AFRICA N. 4 LUGLIO-AGOSTO 2018 - ANNO 97
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A Milano un week-end di incontri per capire, conoscere e confrontarsi Sabato 24 e Domenica
25 novembre
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Venerdì 23 novembre CONVEGNO e MOSTRA ENERGY AFRICA
Quota di partecipazione: 220 e - studenti 170 e
con: Marco Aime, Padre Mauro Armanino, Giusy Baioni, Giovanni Carbone,
20 e di sconto a chi si iscrive entro il 30 settembre
Don Dante Carraro, Enrico Casale,
I primi che lo desiderano potranno usufruire dell’ospitalità gratuita offerta dai missionari Padri Bianchi a Treviglio, o del pernottamento scontato in hotel a Milano
Cleophas Adrien Dioma, Marco Garofalo,
Elena Dacome, Andrea de Georgio, Davide Demichelis, Martino Ghielmi, Mario Giro, Matteo Leonardi, Raffaele Masto, Grammenos Mastrojeni, Pier Maria Mazzola, Michela Mercuri, Padre Rigobert Minani, François Misser, Georges Nzongola Ntalaja, Enzo Nucci, Desirée Quagliarotti, Domenico Quirico, Pippo Ranci, Alberto Salza, Felwine Sarr, Daniele Scaglione, Maurizio Schmidt, Padre Kizito Sesana, Marco Trovato, Massimo Zaurrini
in collaborazione con
Programma e informazioni:
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cell. 334 244 0655
Sommario
LUGLIO - AGOSTO 2018, N° 4
COPERTINA 42
Sorprendente Costa d’Avorio
3
EDITORIALE Quelli come Soumaila
4 prima pagina di Raffaele Masto
di Raffaele Masto e Irene Fornasiero di Pier Maria Mazzola
ATTUALITÀ
AFRICA
MISSIONE • CULTURA
Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo Plinio il Vecchio (I secolo d.C.)
6 panorama di Enrico Casale
8 economia di Michele Vollaro
9 innovazione di Martino Ghielmi
Uganda. L’orrore alle spalle di Daniele Bellocchio e Marco Gualazzini 16 Le nebbie del Congo di Valentina Giulia Milani e Bruno Zanzottera 22 Il grido dell'immagine di Marco Trovato
10
DIRETTORE RESPONSABILE
Pier Maria Mazzola DIRETTORE EDITORIALE
Marco Trovato WEB
Enrico Casale (news) Raffaele Masto (blog) PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA
Matteo Merletto
SOCIETÀ Ritmi africani nel Golfo Persico di Monir Ghaedi e Giacomo Sini Imprenditori illuminati di Martino Ghielmi 36 Kenya. Un uomo, un villaggio di Enrico Casale e Giovanni Diffidenti 41 Sudafrica. Chester for President di Marco Trovato 30
35
AMMINISTRAZIONE E ABBONATI
Paolo Costantini PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE
Claudia Brambilla
CULTURA
PROPRIETÀ
50
Internationalia Srl EDITORE
Provincia Italiana della Società dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi
54 58
Zimbabwe. Ai primordi dell’arte di Gianni Bauce Il taglio che rende uomini di Alberto Salza Quell’amico sparito in Africa di Marco Trovato
PUBBLICITÀ
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Si ringrazia Parallelozero In copertina: Irene Fornasiero Mappe a cura di Diego Romar - Be Brand STAMPA
Jona - Paderno Dugnano MI Periodico bimestrale - Anno 97 luglio - agosto 2018, n° 4 Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n. 713/48 SEDE
Viale Merisio, 17 - C.P. 61 - 24047 Treviglio BG 0363 44726 0363 48198 info@africarivista.it www.africarivista.it Africa Rivista @africarivista @africarivista africa rivista UN’AFRICA DIVERSA La rivista è stata fondata nel 1922 dai Missionari d’Africa, meglio conosciuti come Padri Bianchi. Fedele ai principi che l’hanno ispirata, è ancora oggi impegnata a raccontare il continente africano al di là di stereotipi e luoghi comuni. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la rivista e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 196 del 30/06/2003 - tutela dei dati personali).
SPORT La punizione al contrario di Marco Trovato Mandiamo in rete il futuro di Claudio Agostoni e Franco Origlia 66 Ruanda. Se il cricket aiuta la pace di Marco Trovato
61 62
CHIESA 69 70
INVETRINA Eventi di Valentina G. Milani Arte e Glamour di Stefania Ragusa 78 VadoinAfrica di Martino Ghielmi 80 Sapori di Irene Fornasiero 81 Solidarietà di Valentina G. Milani 82 Libri di Pier Maria Mazzola 83 Musica di Claudio Agostoni
76
77
I martiri d’Algeria di Pier Maria Mazzola Senegal. L'islam liberale dei Layene di Chiara Sgreccia e A. Cinque
Viaggi di Marco Trovato Web di Giusy Baioni 87 Bazar di Sara Milanese 88 Nero su Bianco di Jean-Léonard Touadi 84
86
e Cécile Kyenge 88
Calendafrica P.M. 1Mazzola africa · 4di · 2018
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Quelli come Soumaila In questo 2018 denso di ricorrenze, c’è anche un giubileo letterario. Il 1° settembre 1968 usciva a Parigi il romanzo di uno scrittore maliano, Yambo Ouologuem, subito coronato con uno dei più prestigiosi premi francesi. Dovere di violenza, tradotto in italiano nel 1970 (oggi introvabile; in Francia è appena stato riedito), introdusse una cesura nello sguardo sulla storia africana. Fino ai primi anni Sessanta, freschi di indipendenze, i letterati avevano cantato un’Africa precoloniale immersa nell'età dell'oro – brutalmente dissolta dall’irruzione europea. I nuovi governanti cominciarono presto a deludere, ma gli scrittori rimasero afoni. Con poche eccezioni, per esempio Ahmadou Kourouma e Wole Soyinka. Ouologuem “spaccò” perché prese partito in forma cruda, irrispettosa, sardonica, mettendo in scena un immaginario regno saheliano dal XIII secolo fino al secondo dopoguerra, in un crescendo di strapotere, crudeltà, violenze, scelte paradossali (e perdenti) di fronte all’invasione coloniale. «I resistenti neri fanno razzie di prigionieri neri e pagano con questa moneta i mercanti in cambio di cavalli, polvere da sparo, armi, aumentando così a orde le colonne interminabili di schiavi, mentre i bianchi, dal canto loro, guadagnano terreno». Ouologuem si vide obbligato a difendersi: «Può sembrare sospetto che un nero si opponga ai neri, ma la mia intenzione è tutt'altra. Io credo che i neri siano fin qui vissuti da schiavi in quanto si sono sempre definiti non in rapporto a sé stessi ma anzitutto in rapporto al bianco. Di qui, il razzismo alla rovescia, certe ideologie sospette Non esiste, a propriamente parlare, un “problema nero”, ma solo dei problemi umani».
Mezzo secolo è passato, molto è cambiato. Ma non è un caso che Alain Mabanckou, lo scrittore congolese emblema di un’africanità senza complessi, abbia ripreso il discorso. In un libriccino di qualche anno fa (inedito in Italia), con garbo ed energia richiama i suoi fratelli a non cercare alibi “francesi” alle proprie responsabilità. Perché davvero – traduciamo noi – sono problemi «umani», non «neri», i giuramenti vodu che legano le ragazze nigeriane deportate in Europa (ed era gran tempo che l’Oba Ewuare II li revocasse e proibisse). Come pure lo sono la nuova tratta transahariana o il caporalato nel Mezzogiorno, che funzionano anche grazie ai kapò connazionali. Oppure la xenofobia dal basso e/o dall’alto che periodicamente si riversa su immigrati venuti dal medesimo continente, come è accaduto in Nigeria, Sudafrica, Costa d’Avorio... E poi ci sono gli altri, tanti, che si battono per la propria gente (e dunque anche per noi). Di alcuni in Italia conosciamo i nomi: Isoke Aikpitanyi e Blessing Okoedion, che hanno rotto il silenzio sulla tratta sessuale; don Mussie Zerai, il Mosè dei candidati naufraghi nel Mediterraneo; Pape Diaw, il leader senegalese di Firenze che ha nobilitato la protesta per l’uccisione di Idy Diene; Yvan Sagnet, che del caporalato ha fatto una questione nazionale. Dal 2 giugno si è aggiunto, tragicamente, un altro nome: Soumaila Sacko, bracciante e sindacalista, ucciso nella Piana di Gioia Tauro. Mentre non hanno invece rotto il silenzio, se non troppo tardi, altri che avevano il dovere di parola: quelli che dicono «ora lo Stato siamo noi». Pier Maria Mazzola
RICEVI AFRICA A CASA La rivista (6 numeri annuali) si riceve con un contributo minimo suggerito di: · rivista cartacea (Italia) 35 € · formato digitale (pdf) 25 €/Chf · rivista cartacea (Svizzera): 45 Chf · rivista cartacea (Estero) 50 € · rivista cartacea+digitale (Italia): 45 € · rivista cartacea+digitale (Svizzera): 55 Chf · rivista cartacea+digitale (Estero) 60 € · Africa + Nigrizia 60 € (anziché 70 €)
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NEWSMasto di Raffaele NEWS
PECHINO ESCE DALL’OMBRA È già vecchia l’immagine di una Cina in Africa unicamente presa dagli affari commerciali e disinteressata a ogni tipo di ingerenza negli affari interni dei Paesi. L’agenzia Xinhua è diventata un hub dell’informazione sul continente, e Pechino disloca truppe, basi e armamenti un po’ dappertutto Sulla Cina in Africa siamo fermi ai cliché secondo i quali Pechino si sta letteralmente “comprando” il continente, sta investendo in grandi opere e infrastrutture (porti, aeroporti, ponti, strade), e lo sta facendo unicamente con un interesse commerciale, in una logica che evita l’ingerenza politica, a differenza di quanto invece hanno storicamente fatto le grandi potenze occidentali e quelle ex coloniali. A ben vedere i dati e la geografia della presenza cinese in Africa, il cliché non corrisponde affatto a verità. La Cina è onnipresente oggi in Africa, ma non ha affatto scalzato le vecchie potenze europee e occidentali. Anzi, a queste oggi si sono aggiunte le monarchie del Golfo con il loro immenso potere finanziario e Russia, India, Brasile, Turchia, Corea del Sud. Grande confusione, dunque, sotto il cielo africano. O, meglio: grande competizione! QUARTO POTERE E infatti, in una situazione di competizione, la Cina ha abbandonato (se mai l’ha avuta) quella caratteristica di non ingerenza negli affari interni africani e il modo di interpretarli e raccontarli al mondo. Proprio a questo proposito si nota un bisogno sempre più pressante,
da parte di Pechino, di raccontare a proprio modo al mondo le vicende africane. Un caso esplicito è quello avvenuto alla fine dell’anno scorso in Zimbabwe, quando il vecchio dittatore Robert Mugabe è stato rimosso dal potere. In quel caso il mondo ha, di fatto, ricevuto notizie dall’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, che aveva corrispondenti e fonti anche nei palazzi del potere oltre che nella società. Le storiche France Presse e Reuters, rispettivamente francese e britannica, hanno dovuto dipendere dalla Xinhua che diffonde notizie in più lingue, non soltanto in cinese. Lo Zimbabwe non è un caso isolato. Sempre più spesso France Presse e Reuters, che dopo la Seconda guerra mondiale hanno raccontato e portato l’Africa in tutte le redazioni occidentali, devono tradurre dalla Xinhua, che negli ultimi anni ha aperto sedi in dieci capitali africane. Evidentemente, chi sente il bisogno di raccontare a proprio modo le vicende politiche ha una propria visione e vorrebbe che anche il resto del mondo la pensasse allo stesso modo. Del resto è noto che l’informazione è potere e la Xinhua è sempre più un’agenzia di riferimento per le cose che accadono in Africa: fonte privilegiata di notizie per giornali, televisioni e agenzie di stampa.
SOMALIA, INONDAZIONI E MORTI Almeno sedici vittime, centinaia di abitazioni distrutte, danni ingenti a edifici pubblici e strade. È il bilancio del ciclone tropicale Sagar, la più devastante tempesta mai abbattutasi sul Corno d’Africa, che a fine maggio ha seminato distruzione e morte in Somaliland (nazione non riconosciuta dalla comunità internazionale, composta dalle province settentrionali della Somalia).
CIAD, IL RITORNO DEI RINOCERONTI Sei esemplari di rinoceronte nero sono stati reintrodotti in Ciad, dove, a causa della caccia, sono spariti dagli anni Settanta. Gli animali provengono dal Sudafrica, dove attualmente vive il 90% dei rinoceronti bianchi e il 35% dei rinoceronti neri di tutta l’Africa. I sei esemplari vivranno nello Zakouma National Park, dove saranno sorvegliati da una squadra di ranger e da un drone.
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NEI GANGLI MILITARI Che la Cina abbia soppiantato la propria strategia di privilegiare gli affari a favore della capacità di influenzare la politica lo si vede in modo evidente con le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, che sono una prova dell’impegno diplomatico e politico delle nazioni nelle aree in cui queste esercitano una certa influenza. Pechino è il secondo contributore assoluto alle operazioni di pace dell’Onu in Africa, dopo la Francia. Ha 2500 uomini schierati nel continente, dove svolge la quasi totalità – 80% – delle sue missioni di peacekeeping: in Sudan (Darfur), Mali, Rd Congo (Kivu). Non solo. La Cina è anche uno dei principali addestratori di ufficiali africani in Paesi come Angola, Gibuti, Kenya, Liberia, Zimbabwe, Zambia, Uganda, Tanzania. Quello dell’addestramento è un ruolo cruciale, che consente a Pechino di conoscere gli eserciti e di influenzare il mercato delle armi, dato che ad acquistare sistemi di armamento saranno, appunto, gli ufficiali. Una strategia che paga, dal momento che quasi il 70% dei Paesi africani ha in dotazione armamenti di fabbricazione cinese. Nel 2017, il valore delle armi cinesi esportate in Africa è stato pari a sei miliardi di dollari. Dai primi anni 2000 a oggi l’export di armi cinesi nel continente è aumentato del 120%. Non solo: dall’anno scorso la Cina ha una base stabile e attiva a Gibuti, dove ci sono già le basi di due potenze come Francia e Stati Uniti. I cinesi non la chiamano base, ma “hub” logistico per facilitare gli affari e non per fare la guerra. Ma è evidente che si tratta di una postazione militare a tutti gli effetti. Con la stessa logica la Cina ha sensibilmente incrementato le navi della propria flotta che stazionano nei porti africani, sempre con l’intento di accrescere la propria influenza militare (ma anche economica e politica) in Africa.
BURUNDI Il presidente burundese Pierre Nkurunziza, 54 anni, al potere dal 2005, autoproclamatosi «il prescelto da Dio», potrà restare al suo posto fino al 2034, dopo il recente successo del referendum sulla riforma costituzionale – boicottato dall’opposizione – che ha eliminato il limite dei due mandati presidenziali. La repressione del regime finora ha causato migliaia di morti e 430.000 profughi.
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La corsa alle armi Nel 2017 il totale delle spese militari ha rappresentato il 2,2% del Pil mondiale, una percentuale pari a 230 dollari per abitante del pianeta, e per la prima volta dal 2013 sono tornate ad aumentare raggiungendo i 1739 miliardi di dollari. Lo si apprende dal rapporto del Sipri, l'Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace di Stoccolma. In testa alla graduatoria dei Paesi che spendono di più per gli armamenti si trovano gli Stati Uniti, con 610 miliardi di dollari, ovvero oltre un terzo del totale mondiale. Al secondo posto, la Cina, con una spesa in aumento da ben 29 anni consecutivi. Segue l’Arabia Saudita, che nel 2017 ha incrementato il budget per la guerra del 9,2% rispetto all’anno precedente. In diminuzione invece le spese militari della Russia che, con 66,3 miliardi di dollari, ha totalizzato un calo del 20% rispetto all’anno precedente. E l’Africa? Considerando solo la regione subsahariana, dove la spesa generale in armi è cresciuta in ogni Paese, a guidare la classifica per volume di investimenti è il Sudafrica (con una percentuale di spese militari pari all’1,3% del Pil), seguito da Angola (3%), Sudan (4,4%), Nigeria (0,8%). Poi ci sono il Kenya e l’Etiopia, rispettivamente con 1,9% e 1,4% sul Pil. Il poverissimo Ciad spende ben il 6,6% per cento del proprio Pil in armi: una risposta alla minaccia di Boko Haram. Ma il caso più clamoroso, che salta agli occhi guardando la classifica, è quello dell’Eritrea, che sta molto in basso nella classifica in termini assoluti ma vanta una percentuale di spese militari sul proprio Pil di ben 20,9 punti: investimenti scandalosi sottratti a scuole, ospedali, infrastrutture, sviluppo dell’economia.
RD CONGO, INCUBO EBOLA Nella Repubblica democratica del Congo è in corso una massiccia campagna di vaccinazioni lanciata dalle autorità nel tentativo di contenere l’epidemia di ebola scoppiata a maggio nella città di Mbandaka, dove vive oltre un milione di persone. Il virus si trasmette attraverso i fluidi corporei delle persone infettate, anche se già morte. Al momento le vittime accertate per febbre emorragica sono 27.
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ATTUALITÀ testo di Daniele Bellocchio – foto di Marco Gualazzini
L’orrore alle spalle
IN UGANDA, IL FATICOSO RITORNO ALLA VITA
Un piccolo Paese dell’Africa orientale ospita quasi un milione e mezzo di rifugiati sud-sudanesi (e non solo) scampati a violenze terrificanti. Un modello di accoglienza e integrazione
DEI PROFUGHI SUD-SUDANESI FUGGITI DALLA GUERRA
«Io sono di Aleppo e in Siria aiutavo i civili in fuga dalla guerra. Poi con l’Unhcr sono venuto qui in Uganda per occuparmi della crisi umanitaria che è in atto. Credevo di aver ascoltato e visto tutto nel mio Paese, ma qua mi sembra di essere sprofondato nel girone più basso dell’inferno in terra». A parlare è Aladin Al Jaber. Ha 29 anni ed è supervisore nel centro di transito di Imvepi, nel Nord dell’Uganda, dove vengono registrati i profughi dal Sud Sudan. Al Jaber, fierezza levantina e pragmatismo di chi per costrizione ha dovuto familiarizzare con l’orrore, non concede spazio alla commozione, non usa giri di parole, non elargisce silenzi alla riflessione, parla puntando immagini e racconti direttamente alla gola. «Queste persone che arrivano dal Sud Sudan sono come un esercito di fantasmi, hanno visto le peggiori barbarie, hanno perso tutto, in molti casi anche la propria iden-
◀ I profughi provenienti dal Sud Sudan vengono registrati alla frontiera con l’Uganda e ricevono cibo, acqua e cure sanitarie
tità. Non avevo mai visto nulla di simile prima, ma se si ascoltano le storie di questa gente e si prova a dialogare con loro capirete cosa sto dicendo». Il baule di Alex Aladin Al Jaber si congeda e ci invita ad addentrarci nella tendopoli di Imvepi – qui viene data la prima accoglienza agli sfollati – che si estende a vista d’occhio tutt’intorno. Sotto un tendone vive Alex con i suoi due figli, ha 47 anni, è sud-sudanese. È arrivato da una settimana nella terra dei Grandi Laghi fuggendo attraverso la boscaglia e portando con sé soltanto una bicicletta e un baule. Dentro quel baule ci sono dei vestiti, un paio di ciabatte, un libro. E una vestaglia da donna. Alex la sfiora e poi confida: «È la sola cosa che sono riuscito a salvare di mia moglie. È stata fatta prigioniera dai soldati dinka quando era nei campi a lavorare. Non so che fine abbia fatto, non ho più neanche una sua foto perché la nostra casa è stata data alle fiamme e questi sono gli unici effetti che sono riuscito a salvare. Non so più nulla di lei, se è viva, se è morta o se è una schiava sessuale dei soldati… Può un uomo viafrica · 4 · 2018 11
vere con una pena così nel cuore? Può un uomo continuamente mentire a suoi figli quando gli chiedono dov’è la loro madre? Sono venuto in Uganda per loro, solo per i miei figli, perché possano godere di un domani e non subire la stessa sorte che è toccata ai loro genitori». Infanzia spezzata Il dolore nella tendopoli è ovunque e mette i brividi anche perché è un dolore muto, custodito nella dignità marmorea degli ultimi: non ci sono pianti, neppure i neonati strillano, e i feriti con i moncherini avvolti in garze sanguinanti e aggrappati a stampelle di un secolo passato attendono in silenzio il momento in cui li trasferiranno dalla sistemazione provvisoria di Imvepi a quella permanente nel campo profughi di Omugo. In fila, senza scomporsi ricevono le coperte, le taniche d’acqua e i teli distribuiti dalle
◀ Le fasi di prima accoglienza nei centri di transito. Dopo identificazione si ottiene una tessera che permette di ricevere le razioni mensili di cibo ◀ Per promuovere l’integrazione e l’autosufficienza economica dei rifugiati, ogni mese vengono finanziati dei piccoli progetti imprenditoriali. Nella foto, alcuni profughi cercano il proprio nome nella bacheca dove si comunicano i progetti selezionati da autorità ugandesi, ong e Alto Commissariato dell’Onu ◀ Nel centro Imvepi ai rifugiati viene fatto un secondo screening più approfondito, e vengono somministrati i vaccini del caso 12 africa · 4 · 2018
SOCIETÀ testo di Valentina Giulia Milani – foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero
Le nebbie del Congo
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africa · 4 · 2018
REPORTAGE
DA UNA NAZIONE
ENORME E FRAGILE,
DAL DESTINO INCERTO
La Repubblica democratica del Congo potrebbe essere una delle nazioni più prospere del mondo. È invece il luogo simbolo dell’instabilità, della corruzione e della povertà estrema. Sempre più sull’orlo del baratro La nebbia mattutina avvolge la selva nella regione di Tshopo, nel cuore della Repubblica democratica del Congo. Una donna attraversa un campo di riso con due taniche sulla schiena: va ad attingere al vicino fiume. Un’immagine bucolica che suscita serenità. È difficile immaginare che in molte province vicine regnino violenza e caos. Il Congo è enorme, grande quanto l’Europa occidentale. Da Kinshasa, la capitale, a Goma, città del Nord Kivu situata all’estremità opposta, nell’Est, il clima di tensione cresce: la possibilità di una nuova guerra è sempre più reale e vicina. I 5 milioni di morti della guerra dal 1998 al 2003 non sono bastati, e se la gigantesca nazione esploderà, di nuovo i danni umani, sociali ed economici saranno devastanti, proporzionali alla sua taglia e all’importanza della sua posizione nel centro del continente. Gli effetti di una nuova guerra in Congo si sentirebbero, ◀ La chiesa cattolica del villaggio di Lowa, nel cuore della Rd Congo. Il 90% della popolazione congolese professa la religione cristiana e circa la metà è cattolica
a partire dall’economia, in tutti i Paesi confinanti. Catastrofe annunciata I dati diffusi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parlano della più grave crisi al mondo, nonché della più dimenticata. I conflitti hanno fatto salire a oltre 4 milioni l’esorbitante cifra degli sfollati. 750.000 bambini soffrono di malnutrizione acuta e 400.000 rischiano di morire di fame nella regione del Kasai, anche perché 25 zone sanitarie sono in stato di crisi nutrizionale. L’Unhcr dice che l’insieme delle violenze nel Sud-est del Congo sta per generare un «disastro umanitario di proporzioni gigantesche». Lo conferma Medici senza frontiere, attivo nel Paese da decenni: nel Kasai e nell’Ituri, dove regnano malnutrizione e virus. Ospedali e ambulatori governativi sono lasciati a sé stessi, il personale non riceve stipendio per mesi, e accedere alle cure è molto difficile. «Le persone non possono permettersi le visite e il governo non offre coperture vaccinali adeguate perché troppo costose», dice David Mwelwa, responsabile di Medici senza frontiere a Lowa, dove si muore di malaria, morbilafrica · 4 ·2018
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ATTUALITĂ€ di Marco Trovato
Il grido dell'immagine
FOTOGRAFIE DI DENUNCIA SOCIALE, DI NATURA E DI SPORT: IL CONTINENTE IMMORTALATO
L’ultima edizione del World Press Photo, il più importante premio fotogiornalistico al mondo, ha messo a fuoco fatti, momenti e questioni di un’Africa dolce e inquieta, in delicato equilibrio tra passato e futuro
DAI GRANDI REPORTER Il continente africano è stato tra i protagonisti assoluti dell’ultimo World Press Photo Contest, il concorso più prestigioso al mondo per i fotoreporter. Al centro degli obiettivi troviamo drammi sociali, crisi dimenticate, emergenze ambientali, ma anche paesaggi mozzafiato e ritratti commoventi che rappresentano storie di redenzione. Le immagini pubblicate in queste pagine sono tra le foto vincitrici della 61ª edizione del concorso promosso dal World Press Photo (organizzazione senza scopo di lucro con sede ad Amsterdam, che dal 1955 sostiene l’attività fotogiornalistica; www.worldpressphoto.org). Il primo premio assoluto è stato assegnato a Ronaldo Schemidt per uno scatto
che ritrae un uomo avvolto dalle fiamme durante una violenta protesta contro il presidente venezolano Nicolás Maduro, a Caracas. Le fotografie vincitrici (selezionate dalla giuria fra 73.044 immagini scattate da 4548 fotoreporter di 125 Paesi diversi) sono state riunite in una mostra itinerante che girerà 40 Paesi. In Italia – dopo essere approdate a Milano, Roma e Bari – saranno esposte a Venezia (Magazzino alle Zattere, dal 31 agosto al 30 settembre; www.10bphotography. com), Ferrara (Padiglione d’Arte Contemporanea, dal 5 ottobre al 4 novembre; www.artecultura.fe.it) e Gavoi, in provincia di Nuoro (Ex-Caserma, dal 27 ottobre al 18 novembre 2018; www.jannas.eu).
Lagos Waterfronts sotto minaccia Una barca con turisti provenienti da Lagos attraversa i canali della comunità di Makoko, un antico villaggio di pescatori che si è sviluppato come un enorme insediamento informale sulle rive della laguna della capitale economica della Nigeria. Makoko ha una popolazione di circa 150.000 persone, costrette a vivere in baracche su palafitte. Lagos cresce rapidamente e il terreno edificabile è molto richiesto. Per fare spazio alle residenze dei ricchi, il governo sfratta le comunità degli insediamenti informali negando risarcimenti o nuovi alloggi. Storie contemporanee – primo premio foto singola Jesco Denzel, Laif africa · 4 · 2018 23
Ritratti di giovani rapite dai miliziani di Boko Haram
Il cambiamento dell’Omo
▲ Aisha, 14 anni, ritratta a Maiduguri, nello Stato del Borno, Nigeria. Dopo essere stata rapita da Boko Haram, questa ragazzina era stata forzata a una missione di attentato suicida: i jihadisti le avevano legato dell’esplosivo addosso e ordinato di farsi saltare in aria in un’area affollata; la ragazzina è riuscita a scappare e a trovare aiuto invece di far esplodere l’ordigno.
Gli uomini del villaggio di Nyangatom fanno il bagno nel fiume Omo, in Etiopia, vicino a un ponte che collegherà il loro territorio a quello del Karo. La Valle dell’Omo è un’area di straordinaria biodiversità e si estende lungo il corso dell’omonimo fiume, che scorre negli altopiani centrali di Shewan e sfocia nel Lago Turkana, al confine con il Kenya. Circa 200.000 persone di otto diversi gruppi etnici dipendono da queste acque per la loro sicurezza alimentare: sopravvivono grazie ai pesci, ai campi e pascoli resi fertili dalle inondazioni naturali annuali. La diga di Gibe III, alta 243 metri e in grado di generare circa 1800 MW di energia elettrica, è stata costruita con l’obiettivo di fornire energia per sostenere l’economia in espansione (l’Etiopia vanta una crescita media annua del Pil del 10,5%). I critici sottolineano il pesante impatto sull’ambiente, in particolare la cessazione delle inondazioni naturali, la diminuzione di biodiversità, il calo dei livelli idrici nel Lago Turkana e lo spostamento dei popoli, che sono vissuti per secoli in un delicato equilibrio con l’ambiente. Il fotografo italiano ha visitato la Valle dell’Omo durante gli ultimi anni della costruzione della diga, con l’obiettivo di produrre una riflessione su quanto investimenti importanti come questo possano mettere a rischio l’equilibrio uomoambiente.
▼ Maryam, 16 anni, ritratta a Maiduguri, Borno State. Era stata rapita da Boko Haram e poi costretta ad una missione suicida. Fermata dalla polizia con gli esplosivi legati addosso, ha deciso di non farsi esplodere Candidata al World Press Photo of the Year Adam Ferguson, per il New York Times
Progetti lunghi – secondo premio storie Fausto Podavini 24 africa · 4 · 2018
ATTUALITÀ testo di Monir Ghaedi – foto di Giacomo Sini
Ritmi africani nel Golfo Persico
DA SCHIAVI A MUSICISTI: IL DESTINO SCONOSCIUTO DEGLI AFRO-IRANIANI
Mentre l’attenzione dei media internazionali torna a concentrarsi sul regime di Teheran (complice la tensione crescente con Usa e Israele), siamo andati in Iran a rispolverare una storia sommersa
E LA LORO VOGLIA DI RISCATTO
Nella città portuale di Bushehr, sulla costa sudoccidentale dell’Iran, al termine di una giornata afosa, la brezza serale induce a sedersi su una sedia fuori di casa, per godersi un po’ di frescura. Ed è quel che fa Ali, un cittadino iraniano dalla storia famigliare particolare. Il bisnonno, come altri nell’area, si recava spesso a Zanzibar. A fare incetta di schiavi. Era un noto mercante di perle preziose. Ali vive ai margini di un quartiere della periferia asettica della città chiamato Behbahani. Un posto singolare. L’area conserva tenacemente le tracce della storia della città e accoglie i posteri di una vicenda poco conosciuta nella storia del Golfo: la schiavitù importata dall’Africa. Danze spettacolari «La maggior parte dei locali, specialmente i giovani, rimarrebbero sorpresi nel sapere che i loro vicini, i loro parenti o essi stessi sono i discendenti
◀ Un pescatore afro-iraniano residente nei dintorni di Behbahani si rilassa dopo una dura giornata di lavoro
degli schiavi portati nella regione nel XIX secolo», spiega Ali. Come tante cose del passato, questo argomento è pubblicamente ignorato. Nonostante la loro apatia per la storia negriera, i residenti di Behbahani amano parlare della loro cultura folcloristica, e proprio su questo punto tutti insistono sul fatto che i ritmi e le danze tradizionali della città arrivino dall’Africa. «Ecco perché sono spettacolari», sottolinea Ali. Da anni l’uomo cerca di mantenere vivo il folclore dell’area, facendosi il supervisore di un gruppo musicale tradizionale di ragazzi in maggioranza afro-iraniani. In soli due anni sono arrivati a suonare in festival nazionali e inoltre la band si è guadagnata vari titoli di giornali. Ali crede fermamente che la musica sia nel sangue dei suoi allievi. Noi, Bambassi Da uno stanzino vicino alla casa di Ali, le vibrazioni africane risuonano ogni giovedì sera. Qui la band viene a provare. Le movenze dei ragazzi sono energiche e ipnotizzanti. Mentre suonano, spesso si scambiano gli strumenti e danzano. Adham, l’impaafrica · 4 · 2018 31
reggiabile ballerino dodicenne, si sfila dal gruppo per una breve pausa e racconta: «Siamo noi i primi a enfatizzare l’eredità africana dell’area: abbiamo chiamato la nostra band “Bambassi”, il nome con cui erano chiamati gli africani a Bushehr». La falegnameria di Mohammad è uno dei principali punti di ritrovo sulla piazza centrale del quartiere. Mentre Mohammad lavora, i suoi amici di ogni età giocano a backgammon e discutono animatamente. L’artigiano produce infissi per le finestre tradizionali di Bushehr, su cui saranno successivamente montati pezzi di vetro colorati. «Queste finestre sono diventate popolari circa cent’anni fa, quando Bushehr era una città prospera, giusto prima della scoperta del petrolio!». Mohammad si riferisce con precisione al periodo in cui il lucroso commercio delle perle e dei datteri faceva salire la domanda di forza umana a basso costo. Che attraeva i mercanti di schiavi nell’area.
◀ Bambini di origine africana giovano a calcio la sera nei pressi del mercato centrale di Bushehr ◀ Le prove della “Bambassi” band, giovane gruppo musicale che mischia ritmi africani e iraniani, in un garage di Bushehr ◀ Huseyn, 12 anni, appassionato percussionista, suona assieme agli amici 32 africa · 4 · 2018
SOCIETÀ testo di Enrico Casale – foto di Giovanni Diffidenti
Un uomo, In trentacinque anni di duro lavoro nel villaggio di Nyagwethe, l’infaticabile missionario laico Franco Pini ha realizzato innumerevoli opere di utilità sociale che hanno promosso lo sviluppo della comunità locale
Era un villaggio sperduto sulle sponde del Lago Vittoria. Le condizioni di vita erano durissime. La terra rendeva poco. L’acqua era inquinata. La malaria e il colera falcidiavano intere
36 africa · 4 · 2018
famiglie. In trentacinque anni, Nyagwethe è diventato un villaggio modello. E questo, grazie al duro lavoro che Franco Pini, un bergamasco intraprendente, appassionato e capace
IN KENYA, SULLE SPONDE DEL LAGO VITTORIA, UN INTRAPRENDENTE VOLONTARIO BERGAMASCO HA LASCIATO IL SEGNO
di una profonda umanità, ha fatto insieme ai keniani. Una nuova vita La sua è una storia incredibile. Lavoratore tessile, Franco ha una grande pas-
sione: i viaggi. Alla fine degli anni Cinquanta, in sella a una moto inizia a girare il mondo. In Iran è protagonista di un fatto che lo segnerà per la vita. Di ritorno da una
delle sue avventure, subisce un attacco e viene abbandonato privo di sensi in un vallone. Alcuni abitanti della zona lo portano in ospedale e, senza chiedere nulla in cambio, lo aiutano a riprendersi e a tornare a casa. Quell’evento lo rende consapevole che senza il provvidenziale aiuto di tante persone la sua vita avrebbe potuto prendere una direzione diversa. Nonostante l’incidente, continua a viaggiare. Nel 1980, con un gruppo di
scout arriva in Kenya, dove dovrebbe costruire una casa nella missione dei padri passionisti e portare aiuto alla popolazione. Il gruppo di volontari viene accompagnato a visitare il villaggio di Nyagwethe. Il posto è incantevole, ma la gente vive in condizioni terribili. Rientrato in Italia, continua a pensare al Kenya e a come aiutare coloro che ha incontrato. Gli torna in mente la solidarietà sperimentata in Iran, i valori di amicizia assorbiti tra gli scout
e negli alpini. Chiede il prepensionamento e riparte. Con una valigia carica di medicinali, un piccone e i suoi risparmi. Meglio un muro storto… Sa di dover partire da zero. Da buon bergamasco non si arrende. Superando difficoltà di ogni genere e rischiando più volte la vita, costruisce, pezzo dopo pezzo, strutture e servizi fondamentali. Fa il muratore, l’imbianchino, l’idraulico, l’infermiere. In trentacinque anni realiz-
Jabopo Agazzi
un villaggio za un dispensario medico, un acquedotto lungo cinque chilometri, un mercato all’ingrosso, un complesso scolastico (asilo, scuola primaria, liceo e scuola professionale), due mense, tre dormitori, laboratori artigianali, case d’accoglienza e perfino una chiesa. Franco vuole però che i keniani siano protagonisti del loro sviluppo. Insegna a costruire, a fare lavori di carpenteria e di meccanica. «Meglio un muro storto fatto da un africa-
▲ Franco Pini, pensionato bergamasco innamorato dell’Africa, morto nel 2016 all’età di 84 anni ◀ Irene, 7 anni, gioca con i fratelli sull’altalena, nel giardino di casa ▼ Lucas, 16 anni, ha appena iniziato le superiori: vuole diventare infermiere
africa · 3 · 2018 37
SOCIETÀ di Marco Trovato
Chester for President In Sudafrica, un pupazzo meticcio di nome Chester Missing, irriverente e cattivissimo coi governanti, è diventato tanto popolare in tivù da condizionare la vita politica
Un recente sondaggio televisivo ha certificato quanta credibilità i politici della Nazione Arcobaleno, orfana di Mandela, abbiano perso per via degli scandali che hanno investito lo storico partito al potere, l’Anc, sotto la guida di Jacob Zuma (costretto a dimettersi lo scorso febbraio). Alla domanda “chi vorresti come nuovo capo dello Stato?”, il 36% degli intervistati ha fatto un nome tanto popolare quanto clamoroso: Chester Missing. Il fatto è che Chester non è un leader emergente dell’Anc né dell’opposizione, neppure un rampollo della nomenklatura o un protagonista dell’economia nazionale. È un pupazzo di “razza” indefinibile. Fatto di schiuma e plastica, è alto non più di cinquanta centimetri. Da quando, cinque anni fa, apparve per la prima volta in tivù, è diventato
una presenza fissa in talk show politici e di satira. Non solo: grazie alla voce del suo ideatore e ventriloquo Conrad Koch (un sudafricano bianco di idee progressiste, con esperienza di attore e illusionista),
Chester irride esponenti politici di primo piano, vip, star musicali, potenti imprenditori e uomini della finanza. Lo fa con interviste taglienti in cui mette alla berlina vizi e difetti dei potenti (avidità, carrierismo, razzismo, mancanza di trasparenza e di coerenza), rivolgendo loro delle domande spietate. Nel mirino di Chester sono finiti, oltre a Zuma, l’attuale presidente ad interim Cyril Ramaphosa (sbeffeggiato per i suoi trascorsi da milionario), l’ex sindaca di Città del Capo, Hellen Zille (additata come una nostalgica dell’apartheid), Oscar
Pistorius (l’ex campione paralimpico finito in prigione per omicidio, accusato di voler impietosire l’opinione pubblica con il suo handicap), Julius Malema (il leader dell’Economic Freedom Fighters, preso in giro per il rozzo populismo). Nessun personaggio pubblico può sottrarsi al supplizio, come ricorda la moderna massima sudafricana: “Non sei veramente importante finché non puoi vantare una pagina personale di Wikipedia e un’intervista di Chester Missing”. In tanti hanno cercato di mettere il bavaglio al pupazzo, ma ogni volta che Chester e Conrad sono stati citati in giudizio per calunnia o vilipendio, ne sono usciti più famosi e agguerriti di prima. E, anche se i suoi nemici riuscissero a estrometterlo dal piccolo schermo, Chester Missing continuerebbe a lanciare bordate dai suoi seguitissimi account Twitter e Facebook. Il prossimo anno in Sudafrica ci saranno le elezioni presidenziali. Sarà un fantoccio anarchico e sfacciato a influenzare l’esito del voto?
◀ Chester Missing con il suo ideatore e ventriloquo Conrad Koch: due protagonisti involontari della politica sudafricana africa · 4 · 2018 41
COPERTINA testo di Raffaele Masto e Irene Fornasiero – foto di Irene Fornasiero
Sorprendente Costa d’Avorio
Al confine con la Liberia, i ponti di liane sul fiume Cavally possono essere attraversati solo a piedi nudi, come impongono i dettami della tradizione del popolo Dan 42 africa · 4 · 2018
PONTI DI LIANE, MASCHERE SUI TRAMPOLI, BASILICHE IMPONENTI… VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI UN PAESE PIENO DI SORPRESE
Nazione multietnica fieramente legata alle tradizioni e al contempo proiettata nel futuro, la Costa d’Avorio è la meta ideale per gli appassionati di antropologia e di culture africane. Specie se la si visita con due guide speciali… Visto dalla baia, lo skyline del Plateau, il quartiere in di Abidjan, fa pensare a Manhattan più che ad una metropoli africana. Del resto, la capitale economica della Costa d’Avorio è una città ambiziosa: dinamica, vivace, colta, è il baricentro (politico, economico e culturale) di una nazione in pieno sviluppo. La terra a chi la lavora Nel 1960, anno dell’indipendenza, la Costa d’Avorio contava quattro milioni di abitanti su un territorio vasto quanto l’Italia. Oggi gli ivoriani sono quasi venticinque milioni: moltiplicati per sei in nemmeno sessant’anni. Non è solo il risultato di una dirompente crescita demografica ma dell’impostazione che Félix Houphouët-Boigny, il padre
della patria, diede al Paese. Quando “papà Houphouët“ divenne presidente, la sua era una nazione coperta da una rigogliosa foresta tropicale, con vaste aree che non avrebbero avuto braccia a sufficienza per essere coltivate. Houphouët decise così di lanciare un appello ai Paesi africani di fresca indipendenza: «In Costa d’Avorio la terra è di chi la lavora, anche se si tratta di immigrati». L’appello fece immediatamente presa e verso la Costa d’Avorio si diresse un flusso costante di maliani, burkinabè, guineani, attratti dal miraggio di un appezzamento da lavorare senza dover pagare un affitto. La popolazione crebbe in modo costante e la Costa d’Avorio divenne un Paese multietnico.
Maschera Gue Gblen. Si manifesta durante le cerimonie che coinvolgono tutta la popolazione nei villaggi Dan
africa · 4 · 2018 43
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AFRICA
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CULTURA di Alberto Salza
Il taglio che rende uomini
Giovani di etnia Bugisu si sottopongono al rito della circoncisione nell’est dell'Uganda: non devono mostrare alcun segno di paura o di sofferenza. Questo momento è cruciale per il passaggio all’età adulta 54 africa · 4 · 2018
È il rito di passaggio più diffuso nell’Africa nera, un momento cruciale nella vita di ogni ragazzo, che segna l’ingresso nel mondo degli adulti. Una pratica millenaria dolorosa e controversa
ORIGINI, SIGNIFICATO E CONSEGUENZE DELLA CIRCONCISIONE
Walter Astrada / Afp
MASCHILE IN AFRICA I bambini d’Africa commuovono ogni uomo bianco, ma nessuno vorrebbe essere uno di loro. Un esercizio di empatia: se sei un maschio, immaginati nel villaggio bobo-bwa di Boni, in Burkina Faso, al tempo di quando avevi tra i sei e i dieci anni. Sei seduto a terra, allineato assieme a una cinquantina di coetanei, in tre file parallele. Siete completamente nudi; e terrorizzati. Infatti, un severo maestro di cerimonie, munito di bacchetta flessibile, invita a scavare a mano una piccola buca davanti a voi, tra le gambe. «Dovete aiutare il Filo di Dio – dice –, quello che collega il vostro prepuzio alla Madre Terra: è fatto di sangue». Ormai sei coperto di polvere e sudore, mentre la buchetta si apre per ricevere il sacrificio della circoncisione e far sì che la terra e gli antenati si bevano il tuo sangue. Arriva il circoncisore. Lega il tuo prepuzio con una cordicella che tende al massimo, tirandolo con l’alluce fino a un paletto scortecciato. Appoggia la lama del coltello rituale sulla carne tesa. Con un mazzuolo, vibra un colpo secco. E passa oltre. Tu devi far finta di niente, mentre reggi quel che rimane del pene con
una forcella di legno, di modo che il sangue possa fluire nella buca senza che l’organo si infetti. Nella mano sinistra tieni il prepuzio reciso, la tua parte femminile da cui sei stato separato per sempre. La fine del caos La circoncisione è una «tecnologia del sé», come la definirebbe Michel Foucault. L’ablazione di una parte genitale, femminile all’apparenza (ogni sorta di “buco” è considerato generativo in gran parte dell’Africa), fornisce un genere al bambino. Questi, infatti, pur avendo un sesso, non è né maschio né femmina, in quanto incapace di generare. I Dogon del Mali dicono che la sua essenza è doppia (kinndu-kinndu, anima-anima). Analoghe considerazioni vengono applicate all’escissione, la “circoncisione” femminile che prevede l’ablazione della clitoride, considerata “maschile” e “sporca”. In sostanza, i bambini appartengono al mondo dell’antropogenesi, la “creazione” naturale dell’uomo/donna. I circoncisi rientrano invece nell’universo dell’antropopoiesi, la “fabbrica” culturale dell’essere umano. Un Dogon mi disse, disgustato dal caotico africa · 4 · 2018 55
SPORT di Marco Trovato
La punizione al contrario Mentre in Russia si gioca la Coppa del Mondo di calcio, cade in questi giorni l’anniversario di uno degli episodi sportivi più grotteschi della storia: un clamoroso (e assai poco divertente) gesto compiuto da un calciatore dello Zaire ai Mondiali del 1974
Siamo ai Mondiali in Germania del 1974. 22 giugno. Allo stadio di Gelsenkirchen si gioca l’ultima partita del girone 2 tra Brasile, campione in carica, e Zaire – oggi Rd Congo – già eliminato (era stato asfaltato con un 9-0 dalla Jugoslavia: la sconfitta più pesante nella storia della Coppa). All’85esimo minuto, coi verdeoro in vantaggio per 3-0, l’arbitro fischia una punizione al limite dell’area. Va sul pallone il centrocampista brasiliano Rivelino, che già aveva segnato venti minuti prima. Mentre Rivelino parlotta coi compagni, ansioso di gonfiare nuovamente la rete con il suo magico piede sinistro, lo zairese Joseph Mwepu Ilunga compie un gesto che lo consegnerà alla storia: si stacca dalla barriera, si dirige verso il pallone e lo calcia violentemente, sfiorando la faccia dell’attonito Rivelino, nella metà
campo avversaria. Per un attimo tutti restano ammutoliti. Il primo a reagire è l’arbitro, che sventola il cartellino giallo. Mwepu Ilunga, con sguardo perso, prima allarga le braccia poi pare scusarsi con un mezzo inchino al direttore di gara che sa tanto di presa in giro. Il pubblico comincia a ridere: ha assistito a qualcosa di mai visto. Una scena rimasta indelebile negli annali del football (su YouTube è stata visionata milioni di volte). Per diversi anni si è pensato che lo zairese non conoscesse il regolamento. A svelare il mistero è stato, nel 2002, lui stesso (morto a Kinshasa nel 2015): «Dopo l’umiliante sconfitta con la Jugoslavia, Mobutu (il dittatore zairese, NdR) inviò in Germania le sue guardie presidenziali per minacciarci. Ci dissero che se con il Brasile avessimo perso con più di tre goal di scarto, nessuno sa-
rebbe stato in grado di tornare a casa e ci sarebbero state rappresaglie ai danni dei nostri famigliari. Al momento della punizione fui preso dal panico e corsi a tirare il pallone: il più lontano possibile». La partita finì 3-0. I Leopardi dello Zaire tornarono mestamente in Africa con tanta apprensione e voglia di rientrare nell’anonimato. Senza un soldo in tasca, poiché i premi promessi dal regime furono spartiti tra ministri e funzionari. Mobutu restò al potere altri ventitré anni. Tormentò a lungo i giocatori responsabili della figuraccia (il documentario Entre la coupe et l’élection girato nel 2008 da Monique Mbeka Phoba ha raccontato la difficile vita dei reduci zairesi di Germania ’74). Per lavare l’onta, e rilanciare l’immagine del suo regno, Mobutu organizzò il 30 ottobre 1974 lo storico incontro di pugilato tra Mohamed Ali
▲ Il dittatore Mobutu Sese Seko, al potere dal 1965 al 1997 ▲ Il giocatore dello Zaire Joseph Mwepu Ilunga viene ammonito per aver tirato la punizione al posto degli avversari brasiliani
e George Foreman. Una pagina gloriosa di sport che però non riuscirà a cancellare dalla storia il gesto – eroico e disperato – di quella punizione al contrario. africa · 4 · 2018 61
SPORT testo di Claudio Agostoni – foto di Franco Origlia / Inter Campus
Mandiamo in rete il futuro
62 africa · 4 · 2018
CON L’INIZIATIVA INTER CAMPUS, SCENDE IN CAMPO LA SOLIDARIETÀ
L’organizzazione neroazzurra dal 1997 restituisce il diritto al gioco ai bambini in difficoltà in sei nazioni africane. Dove i grandi club del calcio cercano i talenti, Inter Campus si interessa dei ragazzi e ragazze più vulnerabili La Lixeira è un’immensa favela alla periferia di Luanda, capitale dell’Angola, dove la maggioranza dei residenti vive senza acqua, senza energia elettrica e circondata dai rifiuti. Un aspetto, quest’ultimo, testimoniato dal fatto che lixeira significa proprio “immondezzaio”. Ed è qui che è cresciuto Dorivaldo, un ragazzino che come quasi tutti i bambini africani è convinto, quando gioca a calcio, di essere un campione. Mota è il nome del quartiere attiguo alla Lixeira dove da anni è attiva la parrocchia di São José, gestita dai salesiani. Nel 2008 il Polidesportivo Don Bosco, con l’obiettivo di prevenire la criminalità di strada e la prostituzione minorile,
decise di collaborare con il neonato Inter Campus Angola. All’epoca Dorivaldo aveva 7 anni ed era già un talento. «Era il classico numero 10, geniale e anarchico», ci racconta Massimo Seregni, project manager di Inter Campus. «Nei tornei che abbiamo organizzato era il capitano. Contemporaneamente frequentava la scuola professionale dei salesiani, dove ha imparato a lavorare il legno. Oggi è uno degli allenatori “locali” che collaborano con noi». Quello di Dorivaldo è un percorso che fotografa perfettamente la mission del progetto di responsabilità sociale di impresa messo in campo nel 1997 da FC Internazionale Milano. Da ventun anni, con il suppor-
Giovani atleti di Inter Campus a Bafang, in Camerun: il Paese africano dove è partito il progetto nerazzurro africa · 4 · 2018 63
RELIGIONE di Pier Maria Mazzola
I martiri d’Algeria La Chiesa cattolica sta preparando la beatificazione, il prossimo autunno, di diciannove religiosi uccisi dai terroristi negli anni Novanta. Tra loro ci sono i quattro missionari Padri Bianchi trucidati a Tizi Ouzou Sul colle che domina la città di Orano è tornata a splendere la cappella-basilica di Notre-Dame de Santa Cruz, benedetta poche settimane fa al termine di restauri durati anni. L’edificio, eretto nel 1850 in omaggio alla Madonna dopo un’epidemia di colera, è stato riaperto ai fedeli in tempo per la beatificazione, prevista il prossimo autunno, di Pierre Claverie – che di questa diocesi fu vescovo —, l’ultimo a essere ucciso di una serie di diciannove religiosi cattoli▼ La basilica di Notre-Dame de Santa Cruz a Orano, da poco restaurata e riaperta ai fedeli
ci (tra cui sei suore e i sette monaci trappisti di Tibhirine) tra il 1994 e il 1996. 27 dicembre 1994 Tra le vittime dei terroristi ci sono i quattro Padri Bianchi di Tizi Ouzou. Una fine, la loro, poco conosciuta. All’epoca dei fatti, in Algeria infuriava la “guerra civile” (sarebbe terminata nel 2002 causando la morte di 150.000 persone, tra cui 99 imam). Il Gruppo islamico armato (Gia) aveva intimato agli stranieri di abbandonare il Paese. Allo scadere dell’ultimatum aveva trucidato dodici operai croati. Ma gran parte del
personale ecclesiale scelse di restare. La vigilia di Natale del 1994, un dirottamento aereo tra Algeri e Marsiglia si concluse, il 26 dicembre, con l’uccisione di quattro uomini del Gia nel corso di un blitz delle forze speciali francesi nell’Airbus. Giornali e tivù si concentrarono sul salvataggio dei 220 passeggeri. E trascurarono quel che avvenne l’indomani in Cabilia, a est di Algeri. Nella città di Tizi Ouzou, roccaforte della cultura berbera, operava una comunità di Padri Bianchi. Due, Alain Dieulangard e Jean Chevillard, erano ultrasettagenuari; Christian Chessel aveva 36 anni. Tutti francesi. Era appena arrivato da Algeri un confratello belga, Charles Deckers, venuto a spegnere con loro le sue 70 calendine, quando fece irruzione un commando del Gia. A colpi di kalashnikov non risparmiò nessuno di loro. Niente trionfalismi Altri Padri Bianchi sono arrivati poco tempo dopo a Tizi Ouzou, e oggi due di loro, africani, sono impegnati a portare avanti la stessa missione di incontro, di amicizia, soprattutto presso i giovani. Anche qui è stata aperta una biblioteca dove offrire un aiuto agli studenti e avere un luogo per mantenersi in contatto con loro.
▲ I quattro Padri Bianchi uccisi nel 1994. Dall’alto, in senso orario: Christian Chessel, Jean Chevillard, Charles Deckers, Alain Dieulangard
Coincidenza vuole che la beatificazione dei 19 martiri, per la quale è probabile la presenza di papa Francesco, cada nel 150° della Società dei Missionari d’Africa, fondata proprio ad Algeri dall’allora arcivescovo Charles Lavigerie, che volle come loro abito religioso il costume locale, gandura e burnus. Una beatificazione che non vuole avere enfasi eroiche o di altro tipo, che non sarebbero proprio in carattere con lo stile di questa Chiesa. Come ha detto il vescovo di Orano, JeanPaul Vesco, a un organo di stampa locale, «per noi è importante affermare che questi cristiani sono stati uccisi con molti altri musulmani, più che da alcuni musulmani». africa · 4 · 2018 69
RELIGIONE testo di Chiara Sgreccia – foto di Alessandro Cinque
L’islam liberale dei Layene
Donne layene tornano dalla preghiera presso il mausoleo del fondatore della confraternita, Seydina Limamou Laye, sulla spiaggia di Yoff 70 africa · 4 · 2018
IN SENEGAL I MUSULMANI LAYENE PROFESSANO UNA FEDE APERTA E SINCRETICA, CHE RIFIUTA IL FONDAMENTALISMO
La confraternita dei Layene, diffusa nella regione di Dakar, è un prezioso modello di coesione e giustizia sociale. I suoi discepoli considerano solidarietà, tolleranza e uguaglianza tre principi irrinunciabili Sotto il porticato della moschea di Yoff, nella periferia di Dakar, siedono oltre duecento devoti vestiti con tuniche bianche (simbolo di candore e purezza spirituale). Con preghiere e canti invocano Allah per ottenere la sua benevolenza. Si tratta della pratica devozionale dello zikr: un atto di fede corale e suggestivo. Arriviamo accompagnati da Seydina, membro dell’associazione Dahira Xadra-Bi de Malika, un’associazione religiosa caritatevole che presta il proprio servizio a favore dei bisognosi. I volontari di Xadra offrono lavoro (noleggio di tensostrutture e impianti audio, vendita di bottiglie di acqua purificata) in occasione di eventi, celebrazioni di matrimoni e feste religiose. Coi proventi raccolti, l’associazione aiuta chi non ha un impegno a intraprendere un’attività propria, fornisce i mezzi basilari per la sussistenza alle persone in maggiore difficoltà, e permette ai più giovani e meritevoli di proseguire gli studi. Sono moltissime le associazioni di questo tipo attive in Senegal: suppliscono alle carenze del governo nel lottare contro il disagio sociale e contrastano il fenomeno migrato-
rio che da molti anni ormai spinge un’alta percentuale di popolazione ad abbandonare il Paese attraverso vie molto spesso insicure ed ignote. L’importanza delle confraternite L’intento di offrire possibilità di esistenza migliori ai senegalesi e la lotta contro la degenerazione dei costumi sono i cardini che animano il pensiero delle maggiori confraternite religiose presenti. Tijaniyya e Muridiyya sono le principali; la congregazione dei Layene è la terza per estensione. Le confraternite coinvolgono quasi il 95% della popolazione e sono gestite dalla potente gerarchia di serigne (marabutti), cui fa capo una fitta schiera di fedeli. A livello sociale, e non solo religioso, rivestono un ruolo cruciale: favoriscono il dialogo tra le etnie, promuovono l’istruzione, lo sviluppo delle attività commerciali e una maggiore equità di diritti tra uomini e donne. Inoltre, impediscono agli estremismi di insinuarsi nel tessuto sociale (com’è accaduto in altri Paesi del Sahel). Grazie a questa duplice funzione di mediazione e di controllo, le confraterafrica · 4 · 2018 71
Fedeli rendono onore al serigne della confraternita, seconda carica più importante dopo il califfo ▼ Al termine della grande preghiera del venerdì, i devoti si riversano per le strade sabbiose di Yoff
72 africa · 4 · 2018
▶ Il cimitero di Yoff: una distesa di sassi a indicare le tombe. Con circa duecentomila seguaci, la confraternita dei Layene è la terza per importanza in Senegal ▶ Uomini si dedicano allo studio in riva al mare. La confraternita dei Layene trae le sue origini dai pescatori dell’etnia Lebou
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