I QUADERNI DEL MUSEO
Numero quattro
2014
Presentazione
Demos Galaverni (1919-2005) propone, attraverso gli appunti qui raccolti, alcune testimonianze di vita e cultura dell’Appennino Reggiano, territorio che l’autore conosceva profondamente per il mestiere di maestro, esercitato dapprima nelle scuole di Busana e a Vaglie, poi a Vallisnera, Ligonchio e Villa Minozzo, dove insegnò fino al pensionamento avvenuto nel 1976. Seguendo una suddivisione attuata dallo stesso Galaverni, la prima parte del libro riunisce le pagine in cui l’autore si occupa prevalentemente del Maggio Drammatico,
analizzandone
primaverili
delle
i
legami
Calendimaggio,
coi
riti
basandosi
principalmente sugli studi compiuti da Paolo Toschi [1955], per poi tracciare una descrizione dei costumi, del canto e della modalità di allestimento di una rappresentazione maggistica.
In “pagine di vita sull’Appennino”, la seconda parte del libro, gli appunti di Galaverni allargano lo sguardo per concentrarsi non solo più sul Maggio, ma sulle usanze e sulle passate manifestazioni culturali della montagna: l'emigrazione, la transumanza e i legami col crinale toscano, la centralità del canto nella vita individuale e collettiva dei montanari di allora, per il quale l’autore porta come esempio le quartine dei Maggi Drammatici. Valentina Bonicelli
Ho aggiunto al testo sul Maggio un’ altro breve scritto Maestro della Provvidenza nella scuola di Vaglie in cui Demos Galaverni fa professione di fede nell’amore del Maestro per i suoi alunni (uno per uno, come lui stesso scrive) ed essendo stato uno di loro non ho potuto non pubblicarlo.
Ho voluto che il tutto terminasse, dopo la calda biografia della figlia Rosaria, ad onore e merito del Maestro e del Poeta, con le parole di una poesia di Costantino Zambonini a lui dedicata. Benedetto Valdesalici
DEMOS GALAVERNI
dieci paginette sul Maggio
IL MAGGIO Ora che gli emigranti di stagione sono tornati tra il castagno e il faggio, comincia adesso l'epoca del Maggio: i maggerini son tutti in azione. Ecco, tra il folto cerchio di persone, saluta e annuncia l'argomento il paggio; e poi comincia subito il passaggio della cantata rappresentazione. Fede ed amore, cupidigia e frode, muovono regi, donne e cavalieri ad azioni di biasimo e di lode. Ma il bello di ogni maggio Ê la finale: chÊ, dopo tante lotte e intrighi , quasi sempre è vincente il ben sul male. ERIO FONTANA
LA MORTE (vera) DI UN MAGGERINO Qui giace Mauro, vecchio Maggerino che al termine del .....viaggio ha salutato il mondo con un canto di maggio credendosi Orlando Paladino. ERIO FONTANA
Considero i Maggi come altrettante scintille cadute dal fuso o dal razzo che espresse e portò fino a noi l'episodio di Paolo e Francesca e il Trovatore. Abbiano o no le loro radici nelle antiche sacre rappresentazioni, i Maggi sono melodrammi che non furono mai musicati e che probabilmente non ebbero bisogno di musica (o di una musica scritta invariabile). EUGENIO MONTALE
CANTIAM MAGGIO E' giorno di fiera. A Villa Minozzo si canta il Maggio dei Paladini di Re Carlone. Attenzione, zitti tutti e venite più avanti, che il chiasso della fiera con le sue trombe e i suoi tamburi non ci debba importunare; venite qui vicino ad ascoltare la mirabile storia dei Paladini di Re Carlone detta anche dei Reali di Francia. Io mi chiamo Andrea da Barberino perché nacqui in Barberino la più bella terra di Valdelsa e sono il più famoso di quanti cantastorie vivono in terra di Toscana. Ma questo non vi importa: a voi interessano i racconti di belle gesta, di grandi colpi di spada, di imprese strabilianti come quelle compiute dai guerrieri di Francia e di terra saracina al tempo lontano di Carlo Magno detto anche Re Carlone: era di sì gran forza, che stendeva, come niente fosse, tre ferri di cavallo insieme uniti e levava in palma di mano da terra in aria un cavaliere armato. Con la sua spada Gioiosa ti tagliava netto un uomo a cavallo coperto di tutt'armi. Ma io voglio cominciare da più lontano ancora; da quando in Roma da poco cristiana regnava Costantino Imperatore e contro di lui e contro Roma s' eran
mosse le intere forze dei pagani d'Asia, Africa ed Europa, gelose che la fede di Cristo si diffondesse. Le mie saranno quattro storie di cavalieri; i primi Paladini di Francia ed in essi vi diro' di Rizieri, di Fioravanti, del Buovo di Antona ed infine di Rolandino, il più celebre ed il più grande dei paladini di cui oggi ancora si rammentano le gesta. Di Rolando, Rinaldo e Astolfo e Bradimante molto hanno cantato gli illustri poeti; ma io che scrivo solamente in prosa mi limiterò a parlarvi dei meno celebri, di quelli che precedettero e fondarono la cavalleria di Francia e vennero chiamati i Paladini di Re Canone. Ma anche vi parlerò di Pipino e della sua moglie che fu Berta dal gran piè, e come ella divenne sposa del Re di Francia e fu madre di Carlone Ma la musica della fiera si fa sempre più fragorosa, ecco le giostre pirlare con i loro caroselli di cavalli e barchette lucenti, le bandiere sventolano, i tamburelli rumoreggiano indiavolati, è dunque bene scostarsi un poco da questa confusione; giriamo l'angolo dietro la chiesa, ove cantano il Maggio e racconterò la prima storia. Ma sapete, poi, che cosa e' il Maggio? Ascoltate.
SIAM VENUTI A CANTAR MAGGIO E' ancora viva in alcune parti dell'Appennino lucchese, reggiano e pistoiese, ma anche, seppure meno diffusa in Liguria e in varie zone dell'Italia centro-meridionale, una delle piu' liete e geniali costumanze che danno colore e significato alla vita tradizionale del nostro popolo. L'ultima sera di aprile o la mattina del I maggio usano i giovani, in allegre brigate, recarsi di casa in casa portando in mano un ramo verde infioccato di nastri di ogni colore o di fiori freschi e limoni, cantando una canzone che è insieme un annuncio di primavera e una richiesta di doni. Majo o Maggio si chiama il ramo verde che essi reggono a mo' di gonfalone, e maggio si chiama pure il canto che essi ripetono in coro con una melodia lenta e soave o comunque un motivo largo e piacevole. Le parole variano da luogo a luogo, ma spira in tutte un'aura di freschezza e di giovinezza, un senso agile e vivo di "novel tempo", una frenesia di sole e d'amore: Maggio giocondo, rallegra tutto il mondo, capo di primavera Benvenuto maggio, capo di primavera,
di ogni stagion primavera la rondinella che per l'aria va volando, maggio é qui cantando, il rosignolo che canta notte e giorno, maggio é qui dintorno. sulla rama la bella dell'ulivo, canta il cardellino ...... Questo canto, di cui diamo solo i versi più significativi, rimasto finora, si può dire, ignoto (fu pubblicato nel '39) mentre costituisce una delle più felici espressioni della poesia del nostro popolo. Esso fu raccolto in territorio di Chiavari, il che mostra come l'usanza abbia una diffusione ben più larga di quel che in genere si pensi. Comunque, gli stessi motivi d'ispirazione ricorrono, pur atteggiati in altri modi, con quella varietà che è il principale dono del canto popolare, anche nei Maggi di altre parti d'Italia. E Io spirito delle diverse regioni trova il mezzo di rivelarsi con accenti originali. Così in Toscana, al brio e al fervore giovanile si unisce spesso l'arguzia e il motteggio: Ben venuta la rondinella a fare il nido sotto il tetto!
Ci vorrebbe un giovinetto sĂŹ, per voi, ragazza bella! Cantiamo maggio a tutti gli usci, se dell'ova ce ne date si farĂ delle frittate, ed a voi si rende i gusci. In un canto d'Abruzzo e' il trionfo della piena fioritura sotto il sole sfolgorante che dĂ ai versi una vibrazione calda ed espansiva: Ecchete magge ca seme venute tutte de rose m'jeme vistute: e Vu patrune, che num i credete, uscete fora, ca lii vedete: e lu sole che spanne li ragge ros'e'ffiure lu mese de magge. Ma il sentimento poetico non e' racchiuso solo nel canto: esso si manifesta anche in alcuni particolari usi che, data la natura della festa, hanno un chiaro significato propiziatorio, sia per gli alberi e le messi, sia per gli uomini. Il piĂš comune e' quello del ramo fiorito che il giovane pone presso l'uscio della sua bella, onde la frase proverbiale, ora quasi passata in disuso insieme al relativo costume "appiccare il majo
a ogni uscio" detta per chi ha l'abitudine di far la corte a tutte le ragazze. Talvolta il ramo veniva senz'altro offerto subito dopo il canto alla ragazza che scendeva a prenderlo e a portare i doni al giovane nel cui nome la serenata era stata fatta: i doni consistevano in uova, noci, noccioline e zuccherini. Nell'alta Polcevera si appoggiava un albero con doni alla finestra della fanciulla amata e il giovane tutta la notte montava di guardia con fucile. La mattina la ragazza si affacciava distrattamente, e, visto il giovane a lei noto, altrettanto distrattamente lasciava cadere un garofanino spiccato sul davanzale. Il fiore, raccolto dal giovane, lo incoraggiava a parlare. Seguiva richiesta di-fuoco per la pipa, la quale (guarda caso!) non voleva accendersi; mentre dolci parole accendevano sempre piÚ i cuori. Ma ecco la madre chiamare a sè la figlia e perchÊ questa ......non sentiva, scendere impazientita a prenderla per un braccio, mentre il damo, intonata a piena gola una canzone in lode della bella, se ne andava. Abbiamo accennato ad alcuni usi, tanto per ambientare il canto del maggio nelle forme della vita tradizionale, ma non abbiamo certo la pretesa di
ricordare tutte le costumanze a cui questa grande festa di primavera ha dato, e da' tuttora, luogo. Noi ci contentiamo di osservare qui le manifestazioni poetiche. PoichĂŠ accanto al Maggio Lirico la tradizione ha conservato anche il Maggio Drammatico, una rappresentazione all'aperto che e' una delle piĂš caratteristiche espressioni del nostro teatro popolare. Ma per comprendere la vera natura e la vera ragione sia del canto che del dramma, e' necessario conoscere l'origine antichissima da cui l'uno e l'altro hanno tratto ispirazione. Noi raggiungeremo lo scopo in una maniera un po' fuori del comune: attraverso la storia di una parola. Maiale e' un aggettivo bellissimo alla sua origine, ma che poi sostantivandosi e riempendosi (starei per dire ingrassandosi) di un significato particolare e ristretto, ha acquistato orami, nell'uso comune, un non so che di spregiativo. Esso deriva dal nome della Dea Maja, una delle piĂš antiche e venerate divinitĂ laziali, che personificava il rigerminare della vegetazione al ritorno di ogni primavera, e quindi la fertilitĂ della terra in maggio.
Ecco perché veniva identificato con Bona Dea cioè con fecondità, e ad essa veniva offerta in sacrificio una scrofa, un sus maialis. Sul significato di questo rito non esiste una certezza. In base al principio della magia simpatica, i Greci e i Romani sacrificavano delle vittime gravide alle dee del grano e della terra, senza dubbio perché la terra fosse feconda e la spiga granisse bene. Ma noi troviamo sempre come parte integrante del rito, oltre al canto e alla processione, anche qualche forma drammatica (processione o sfilata - canto - coro finale). Ne' essa poteva mancare in una delle cerimonie agresti che rivestiva per le antiche popolazioni una importanza di primo piano: e il suo valore non e' del tutto scomparso presso le nostre classi rurali. Ora, lo sviluppo del dramma nelle sue linee più semplici può vedersi così: invece dell'albero del majo, portato processionalmente a scopo augurale davanti alle case delle persone amate o riverite, viene vestito di fronde da capo a piedi un ragazzo (o una ragazza) col compito di rappresentare la stessa cosa che il majo, cioè lo spirito arboreo col suo benefico potere. E' questa la prima persona del dramma, conosciuta variamente coi nomi di Maggio, Padre Maggio, Signora del Maggio, Re o Regina o Contessa del maggio.
Non si creda che queste forme primitive siano del tutto scomparse. A Lucito, in provincia di Campobasso, il Maggio e' rappresentato da un pagliaio coperto di fronde dentro cui si pone un uomo che cammina dondolandosi leggermente in cadenza di ballo. Ma gli elementi drammatici prendono un decisivo sviluppo quando tra i partecipanti alla festa si stabilisce una gara, il cui vincitore viene proclamato Re del Maggio e ha quindi il diritto di essere il compagno della Regina del Maggio. In generale la gara consiste in una corsa a cavallo per raggiungere il majo, o in uno sforzo a chi primo si arrampica sulla cima del majo stesso: il nostro Albero della Cuccagna è - ahimè - l'ultimo contadinesco e decadente, ma sicuro avanzo di una antichissima gara piena di fascino. Se chi arrivava primo veniva eletto Re, chi arrivava ultimo diventava il Giullare, personaggio comico che rappresenta una "prima parte" nelle feste di maggio come ce lo documenta il fatto che esso si é perpetuato fino nei Maggi recitati tuttora nell'Appennino Tosco-Emiliano (di qui, forse, il buffone). Abbiamo così: un Re e una Regina, col loro seguito (che può ricordarci il coro), un giullare, una scena di lotta. Questa lotta viene in molti luoghi rappresentata
in forma di danza con la spada, e tuttora il duello che nei nostri maggi costituisce la scena madre, si esegue con moti e figure e ritmi tradizionali in cui traspare l'antico aspetto di danza. La rappresentazione acquista, fin dalle origini un carattere agonistico, guerresco, epico. A un certo momento, quando le gesta, gli ideali gli eroi del mondo cavalleresco medioevale colpiscono la fantasia popolare, il tono e il senso epico del maggio drammatico trova la sua materia preferita nella rievocazione delle gesta dei paladini e nascono cosÏ i maggi quali il "Buovo d'Antona", il "Fioravante", il "Fierobraccia", il "Rinaldo". Tuttora la materia epica e cavalleresca o storica, prevale nei maggi che si rappresentano sull'Appennino tosco-emiliano durante la bella stagione. La Chiesa per estirpare la gramigna del paganesimo, dedico' quasi per contrappasso, il mese di maggio a Maria; rovesciò i tronetti su cui false regine di un giorno sedevano a ricevere gli omaggi floreali delle ragazze reduci dalla gita notturna nei boschi ove avevano celebrato la festa dell'amore, e al loro posto mise gli altarini della Madonna, ai cui piedi l'umile fedele lascia la sua offerta di fiori campestri: e cosÏ trasformò le gioiose canzoni di maggio in canti di
questua per le anime purganti, e al maggio epicocavalleresco luccicante di elmi e risonante di spade cozzanti, sostituĂŹ il maggio sacro che esaltava le gesta dei campioni della fede. Ma i caratteri originali ancora possono riconoscersi nei "copioni" dei maggi che tuttora si conservano, e che purtroppo ci rappresentano soltanto forme tarde e decadute, improntate dei gusti del sette-ottocento. Tratti antichi sono senza dubbio: i giri processionali compiuti dagli attori, i duelli a ritmo di danza, le figure del paggio e del giullare, e soprattutto il fatto che i Maggi si rappresentano ancora, talvolta in mezzo ai boschi. CosĂŹ, indagando le manifestazioni di questa festa millenaria nei suoi aspetti lirici e drammatici, siamo giunti a stabilirne il preciso carattere e il significato. Festa della fecondazione arborea, quella del maggio esprime, in originali forme di bellezza, l'anelito della moltitudine a che la nostra terra sia sempre piu' ferace. Il maggio non e' diviso in atti: e' un atto unico che dura tre o quattro ore. I costumi sono tradizionali e vengono tramandati di padre in figlio: maggerino era il bisavolo, maggerino e' il pronipote. I costumi sono
bellissimi: di velluto e di seta, a ricami originali e artisticamente ammirevoli. In questi costumi non c'e' alcuna uniformità di stile ne' di epoca. Così si vedono elmi estrosamente conciati, aventi sulla fronte la placca o trofeo con la dicitura "Pio IX" oppure "Leopoldo I!" ed anche "Fur Kenig im Vaterland"; cosi' come certi spadoni, a guardia semplice o con la manopola, ricordi della guardia nazionale del 1848, si sposano a sciabole bersaglieresche, a lama ricurva ....; ma spadoni e sciabole non sono di latta, bensì di acciaio, ond'è che si prova un certo batticuore quando due rivali si' gettano l'un l'altro contro, menando colpi all'impazzata, colpi da "orbi". Ma tanta e' l'abilita' dei contendenti che il morto non ci scappa mai fuori e neppure il ferito. Giubbe da carabiniere formano "il completo" con calzoni grigioverdi della prima guerra mondiale, così come pennacchi blu e rossi della "benemerita" adornano il cimiero di un re dei Tartari.
IL POEMA Il poema e' una quartina di versi ottonari, in cui rimano il primo e il quarto, mentre gli altri due versi sono a rima baciata; lo schema ĂŠ, dunque, A B B A. si veda ad esempio la seguente quartina: Dal gigante Scaldamasso A salvo alcun non puo' restare B Schiantera' come suol fare B giu' da rupe duro sasso. A Fra le quartine viene inserita un'altra forma chiamata sonetto. E' generalmente un soliloquio e corrisponde alla romanza del teatro d'opera. Delle romanze precedenti l'800 non e' rimasta traccia, ma di quelle posteriori esiste qualche reminiscenza. E' frequente trovare echi verdiani e donizettiani, ai momenti patetici e lirici prestandosi particolarmente il Trovatore e Lucia di Lammermoor. Forse i trascrittori udirono queste opere incise su dischi al tempo del fonografo ( ... ). I "modernizzatori" scendono all'operetta, affidandola al violino e alla chitarra, e allora trionfano i valzer languidi di Lhar (Vedova allegra e Conte di Lussemburgo).
Gli attori, dal principio alla fine, cantano una melopea (melos + canto), la cui tonalitĂ viene mantenuta uguale da una strofa all'altra grazie ad un violino, il quale, accompagnato da una chitarra, fa un breve commento - uniforme per tutti i maggi - e ha la funzione del "la" solista nell'orchestra, servendo ad accordare le voci, anche se difficilmente le voci femminili sono in chiave con quelle maschili.
1) E' a questo punto che vogliamo introdurre una breve nota stilistica essendo moltissime le deficienze di stile che si riscontrano nei testi dei Maggi: deficienze grammaticali, ortografiche, sintattiche, lessicali e metriche; solecismi, assonanze, ecc. Qualche esempio: cacofonie (mai mia figlia sposerai ...), assonanze, anacoluti (per ognun se aver diletto ne sarĂ quest'opra grato ....); frequente ritorno dei medesimi vocaboli (fier, fier, gir, ... ora tosto partirai); troncamenti sia al singolare che al plurale (vii, ver); sinonimie intensive ( ... forza e vita; soccorso e aiuto ...), espressioni a volte banali (liquidiamo pure i conti ... se tu zio non provvedi ....), tmesi (male di lui dicesti, per maledicenza). Lo stile a volte e' contorto, duro, legnoso (per ognun se aver diletto/ne sarĂ quest'opra grato/di virtĂš sublimi ornato/di campione d'alto ricetto ....), sincopi, zeugmi (cantar e piangere vedrai ... ), endiadi (la gioventu' e le forze mi vengono a meno - le forze della gioventu' ....), uso scorretto dei verbi, soprattutto andare, dare, stare (sarebbe bene che tu fosti), preposizioni inventate (ne sia tosto imbavagliata/e nel bosco trascinata ...).
COMINCIA L'AZIONE Colpi ritmati di tamburo avvertono che la rappresentazione sta per cominciare. La vestizione e la truccatura degli attori non avviene mai sul luogo dello spettacolo, ma in una casa vicina. Da questa specie di "camerino" la compagnia parte incolonnata per due: intesta l'alfiere, poiche' ogni compagnia ha una bandiera e i musici (violino e chitarra, talora fisarmonica), indi gli amorosi d'ambo i sessi, e gli eroi (gli uni e gli altri corrispondono, grosso modo, al tenore, al soprano, al baritono), ultimi i re scettrati e coronati (i bassi). A volte il corteo dei Maggerini e' accompagnato nell'area dello spettacolo dal complesso bandistico. Talvolta hanno parte nel dramma i briganti con ruolo grottesco e comico; diversamente si introduce nel dramma un giullare o buffone, che pur essendo estraneo all'azione vera e propria, ha il compito di dare vivacità allo spettacolo, sollevare gli uditori dalla pressante attenzione e dividere le scene. In questi casi, i briganti o il buffone prendono posto in testa alla colonna, subito dopo i musici . Il buffone può dire tutto quello che vuole. Il codice penale e il galateo perdono ogni efficacia .... il linguaggio scurrile popolare, e' anzi, fonte di diritto
ed è perciò "legge". Il buffone punzecchia, deride, castigat homines et mores ... ma nessuno ovviamente oserebbe controbattere sapendo di perdere il favore del pubblico! Il buffone gode dell'immunità come un arbitro! ( ... ) e' un eroe del nostro popolo e' noi stessi! Il corteggio, cosÏ composto, percorre solennemente la via principale del Paese, mentre tamburo, violino e chitarra cozzano terribilmente; quindi, vessillo e pennacchio al vento, la compagnia fa il suo ingresso nel recinto destinato allo spettacolo. Comincia la rappresentazione. I cantori si muovono nel cerchio segnato dalla radura, seguiti sempre, passo a passo, dal suggeritore e preceduti, spesso dalla banda musicale. Il "declamato" alto, vibrato, concitato, esige mezzi vocali resistentissimi, e poichÊ il dramma si svolge senza interruzione, il caldo si fa sentire e le ugole si fanno riarse: bibere necesse est! Allora un servo di scena passa da un guerriero all'altro porgendogli il nappo che viene tracannato d'un fiato alzando la celata o la barba finta ( .... ).
HA INIZIO LA RAPPRESENTAZIONE Per chi non ha mai assistito ad un maggio, e' bene dire, che in questo genere di rappresentazione, la fantasia, anche quella dello spettatore - deve supplire alla realtà, e, che quella sobrietà scenica, che oggi si fa strada sui nostri palcoscenici fino ad essere simbolica e induttiva, e' stata precorsa fino al limite dell'espressione. Una fronda, piantata nel terreno, può significare un bosco ed anche una foresta. Una torretta di cartone può significare un castello; una striscia di tela azzurra può significare un fiume o un mare. Non scenari dunque, ne' quinte. Nulla della comune finzione scenica. Il suggeritore c'e' ma non nella comune buca. I due campi avversari - generalmente cristiani e infedeli - che battagliano, hanno una specie di quartier generale rappresentato da due rudimentali tende coperte di frasche, contrapposte l'una all'altra come le "porte" nel gioco del calcio. La recitazione cantata segue norme fissate dalla tradizione. La ritualizzazione del gesto esprime i sentimenti del personaggio. L'andirivieni concitato, con egual numero di passi, tra due personaggi, indica ira e
sdegno. Il roteare dell'uomo intorno alla donna, significa corteggiamento amoroso. Anche il duello ha la sua stilizzazione: uguale e' il numero dei colpi e l'urto degli scudi ad ogni assalto. Quando un personaggio viene ucciso giace sul terreno immobile per qualche tempo .... poi, esce di scena, con un piccolo salto.
Demos Galaverni
DEMOS GALAVERNI
Il feroce Saladino
dieci paginette sul Maggio 2
PAGINE DI VITA SULL'APPENNINO
Il montanaro è poeta per innata disposizione. Parlo del montanaro autentico, quello, cioè, che ancor oggi è riuscito a conservare la sua integrità e guarda alle tradizioni, ai costumi del suo paese come si può guardare ad un tesoro, da secoli gelosamente custodito. Si dirà che ce ne sono, oggi, pochi di questi semplici figli del monte, poichè l'odierna civiltà ha influito molto anche su di loro, prima con l'emigrazione, poi con i contatti d'ogni genere, che essi hanno pur dovuto avere con la città. Ciò, in linea di massima, è vero; ed è cosa veramente consolante che la nostra montagna abbia fatto dei passi nel progresso; ma in qualche angolo più solitario, in qualche villaggio sperduto tra le gole dei colossi alpestri, dove ancora la rotabile non arriva o arriva a fatica, in queste plaghe ignote ai più e che solo il turista percorre fuggevolmente, meravigliato che tanta bellezza di natura rimanga tuttavia chiusa ed isolata dal mondo in cui la vita pulsa e freme, resiste qualche tardo improvvisatore di versi, il quale,
ogni tanto, mette fuori “un maggio”, oppure costruisce qualche strofetta su un avvenimento che più abbia colpito la sua curiosità… Non intendo affermare che in questi lavori poetici trovino il loro posto adeguato la fantasia o la sensibilità: infatti, in genere, non è dato rilevare in questi ultimo bardi nessun volo pindarico e spesso nemmeno quella coloritura descrittiva e affettiva, che non mancava ai loro avi… La ragione è da ricercare, forse, in quanto si è detto prima. Per esempio, qualche cantore odierno può ridarci la delizia di questo principio di un antico “maggio”? Lieto maggio, ameno aprile, orna il valle, il prato infiora: tutto il pian riveste ancora d’un aspetto assai gentile. Oppure questa invocazione di Olabella davanti al padre Orazio, ferito in duello da ATTILA? Oh ciel, non separarmi Del dolce padre mio: la morte, oh sommo Iddio, ti chiedo per pietà!
Rivolgendosi al feroce Attila, Olabella lo rimprovera con asprezza e con grandi minacce: Empio Attila inumano, uccidesti il padre mio; la vendetta, giuro a Dio, compir voglio di mia mano! E al padre moribondo rivolgeva un mesto saluto, mentre già si prospettava la sua pietosa esistenza nell’avvenire: Addio, amato padre! Oh, patria mia diletta, io misera e soletta Errante andar dovrò. Si tenga, poi, presente che quei rapsodi non avevano istruzione, all’infuori delle prime classi elementari; molti non erano nemmeno andati a scuola. Combinavano dei “maggi” che facevano esclamare al cittadino: “Ma come fanno questi analfabeti a mettere insieme tanti versi, e alcuni nemmeno mediocri per davvero?” Come fanno a mettere in azione una intelaiatura scenica che, pur rozza e impacciata finché si vuole, alla fine denota nell’autore una capacità particolare?
La verità è che essi eran poeti e drammaturghi di istinto e per retaggio avito. Inoltre, nelle lunghissime serate invernali, stando nelle stalle calde del fiato delle bestie o presso gli ampli camini dalle fiammate solenni, quei nostri vecchi si leggevano i libri di avventure guerriere, o, addirittura, i poemi eroici. Tutti, una volta, in montagna conoscevano le gesta di Guerrino detto “il Meschino”, di Orlando che per amore diventò pazzo, di Tancredi, di Attila, di Pia de’ Tolomei… Accadeva spesso (come ancora accade) che in una piccola osteria, dopo un desinare, qualcuno di questi pastori o di questi taglialegna sbottasse fuori a declamare ottave dell’Ariosto o del Tasso. Talora, la poesia estemporanea diventò patrimonio di tutto il popolo… Poco tempo fa, ho accettato di buon grado l’invito ad ascoltare un “maggio”, il popolare teatro che trae origine dalle medioevali rappresentazioni SACRE; esso, poi, si è trasformato con le imitazioni dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata. E’ probabile che il “maggio”, nato e cresciuto in Toscana, sia giunto da noi valicando l’alpe: infatti, queste popolazioni, fin dall’antico, mantengono molti
contatti con la Garfagnana, dove il “maggio” è cantato tuttavia in qualche zona, introdottovi dalla Versilia. Ormai tale forma particolare do folklore è ristretta a questa zona appenninica e va, purtroppo, man mano scomparendo… Prima che il “maggio” abbia inizio, alcuni giovanotti, muniti di tamburi, percorrono le cime dei monti vicini, eseguendo monotoni rullii, a richiamare l’attenzione della gente nei campi, nelle case, nei cascinali, nelle capanne… Si compie, così, il primo atto del “maggio”, L’INVITO o il BANDO che dir si voglia. Già avanti l’ora fissata, gli spettatori affluiscono, sedendo in ruvide panche, o sull’erba, stendendosi lungo un declivio appositamente scelto, che dà agio a ciascuno di osservare lo spettacolo che si svolgerà in uno spiazzo sottostante. Tra quelli del luogo, ci sono anche dei villeggianti, accorsi allo scopo di ammazzare un po’ di tempo: e mettono una nota di gaiezza e di mondanità, che serve a compensare la noia dei preparativi… Tutt’attorno, le case del paese si appiattano e aspettano anch’esse: ma l’anfiteatro dei monti
suggestiona, concorrendo sommariamente a darci un complesso di primitività nostalgica e forte… Ecco, con in testa i vessilli degli opposti campi di Cristiània e di Saracenìa, e con l’accompagnamento di un violino e di una chitarra, mentre il tamburo batte il passo, avanza la schiera dei maggerini… Son tutti in costume, con elmi da…pompiere o da corazziere, qualcuno fabbricato ad arbitrio (e spesso con buon gusto), sui quali ondeggiano al vento piume della vecchia arma… “Benemerita”, o svolazzano criniere o cespugli di stoppa…i vestiti appaiono in analogia (si tratta, in genere, di antiche divise dell’esercito, adattate per la circostanza), e le spade provengono, pur lontanamente, dalle caserme… Altri, invece, indossano calzoni di velluto o di damasco ricamato, e dietro la schiena hanno appuntato una specie di zendado, sulla moda dei mantelli cavallereschi… Ci sono tutti gli eroi e anche le eroine… e non manca il BUFFONE, l’ANNUNZIATORE, il GIGANTE, l’ARCANGELO MICHELE e… l’anima di un DEFUNTO (che parlerà al momento opportuno). Il corteo, scintillante, gira in tondo lo spiazzo e va a disporsi nei due lati opposti del campo, prendendo
possesso delle proprie tende, costituite da quattro bastoni eretti verticalmente, sui quali è stato buttato un tappeto variopinto… Dai nomi segnati sugli scudi, si identificano: re PIPINO (che reca sul capo la corona), GUIDONE, TANCREDI, ORVEA (l’intrepida, vestita da paladino), ORGANTINO (suo padre) Costoro nel campo CRISTIANO ed hanno, perciò, dipinta la CROCE sullo scudo… Nel campo PAGANO si identificano: MARTUFFO, UFONETTO, ANSIDONE, DOLORES (cristiano traditore, e per questo, forse, il nome femminile viene applicato ad un uomo), CONSAGO Il gigante SCALDAMASSO I quali portano lo scudo con la mezzaluna. Il pubblico non si da ancora gran pensiero di porgere attenzione…chi chiacchiera con il vicino…chi scherza…qualcuno si alza a cercare un conoscente…altri acquistano dolciumi da un banchetto vicino… I guerrieri non se ne adontano: anzi, uno di essi già leva in aria un fiasco d’acerbo vin toscano, e riempie i bicchieri protesi dai commilitoni…
Ah! Gli eroi d’Omero… anche essi così elementari e pantagruelici! Dopo tutto, esercita la sua curiosità umoristica questo teatro all’aperto, fatto in comunanza dagli artisti e dal pubblico, senza timore in alcuno di cadere nel ridicolo… Tutto, qui, è naturale, anche colui che, trafitto a morte in duello, invece di abbattersi al suolo, si mette comodamente a sedere… e poi, ad un tratto, RIVIVE, chiedendo un bicchiere di vino, o accendendo la PIPA, o, magari lanciando volute di fumo azzurrognolo dalla sigaretta… e non desta ilarità il maggerino che personificando un grosso drago, dentro il cui corpo sta celato, rosso rosso in volto, spinge la testa fuori dalle mostruose fauci e, tutto accaldato, dopo aver girato torno torno lo sguardo supplichevole, chiede al primo capitato: “ma non è ancor’ora che io esca di qui?!” E nemmeno desta ilarità la dama Cordelia che, togliendosi l’abbondante pizzo che le copre il viso, scendente da un contadinesco cappello di paglia, gradisce pure lei un bicchierotto, per non essere da meno dei cavalieri al suo fianco.
Se vogliamo riguardare la cosa nel suo nucleo sostanziale, è da dire che il popolo, con il suo intuito istintivo, aveva già risolto, da secoli, il problema del teatro di masse. D’accordo che un teatro di masse troppo grezzo e uniforme, ma, insomma, qualche caratteristica di primo piano la possiede…il che non è poco… Dunque, nessuna antitesi, nessun grottesco per lo spettatore indigeno, il quale sarà disposto a seguire con occhio consenziente, RE PIPINO, solenne in trono, alla stessa maniera che lo seguirà quando, stanco di tale posa, si leverà la corona regale, e, tranquillamente, verrà a collocarsi tra i Cristiani e i Pagani duellanti, sostituendo il suggeritore, dal quale riceverà il copione. Siamo noi che intravvediamo tali incongruenze, perché giudichiamo con la nostra sensibilità colta e ammaliziata… ond’è, per esempio, che troviamo un certo disdoro a intrupparci in un ballo pubblico di questi pastori e taglialegna, dubitando che essi possano levarne meraviglia. Non è così: essi non vedono se non un uomo o una donna di altro ceto, eleganti, che prendono parte al loro divertimento… e ne hanno, anzi, piacere e se ne onorano.
Il maggio si intitola “DOLORES E STRANIERO” ed è stato tratto da un romanzo popolare. I personaggi inteneriscono e conquistano immancabilmente il cuore della gente alpigiana. Così, vedremo Straniero correre in cerca del padre Tancredi… e Dolores esclamerà tristemente: “Vivo al par d’un infelice: e mio padre, e genitrice, chi sian lor del tutto ignoro…” Non bisogna avere pretese di stile, o anche semplicemente di grammatica: il maggio è da prendere qual è, nella sua grossolana popolarità di lingua e di contenuto: ciò che importa affermare, invece, è il suo significato storico e ideale… Quando Dolores sta per essere uccisa da Guidone, l’anima di Emma appare: ella è madre di Tancredi, che è padre, a sua volta, di Dolores; così che Dolores e Straniero risultano fratelli. Ancora: Ufonetto, pagano, si scopre “fratello germano” di Orvea, cristiana: egli è battezzato ed entrambi sono figli di Organtino. L’Annunzio apre l’azione con questi ottonari:
“Mentre il suol tutto verdeggia Come vuol madre natura, noi si appronta l’armatura: chi contende e chi amoreggia…” e la chiude con questi altri: “Siamo al fin dell’argomento: resta sol da far partenza, ma si prega aver clemenza, sul poema e movimento”. Le scene si susseguono senza soste, quasi sempre a dialogo di ottonari, con un saggio di ottave verso la fine…le battute hanno tutte la stessa cantilena d’ibrida invenzione e vengono accompagnate in sordina dal VIOLINO e soltanto le ottave ottengono una musica un po’ diversa e un po’ melodica… Gli attori gareggiano nel mostrare la ponderosità dei mezzi vocali senza dimostrare affaticamento alcuno…invece proseguono fino all’ultimo instancabili, lanciando in giro certe occhiate che imperiosamente chiedono l’applauso… E il pubblico seguita ad assistere (a volte per più di quattro ore) imperterrito, commovendosi ogni tanto…soprattutto alle ottave che sono il pezzo forte
di Cordelia e di un canterino più in auge, il quale vuol raffigurare l’anima di Emma che scende dall’Empireo… I vari brani hanno un rapido intermezzo, per concede qualche ristoro ai maggerini…e allora il violino e la chitarra godono ricamare motivetti di canzoncine del passato, non peritandosi (non vergognandosi) di sfoggiare anche le ultimissime importazioni… I duelli, gli scontri collettivi sembra non vogliano finire: è tutto un rumore sordo di scudi cozzanti contro gli scudi, e le spade, di vero acciaio, si levano e brillano al sole, descrivendo linee e circoli, tagliando lembi d’azzurro e puntandosi in terra a sollevare la polvere… L’azione dura oltre quattro ore, mentre il pubblico continua nel solito cianciare, qualcuno assentandosi per riprendere poi lo spettacolo dopo, senza darsi la mano ma briga di sapere ciò che s’è svolto… intanto i maggerini si ristorano con qualche bicchier di…”toscano”. Niente paura…soprattutto nessuna repulsione, se dovremo immaginare un sontuoso e turrito castello quale MONTALBANO, “l’alta rocca”che Margone giura di “incenerire”, da un’antica cassa di legno…e
una densa foresta da una rama di salice, una tomba da quattro stecchi coperti da un drappo nero, e se udremo i paladini conferire con Re Pipino adoperando il “lei” o se ci arriverà all’orecchio un fraseggiare come il seguente: “Cavalier, qual che tu sia…” “Conforme a parso e ditto… “Vo mandarti sul betume (ti voglio uccidere)…”. E questi fior di vocaboli: “ne gisse”, “trafir” (trafiggere), “battimento” (combattimento) ecc… Ma c’è di più: sentite la minaccia di Rodomonte ad Orlando pazzo il quale vuol passare sul ponte: “Fermi, olà, bestia balorda: feci il ponte pe’ baroni, non per orsi, ne’ buffoni… e tu fai da muta e sorda…” Da notare come i due epiteti “muta e sorda” si riferiscano al vocativo “bestia balorda”. Come nel FURIOSO, anche qui Durlindana, impugnata da Guidone, è miracolosa ed infatti “squarcia e vibra”. Pure il gigante ha il suo ruolo:
“Dal gigante Scaldamasso salvo alcun non può restare… schianterà come suol fare giù da rupe duro sasso”. Egli (Scaldamasso, il gigante), che aveva fatto svenire Orvea e voleva impiccarla, viene trafitto da Straniero, del quale, in compenso della salvezza, si innamora la giovane guerriera. Figura di primo piano, nella “baronia cristiana” è GUIDONE: “Oh canaglie, all’erta state giungo a voi qual terremoto. Se la spada irato scuoto, qui cadrete fulminate”. Il buffone, per suo conto, cerca di suscitare il riso con i suoi lazzi al fine di interrompere qua e là la drammaticità dell’insieme. Siamo ormai alla fine. Martuffo, capo della “maumetana gente”, è vinto in duello da MARGONE, e ne ha salva la vita, dietro promessa di sposare Cordelia, di cui Margone è figlio. Poi Margone è ucciso da Guidone, mentre ANSIDONE, altro pagano, si converte alla fede cristiana, dichiarandosi servo di Re Pipino.
Allora Orvea e Straniero combinano un bel matrimonio…proprio come aveva preannuniziato l’autore per mezzo di uno di suoi personaggi: “Dopo il mal trionfa il bene…”. Il pubblico si alza, mentre un incaricato si aggira ad accogliere le offerte in compenso dello spettacolo goduto…Il maggio è terminato. Adesso i maggerini circondano le brave persone che hanno loro pagato da bere, elogiandole e ringraziandole con strofette d’occasione; indi viene indetto un BALLO, cui partecipano anche spettatori e spettatrici; e, da ultimo, si ha un nuovo schieramento degli attori, con musica e bandiere in testa, come al loro arrivo, per andar a sciogliersi, dopo aver percorso le straducole più frequentate del paese… Vien fatto di riflettere che questo teatro di popolo, ormai ridotto ai minimi termini e confinato in ambiente così ristretto, dovette, nel Medioevo, avere una diffusione e una messa in scena davvero sorprendenti. Dall’immaginario suo splendore di una volta, comparato alla scarna realtà del presente, se ne ha un senso di amarezza, come di fronte a ogni cosa bella, che il tempo e gli eventi abbiano scolorita.
Chiudiamo la nostra registrazione ascoltando il patetico canto dei Crociati, che, prostrati ai piedi del Santo Sepolcro, dopo aver tanto sofferto nel glorioso acquisto, con in testa il grande Goffredo, sciolgono i loro voti e chiedono la protezione della Madre Celeste:
“Oh Redentor del Cielo, raccogli i tuoi devoti, sciogliamo i nostri voti al Figlio e al Genitor. E Tu, Madre pietosa (Maria), che sei sì pura e bella quale fulgente stella, guidaci per pietà”.
Demos Galaverni
MAESTRO della "PROVVIDENZA" nella scuola di VAGLIE
LA GUERRA in CASA NOSTRA. VICENDE
e
PROTAGONISTI
L' 8 settembre 1943 aveva segnato lo sfascio del nostro esercito. Oltre l'elmetto e il pugnale gettammo lontano ogni speranza di rivincita. Fuggimmo a casa,in attesa dĂŹ futuri eventi. Io avevo giĂ prestato quaranta mesi di servizio militare, nel ruolo sanitario. Si apriva un avvenire saturo di presentimenti tristi. Nell'anno successivo ecco sulla scena storica il generale Rodolfo Graziani,designato Capo dell'esercito della Repubblica Sociale. Il suo imperativo: arruolamento nell'esercito della Repubblica o denuncia per renitenza. Seguirono mesi e mesi di perquisizioni, di arresti, di rastrellamenti e fucilazioni. Casa mia fu occupata prima dai fascisti e poi dai tedeschi. La vita in paese era diventata impossibile. Fui arrestato,davanti a casa mia, da un capitano delle Brigate Nere e caricato su un furgone, tra quattro militi per essere trasportato al Comando, dove mi aspettava la fucilazione. Ma a due chilometri da Busana ci aspettavano i
Partigiani: raffiche di mitra ci investirono; i fascisti si gettarono a terra per "rispondere�. Io ebbi il tempo per fuggire. Mi fermai alla confluenza del Secchia con l'Ozola. Continuai la marcia fino a Ligonchio. Mi presentai al Comando partigiano. Fui interrogato a lungo. Un signore,che pensai comandante, alto, solenne,dalla folta barba, con un mezzo "toscano" tra le labbra,si avvicinò e in tono risoluto disse: " Ho sentito che sei maestro. Sei l'uomo inviato dalla Provvidenza. Ci sono trenta alunni in Vaglie : ti nomino insegnante di quella sede." Mi consegnò una breve dichiarazione di nomina e, se ben ricordo, diecimila-am-lire. Mi sentii veramente felice. ECCOMI MAESTRO Dico di aver provate, fin dal primo giorno un affetto grande per questi fanciulli. Ricordo ancora,dopo tanti anni,con nostalgia tutti i volti dei fanciulli - uno ad uno - che son passati davanti al mio sguardo. Ho voluto loro tanto bene, li ho sinceramente amati e, quando mi fu possibile, singolarmente aiutati, incoraggiati con tutto il cuore in questo mondo. La scuola di Vaglie richiama al mie pensiero tutto il mio passato di maestro; e lo rivivo in tutti i momenti piÚ felici e pure nei momenti durissimi della guerra: essi hanno lasciato in me orme profondissime.
Tutto il bello e il buono, che ho vissuto in tanti anni con i miei scolari è qui davanti a me, fonte di vera consolazione,di conforto e di incoraggiamento a fare sempre di più, sempre meglio per noi, per i nostri piccoli, per i giovani, per la Società e per il trionfo della civiltà umana. Ho sempre cercato di seminare amore per avere amore. E il primo seme cercai di gettarlo tra quei fanciulli lassù, in quel lontano paesello: risplendono ancora nel mondo dei ricordi quegli occhi belli e innocenti, che mi richiamano ancor oggi al pensiero la serenità e la tranquillità del cielo i Vaglie: … quel cielo così bello quando è bello, così limpido, così in pace.
Demos Galaverni
DEMOS GALAVERNI Biografia
di ROSARIA GALAVERNI
GALAVERNI DEMOS: Biografia
Demos Galaverni nasce il 4 giugno 1919 a Bagnolo in Piano, paese nel quale il padre Guido svolge la professione di segretario comunale, è il penultimo di cinque figli. Vive la sua infanzia nella pianura reggiana, tra campi e vigneti, a stretto contatto con la natura, nel paese di origine della madre: Rivalta. Da bambino si trasferisce con la famiglia a Busana, dove il padre ha ottenuto l'incarico di segretario comunale, qui rimane fino all'epoca della guerra. Durante l'adolescenza compie gli studi classici nel Seminario di Marola dove si lega con profonda stima a Monsignor Francesco Milani, suo professore dilatino. La passione per questa materia Io accompagna tutta la vita e gli permette di aiutare molti studenti in difficoltà , sono tanti i giovani che superano gli scogli del latino grazie a lui.
Completati gli studi classici, impossibilitato a frequentare l'università, decide di conseguire la maturità magistrale. Negli anni successivi ottiene degli incarichi come maestro in piccole scuole della nostra montagna. Arriva l'epoca della guerra e anche lui deve partire, è inviato nella città di Lucca con incarichi sanitari: assiste i soldati nell'infermeria della caserma. L'8 settembre abbandona insieme agli altri soldati la caserma e in sella ad una vecchia bicicletta giunge dalla madre, a Busana. Qui è catturato dai Tedeschi e caricato su un camion per essere portato ,a Reggio, ma giunti sopra al paese i Partigiani attaccano il convoglio e tutti i prigionieri si danno alla fuga fra gli spari e i lanci delle granate. Demos riesce a rifugiarsi dietro ad una grossa pianta al sicuro, ma un altro prigioniero lo prega di lasciargliela perché ha due figli piccoli a casa, mosso a compassione accetta e si sposta verso un piccolo alberello. Il destino beffardo vuole che a essere colpito da una scheggia mortale è proprio la persona cui aveva lasciato il riparo migliore. I Tedeschi riescono a catturarlo e lo portano a Reggio, dove viene in contatto con un colonnello della Milizia
che è stato a Busana distaccamento della colonia e ha conosciuto i suoi genitori che abitano nel Municipio, dove ci sono anche le carceri; grazie a questa fortunata coincidenza per viene liberato. Sale sulla prima corriera per Busana. . Successivamente gli assegnano un incarico nella scuola di Vaghe, dove ha di nuovo la sfortuna di venire in contatto con i Tedeschi che fanno irruzione nella scuola credendo che fosse un nascondiglio dei Partigiani. Proteggendo i bambini con tutte le sue forze, riesce a farli allontanare. Finita la guerra, continua la sua attività di maestro e a Ligonchio conosce la donna che diventerà sua moglie: Ida Da Prà. Si sposano il 28 dicembre 1946, nella chiesa di Ligonchio, dal matrimonio nascono due figli: Lorenzo e Rosaria. Dal momento che la moglie lavora come ostetrica nell'ospedale di Milano, si trasferisce in Lombardia, dove ottiene un incarico a Bertonico, nel Lodigiano, in una piccola scuola dove confluiscono i bambini che vivono nelle isolate cascine della zona; con loro
stabilisce un rapporto di grande affetto, vivo ancora oggi. Su sollecitazione del padre Guido, nel 1947, ottiene l'abilitazione alle funzioni di Segretario Comunale; intraprende per breve tempo questa professione, ma non sentendosi realizzato, vi rinuncia e decide di riprendere l'insegnamento. Dopo la nascita del figlio Lorenzo decide di tornare a vivere nella sua montagna, a Collagna e ottiene l'incarico nella scuola di Vallisnera; tutti i giorni vi si reca a piedi con un falcetto nello zaino per paura di essere aggredito dal lupo, che allora si aggirava nella zona del monte Casarola. Successivamente si trasferisce a Ligonchio, dove rimane fino al 1956. Tra i tanti sempre ricordati alunni c'è anche quella bambina che diventerà "l'Aquila di Ligonchio", la grande Iva Zanicchi. Per tutta la vita si definisce orgogliosamente "il maestro della Iva", anche se ammette il grosso sbaglio di non aver molto apprezzato quel suo "vocione". E' un giovane maestro, pieno di entusiasmo per la propria professione. CosÏ lo ricorda affettuosamente un suo ex scolaro di allora: Capelli lunghi, un poco
spettinato, naso aquilino, sguardo profondo; a tutta la teppa hai insegnato i trucchi per sopravvivere nel mondo. I tuoi allievi di quell'era promettente han vinto la scommessa con la vita, hanno allevato la famiglia onestamente ed ora stan chiudendo la partita. Eri il maestro e io ho imparato tanto, ho preso da te la mia coerenza, questa qualità per me è un gran vanto, ti vada la mia riconoscenza". Nel 1955 scrive la guida turistica di Ligonchio e dintorni "Scarponi sull'Appennino", opera che mette in evidenza tutta la sua grande passione per le nostre meravigliose montagne. Nel 1956 la moglie ottiene la condotta come ostetrica nel Comune di Villa Minozzo e, quindi, la famiglia si trasferisce. Insegna in varie frazioni: Sologno, Minozzo, Santonio e Carniana, fino a che ottiene il trasferimento nel capoluogo. A Villa Minozzo insegna fino al 1976, anno in cui si colloca in pensione. Come testimoniano i suoi scolari è un insegnante attivo e coinvolgente che sperimenta una scuola nuova, aperta verso il territorio e il sociale, profondamente convinto che non solo la scuola
svolga un importante ruolo educativo, ma tutto ciò che sta intorno al bambino e, perciò essa deve interagire con tutte le agenzie educative del territorio. Scrive di lui su TuttoMontagna il suo ex alunno Valdesalici Benedetto, psichiatra dell'USL di Castelnovo Monti: "Si andava per la via, nei boschi, all'officina, al fiume, in piazza, a osservare e sperimentare, mentre lui ci insegnava il ragionamento induttivo e privilegiava la molteplicità dei vari punti di vista e facendoli interagire ci instradava all'avventura del sapere. Insieme scoprivamo che la Natura è governata da leggi naturali e noi ne eravamo intima parte e gioiva quando avevamo capito e non si spazientiva quando tardavamo a capire, ma ci incitava al ragionamento collettivo. Più tardi scoprii che quell'apprendimento cooperativo era anche una lezione di democrazia. La scuola con lui fu un vero piacere". Nei 50 anni trascorsi a Villa Minozzo la sua attività a favore del paese è molto intensa, si prodiga senza sosta in diverse attività culturali e ricreative a favore della popolazione. Per alcuni anni ricopre la carica di assessore al Turismo e allo Sport, lavora intensamente per lo
sviluppo della zona, in particolare, della stazione sciistica di Febbio. Pur non sapendo sciare, costituisce lo Sci Club e ogni domenica moltissimi giovani partono per le piste e imparano a sciare sotto la guida di valenti maestri di sci della zona. Si dedica con impegno alla realizzazione, del monumento al Partigiano Estero, a Civago. E' sempre in prima linea nell'organizzazione delle commemorazioni alle vittime della guerra: Don P. Borghi, i martiri di Cervarolo e quelli di Cerrè Sologno. E' l'animatore del Centro Sociale che raccoglie bambini, giovani, anziani e permette loro l'accesso ad ogni genere letterario, nella ferma convinzione che la cultura sia un bene prezioso che deve appartenere a tutti. Raccoglie una nutrita schiera di attori "nostrani" e dà vita ad una piccola compagnia teatrale: "La Filodrammatica". Rifonda la Pro-Loco di Villa Minozzo e ne diviene presidente, organizza incessantemente iniziative culturali e ricreative.
Pur non conoscendo la musica lavora alacremente per ricostituire la Banda e ne diviene il presidente. Così scrive: "La musica è, con la parola, la più diretta espressione di un sentimento, di uno stato d'animo, di un'idea. La musica è, come la parola, manifestazione di libertà". E' grazie alle sue insistenze che viene ripubblicato il libro di Monsignor Milani "Minozzo". Accogliendo l'invito del suo professore, lo completa scrivendo la parte che riguarda la Resistenza, attraverso ricerche e testimonianze rievoca i drammatici eventi avvenuti nella montagna reggiana. Scrive con cuore di maestro, con cura e rigore storico e si augura che questo lavoro valga come opera di pace e di fraternità tra la gente di montagna cui è profondamente legato. Dopo la morte di Mons. Milani, in collaborazione con la Pro-Loco di Minozzo si adopera per la sua commemorazione e perché il suo operato venga divulgato. All'inizio degli anni '80 istituisce a Castelnovo Monti la "Consulta Magistrale", dove prepara giovani maestre all'insegnamento. In questo periodo produce molto materiale didattico dal quale emergono: la sua
profonda esperienza, la sua grande cultura palcopedagogica e la sua innata passione per la scuola. All'inizio degli anni '90, con la collaborazione degli Amministratori, rimette in funzione la biblioteca comunale e offre tutto il materiale didattico prodotto. Nell'ultimo decennio della sua vita si ritira dalla scena pubblica e si concede il meritato riposo, il suo passatempo preferito è passeggiare con il cane per le vie del paese, fermandosi continuamente a chiacchierare con tutti dei bei tempi passati. Muore a Villa Minozzo, il 13 luglio 2005, a 86 anni; riposa vicino alla moglie nel cimitero del mai dimenticato Ligonchio.
PIANTO VERO
(dedicata al M° Galaverni)
Con la mente in tumulto e il cuore affranto, davanti ai resti di quei nostri morti, amaramente tu quel giorno hai pianto, piangere di pietà è virtù dei forti. T’avvolse il cuore un doloroso manto, d’una cruda realtà senza confronti, ma lo sgorgar del tuo verace pianto rese sacro il martirio di quei morti. Prosegue il mondo il suo cammin fatale e trascorrono i giorni, i mesi e gli anni, sull’altalena del bene e del male, ma tra speranze attese e disinganni quel pianto tuo sarà come uno strale diretto al cuore di tutti i tiranni.
Costantino Zambonini (1919-2011)
COLOPHON
Crediti Anna Bianchi per la trascrizione e la battitura Valentina Bonicelli per la presentazione Rosaria Galaverni per la biografia del padre Benedetto Valdesalici per l’idea e la redazione