RaffaElE masTO
LAPIDATE SAFIYA UNa sTORIa VERa dallE TERRE dI BOkO HaRam
AFRICA
Missione • cultura
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Introduzione alla nuova edizione di Raffaele Masto Prologo - In fuga Infanzia hausa Finalmente a scuola Non mi voglio sposare! La mia nuova famiglia Donna e madre Allah, piuttosto prendi me! Ripudiata Un incontro fatale Accusata Il processo Imam Presagi Il mondo deve sapere Salva Roma, il mondo Una nuova felicitĂ e qualche progetto
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Prologo. In fuga La savana. Terra calda, a perdita d’occhio, ocra rossastro come i cespugli, le acacie e i baobab all’orizzonte. Ci ero nata, l’avevo percorsa centinaia di volte, la savana, sempre così, a piedi nudi, ma quella mattina mi sembrava di non riconoscerla. Nel mio cuore la sentivo estranea, ostile, come tutto quello che mi era stato familiare, il mondo dove mi sentivo al sicuro, la gente che consideravo amica. Quel mondo e quella gente avevano scelto per me il peggiore dei destini. Una fine atroce che da due giorni cercavo di fuggire. Il mio destino... Impossibile non pensarci. Stava là, al margine dei miei pensieri, come un’ombra malvagia in agguato, pronto a balzare fuori per terrorizzarmi ogni volta che i miei occhi si posavano su una pietra, una delle tante sparse sulla terra polverosa. Le pietre mi avrebbero straziata e uccisa. Il mio destino era la lapidazione. Mi vedevo sepolta fino alle spalle nella terra, la testa coperta da una tela di sacco e poi sentivo le pietre, a pioggia, scagliate con forza contro di me, sulla mia testa fino a quando io non avrei esalato l’ultimo respiro... sentivo il dolore, sentivo il sangue che mi colava sul viso e mi chiedevo quanto sarebbe durato, quel supplizio, prima che venisse la morte a liberarmi. In un certo senso ero già morta, pensavo mentre avanzavo a fatica nell’afa soffocante. Con la fuga non mi ero lasciata dietro solo il mio villaggio, Tungar Tudu, ma le mie stesse radici. Dietro di me avevo tutto, davanti a me solo il buio, la paura e la morte. Ma anche l’unica certezza, l’unica cosa per cui sentivo di dover lottare e sopravvivere: Adama, la mia bambina. Lei era con me, la sentivo sulla mia schiena, fagottino morbido e caldo. Adama, causa inconsapevole del mio dramma... Avevo paura, più di quanta ne avessi mai avuta in tutta la mia vita. Era la paura dell’animale braccato, una paura così forte da farmi avanzare senza meta in quel paesaggio infuocato. Ero allo stremo delle forze. Quanto avrei resistito ancora? E Adama, così fragile e piccola, per quanto tempo sarebbe sopravvissuta? Le poche scorte di viveri che avevo portato con me al momento della fuga si erano rapidamente esaurite. Niente più carne secca né farina e nemmeno latte. Restava un po’ d’acqua, ma volevo conservarla per quando Adama si fosse svegliata. Il sole adesso era alto nel cielo. Se avessi proseguito, sarei morta con la mia bambina. Dovevo trovare un riparo e aspettare il tramonto per riprendere la marcia. Poco di8
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stante da me, c’era un albero. Lo raggiunsi a fatica, ma quando stavo per stendere a terra la stuoia vidi in lontananza delle sagome in movimento. Cammelli e, dietro di loro, un pastore... Se lo avessi raggiunto avrebbe potuto darmi del cibo, dell’acqua! Raccolsi le forze per gridare e attirare la sua attenzione, ma qualcosa me lo impedì. No! Non chiamarlo! Stai nascosta! Ormai in tutti i villaggi sapranno della tua condanna e chi ti vedrà lo dirà alla polizia... Disperata, mi lasciai cadere lungo il tronco, gli occhi fissi sul pastore fino a quando scomparve, inghiottito dalla foschia giallastra. A quel punto piansi, per la prima volta da quando avevo lasciato il villaggio. Adesso ce l’avevo davvero di fronte, l’immensità della mia solitudine. Nessun essere umano avrebbe potuto aiutarmi. Che cosa sarebbe stato di me e della mia bambina? Guardai Adama. Ignara di tutto, si era addormentata sulla stuoia. Io rimasi sveglia, ad attendere che il sole scendesse. Avevo sempre amato quel particolare momento della giornata. Mi piaceva lasciare ogni attività per fantasticare e sognare, osservando i cambiamenti dei colori e i bizzarri disegni che le ombre allungate tracciavano sul terreno. Ma quel pomeriggio, quando finalmente il sole incominciò a calare all’orizzonte, non provai nessuna sensazione piacevole. Indifferente all’aria che rinfrescava, svuotata di ogni energia, nel corpo e nello spirito, mi rimisi stancamente la piccola sulle spalle. Il pastore doveva senz’altro essere diretto a un pozzo per abbeverare i cammelli. Sarei andata anch’io da quella parte. L’acqua era più importante del cibo, se volevo sopravvivere. Mi avviai. Avevo la gola riarsa, la bocca secca. Tutto sembrava sfumato, non capivo se per la calura o per la mia debolezza. Ormai strascicavo i piedi, ogni passo mi costava sempre più fatica. Adama incominciò a piagnucolare. Non faceva un pasto vero da due giorni, povera piccolina, doveva sentirsi ancora peggio di me. Mi fermai per farle bere le ultime gocce d’acqua. La bambina le inghiottì avidamente e io mi chiesi angosciata che cosa sarebbe successo se non avessi trovato al più presto il pozzo, poi ripresi il cammino. Il paesaggio ormai si confondeva, vacillavo, di tanto in tanto incespicavo. Camminai e camminai, fino a quando scese la sera e ancora, fino a notte fonda, quando mi resi conto che nell’oscurità assoluta proseguire non aveva senso. Non avevo trovato il pozzo, forse avevo addirittura sbagliato strada. Forse Dio voleva veramente che fossi lapidata, perché avevo davvero commesso una colpa gravissima che la mia incoscienza mi impediva di comprendere... Stesi la stuoia ai piedi di un albero, vi deposi Adama e mi lasciai cadere vicino a lei, la schiena contro il tronco. Come temevo, la bambina si svegliò. Il suo pianto disperato 9
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mi strinse il cuore. Era terribile sapere che aveva fame e sete e non poterle offrire altro che il mio affetto. La presi in braccio, la accarezzai, le parlai sottovoce. Adama si calmò. Poco dopo il suo respiro regolare mi disse che si era riaddormentata. Sotto quell’albero, nel buio, il pensiero del mio destino fu libero di riassalirmi. Le pietre, il dolore, il sangue. Il mio sangue... La morte... A poco a poco scivolai nel sonno, in preda agli incubi. Mi svegliai all’alba. La terza alba dalla fuga. Adama dormiva ancora, ma da un momento all’altro si sarebbe svegliata. La sete e la fame l’avrebbero fatta piangere di nuovo, senza che io potessi aiutarla. Non svegliarti, piccolina, continua a dormire, pensavo. È meglio, non sentirai la fame, la sete, il dolore... Nella tristezza di quel momento, guardandola, capii che non c’era niente che contasse più di lei, nemmeno la mia sopravvivenza. Era la sua, quella importante. Pur di salvarla ero pronta a perdere me stessa. Se fossi riuscita ad arrivare a un villaggio, mi sarei consegnata alla polizia e Adama sarebbe stata salva. Lì nella savana invece saremmo morte entrambe. Ormai anche il pensiero della lapidazione mi sembrava preferibile alla fine in quel luogo. Meglio morire fra gli uomini, uccisa dagli uomini, che soccombere così, proprio come le bestie braccate. Quasi per convincermi di questo, mi guardai ancora intorno... e lo vidi. Un pozzo. A pochi metri da me. Sfinita com’ero, la sera precedente non l’avevo distinto nel buio che mi circondava. Potevo placare la sete di Adama e la mia. La salvezza. Un segno di Dio, ne ero certa. Mi stava dicendo che cosa voleva: che vivessimo entrambe. Mi alzai in piedi per raggiungere il pozzo, ma non avevo forza sufficiente per reggermi sulle gambe, così strisciai carponi fin là, ansimando. A tentoni, trovai il recipiente di latta che è sempre a disposizione dei viandanti per bere. Lo calai nel pozzo con la fune, lo ritirai su. Quel gesto, ripetuto infinite volte nella mia vita, mi costò uno sforzo immane. Quando il recipiente toccò il bordo del pozzo, ero stremata. Dovevo bere. No, non potevo, ero troppo stanca, troppo debole. Mi costrinsi a reagire. Dio non poteva avermi portata fino a quel pozzo per niente. Qualche goccia d’acqua mi cadde sulle mani. Un contatto fresco, così fresco... Bastò per darmi le energie necessarie per bere. Avvicinai le labbra riarse al recipiente, toccai l’acqua. Il primo sorso, il secondo... Il ritorno alla vita, l’acqua bagnava il mio corpo come la pioggia i campi prosciugati dal sole. Bevvi a sazietà. Finalmente ristorata, feci bere Adama, 10
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che si era svegliata. Anche lei sembrò rianimarsi. Il suo pianto risuonò acuto nel silenzio del nuovo giorno. La mia bambina adesso aveva fame. Anche questo era un segno di Dio. Ci aveva dato l’acqua, ma non il cibo. Se volevo trovarne, dovevo concludere la mia fuga, cercare un villaggio e chiedere aiuto. Era l’ora della preghiera. Anche stendere la stuoia a terra mi costò una grande fatica. Lo feci molto lentamente, poi mi prostrai. E fu allora che Dio mi mandò il secondo segno. Un albero. Un baobab diverso da tutti gli altri, con il grosso tronco piuttosto tozzo scavato quasi a formare un rifugio. Non ci credevo, mi sembrava impossibile che fosse proprio quello, eppure... sì. Quell’albero io lo conoscevo bene. L’avevo osservato altre volte, incuriosita dalla sua forma. Quando? Ma certo, per andare in visita da un fratello di mio padre, nel villaggio di Jinjina. Non sbagliavo, ecco il sentiero e la collina. Jinjina era là dietro. Raccolsi Adama, la legai ancora sulla mia schiena. Era l’ultimo sforzo, decisivo. Mi mossi piano, temevo di cadere. Un piede davanti all’altro, ancora. Ancora. Ancora. Quel sentiero non finiva mai, stavo camminando da ore e ore. Ma era solo la stanchezza a farmelo credere, lo capii quando entrai a Jinjina, vedendo il sole ancora poco sopra la linea dell’orizzonte. I vecchi già seduti fuori delle case mi guardavano stupiti e anche un po’ spaventati, il mio aspetto doveva essere pietoso. Davanti alla casa di mio zio esitai, poi entrai. Lui si affrettò a farmi portare una ciotola di riso con manioca e carne. In silenzio, attese che mangiassi e nutrissi Adama, poi mi parlò con franchezza. Sapeva della condanna e della fuga. Dovevo tornare a Tungar Tudu per mio padre, disperato perché era convinto di avermi persa per sempre. Lo zio aggiunse che avrebbe pregato per me e che la famiglia non avrebbe rinunciato a nessun passo per salvarmi. Non dovevo perdere la speranza, contro la sentenza di lapidazione si poteva presentare appello. Le sue parole mi confortarono. Forse ero stata precipitosa, nella fuga. Peggio, incosciente. Non era vero che ero sola, la mia famiglia era ancora là, mi aspettava per stringersi intorno a me e aiutarmi. Lo zio si congedò per la preghiera del mattino. Io rimasi sola con Adama. Sazia di cibo, si era addormentata. Mi distesi sulla stuoia, più fiduciosa e serena. E venne il sonno. Quando chiusi gli occhi, sapevo che cosa avrei fatto l’indomani. Sarei tornata a casa, a Tungar Tudu, al mio villaggio. Dove tutto era incominciato...
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