato che tra gli Ashanti è l’abusua, la posizione sociale della famiglia materna, a determinare i rapporti formali con la comunità (a sberleffo delle miopie occidentali sulle questioni di genere in Africa), sono i membri femminili della africa · 4 · 2017 49
Porta l’Africa nella tua città. Richiedi le nostre mostre con le foto dei grandi reporter 24 ore nella vita del continente vero
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ONE DAY IN AFRICA
I prodigi di un continente in cerca di riscatto
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CULTURA di Raffaele Masto
CINQUANT’ANNI FA
I fantasmi del Biafra Miriadi di bimbi scheletrici, donne disperate, villaggi bruciati e pieni di cadaveri. Sono le immagini scioccanti che fecero conoscere al mondo il dramma del Biafra. Un conflitto tremendo che spezzò i sogni delle indipendenze africane
SCOPPIAVA NEL SUD-EST DELLA NIGERIA UNA DELLE PIÙ TREMENDE GUERRE DEL NOVECENTO. UN ANNIVERSARIO AMARO
6 luglio 1967, l’esercito nigeriano entra nelle città di Nsukka e Garkem. È l’inizio ufficiale della guerra del Biafra (regione sud-orientale della Nigeria, grande quanto l’Austria), uno dei conflitti più cruenti del Novecento. Quel giorno crollano le grandi speranze suscitate, in Africa e nel mondo, dall’epoca delle indipen-
denze africane. Il Biafra è il simbolo di una delusione, mostra che il continente africano non è affatto avviato verso un’epoca di progresso e di sviluppo, ma ha ancora tanti problemi da risolvere. E la delusione sarà cocente. Le immagini che l’accompagnano, e che faranno impietosamente il giro del mondo, sono drammatiche
Rudolf Steiner, uno dei principali comandanti mercenari passa in rassegna i commando biafrani da lui guidati. Quello del Biafra, fu un conflitto che vide la massiccia presenza di soldati di ventura, soprattutto europei
Fondation Gilles Caron / Contact Press Images / Agentur Focus
◀ 30 maggio 1967. La proclamazione d’indipendenza del Biafra fatta dal colonnello Odumegwu Ojukwu. Il sogno dei separatisti tramonterà il 15 gennaio 1970, quando il Biafra si arrenderà e verrà reintegrato nella Nigeria ◀ Immagini della terribile carestia provocata dall’isolamento della regione imposto dal governo nigeriano, appoggiato dalla Gran Bretagna. ◀ Ojukwu durante una conferenza stampa illustra i confini della nuova nazione ai giornalisti stranieri ◀ Una colonna di soldati indipendentisti trasporta armamenti al fronte. In questa regione sud-orientale della Nigeria si trovano tuttora i maggiori giacimenti petroliferi del Paese
e crudeli: folle di bambini scheletrici, donne dai seni avvizziti e i grandi occhi fissi nel vuoto, terre bruciate, fumanti e coperte di uomini uccisi, sventrati all’arma bianca o dalle schegge dei proiettili di artiglieria sparati indiscriminatamente su villaggi e città. Alla fine, il 13 gennaio del 1970, quando quella follia termina, i morti saranno più di un milione, se si sommano le vittime della fame a quelle della guerra vera e propria. Sì, la fame, perché in quel conflitto la carenza di viveri divenne un’arma micidiale, giocata spietatamente dal governo federale contro gli Igbo, la popolazione che abita le regioni sud-orientali della Nigeria, colpevoli di avere
aspirato a staccarsi dalla federazione. In nome del petrolio Di fatto quel conflitto andava preparandosi da tempo, almeno dal 15 di gennaio dell’anno precedente, quando, sulla base di presunti (e probabilmente veri) brogli elettorali che favoriscono le popolazioni del Nord, alcune sezioni dell’esercito, principalmente di etnia igbo, guidate dal generale Johnson AguyiIronsi, realizzano un colpo di Stato. In risposta, il 29 luglio 1966 l’esercito federale organizza un contro-golpe, dando il potere al colonnello Yakubu Gowon e massacrando le minoranze cristiane igbo del Nord. In seguito gli Igbo del Biafra saranno completamente esclusi dal potere ed è a questo punto che le preoccupazioni delle popolazioni del Sud diventano più che concrete: il Nord si è praticamente impadronito delle immense risorse petrolifere presenti nel loro territorio e delle quali la Nigeria e il mondo stanno prendendo coscienza proprio in quegli anni (nel 1956 la Shell aveva scoperto il primo giacimento, proprio nei territori biafrani). Questa consapevolezza porta, alla fine di maggio del 1967, alla dichiarazione di secessione da parte del governatore militare del Sud-est, il colonnello Odumegwu Ojukwu. Carestia pilotata Gli indipendentisti della Repubblica del Biafra africa · 4 · 2017 55
stabiliscono come capitale Enugu e ostentano una nuova bandiera: rossa, nera e verde in strisce orizzontali e il simbolo, in quella centrale, nera, di metà di un sole giallo (vedi box nella pagina a fianco). La nuova Repubblica nasce con forti limiti diplomatici: viene riconosciuta solo da Gabon, Haiti, Costa d’Avorio, Zambia e Tanzania. Il Portogallo invia aiuti umanitari e stampa la nuova moneta del Biafra. Altri Paesi – Francia, Rhodesia e Sudafrica – forniscono assistenza militare. L’esercito secessionista si lancia in un’avventurosa offensiva verso occidente, che arriva a 200 chilometri da Lagos, ma ben presto subisce una serie di cocenti sconfitte militari. Sostenuto da vari Paesi stranieri (Gran Bretagna, Urss e Stati Uniti),
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il governo di Lagos si accanisce sulla popolazione civile con una violenza inaudita, che sfocia in un genocidio. Viene spalleggiato in particolare dagli ex colonialisti inglesi, che non vogliono perdere il controllo sui pozzi petroliferi. Il primo ministro britannico Harold Wilson si dichiara disposto ad accettare «la morte di mezzo milione di biafrani, se necessario». Purtroppo, come già detto, il bilancio finale sarà molto più tragico: la gran parte delle vittime muore a causa della carestia creata per piegare i separatisti. Per tre anni vengono sigillati i confini della regione scissionista. Il blocco navale, aereo e terrestre fa precipitare il Biafra in una lenta agonia fino alla dichiarazione di resa finale, all’inizio del 1970.
VIAGGI di Marco Trovato e Irene Fornasiero
Crociera tra le sabbie del Sahel
A BORDO DI UNO STORICO
BATTELLO COLONIALE
LUNGO IL CORSO
DEL FIUME SENEGAL
Il leggendario Bou el Mogdad è tornato a solcare le acque che segnano il confine tra Senegal e Mauritania, dall’Atlantico alle porte del Sahara, attraversando una regione ricca di storia, cultura e bellezze naturali La sirena del Bou el Mogdad fischia l’ultimo segnale prima di ritirare la passerella. La folla di curiosi radunatasi sul pontile si sbraccia per salutare il battello in partenza. Dalla plancia di comando il capitano ha ordinato di salpare l’ancora e mollare gli ormeggi, i membri dell’equipaggio sono indaffarati ad avvolgere le cime, il fumaiolo sbuffa ciuffi bianchi che s’innalzano nel cielo terso del mattino. I passeggeri sono ancora intorpiditi
◀ Il battello Bou el Mogdad sospeso sulle acque del Senegal. Il fiume scorre lungo il confine con la Mauritania per più di 800 chilometri e sfocia nell’Oceano Atlantico nei pressi di città di Saint-Louis
nelle loro cuccette ovattate. Ma nella pancia in subbuglio della nave il direttore di macchina Ousmane Ndaye deve urlare per coprire i lamenti dei vecchi motori diesel. «Ruggiscono come leoni feriti, soffrono gli acciacchi del tempo, ma basta trattarli con delicatezza per ottenere ciò che si vuole», sorride sornione mentre manovra delle leve e registra qualche valvola dei due propulsori da 200 cavalli. La sala macchine del Mogdad assomiglia a una pignatta unta d’olio, che soffrigge sotto i piedi. «La temperatura crescerà con la velocità di crociera», avverte Ibou Ndiaye, pelle e abiti grigi come l’antracite, che di mestiere fa il graisseur, “l’ingrassatore”:
africa · 4 · 2017 59 La Compagnie du Fleuve
LA CROCIERA
Il Bou el Mogdad naviga sul fiume Senegal da novembre a maggio. La crociera dura sei giorni e si snoda lungo il confine tra Senegal e Mauritania. L’imbarco può avvenire a Saint-Louis, che si affaccia sull’Atlantico, oppure al porto fluviale di Podor, non lontano dalle dune del Sahara: dipende se si desidera risalire il corso del fiume o si preferisce seguire le acque che scendono lentamente verso il mare. La compagnia Sahel Découverte organizza la logistica. Il battello è dotato di 25 cabine con letti singoli o matrimoniali, docce e bagni privati o in comune, distribuiti su tre ponti. A bordo i passeggeri usufruiscono di pensione completa all-inclusive. A disposizione per chi lo desideri ci sono una piscina all’aperto e un reparto per massaggi rilassanti. Tra le tappe in programma, segnaliamo le escursioni a Richard Toll (visita al celebre Château de Baron Roger e alle immense piantagioni di canna da zucchero), ai pittoreschi villaggi di Thiangaye e Salde, e al santuario naturale di Djoudj che ospita centinaia di specie di uccelli migratori, soprattutto pellicani e fenicotteri. I prezzi, comprensivi di escursioni a terra, oscillano tra i 730 euro (per la cabina standard) e i 1370 (per la suite luxe). Per informazioni su promozioni e disponibilità: www.bouelmogdad.com
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passa il tempo a lubrificare pistoni e stantuffi, mentre la caldaia sibila come una pentola a pressione. «Appena raggiungeremo i sette nodi, sentirai che bolgia: è un concerto imperdibile!», scherza asciugandosi col fazzoletto il volto imperlato di sudore. Orgoglio coloniale Dopo una storia lunga e travagliata, il Bou el Mogdad è tornato a navigare sul fiume Senegal, che segna il confine tra l’omonima nazione e la Mauritania. I suoi primi viaggi in questa regione risalgono agli anni Cinquanta del secolo scorso: all’epoca il battello era di proprietà della compagnia di navigazione Messageries du Sénégal e
collegava gli avamposti coloniali dell’entroterra con il capoluogo Saint-Louis, primo insediamento francese in Africa occidentale, situato là dove il fiume sfocia nell’Oceano Atlantico. Considerato un simbolo della grandeur francese, il Mogdad risaliva per quasi mille chilometri il corso del Senegal e ripercorreva un territorio irrequieto, per la strenua resistenza della popolazione locale, che i soldati di Parigi erano ri-
▼ Cuochi all’opera per la preparazione del pranzo e, a destra, il barman al bancone. Sotto, il responsabile della sala macchine, Ousmane Ndaye, mentre il timoniere Mamadou e il comandante Nguèye sono al lavoro sul ponte di comando
SPORT testo di Daniele Bellocchio – foto di Marco Gualazzini
Somalia, scende in campo la speranza
66 africa · 4 · 2017
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IN VETRINA
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a cura della redazione
VEDO NERO Cari amici di Africa, sono un pensionato di 65 anni. Vorrei farvi notare che la tivù, da cui gran parte degli italiani trae le informazioni, e in certo qual senso anche una forma di indottrinamento, infierisce senza pietà sui problemi e sui mali dell’immigrazione. Inoltre c’è una sfiducia totale nelle istituzioni, che paiono incapaci di gestire il fenomeno, e nella politica, che si rifiuta di prendersi le responsabilità che le competono. In pratica siamo stati abbandonati a noi stessi. Figuratevi che cortocircuito si crea, quando, come capita, si annuncia che ogni immigrato costa 1300 euro al mese, sen-
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za parlare dei problemi che sorgono avendo qui sul territorio cittadini di culture diverse. Io personalmente non nutro diffidenza per queste persone, e con diverse di loro condivido un rapporto di amicizia. Ma vi voglio dare un’immagine realista di quello che in genere la gente pensa, e cioè che l’immigrato le sottrae ricchezza e lavoro. C’è una totale ignoranza sulla questione. E l’ignoranza alimenta la paura. Gli italiani vedono nero nel loro futuro, e in quello dei loro figli. E anch’io, pur cristiano praticante, non ho nessuna fiducia che le cose possano andare meglio. Giorgio Bendazzoli, Verona
Gentile lettore, condividiamo la preoccupazione per il clima in cui siamo immersi. Viviamo un’epoca di razzismi sempre più ostentati. Leggiamo ogni giorno nei social network commenti intrisi di ostilità per i migranti. Sentiamo dichiarazioni di leader politici ispirate alla xenofobia. Vediamo crescere gli atteggiamenti d’intolleranza. L’immigrazione non è una minaccia alla sicurezza, ma una sfida alle nostre capacità di governare fenomeni complessi. Preoccupazioni e inquietudini sono comprensibili, ma il livello di una civiltà si misura dalla sua capacità di rapportarsi a ciò che è diverso per
origine, cultura, religione. Con il nostro lavoro, tentiamo di disinnescare pregiudizi e paure. Raccontiamo cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo, argomentiamo con numeri e parole per dimostrare l’infondatezza dell’equazione migrante=pericolo. Sappiamo di essere una piccola voce. Ma sappiamo anche che nel nostro Paese c’è una moltitudine di voci che si oppongono al clima imperante. Messe assieme, diventano una voce più forte e incisiva. L’errore più grande che potremmo commettere è arrenderci. O restare spettatori passivi. Nel silenzio e nell’indifferenza muore la democrazia. E la speranza.
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