Africa 01 2017

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AFRICA N. 1 GENNAIO-FEBBRAIO 2017 - ANNO 96

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L’uomo delle farfalle

Congo

SUL GRANDE FIUME


i seminAri di

AFRICA FRICA

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FOTOGRAFARE L’IMMATERIALE Seminario fotografico-antropologico dedicato all’Africa rivolto a chiunque voglia indagare il mondo africano con sguardo originale

MILANO SABATO 8 E DOMENICA 9 APRILE 2017 A cura di Alberto Salza Antropologo, scrittore e divulgatore scientifico

Bruno Zanzottera Fotografo specializzato in reportage di viaggio QUOTA DI PARTECIPAZIONE

180 euro 150 euro per gli abbonati alla rivista Africa Posti limitati In collaborazione con

Programma e informazioni:

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Sommario GENNAIO - FEBBRAIO 2017, N° 1

COPERTINA 40 3

Profondo Congo

di Alberto Salza, Andrea Semplici e Per-Anders Pettersson

EDITORIALE Democrazia senza primi della classe di Pier Maria Mazzola

ATTUALITÀ

AFRICA FRICA

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PRIMA PAGINA

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PANORAMA

8

Etiopia. Oromo, la rabbia e l’orgoglio

di Raffaele Masto

di Enrico Casale di T. Gebremariam

MISSIONE • CULTURA

Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) DIRETTORE RESPONSABILE

Pier Maria Mazzola DIRETTORE EDITORIALE

Marco Trovato RESPONSABILE NEWS SITO

10

Nigeria. La strage degli innocenti

12

Sudafrica. Campus ad alta tensione

17

Africa senza giustizia di Raffaele Masto

18

Kenya. Armi da fuoco a Nairobi

20

Rd Congo. La feroce Guerra dei Bruchi di Marco Trovato

24

Tanzania. L’isola degli albini

28

LO SCATT O

di Raffaele Masto di Matthew Taylor

di Kodjo Sena

di Irene Fornasiero

Libia. Giorno di festa

di M. Adly e A. Doma

Enrico Casale

SOCIETÀ

PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA

Matteo Merletto

30

Somalia. La donna che svela la storia

34

Togo. Monsieur Papillon

38

Sudafrica. La regina della pioggia

48

Lesotho. A un passo dal cielo

52

La normalità dell’Africa

54

AMBIENTE L’anima tedesca del Serengeti

segreteria@africarivista.it

60

CULTURA La musica che squarcia il buio

FOTO

64

LO SCATT O

66

SPORT Sudafrica, una corsa epica

70

RELIGIONE Nigeria. Blessing torna a casa

73

RELIGIONE Fedeli nel mirino, vittime dell’odio

AMMINISTRAZIONE E ABBONATI

Paolo Costantini PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE

Claudia Brambilla EDITORE

Provincia Italiana della Società dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi BLOG

www.buongiornoafrica.it di Raffaele Masto PUBBLICITÀ

Si ringrazia Parallelozero In copertina: Per-Anders Pettersson / Luz Mappe a cura di Diego Romar - Be Brand STAMPA

Jona - Paderno Dugnano, Milano Periodico bimestrale - Anno 96 gennaio - febbraio 2017, n° 1 Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 SEDE

Viale Merisio, 17 C.P. 61 - 24047 Treviglio BG 0363 44726 0363 48198 info@africarivista.it Africa Rivista @africarivista www.africarivista.it UN’AFRICA DIVERSA La rivista è stata fondata nel 1922 dai Missionari d’Africa, meglio conosciuti come Padri Bianchi. Fedele ai principi che l’hanno ispirata, è ancora oggi impegnata a raccontare il continente africano al di là di stereotipi e luoghi comuni. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la rivista e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 196 del 30/06/2003 - tutela dei dati personali).

di Liibaan Ghedi

di V.G. Milani e B. Zanzottera di Alberto Salza

di Doroty Madueke

a cura della redazione

Egitto. Rotte storiche

di E. Casale e F. Noy

di A. Fakhoury e F. Moleres

di B. Foukara e K. Desouki di Christine Naidoo di A. Pozzi e B. Zanzottera di Enrico Casale

INVETRINA 74

Eventi

75

Arte e Glamour

76

Sapori di Irene Fornasiero

77

Solidarietà

78

Libri

79

Musica

79

Film

80

Viaggi

82

Web

83

Bazar

84

Posta

a cura della redazione di Stefania Ragusa

di Valentina G. Milani

di Pier Maria Mazzola di Claudio Agostoni

di Simona Cella di Marco Trovato

di Giusy Baioni di Sara Milanese

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Per chi ama il continente vero

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Democrazia senza primi della classe Ghana o Gambia? Quale dei due Paesi – in entrambi si è votato per il capo dello Stato ai primi di dicembre – è il vero termometro del trend democratico in Africa? In Ghana è stata realizzata una campagna elettorale civile, conclusasi con la conferma di un ormai oliato meccanismo di alternanza; il Gambia è invece stato teatro di una tragica farsa: il dittatore, sorprendentemente sconfitto alle urne, sulle prime ha accettato il responso popolare, per satanicamente rimangiarselo qualche giorno dopo. Con l’effetto di far venire allo scoperto tutti i volti dei suoi oppositori, ormai esultanti per l’insperata svolta. «Per anni si sono susseguite sparizioni, uccisioni, incarcerazioni senza processo, persecuzioni di minoranze», ha dichiarato a Vatican Insider anche il portavoce dell’unica diocesi cattolica gambiana. «Jammeh si sentiva il padrone assoluto del Paese e ha introdotto misure drammaticamente antidemocratiche». Comprendiamo meglio perché il piccolo Gambia sia il terzo Paese di provenienza dei richiedenti asilo in Italia, dietro ai giganti Pakistan e Nigeria (per rinfrescarsi la memoria, ci si può andare a rileggere il reportage di Giovanni Porzio sullo scorso numero di Africa). Come andrà davvero a finire non è dato sapere, nel momento in cui scrivo, mentre sono in corso manovre diplomatiche nella regione.. In ogni caso il tiranno di Banjul avrà gettato ulteriore fango, non tanto su di sé quanto sull’immagine di un continente che certo non ne aveva bisogno. Eppure non vogliamo rassegnarci a regalare tutta la scena ai killer africani della democrazia. In positivo c’è il Ghana, per l’appunto. E altre nazioni che neppure arrivano

a fare notizia. Semplicemente hanno già imboccato una strada che rende “normale” l’avvicendamento di capi di Stato e governi. Dal Botswana alla Tanzania, dove John Magufuli ha annullato le dispendiose celebrazioni per la festa dell’indipendenza sostituendole con una giornata di pulizia delle strade, e impugnando personalmente la ramazza. Dal Madagascar alla Nigeria (caso particolarmente delicato e importante), dalla Liberia alla Sierra Leone, uscite da laceranti guerre civili, fino alla Namibia – Paese, quest’ultimo, dove nel 2015 è arrivato il prestigioso e “raro” Premio Mo Ibrahim per il buon governo: per la prima volta assegnato a un capo di Stato, uscente ma ancora in carica, Hifikepunye Pohamba. Curioso il caso senegalese, che ha visto Macky Sall proporre l’autoriduzione della durata del mandato presidenziale (il Consiglio costituzionale gli ha poi negato questa possibilità). Questo, mentre le patrie delle democrazie occidentali ormai si avvitano su sé stesse proprio in occasione delle grandi tornate elettorali. Dagli Usa, dove un candidato ha denunciato preventivamente i brogli (di cui s’è dimenticato subito, una volta che ha vinto), alla Gran Bretagna e, perché no, all’Italia: Paesi in cui elettori e leader confondono le urne di un referendum con quelle di un voto politico. È importante continuare a levare la voce contro i despoti e i dinosauri del potere africani (sono ancora troppi). La nostra rivista continuerà a farlo. Ma che nessuno presuma di farlo da una predella di superiorità. In democrazia siamo tutti scolaretti. Pier Maria Mazzola

RICEVI AFRICA A CASA La rivista (6 numeri annuali) si riceve con un contributo minimo suggerito di: · rivista cartacea (Italia) 35 € · formato digitale (pdf) 25 €/Chf · rivista cartacea (Svizzera): 45 Chf · rivista cartacea (Estero) 50 € · rivista cartacea+digitale (Italia): 45 € · rivista cartacea+digitale (Svizzera): 55 Chf · rivista cartacea+digitale (Estero) 60 €

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I lettori che vivono in Svizzera possono versare i contributi tramite: · PostFinance - conto: 69-376568-2 IBAN: CH43 0900 0000 6937 6568 2 Intestato a “Amici dei Padri Bianchi” Treviglio BG

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Beneficiario: Missionari d’Africa (Padri Bianchi) C.P. 61 – 24047 Treviglio BG

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prima pagina

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LADRI DI TERRE Molti Paesi africani possiedono vastissime regioni fertili non ancora coltivate. I loro governanti, anziché sviluppare l’agricoltura, preferiscono vendere o affittare le terre agli investitori stranieri. Ma così favoriscono le emergenze umanitarie. L’Africa è il continente meno coltivato del pianeta. I suoi trenta milioni di chilometri quadrati sono in buona parte costituiti da territori potenzialmente agricoli che non hanno mai conosciuto un sistema di coltivazione intensiva. Paradossalmente l’Africa è anche un continente costituito da una buona parte di Paesi che non hanno mai raggiunto l’autosufficienza alimentare e che potrebbero risolvere i loro problemi grazie all’introduzione di sistemi più efficienti di utilizzo della terra. Ma l’agricoltura intensiva necessita di macchine, di concimi, di grandi quantità di acqua, di forti investimenti che in Africa non ci sono. Risultato: in molte regioni africane la resa agricola (ovvero la quantità di prodotto raccolto riferito alla superficie coltivata) è paragonabile a quella che si otteneva nell’Impero Romano ai tempi di Giulio Cesare.

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NEWSMasto di Raffaele NEWS

di trovare nuove terre. Per esempio, la Corea del Sud: superficie un terzo dell’Italia, popolazione cinquanta milioni di persone, livello di benessere alto. Oppure i Paesi del Golfo Persico, come Arabia Saudita, Qatar o Emirati Arabi Uniti, che praticamente non hanno zone coltivabili. La terra, dunque, è la ricchezza del futuro ed è diventata una sorta di bene rifugio, un investimento sicuro, perché è evidente che la domanda è destinata a salire. In questo quadro il valore medio di un ettaro di terreno agricolo monitorato dal dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti è stato in salita costante, dai 737 dollari nel 1980 ai 2.350 dollari nel 2011. E così i guadagni di chi ha investito in questo bene, secondo gli analisti della City, hanno portato profitti dal 10% al 20% annuo.

INVESTIMENTO SICURO In altre parti del mondo le cose stanno diversamente. Anzi, sono radicalmente diverse. In Cina, per esempio, il miliardo e trecento milioni di persone che vi abitano hanno lavorato a ritmi forsennati per fare del loro Paese una grande potenza. Ma il boom industriale e l’urbanizzazione selvaggia ha portato all’erosione delle terre arabili. E oggi i dirigenti di Pechino si pongono il problema di come sfamare le prossime generazioni. Non solo loro: ci sono nazioni che ben più della Cina hanno l’urgenza

AGROBUSINESS Il fenomeno del cosiddetto land grabbing (letteralmente significa “accaparramento delle terre”; concretamente, si tratta dell’acquisizione o dell’affitto di vaste porzioni di terre arabili da parte di investitori stranieri), di cui tanto si parla oggi, si spiega dunque con questi dati che, evidentemente, ci dicono che grandi quantità di capitali affluiranno in Africa. Privando, di fatto, gli africani di un bene primario per lo sviluppo. Qualche esempio: l’Etiopia, che, nonostante la crescita sbandierata dai suoi governanti, resta uno dei Paesi più affamati del mondo dato che più di 13 milioni di persone hanno bisogno annualmente di aiuti alimentari, ha offerto almeno tre milioni di ettari della sua terra più fertile a grandi investitori come l’Arabia Saudita e alcuni giganti multinazionali dell’agrobusiness. La Repubblica democratica del Congo ha firmato un contratto con la Cina, in forza del quale concede a Pechino il diritto alla coltivazione di quasi tre milioni di ettari di terra a olio di palma per biocombustibile.

KENYA Tre modelle posano in occasione della Nairobi Fashion Week,

ERITREA Pellegrini e sacerdoti in preghiera in occasione del Timkat,

evento glamour che raduna ogni anno a dicembre nella capitale del Kenya gli stilisti africani più in voga. Per una settimana i riflettori dei media si sono concentrati sulle passerelle del prêt-à-porter dove sono state presentate le collezioni per la primavera estate 2017 destinate alla classe media. Ora la moda afro sfilerà a Lagos, Dakar e Johannesburg.

Afp

4 africa africa· 1· 1· 2017 · 2017

l’Epifania copta, la più importante festa ortodossa, che commemora il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano. L’evento si tiene il 19 gennaio, undici giorni dopo il Natale copto, ed è avvolto da un’atmosfera magica. Durante le celebrazioni, milioni di fedeli eritrei ed etiopi danno vita a veglie notturne e processioni.

B.Zanzottera


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NOI, COLPEVOLI E noi occidentali non abbiamo responsabilità? Il giornalista Stefano Liberti, nel suo libro Land grabbing, lancia precise accuse: «La politica di supporto ai biocarburanti sia degli Stati Uniti che dell’Unione europea sta facendo aumentare le superfici destinate a colture per produrre carburante a scapito degli alimenti. I target fissati, come quello dell’Ue che prevede che dal 2020 il 10 per cento del trasporto su gomma debba essere alimentato da carburanti rinnovabili, hanno spinto molti a investire in questo settore. In Tanzania e Senegal ci sono già enormi piantagioni di jatropha (un seme da cui si può estrarre un olio che può alimentare i motori): sorgono su terre in cui prima si coltivavano patate, ortaggi, cibo». A fronte di questa situazione si possono immaginare due conseguenze di carattere strategico: l’Africa rischia di vivere una sorta di colonialismo di ritorno in cui la terra e i suoi prodotti saranno finalizzati all’esportazione, con una perdita di sovranità da parte dei governi. La seconda è ancora più inquietante: tutto ciò avviene in un quadro di dirompente crescita demografica del continente. In altre parole: non raggiungimento dell’autosufficienza alimentare per molti Paesi, fenomeni ricorrenti di denutrizione acuta e di fame, e incremento dell’immigrazione interna e verso l’Europa.

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RD CONGO

Un momento di tenerezza tra un gorilla e una guardia del Parco nazionale di Kahuzi-Biega, 50 km ad ovest di Bukavu, nella provincia del Sud Kivu. Nelle scorse settimane due ranger incaricati di difendere i primati sono stati uccisi dai cacciatori di frodo che minacciano la sopravvivenza della rara sottospecie dei Gorilla beringei graueri presente solo nelle foreste orientali della Repubblica democratica del Congo. Brent Stirton / Afp / Getty

GAMBIA

Caos nella più piccola nazione dell’Africa occidentale. Lo scorso 1 dicembre il dittatore del Gambia Yahya Jammeh, (nella foto a colloquio con un militare), è stato clamorosamente sconfitto alle elezioni presidenziali, vinte dal leader dell’opposizione Adama Barrow. Ma l’esito del voto è stato rifiutato dal tiranno, al potere da 22 anni, minacciando una brutale repressione.

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In Africa si trovano il 70% delle terre fertili non ancora utilizzate al mondo

GABON Una coppia di tifosi della nazionale di calcio della Repubblica

democratica del Congo. Dal 14 gennaio al 5 febbraio il Gabon ospita la trentunesima edizione della Coppa d’Africa. A contendersi il trofeo sono 16 nazioni: Gabon, Marocco, Algeria, Camerun, Senegal, Egitto, Ghana, Guinea-Bissau, Zimbabwe, Mali, Costa d’Avorio, Uganda, Burkina Faso, Tunisia, Rd Congo, Togo. La forte Nigeria non si è qualificata.

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Marco Longari / Afp

SUDAFRICA Un’allegra parata sfila il 2 gennaio per Città del Capo. Qui l’inizio del nuovo anno viene celebrato con musiche e balli, trucchi e lustrini: va in scena il Cape Minstrel Carnival, il vivace e colorato carnevale della comunità coloured (i meticci). L’evento ha origine all’inizio del XIX secolo, quando gli schiavi festeggiavano dopo Capodanno l’unico giorno di libertà loro concesso dai padroni bianchi.

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ATTUALITÀ di Tesfai Gebremariam

Oromo, la rabbia e l’orgoglio Cittadini etiopici di etnia oromo sfilano in abiti tradizionali per le vie di Addis Abeba in occasione dei funerali dell’ex primo ministro Meles Zenawi, morto il 20 agosto 2012. L’attuale premier Hailemariam Desalegn si è rifiutato di assumersi le responsabilità della repressione e ha attribuito la colpa della crisi a «forze diaboliche», promettendo di perseguirle

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STATO DI EMERGENZA IN ETIOPIA: COSÌ L’ÉLITE TIGRINA TENTA DI MANTENERE IL CONTROLLO SU UNA SOCIETÀ DILANIATA DA DIVISIONI ETNICHE

Centinaia di morti, migliaia di feriti, innumerevoli arrestati. È il bilancio delle violenze governative ai danni degli Oromo. Una repressione brutale che ha macchiato l’immagine di una nazione considerata modello di stabilità e sviluppo Da tre mesi in Etiopia vige lo stato d’emergenza proclamato dal premier Haile Mariam Desalegn per tentare di sedare la rivolta del popolo oromo. Internet non funziona, le televisioni straniere sono oscurate, i giornali sono imbavagliati, l’esercito presidia le strade, in alcune città dopo il tramonto scatta il coprifuoco. Gravi squilibri All’origine delle violenze c’è il forte sentimento di frustrazione degli Oromo, che vivono nella parte centrale e occidentale del Paese: sono un terzo della popolazione, ma si sentono emarginati e discriminati dal potere centrale. Dopo la caduta, nel 1991, del dittatore marxista Mengistu Haile Mariam, al potere si è cristallizzato il cosiddetto “blocco tigrino”, un’oligarchia di politici e affaristi originari della regione del Tigray (dove vive il 6 per cento degli etiopi) che ha occupato tutti i gangli vitali dello Stato. Non solo. La crescita del Pil etiopico ha interessato solo le città e alcune fasce della popolazione. Gli Oromo, in gran parte poveri agricoltori e pastori, ne sono rimasti esclusi.

Effetti indesiderati Le proteste antigovernative, esplose nel novembre del 2015, sono state scatenate da un piano governativo di esproprio delle terre degli Oromo per espandere i confini di Addis Abeba. Nei mesi si sono poi diffuse nel Paese, investendo anche la regione degli Amhara, l’altra grande etnia esclusa dei tigrini. La reazione del governo è stata durissima e ha portato alla morte di almeno cinquecento civili inermi (ma c’è chi parla di oltre mille vittime) e all’arresto di migliaia di attivisti. Ma la repressione, anziché soffocare il dissenso, ha acuito le tensioni in una società caratterizzata da profonde divisioni etniche. L’eco degli scontri ha già causato seri danni all’Etiopia: danni d’immagine ed economici per una nazione che si vantava di essere un modello di stabilità e che ora spaventa investitori e turisti. I leader politici di Addis Abeba stanno cercando di riconquistare la fiducia internazionale: parlano di «dialogo», «riconciliazione», «volontà di coinvolgere tutte le etnie nella gestione delloStato». Ma la rabbia degli Oromo non si è placata. africa · 1 ·2017

Carl De Souza / Afp

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SOCIETÀ di Raffaele Masto

La strage degli innocenti

Il funerale di quattro vittime musulmane rimaste uccise a Kano lo scorso 14 novembre sotto i colpi della polizia nigeriana. I leader dell’Islamic Movement in Nigeria hanno accusato gli agenti delle forze di sicurezza di aver sparato contro i fedeli durante una pacifica processione religiosa

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Aminu Abubakar / Afp



ATTUALITÀ testo di Matthew Taylor – foto di Marco Longari / Afp

Campus ad alta tensione

La protesta studentesca in Sudafrica rispecchia l’animo di tanti che nel Paese si sentono traditi dall’African National Congress 12 africa · 1 · 2017


UNIVERSITARI IN RIVOLTA: LE VERE RAGIONI DELLA RIBELLIONE DEGLI STUDENTI SUDAFRICANI

Il Sudafrica è interessato da un’ondata di proteste che da sei mesi paralizza gli atenei. I giovani contestano l’annunciato aumento delle tasse universitarie e accusano i leader politici di aver tradito il sogno di Mandela «Pazzesco… Vergogna… È dai tempi dell’apartheid che non vedevo scene così terribili». Nella sua villetta ai margini di Soweto, Banele Khumalo, 69 anni, scuote la testa mentre il telegiornale della sera mostra le immagini dell’ennesima giornata di guerriglia tra universitari e forze dell’ordine. Oggi si contano una ventina di feriti e dodici leader studenteschi arrestati. Ma il bilancio degli scontri si fa ogni giorno più pesante. E c’è chi teme che la situazione possa sfuggire di mano. «Non deve accadere», sospira mister Khumalo, che ha anche un paio di nipoti coinvolti nella mobilitazione. «Certo, sono preoccupato per la loro incolumità… Poche settimane fa abbiamo celebrato l’anniversario della rivolta di Soweto del 1976: all’epoca gli agenti afrikaner spararono sui manifestanti uccidendo centinaia di studenti. Non possiamo riportare indietro le lancette della storia». Incubo Marikana Quarant’anni dopo, la violenza della polizia non è scomparsa, come ha dimostrato il massacro di Marikana: il 16 agosto 2012, i poliziotti hanno

sparato sui lavoratori di una miniera di platino in sciopero per l’aumento del salario. Alla fine rimasero a terra, senza vita, 34 minatori. «La strage è stata uno shock per la Nazione Arcobaleno – ricorda Jane Duncan, ricercatrice della Rhodes University –. Un brusco risveglio per decine di milioni di neri che per anni avevano cullato il sogno di Mandela. Da quel momento nulla è stato più come prima. Oggi viviamo su una polveriera. Basta poco per far saltare tutto in aria». Onda d’urto Le scintille non mancano. Da sei mesi il Sudafrica è alle prese con un’ondata di proteste che ha paralizzato le principali università. La rivolta degli studenti è scoppiata a metà settembre, quando il ministro dell’Istruzione superiore, Blade Nzimande, ha annunciato l’intenzione di aumentare le tasse universitarie. I primi a mobilitarsi sono stati gli studenti di Witwatersrand (Wits), storico ateneo di Johannesburg: dopo aver occupato le aule, hanno esposto alle finestre striscioni antigovernativi, invitando gli altri compagni a unirsi alla lotta. In pochi giorafrica · 1 · 2017 13



ATTUALITÀ di Raffaele Masto

Africa senza giustizia Sudafrica, Burundi e Gambia usciranno dalla Corte Penale Internazionale. A breve altri paesi africani potrebbero seguirli. I leader politici accusano la Corte di razzismo. O semplicemente non vogliono essere giudicati?

Sudafrica, Burundi e Gambia hanno attivato le procedure per abbandonare la Corte penale internazionale (Cpi). Lo avevano annunciato e lo faranno. Altri Paesi africani sono avviati su questa strada (Repubblica del Congo, Uganda, Namibia, Tanzania e Kenya). La stessa Unione africana è molto critica con la Corte, che ha sede all’Aia (Olanda), il cui destino sembra essere segnato: in futuro sarà disconosciuta di fatto, una istituzione praticamente inutile che probabilmente andrà verso la cancellazione. Tutto ciò avverrà non solo per le diffuse critiche africane («È un’istituzione razzista: persegue solo i neri», ripetono molti leader politici del continente che si sentono vittime di una giustizia neocolonialista), ma anche perché le Grandi

Potenze l’hanno sempre vista come una minaccia. La Russia ha già annunciato che non rinnoverà la sua adesione e gli Stati Uniti non l’hanno mai riconosciuta. In Africa la Corte è invisa, è vista come una minaccia perché potrebbe mettere sotto accusa molti personaggi politici al potere. In parte lo ha fatto: il presidente del Sudan Omar al-Bashir è ricercato per crimini di guerra compiuti in Darfur. La Corte aveva messo sotto accusa anche l’attuale presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e il suo vice William Ruto per le violenze e le stragi nelle elezioni del 2007. Potrebbe, sulla carta, avviare indagini per la guerra in Centrafrica, in Somalia, in Sud Sudan… I leader politici in Africa sostengono che l’attenzione della Cpi sia tutta rivol-

ta al continente africano. In parte hanno ragione (le grandi potenze del nord del mondo godono di una sorta di impunità per i loro misfatti), tuttavia in molti casi le critiche appaiono solo scuse. Indifendibili La maggioranza dei presidenti africani e dei loro entourage hanno qualcosa da temere da un’istituzione che li può mettere alla sbarra. Basta guardare i tre Paesi che proprio ora hanno avviato le procedure per l’uscita. Il Sudafrica ha una classe politica per molti versi impresentabile, a cominciare dal presidente Zuma, e dei dati sociali da scandalo: il più alto tasso di aids del continente,

una disoccupazione altissima, un tasso di violenza dilagante. E che dire del Burundi, dove il presidente Pierre Nkurunziza si è imposto per un terzo mandato nonostante l’opposizione dell’intero Paese. E che dire ancora del Gambia, dove un presidente folle minaccia la propria popolazione con violazioni dei diritti umani pesantissime. Così il mondo va di nuovo verso un’epoca di impunità, senza giustizia, dove il più forte può permettersi di tutto con la certezza di non venire mai punito.

▼ Fatou Bensouda, magistrato gambiano e procuratore capo presso la Corte Penale Internazionale a dell’Aia

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ATTUALITÀ di Marco Trovato

La feroce Guerra dei Bruchi

Un gruppo di pigmei twa ha trovato riparo dalla pioggia sotto una tettoia nel villaggio di Mubambiro, vicino a Goma. Almeno venti persone sono morte nelle scorse settimane in seguito ai violenti scontri tra le popolazioni twa e luba nel Katanga 20 africa · numero 1 · 2017


NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO LA RACCOLTA DI INSETTI HA SCATENATO UN’ONDATA DI INAUDITE VIOLENZE

Nelle foreste del Katanga non si placano gli scontri tra i pigmei twa e la popolazione luba. Le ostilità sono iniziate per una manciata di larve. Anzi no: per una storia d’amore. Ma sono altre le vere cause… «Ero nella capanna assieme ai miei due figli quando ho sentito urlare mio marito: “Scappa, scappa!”. Ho capito subito cosa stava accadendo, così ho preso i bimbi e sono fuggita nella boscaglia. Nascosta tra i rovi, ho visto un gruppo di uomini nell’accampamento che lo avevano circondato. Indossavano amuleti e brandivano asce e bastoni. Si sono accaniti su di lui come bestie feroci. Lo hanno colpito più volte alla testa e hanno infierito sul suo corpo. Gli hanno tagliato i genitali e lo hanno fatto a pezzi urlando cose terribili. Io e i miei figli abbiamo visto tutto, eravamo scioccati e terrorizzati, ma non potevamo fare nulla. Se ci avessero scoperti, avremmo fatto la stessa orribile fine». Questa è la testimonianza di una donna di etnia twa raccolta da Human Rights Watch, una delle poche or-

ganizzazioni impegnate a documentare le violenze che stanno sconvolgendo la provincia del Tanganyika (già Katanga settentrionale) nella Repubblica democratica del Congo. Il conflitto in corso vede contrapporsi due gruppi etnici locali: i Twa, pigmei, e la popolazione bantu dei Luba. Pesante il bilancio degli scontri: nell’arco degli ultimi tre anni almeno 250 persone sono state uccise e migliaia costrette a fuggire dalle proprie case. Stragi silenziose «Il numero delle vittime in realtà potrebbe essere di gran lunga maggiore», fanno presente gli attivisti di Human Rights Watch. «Le autorità locali ostacolano il nostro lavoro di ricerca: vogliono far passare sotto silenzio il terribile massacro che si sta compiendo». Pochissime notizie filtrano dal Tanganyika: una regione isolata (grande quanto l’insieme di Val d’Aosta, Piemonte, Liguria), ricoperta in larga parte dalla foresta pluviale. A rompere il silenzio, in ottobre, è stato un missionario cattolico che, preferendo non rivelare la propria identità, ha documentato e reso pubblica l’ultima strage: venti persone sono state truciafrica · 1 · 2017 21

José Cendón / Afp



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ATTUALITÀ testo di Matthew Taylor – foto di Carl De Souza / Getty Images

L’isola degli albini

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SUL LAGO VITTORIA C'È LA PIÙ ALTA CONCENTRAZIONE AL MONDO DI PERSONE

L’isola di Ukerewe è un approdo sicuro per gli albini della Tanzania in fuga da pregiudizi e persecuzioni. Ma dopo tanti anni di serenità, anche qui è arrivata la paura

AFFETTE DA QUESTA MALATTIA RARA. SONO QUI PER FUGGIRE LE MINACCE

«Sono arrivati al mattino presto a bordo di un’imbarcazione a motore. Erano tre uomini di mezza età. Sono sbarcati sulla spiaggia di fronte alla nostra casa. Io ero uscito da poco per andare a pesca con un amico. Per fortuna mia moglie si è accorta di quel che stava per accadere e ha avuto i riflessi pronti: come li ha visti, ha preso la bimba che stava dormendo nel letto, è uscita dalla finestra sul retro dell’abitazione ed è fuggita per chiedere aiuto… Abbiamo sentito le sue urla e abbiamo cominciato a correre verso di lei; siamo arrivati appena in tempo per mettere in fuga i malviventi». Così Mtobi Namigambo, giovane pescatore tanzaniano, racconta il dramma sfiorato solo poche settimane prima: il tentativo di rapimento cui è sfuggita sua figlia May Mosi, di appena quattro anni. «Ci siamo trasferiti su quest’isola per proteggerla. Qui, nel bel mezzo del lago, pensavamo di vivere al sicuro, non avevamo mai avuto problemi, ma oggi abbiamo di nuovo paura». Carne da macello La piccola May Mosi è affetta da albinismo, un’a-

nomalia genetica caratterizzata dall’assenza di pigmentazione nella pelle, nei capelli e negli occhi. In Tanzania le persone che manifestano questo disturbo congenito – dovuto all’assenza di melanina – sono vittime di pregiudizi e persecuzioni. Fin da bambini subiscono angherie e maltrattamenti. Da adulti sono costretti ad accettare abusi e lavori sottopagati, finendo relegati ai margini della vita sociale. Le donne rischiano di venire violentate e contagiate dal virus dell’Hiv poiché è radicata la convinzione che il sesso con una persona albina possa curare l’aids. La superstizione, talvolta, condanna gli albini a una morte atroce e li trasforma in carne da macello: è infatti opinione diffusa che i loro organi e le loro ossa siano utili a realizzare talismani miracolosi in grado di assicurare ricchezza, felicità e fortuna. Approdo sicuro Le cronache dei giornali periodicamente riferiscono di episodi di albini rapiti da bande criminali, massacrati e fatti a pezzi per alimentare il mercato nero dei feticci umani. Per sfuggire a questa agghiacciante “caccia all’uoafrica · 1 ·2017

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▶ Alcune piccole ospiti della Mitindo Primary School, un collegio che dà rifugio a un centinaio di bambini albini. In Africa orientale le persone affette da questa malattia genetica sono discriminate e maltrattate

no a scuola e giocano con quelli dei nostri vicini. Siamo tutti pescatori, poveri ma dignitosi. Tra noi c’è solidarietà, rispetto e mutuo soccorso». La reputazione di questa “isola felice” si è ben presto diffusa attirando molti altri albini in cerca di rifugio e di riscatto. Non solo Tanzania «L’unione fa la forza», dice Ramadhani Khalfan, portavoce della Ukerewe Albino Society. «Vivere assieme a persone simili, accomunate dalle medesime difficoltà, infonde maggiore sicurezza e serenità. E permette di trovare soluzioni ai problemi comuni». Gli albini di Ukerewe si sono dotati di una clinica specializzata nella cura delle malattie della cute

Alida Vanni

successo, a contrastare il fenomeno, che ha causato almeno 80 vittime negli ultimi quindici anni: decine di persone sono già state arrestate con l’accusa di aver partecipato a rapimenti e omicidi di albini. In carcere sono finiti trafficanti di organi (un arto di una persona albina può essere venduto a circa 600 dollari, mentre un corpo intero arrivava anche a 75.000) e presunti “stregoni” incolpati di aver diffuso le terrificanti credenze. Ma l’epidemia di furore

(il cancro della pelle è la prima causa di morte per gli albini africani, la cui aspettativa di vita non supera i 45 anni). Non solo: sull’isola c’è un ufficio legale che difende i diritti civili della minoranza “bianca”. «Ma le minacce arrivano dall’esterno – puntualizza Ramadhani Khalfan –. Chi vuole farci del male sa bene dove trovarci. E nell’ultimo periodo abbiamo subìto un’ondata senza precedenti di attacchi brutali». Le autorità tanzaniane sono impegnate, con un certo

superstizioso è dilagata oltre i confini nazionali e la caccia agli albini si è propagata dall’Uganda al Burundi fino al Malawi, dove quest’anno almeno 20 albini sono stati uccisi (in buona parte donne e bambini) e 5 sono ancora dispersi. In soccorso dei tanti albini che vivono nel terrore arriva l’appello della Ukerewe Albino Society: «Chiunque si trovi in pericolo o si senta minacciato è benvenuto sulla nostra isola. Qui possiamo imparare a difenderci e tornare a vivere in pace».

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La donna Quand’era bambina fu costretta a fuggire dalla guerra che infuriava a Mogadiscio. Oggi è una ricercatrice di fama internazionale, impegnata a svelare e a proteggere i siti rupestri del Corno d’Africa «Se non conosciamo il nostro passato, non possiamo progettare il nostro futuro». Sada Mire, 40 anni, ha sempre avuto

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Daniele Tamagni

una grande passione per la storia. Fin da quando, giovanissima, fu costretta a fuggire dalla sua città natale, Mogadiscio,

SADA MIRE HA RIPORTATO ALLA LUCE ECCEZIONALI PITTURE RUPESTRI RISALENTI AL NEOLITICO

la capitale della Somalia sconvolta dalla guerra civile. «Era il 1994, avevo solo 14 anni – racconta –. Ricordo nitidamente il momento in cui esplose la prima bomba, a pochi metri dal giardino della nostra casa mentre stavo innaffiando i fiori… Sentii un forte boato, vidi una nuvola di polvere e detriti, scappai terrorizzata». La madre la caricò su un camioncino assieme ai fratelli. «Ci demmo alla fuga schivando i colpi di mor-

taio, le granate, le sventagliate dei kalashnikov. Non sapevamo dove eravamo diretti, avevamo solo una preoccupazione: evitare le imboscate dei banditi e i posti di blocco dei miliziani». La fortuna fu dalla loro parte: dopo qualche settimana e innumerevoli peripezie, la famiglia di Sada riuscì a raggiungere la Svezia, dove già viveva una zia. «Era inverno, faceva un freddo terrificante, c’era neve e ghiaccio


che svela la storia dappertutto». In Svezia Sada ottenne lo status di rifugiata e cominciò una nuova vita. Ritorno in Africa Oggi Sada è un’archeologa di fama internazionale. Dopo essersi laureata col massimo dei voti, ha ottenuto un posto come ricercatrice alla School of Oriental and African Studies di Londra. Ed è tornata nel Corno d’Africa per ricostruire una storia perduta. «Il mondo conosce le vicende del continente africano solo a partire dall’epoca dello schiavismo e del colonialismo – spiega –. Io ero interessata a studiare l’antichità della nostra terra, per questo sono andata alla ricerca dei segni che testimoniano la vita dei nostri antenati». Le sue indagini si sono concentrate nel Somaliland, una regione che confina con l’Etiopia e che ha proclamato la sua indipendenza dalla Soma-

◀ Sada Mire, 40 anni. La ricercatrice si batte da anni per inserire l’arte rupestre scoperta in Somalia tra i Patrimoni dell’Umanità protetti dall’Unesco ▲ L’interno della grotta di Dhambalin, dove l’archeologa ha rinvenuto la più alta concentrazione di pitture rupestri del Corno d’Africa

lia nel 1991: l’unica fetta pacifica e relativamente stabile di una nazione martoriata da guerre, faide, terrorismo, corruzione e traffico d’armi. Perlustrando senza sosta le zone più selvagge del Somaliland – sempre accompagnata da guardie armate – Sada ha fatto scoperte eccezionali, portando alla luce un centinaio di siti rupestri, vestigia di antiche città medievali, cimiteri cristiani preislamici. A bocca aperta Il suo più importante ritrovamento sono le antiche pitture rupestri di Dhambalin, una località situata a circa 65 chilometri dalla città di Berbera. «Le ho rinvenute cinque anni fa durante un viaggio di ricognizione nel cuore di un imponente massic-

cio granitico, in una zona rimasta per lungo tempo sconosciuta ai più – racconta –. Quando sono entrata all’interno di alcune grotte naturali e ho dato un’occhiata alle pareti in penombra, sono rimasta senza parole». Davanti agli occhi della ricercatrice somala sono comparse decine di pitture in cui comparivano figure umane e animali. «C’erano mucche dalle grandi

corna e capre colorate di ocra, ma si riconoscevano anche le sagome di cani, antilopi, giraffe… Disegni di finissima fattura, ben conservati, risalenti a circa cinquemila anni fa, alla fine del Neolitico». I dipinti scoperti da Sada non sono lontani da Laas Geel, la località somala in cui, nel 2002, un team di archeologi francesi guidati da Xavier Gutherz scoprì uno dei più imporafrica · 1 ·2017

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Raffaele Masto È giornalista di Radio Popolare, collaboratore della rivista Africa, autore di vari libri: L’Africa del tesoro; Io, Safiya; In Africa. Ritratto inedito di un continente senza pace; Buongiorno Africa. Nel 2013 ha pubblicato per la rivista Africa il volume Diario Africano. Taccuino di un reporter. Cura un blog di analisi e riflessioni quotidiane sull’Africa: www.buongiornoafrica.it Safiya Hussaini Safiya Hussaini Tungar Tudu è una donna che oggi ha più di quaranta anni. Divenne conosciuta in tutto il mondo nei primi anni Duemila quando la Corte Islamica di Sokoto, Stato nord-occidentale della Nigeria, la condannò alla lapidazione con l’accusa di adulterio. In realtà la sua colpa era solo quella di avere avuto una figlia senza avere più un marito. Il suo caso fece nascere una mobilitazione internazionale che riuscì a strapparla in extremis alla più crudele delle condanne a morte.

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SOCIETÀ testo di Valentina G. Milani – foto di Bruno Zanzottera

Monsieur Papillon

Prosper Nyanu, 55 anni, nella foresta di Missahoé, alla ricerca di farfalle. La vita media di questi insetti volanti è di un mese, ma alcune specie muoiono solo dopo poche ore, mentre altre sfiorano l’anno di vita


IN TOGO, UN UOMO CONSACRA LA SUA VITA ALLO STUDIO

Le foreste nella regione togolese degli Altopiani sono popolate da miriadi di insetti volanti delle specie più svariate. A vegliare su di loro c’è Prosper Nyanu, “l’uomo-farfalla”

E ALLA DIFESA DELLE FARFALLE

Sguardo sveglio, fisico asciutto e tonico, Prosper Nyanu si muove nella foresta con passo deciso. Attento ai rumori più lievi, sembra un felino a caccia di una preda. Indossa una tuta mimetica ma è armato solo di un innocuo retino: va a caccia di farfalle e falene. Nato 55 anni fa in un villaggio nei pressi di Kpalimé, nella regione degli Altopiani, Prosper ha

dedicato la sua vita allo studio e alla difesa degli insetti volanti che popolano in quantità eccezionali queste colline verdeggianti. In Togo lo chiamano Monsieur Papillon. «Fin da piccolo ho coltivato la passione per queste meravigliose creature. I miei genitori erano coltivatori e io passavo molto tempo in mezzo al verde: ogni minuto era prezioso per fare nuove scoperte sulla natu-

▶ Una falena appena catturata dal ricercatore togolese. Questo tipo di farfalle predilige la notte, e Prosper deve muoversi con una torcia per osservarle in attività nella foresta ▶ Prosper mostra alcuni esemplari di farfalle raccolti nella foresta. La gran parte delle specie locali conducono l’intera loro esistenza nella foresta di Missahoé, ma talune migrano per centinaia di chilometri in Africa occidentale africa · 1 · 2017 35



bruco che darà vita a una nuova farfalla… Purtroppo alcune specie si stanno estinguendo, ma negli ultimi anni ho scoperto nuove varietà nate da incroci differenti!». Mondo colorato Grazie ai suoi studi e alla sua attività, Monsieur Papillon è diventato una celebrità dell’Africa occidentale: tiene conferenze nelle principali università e talvolta viene invitato in Europa per parlare del proprio lavoro. Col tempo è diventato il punto di riferimento per quanti – studiosi e turisti di ogni nazionalità – sono desiderosi di conoscere il magico regno delle farfalle. Abituato a non fermarsi mai, Prosper ha aperto nel suo villaggio un piccolo albergo, “Chez Prosper”, proprio alle porte della foresta: sulle pareti ha disegnato delle grandi farfalle colorate, usando pigmenti vegetali da lui stesso prodotti con bacche, foglie e cortecce. «Il turismo sta crescendo. La nostra regione montagnosa offre una vegetazione rigogliosa

e cascate mozzafiato, ma è indubbio che le principali attrazioni sono loro, le farfalle. In loro difesa Prosper ha creato assieme a un gruppo di amici un’associazione ambientalista, il Clgpm (Comitato locale di gestione e protezione della foresta di Missahoé). «Lottiamo contro

il taglio indiscriminato degli alberi e contro l’uso dei fertilizzanti chimici. Un tempo la selva copriva una superficie di 2500 ettari, per i due terzi è andata distrutta. Chiediamo al governo di fermare lo scempio in corso, di sostenere le nostre ricerche naturalistiche, e di dichia-

▲ L’uomo-farfalla davanti al suo piccolo albergo, con sette stanze a disposizione degli ospiti, che ha costruito al limitare della foresta nel villaggio di Kouma-Konda

rare questa zona parco nazionale… Altrimenti dopo la mia morte nessuno potrà difendere le farfalle del Togo».

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COPERTINA testi di di Alberto Salza e Andrea Semplici – foto Per-Anders Pettersson / Luz

Profondo Congo Un’enorme zattera formata da tronchi d’albero uniti tra loro discende il fiume Congo. Il viaggio da Kisangani a Kinshasa sulle chiatte spinte dai rimorchiatori dura tre settimane. Nonostante l’affollamento, a bordo la vita quotidiana scorre come a terra: si fa il bucato, si cucina, si fanno affari e ci si riposa

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STORIA, LETTERATURA, LEGGENDE: IL LUNGO VIAGGIO SUL FIUME CHE PENETRA NEL CUORE DELL’AFRICA

Nel corso dei secoli il fiume Congo è stato testimone silenzioso (e involontario protagonista) di esplorazioni, stermini, epiche avventure. Ancora oggi le sue acque torbide e possenti paiono trasportare i destini dell’umanità… ■ Gli spiriti del fiume A guardarne le acque, il fiume Congo sembra fatto di terra. Pare trascinare all’oceano, granello dopo granello, tutte le Montagne della Luna: da est, per migliaia di chilometri. Neppure i giacinti d’acqua hanno un buon odore, con tutto quel limo putrescente. Non era molto diverso nel 1890 quando il capitano Joseph Conrad (futuro scrittore e autore di Cuore di tenebra) risalì il fiume a bordo di un battello di una società commerciale con sede ad Anversa. Il Congo è stato a lungo un fiume “tormentato”: ha visto e accolto i cadaveri dello sterminio, tra il 1896 e il 1908, di dieci milioni di congolesi coinvolti nella raccolta della gomma per Leopoldo II, sovrano dello Stato Libero del Congo. Le sue acque hanno permesso all’uomo bianco di penetrare nel cuore dell’Africa, trasportando missionari, avventurieri, trafficanti e soldati. Kurtz, coprotagonista del celebre romanzo di Conrad, è esistito davvero: era un suo ufficiale. Si chiamava Léon Rom, un bell’uomo. Aveva uno sguardo fiero, baffi a manubrio e la stazione sul fiume recintata di paletti

sormontati da teschi umani. Gli stregoni nganga del Congo temono gli spiriti del grande fiume. Per proteggersi dalle tenebre malsane della foresta pluviale, continuano a trasportare a monte e a valle oggetti magici “da viaggio”, tenuti in apposite casse: sono i potenti nkisi, statuette dal ruolo benefico o malefico a seconda della volontà di nuocere. Su una barca, uno stregone piantò un chiodo su una di esse e mi confidò: «Lo nkisi deve soffrire, per diventare un guaritore malato». Senza crepuscolo La foresta pluviale è l’ambiente del Congo: quindici milioni di ettari quasi impenetrabili. Poche strade, e quelle che esistono sembrano fantasmi con il lenzuolo traforato da buche, spalmate da una superficie di fango impassabile o di polvere da togliere il fiato. Il fiume è l’unica via permanente, sempre aperta anche se fetida. Le chiatte continuano a risalire e discendere. Sono piccoli villaggi semoventi, lunghi anche un centinaio di metri, con merci e passeggeri accatastati, spinti da moafrica · 1 ·2017

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nistrativo di Kinshasa. È l’ultima odissea: un folla minacciosa di poliziotti, di funzionari di dogana, di agenti dell’immigrazione, di soldati rapaci, di sfaccendati e di ladri aspetta i superstiti della navigazione sul Congo. Scendere a terra sarà una battaglia, uno scontro fisico, una violenza di tangenti ed estorsioni. Oggi il porto della capitale è uno sfacelo di rovine, di baracche di lamiera, di uffici sventrati. È terra di nessuno, i relitti delle grandi navi fluviali sono il rifugio di senzacasa, dei miserabili della città. I sogni “civilizzatori” di Stanley, l’avidità di Leopoldo II, il terrore di Mobutu sono finiti in questo inferno. Le loro statue abbattute sono nel fango. Il fiume, lercio delle fogne della città, scivola sotto le banchine. Pochi chilometri e ritroverà la sua solitudine nelle rapide. Davvero sarebbe stato un bene che nessun uomo bianco avesse mai navigato in queste acque. Possa la gente del Congo trovare una pace possibile a fianco della potenza della sua natura e della forza del suo fiume. (Andrea Semplici)

La chiatta di notte. I passeggeri si addormentano sotto teli dove sono accatastate pentole, caschi di banane, sacchi di manioca, enormi pesci, masserizie varie

Kris Pannecoucke

▶ Sul fiume capita spesso che si scatenino violenti temporali. I passeggeri più fortunati possono ripararsi all’interno di vecchie auto ▶ Il passaggio delle chiatte è un evento che anima i villaggi sul fiume Congo. Anche in piena notte, sottili canoe di staccano dalla riva e si avvicinano al battello portando merci di scambio africa · 1 ·2017

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SOCIETÀ di Doroty Madueke

A un passo dal cielo

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La normalità

inusuali che mostravano popoli sorridenti, situazioni grottesche, scorci di vita quotidiana: l’affresco di un’Africa senza filtri, spogliata da esotismo e pietismo. Poi Everyday Africa è approdata su Instagram e oggi il suo account vanta più di trecentomila follower: «Successo ottenuto grazie alla collaborazione con una ventina di fotografi che vivono e lavorano in Africa», spiegano DiCampo e Merrill. «Ogni giorno coi loro smartphone immortalano spezzoni di vita, frammenti di realtà, e raccontano in presa diretta cosa accade davvero nel continente». Basta un clic per caricare uno scatto sul web e in un attimo la foto 1

WEB PER FOTOGIORNALISTI MOSTRA LA VIBRANTE

Non solo guerre, povertà, malattie. Everyday Africa è una raccolta di immagini scattate con smartphone nel continente africano. Una sorprendente galleria che sbriciola i soliti stereotipi e che presto diventerà un libro

«Dici la parola “Africa” e subito vengono in mente i leoni sotto le acacie e i guerrieri con le lance, oppure i bambini scheletrici e le colonne di profughi. È questo il genere di immagini divulgate dai grandi media. Noi volevamo mostrare un’Africa diversa, meno scontata e più sfuggente». Così il fotografo Peter DiCampo e lo scrittore Austin Merrill, due amici statunitensi con la passione per i viaggi, raccontano la genesi di Everyday Africa. «Il progetto è nato cinque anni fa su Tumblr, la piattaforma web che usavamo per condividere le foto dei nostri reportage nel continente africano». All’inizio era una galleria di scatti

UNA PIATTAFORMA

QUOTIDIANITÀ CHE NON FA NOTIZIA

fa il giro del mondo. «Crediamo si possa imparare di più su un Paese dal racconto di piccoli momenti quotidiani che da un titolo di giornale sulla guerra o la corruzione», dicono gli ideatori di Everyday Africa. «Sappiamo che in Africa accadono immani tragedie, ma cerchiamo di mostrare la normalità anche nelle crisi». Presto le migliori foto postate su Everyday Africa saranno raccolte in un libro. Per pubblicarlo, i promotori hanno lanciato una campagna di raccolta fondi su Kickstarter: servivano 30.000 dollari, ne sono arrivati quindicimila di più. C’è voglia di vedere un’Africa diversa. 2

1 Eclissi di sole in Mozambico Austin Merrill 2 Una pugile si allena in una palestra di Kampala, Uganda Edward Echwalu 3 Giovane magistrata nigeriana in un taxi ad Abuja, Nigeria Tom Saater 4 Gita domenicale sulle spiagge del Ghana Peter DiCampo 5 Bambini giocano in un villaggio vicino a Zaria, Nigeria Malin Fezehai 6 Una banda musicale sfila in occasione del Minstrel Carnival, a Città del Capo, Sudafrica Charlie Shoemaker 7 Spettatori di una partita di calcio in Mozambico Austin Merrill 8 Shooting fotografico di moda ad Accra Nana Kofi Acquah 9 In scooter lungo le rive del Niger a Bamako, Mali Jane Hahn 10 Preti copti al termine di una processione a Lalibela, Etiopia Malin Fezehai

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dell’Africa 3

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AMBIENTE testo di Enrico Casale – foto di Frédéric Noy / Cosmos

L’anima tedesca del Serengeti

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IL PIÙ FAMOSO PARCO NAZIONALE DELLA TANZANIA HA UN LEGAME SPECIALE CON LA GERMANIA, CHE DURA DA UN SECOLO…

Ai tempi delle colonie l’etologo Bernhard Grzimek avviò i primi programmi di salvaguardia degli animali del Serengeti. Ancora oggi decine di scienziati tedeschi lavorano coi ranger locali per proteggere lo straordinario patrimonio naturale Il Parco del Serengeti ha due cuori. Uno batte in Tanzania, dove si trova e dove è amato dalla popolazione e dalla moltitudine di turisti che lo visitano ogni giorno. L’altro è in Germania. Sono stati infatti i tedeschi ad aver creato questa area protetta quando il Tanganica era una colonia di Berlino. E sempre i tedeschi per anni lo hanno accudito con attenzione e pignoleria teutonica, anche quando in Tanzania passarono a comandare i britannici. Questo legame, che continua tutt’oggi, è strettissimo e si è rafforzato e strutturato grazie alla straordinaria figura di Bernhard Grzimek. Dallo zoo all’Africa Veterinario, etologo ma anche straordinario divulgatore, Grzimek è stato un precursore dei sistemi di conservazione dell’ambiente. Uno studioso che, negli anni Cinquanta, aveva capito che l’espansione delle città e degli ambienti antropizzati avrebbero potuto mettere a rischio la flora e la fauna di habitat ◀ Due scienziati tedeschi impegnati in un programma di ricerca sugli elefanti del Serengeti

unici. E ha lavorato per creare aree protette nelle quali animali e piante fossero preservate e studiate. Primo fra tutti, appunto, il Parco del Serengeti, in Tanzania, di cui può essere a buon titolo considerato, se non il fondatore, colui che l’ha fatto conoscere al mondo. Prussiano di Nysa, Grzimek coltiva la passione per la natura fin da giovane. Nato nel 1909, figlio di un avvocato, decide di non seguire le orme paterne ma di iscriversi alla facoltà di Veterinaria. Studia a Lipsia e poi a Berlino. Non è un nazista e, quando gli si presenta l’occasione, offre aiuto a un gruppo di ebrei in fuga dalle persecuzioni. La Gestapo punta gli occhi su di lui, che fugge da Berlino a Francoforte. Qui, nell’estate del 1945, gli occupanti americani gli offrono di diventare direttore dello zoo. Accetta. Il giardino zoologico è però in rovina, nelle gabbie ci sono i resti di animali morti. Grzimek non si scoraggia e si mette al lavoro con tenacia e passione. In mezzo alla natura Nel 1958 dà vita alla Zoologische Gesellschaft Frankfurt, una fondazione che ha lo scopo di finanafrica · 1 ·2017

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vi si reca svariate volte insieme al figlio Michael. Vive a contatto con la natura, osserva gli animali, i loro comportamenti, i loro spostamenti, le loro interazioni. Li fotografa, li filma. La sua passione viene premiata dalla stessa amministrazione britannica, che lo nomina direttore del parco. Questo gli dà la possibilità di lavorare ancora più a contatto con flora e fauna locale. Il materiale raccolto gli servirà per scrivere il libro Serengeti non può morire (Garzanti) che, nel 1959, diventerà un documentario premiato con l’Oscar. I suoi eredi Grzimek crede molto nell’educazione e nella divulgazione: conduce una seguitissima trasmissione televisiva sugli animali, pubblica un’enciclopedia sull’ambiente (1969), dirige (insieme al famoso etologo Konrad Lorenz) la rivista Das Tier (“L’animale”). La morte del figlio Michael in un incidente aereo lo segna molto. Ma non ne arresta l’attività, che conduce fino alla sua morte nel 1987. La sua eredità è stata raccolta dalla Fondazione creata dallo stesso Grzimek, che oggi finanzia e porta avanti attività di studio e di tutela degli ambienti naturali attraverso un articolato programma di interventi. Gli etologi di Francoforte conducono studi su elefanti, leoni, rinoceronti, bufali, antilopi. Accanto alle attività di ricerca, la Fondazione tedesca promuove e organizza

attività educative per i turisti-visitatori, corsi di formazione per i ranger della Tanzanian National Parks, iniziative volte a coinvolgere le comunità masai nella tutela del prezioso habitat. «Preservare l’ambiente è una cosa giusta e conveniente», ripeteva Grzimek, che non era indifferente alle questioni economiche. I tanzaniani hanno imparato bene la sua lezione: hanno destinato il 25 per cento del loro territorio a riserve naturali sottraendolo alle coltivazioni e continuando a preservare il loro patrimonio naturale. E oggi il business dei safari è un pilastro fondamentale dell’economia nazionale.

◀ Guardie del parco su un pick-up maneggiano un’antenna per individuare i rinoceronti a cui sono stati collocati dei radio-collari. Il programma di protezione antibracconaggio è sostenuto dalla fondazione tedesca ▶ Un addetto tanzaniano alla sorveglianza antibracconaggio, dipendente della Zoologische Gesellschaft Frankfurt, nel suo ufficio circondato dalle praterie del Serengeti ▶ Dan, ricercatore tedesco, raccoglie dati su alcuni leoni del Serengeti ▶ Turisti tedeschi accompagnati da una guida masai. Le comunità locali sono state ingaggiate dalle autorità del campo e dai ricercatori tedeschi nelle attività di salvaguardia ambientale ▶ All’aeroporto di Arusha, il decollo di un piccolo aereo diretto al Serengeti africa · 1 · 2017 59


CULTURA testo di Akhila Fakhoury – foto di Fernando Moleres / Luz

La musica che squarcia il buio

60 africa · numero 6 · 2016



RELIGIONE testo di Anna Pozzi – foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero

Blessing torna a casa dida

Blessing, ex prostituta nigeriana, oggi lavora in Italia come interprete e mediatrice culturale. La scorsa estate è tornata per breve tempo in Nigeria per incontrate le amiche, i famigliari e le suore che si occupano di aiutare le giovani 70 africa · 1 · 2017 donne vittime di tratta

DALL’ITALIA ALLA NIGERIA, IL VIAGGIO DEL RISCATTO DI UNA GIOVANE VITTIMA DI TRATTA


Migliaia di donne nigeriane sono costrette a prostituirsi in Italia sotto la minaccia di criminali che le hanno condotte con l’inganno sui marciapiedi. Alcune riescono a fuggire e a ricostruirsi un futuro, con l’aiuto di suore coraggiose «Quando mi hanno chiesto di rimborsare 65.000 euro mi sono resa conto che ero finita nelle mani dei trafficanti. È stato come se il mondo intero mi cadesse addosso». Blessing è una giovane donna nigeriana vittima di tratta. Dopo la laurea in informatica, cerca di costruirsi il suo futuro personale e lavorativo a Benin City. Ma qui subisce un terribile raggiro. Una sua cliente, una donna all’apparenza molto per bene, un giorno le propone di andare a lavorare per il fratello che gestisce alcuni negozi di informatica in Italia. «Mi era sembrato un sogno», ricorda Blessing. Come schiava Ma quando arriva a Castel Volturno non c’è nessun fratello e nessun negozio. C’è solo la strada. Blessing racconta mentre si trova su un aereo diretto a Lagos, Nigeria. È la prima volta che torna nel suo Paese dopo essere stata segregata e costretta a prostituirsi. È emozionata, ma anche molto determinata. È riuscita a ribellarsi, a fuggire e a denunciare. E ora è pronta anche a tornare. Con lei c’è un’altra ragazza giovanissima, Gloria, 19 anni, un figlio di un anno e mezzo e il fardello pesante dell’Hiv.

Anche lei prova a tornare a casa. Il suo sogno dell’Europa è naufragato ancora prima di attraversare il Mediterraneo, nei bordelli della Libia dove – come quasi tutte le ragazze nigeriane che transitano di lì – è stata costretta a prostituirsi, ha subìto violenze e umiliazioni. Per poi ritrovarsi in Italia senza altra prospettiva che quella di restituire un debito enorme, lavorando come schiava sul mercato del sesso a pagamento. Rimpatri volontari «Ancora oggi – si chiede Blessing, mentre sorvola la sua Africa, lasciata tre anni prima – continuo a domandarmi come abbia fatto a essere stata così stupida. Ancora oggi, a volte, non posso credere di essere stata tanto ingenua e sprovveduta. Ma anche di essere stata ingannata in quel modo da una persona di fiducia, una donna gentile, premurosa, che pregava sempre e diceva di volermi bene». Blessing sta tornando in Nigeria per ritrovare la famiglia. Non per restare. In Italia ha fatto un cammino lungo, faticoso e anche doloroso di riscatto e di integrazione, grazie a Casa Rut, una casa-famiglia di Caserta delle suore orsoli-

S. Ramazzotti

S. Ramazzotti

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RELIGIONE di Enrico Casale

Fedeli nel mirino vittime dell’odio In vaste regioni dell’Africa professare una fede religiosa (specie quella cristiana) può costare molto caro. A minacciare i credenti sono spesso i fondamentalisti islamici. Ma anche gli stessi governanti È di almeno 25 morti, tra cui 6 bambini e 49 feriti, il bilancio dell’attentato che lo scorso 11 dicembre ha colpito una chiesa copta al Cairo. L’esplosione, causata da 12 chili di tritolo, è stata l’ultimo di una lunga serie di attacchi terroristici compiuti contro una comunità che rappresenta circa il 10% della popolazione egiziana. L’ennesimo atto di persecuzione religiosa. Credere in Dio in Africa spesso è difficile, se non impossibile. Si tratti del Dio cristiano o di quello islamico. A denunciarlo è il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, redatto da Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs), una fondazione che sostiene chi è perseguitato per motivi religiosi. «La ricerca – spiegano gli analisti – ha riguardato 196 Paesi nel mondo. Di questi, 38 non rispettano la libertà religiosa. Dal 2014, anno dell’ultimo rapporto, il rispetto della libertà religiosa è peggiorato in 14 Paesi, mentre in altri

21 non sono stati riscontrati cambiamenti». Cristiani nel mirino Per quanto riguarda l’Africa, la situazione è particolarmente critica in Eritrea, Kenya, Libia, Niger, Nigeria, Somalia, Sudan e Tanzania. Con alcune differenze. In Eritrea, è lo Stato che discrimina chi appartiene ad alcune confessioni religiose. Ai testimoni di Geova, per esempio, sono interdetti incarichi governativi e 85 di essi sono stati arrestati perché si sono rifiutati di servire nell’esercito. Nel Paese vi sono inoltre tremila cristiani imprigionati a causa della loro fede. In Sudan, dove sono state inasprite le pene per i reati di blasfemia e apostasia, decine di persone, in gran parte non musulmane, sono state condannate e arrestate in numerose città con l’accusa di proselitismo o per non aver osservato il Ramadan. Nei loro riguardi sono state inflitte multe o

pene fino a cinque anni di detenzione. Terrore jihadista Altrove, invece, la discriminazione è legata alla presenza di cellule terroristiche di matrice fondamentalista. In Somalia, i cristiani (ma anche i musulmani sufi) sono perseguitati dalle milizie al-Shabaab. I miliziani jihadisti hanno colpito anche il Kenya (148 persone sono state uccise nella strage all’Università di Garissa e 67 nell’attacco al centro commerciale di Nairobi) e la Tanzania (dove però i musulmani moderati si sono opposti agli islamisti). In Nigeria, 2,5 milioni di persone sono sfollate a causa delle violenze jihadiste di Boko Haram e 219 delle 279 ragazze rapite nel 2014 risultano ancora scomparse. «I cittadini non si sentono protetti dal-

le forze di sicurezza», fanno sapere gli studiosi. «Sia cristiani che musulmani subiscono le conseguenze della violenza a sfondo religioso». Il fondamentalismo islamico ha toccato anche altri Paesi dell’Africa occidentale: Burkina Faso, Costa d’Avorio, Niger, Mali. L’unico caso in cui si è registrato un miglioramento della libertà religiosa è l’Egitto. «Il giro di vite dello Stato contro gli attacchi alle minoranze religiose – osservano i ricercatori – ha rappresentato una svolta. Anche se ultimamente si sono registrati sporadici attacchi ai danni di copti e altri credenti: danneggiamento di edifici religiosi, rapimenti e omicidi». ▼ Un cristiano delle milizie

Anti-balaka – decorato con crocifisso e amuleti protettivi – in guerra in Centrafrica contro le truppe musulmane di Séléka

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a cura della redazione

AIUTI SÌ? AIUTI NO? Sono un vecchio (in tutti i sensi) abbonato a Africa. Ho letto con molto interesse l’ultimo editoriale “Aiutare vuol dire...”: solleva un problema che mi è stato sempre molto a cuore. Ritengo che sia importante non solo a chi inviamo aiuti, ma anche quali aiuti. A questo proposito, consiglio di leggere due libri scritti dall’economista zambiana Dambisa Moyo: La carità che uccide e La follia dell’Occidente. Cesare Fiorucci, via mail Cara rivista Africa, ho apprezzato l’editoriale di dicembre perché tocca un argomento delicato e cruciale, che ci riguarda da vicino. Finalmente qualcuno dice le cose come stanno e ha il coraggio di sollevare il

velo di omertà che ricopre il mondo delle ong, della cooperazione, degli aiuti. Eleonora Brusenti, Udine Dovete smetterla di criticare il mondo della cooperazione. Così fate il gioco dei leghisti, dei razzisti, di chi pensa che è meglio rifugiarsi nei propri egoismi. Gianluca Livori, Roma A proposito dell’ultimo editoriale, secondo me, l’Africa avrebbe bisogno di più giustizia e pace. Anzitutto giustizia, intesa nel ridare tutto quello che appartiene all’Africa iniziando dai minerali rubati dall’Occidente. Ell Shia, via mail INCOERENTI Leggo spesso le critiche di Raffaele Masto nei

confronti dei leader politici africani, da lui definiti «dinosauri», «inamovibili», «impresentabili». Si lamenta perché passano il potere da padre a figlio o perché stanno al potere per tre mandati consecutivi. Ma perché non dice niente se alle elezioni presidenziali Usa si presentano clan famigliari (Bush e Clinton, per esempio) o se Angela Merkel si candida per la quarta volta consecutiva a guidare la Germania? Il mondo non si divide tra “neri autoritari” e “bianchi democratici”. Mario Battistini, Torino Il potere alletta tutti, bianchi e neri a qualunque latitudine. Ma mi consentirà di affermare che i contesti in cui ciò avviene sono

profondamente diversi. La vittoria di Trump dimostra che il popolo americano può mandare a casa anche un potentissimo esponente della famiglia Clinton. Nella stragrande maggioranza dei Paesi africani, un presidente che vince le elezioni, nel giro di poco tempo modifica la Costituzione in modo da potersi candidare all’infinito. Nel caso della Merkel (come avviene in Italia e in altri Paesi), la Costituzione prevede che il premier venga nominato dal capo dello Stato sulla base di una maggioranza parlamentare che si forma con un voto popolare. Tutte cose alle quali gli «inamovibili dinosauri» africani non si sognano nemmeno di sottostare. Raffaele Masto

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dove è più urgente (P. Paolo Costantini)

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