N°27 FEBBRAIO 2015
LA CASA DEL CINEMA t-media.it
PRIMO PIANO TRA GLI ALTRI
JUPITER - IL DESTINO DELL’UNIVERSO BIRDMAN CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO 5 CURIOSITà
50 sfumature di grigio AND THE OSCAR GOES TO.. RECENSIONI FILM
birdman taken 3 - l’ora della verità KINGSMAN - SECRET SERVICE COLONNE SONORE
50 SFUMATURE DI GRIGIO ROMEO & GIULIETTA SPECIALE FILM
ROMEO & GIULIETTA LIFE ITSELF SPECIALE cinema
the cinema show viCtoria albert museum GLAMOUR
PROVE TECNICHE DEGLI OSCAR SERIE TV
I PERSONAGGI FEMMINILI CREATI DA .. THE FACE
Johnny depp
the oscars 2015 22 febbraio
SOMMARIO
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LA CASA DEL CINEMA
oggi al cinema
Birdman - L’ora della verità La recensione
COLONNE SONORE
Magazine
Le colonne sonore che hanno creato il cinema
PRIMO PIANO
La lente di ingrandimento di Oggi al Cinema sui film del momento Jupiter il destino dell’universo
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C’è un Birdman in ognuno di noi
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Taken 3 l’ora della verità 50 sfumature di grigio di S. Taylor Johnson Noi e Giulia i quarant’enni in crisi di Edoardo Leo
Cinquanta sfumature di grigio La colonna sonora con Beyonce
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Romeo&Juliet Una spenta colonna sonora illuminata da Zola Jesus
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SPECIALE FILM
Volete qualcosa di diverso dalle solite recensioni? In Speciale Film trovate un punto di vista diverso, un’analisi originale e particolare Romeo&Juliet
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7
Life Itself
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8
SPECIALE CINEMA
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Mortdecai l’ultima occasione di rilancio per Johnny Depp
11
Kingsman segret service spy movie in salsa pop
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5 CURIOSITà
Cosa si nasconde dietro la nascita di una pellicola? 50 sfumature di grigio 15 And the Oscar goes to.. 16
RECENSIONI FILM
Sguardi sul set. The Cinema Show.
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Quando l’abito fa il monaco. L’Hollywood costume a Los Angeles.
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GLAMOUR
Tutto ciò che è glamour e fascino: dagli ultimi fashion trends agli outfit consigliati Prove tecniche degli Oscar 36
SERIE TV
Tutto ciò che è glamour e fascino: dagli ultimi fashion trends agli outfit consigliati Serie TV, i personaggi femminili creati da Shonda Rhimes 39
Le recensioni approfondite ed esclusive dei film in programmazione
THE FACE
Birdman La recensione
18
Il volto del mese
Taken 3 - L’ora della verità La recensione
20
Johnny Depp. Da James Dean a Keith Richards
Direttore responsabile
Segreteria di redazione
In redazione
Direzione pubblicità e marketing
Emma Mariani
Antonio Valerio Spera, Marco Valerio, Carlo Lanna, Elisabetta Bartucca, Maurizio Ermisino, Antonio Gentile, Massimo Padoin, Marco Goi, Valeria Ventrella, Katya Marletta
Hanno collaborato Antonella Brianza
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Greta Cortesi
Alberto De Palma
Progetto grafico e impaginazione Target Media Srl
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PRIMO PIANO
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JUPITER,
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LA GUERRA DEI FRATELLI MATRIX
E poi? Dopo la luce, il buio, o quasi. Ci sono stati i due sequel di Matrix, Matrix Reloaded e Matrix Revolutions: affascinanti, certo, ma imperfetti, e non così convincenti come il primo. E poi, mentre uno dei due fratelli ha cambiato sesso, così che i nostri eroi oggi si firmano Andy e Lana Wachowski invece che Andy e Larry, gli autori di Matrix si sono lanciati in esperimenti sempre più arditi. Come Speed Racer, basato su un altro effetto speciale rivoluzionario che toglieva profondità alle immagini, attaccando i protagonisti agli sfondi, proprio come nei fumetti a cui il film era ispirato. Bello, ma non ha fatto scuola, follemente controcorrente in un mondo che poco dopo sarebbe andato verso la tridimensionalità. E il film fu un flop. Come il successivo, ambiziosissimo e farraginoso Cloud Atlas, tentativo di trovare una connessione tra mondi e tempi paralleli facendo interpretare agli stessi attori ruoli differenti e opposti. E anche stavolta i nostri eroi non fecero centro.
In principio era Matrix. Il film che ha rivelato al mondo i Fratelli Wachowski, che ora tornano al cinema con Jupiter – Il destino dell’universo, ha segnato un’epoca, risvegliando le nostre menti e abbagliando i nostri occhi. Per almeno un lustro, se non di più, molti dei film d’azione si sono avvalsi del “Bullet Time”, la rivoluzionaria tecnica, inventata proprio dai Wachowski, che permetteva di bloccare nel tempo e nello spazio gli attori e ruotarli di 360 gradi. E molti dei film di fantascienza hanno dovuto fare i conti con i temi e con lo stile estetico - lineare e asciutto - che il loro film simbolo aveva lanciato. Uno stile che è uscito dal cinema per influenzare la moda, la musica, la pubblicità.
Allora i Fratelli Matrix tornano alla fantascienza. Ancora una volta, forse più delle altre, per trovare un nuovo Matrix. Potrebbe essere la volta buona. La storia è simile, al femminile, a quella di Neo: una donna qualunque, scontenta del proprio lavoro e della propria vita, apatica e senza aspirazioni, si risveglia quando incontra un uomo. Lei si chiama Jupiter Jones (a interpretarla, dopo il rifiuto di Natalie Portman e un pensiero a Rooney Mara é Mila Kunis), è un’immigrata e fa la donna delle pulizie. Lui, Caine Wise (Channing Tatum), è un soldato venuto dallo spazio per dirle che è l’erede di una dinastia aliena dominatrice dell’universo. Dovrà scontrarsi con Balen, l’erede primogenito della dinastia. Indovinate che vuole fare? Distruggere la Terra.
IL DESTINO DELL’UNIVERSO AL CINEMA DAL 5 FEBBRAIO 2015
di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
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Oltre che lei. Cosa dite? Sì, la storia ricorda proprio quella di Matrix: Jupiter da signora nessuno a “eletta”, con un destino più grande di quello che immaginava, da meno di zero a figura salvifica. Ma, alla fine, conta come un film viene fatto. I Wachowski hanno il pregio – o il difetto – di essere ambiziosi. Ma proprio per questo, in un’industria che di coraggio ne ha sempre di meno e sforna formule produttive sempre più prevedibili, hanno la nostra ammirazione. Anche quando sbagliano.Il punto è che i Wachowski a ogni nuovo film vogliono cambiare la storia del cinema. Ci provano anche stavolta. Jupiter – Il destino dell’universo sfrutta ancora una volta una nuova tecnica di ripresa: i nostri hanno creato un impianto di sei macchine da presa legate tra loro che, montate su un elicottero, sono riuscite a coprire a 180 gradi l’azione. In post produzione, poi, i registi hanno potuto lavorare sul girato sovrapponendo le varie scene: in pratica potevano oscillare sopra l’azione indipendentemente dal movimento dell’elicottero. Un altro effetto affascinante. Cambierà ancora una volta la storia del cinema? Jupiter – Il destino dell’universo, che è il primo film in 3D dei Wachowski, è anche il loro film più ironico, con elementi da commedia (segno che i due abbiano imparato un po’ di autoironia?), e qua e là si rifà ad alcuni degli elementi estetici di Matrix. In ogni caso, aver cambiato già una volta la storia del cinema basta e avanza.
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C’E’ UN BIRDMAN IN OGNUNO DI NOI AL CINEMA DAL 5 FEBBRAIO 2015
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
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Accolto con entusiasmo all’ultima Mostra di Venezia e fresco di ben 9 nomination agli Oscar, Birdman segna il ritorno al grande cinema di un divo quasi dimenticato come Michael Keaton ed il passaggio per il messicano Alejandro Gonzalez Inàrritu ad atmosfere decisamente meno cupe e drammatiche rispetto a quelle che da sempre hanno caratterizzato la sua produzione. “Dopo molti film drammatici avevo voglia di buttarmi in qualcosa di nuovo e di diverso. Volevo allontanarmi dalla mia comfort zone”, ha dichiarato il regista al Lido. A distanza di quattro anni dal suo ultimo film, quel Biutiful in cui indagava nel dolore di un uomo malato alla ricerca di un significato per
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la sua esistenza, il regista messicano ha deciso di spostare il suo sguardo verso una cifra narrativa da black comedy, capace però, anche in questo caso, di scrutare con profondità nei sentimenti umani e nelle dinamiche relazionali. Questa volta il protagonista della storia è un attore non più giovanissimo, Riggan Thomson, che da più di vent’anni ha lasciato i panni del supereroe che gli aveva dato fama internazionale (Birdman, appunto) ma che non riesce a slegarsi da quell’immagine nel persistente tentativo di rilanciare la sua carriera sui palcoscenici di Broadway. Un film sulla condizione di un uomo in bilico tra passato e futuro, tra “fantasmi” e realtà, ma che tratta tematiche quali la fama e il rapporto cinema-teatro, offrendo un’immagine chiaro-scurale di Hollywood e dell’industria cinematografica in generale. Non è un caso che Inàrritu abbia scelto proprio Michael Keaton per il ruolo principale. Un attore che dopo i due Batman di Tim Burton ha stentato a rimporsi con forza sul grande schermo. “Sicuramente questo ha influenzato un po’ la mia scelta - ha affermato il regista – ma Michael era perfetto per il ruolo soprattutto perché avevo bisogno di un attore capace di sfumature tra il comico e il drammatico. Per me era l’unico attore possibile”. Girato in (quasi) un unico piano sequenza, Birdman è stato definito dallo stesso autore un film sperimentale, una vera e propria sfida, che Inàrritu ha preparato in ogni minimo dettaglio, anche nella direzione degli attori, dai quali ha preteso meticolosità e precisione. “Questo film mi terrorizzava”, racconta Emma Stone, che nel film interpreta la figlia di Riggan. “Quando riuscivamo a portare a casa una sequenza era una festa”, dice scherzando Edward Norton, che dà volto e voce al talentuoso attore della pièce che Riggan vuole portare in scena. A confermare la loro sensazione è anche lo stesso Keaton: “Alejandro ci ha inserito in un progetto coraggioso, molto difficile, se vogliamo anche pazzo”. Un lavoro complicato, dunque, che però ha dato i suoi frutti, portando tutti e tre gli interpreti alla nomination agli Oscar. Una statuetta che, se vinta, darebbe sicuramente a Keaton il via a una nuova carriera, finalmente lontana dal costume dell’uomo pipistrello burtoniano: “Batman per me non ha rappresentato quello che Birdman ha rappresentato per Riggan, però sicuramente ha avuto un peso importante”, dice l’attore, che infine sottolinea: «Tutti abbiamo un Birdman dentro di noi, ma bisogna trovare il modo di gestirlo per riprendersi pienamente la propria vita”.
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TAKEN 3,
L’ORA DELLA VERITA’ AL CINEMA DAL 11 FEBBRAIO 2015
di Antonio Gentile per Oggialcinema.net
“un uomo pronto ad affrontare qualsiasi conseguenza pur di proteggere la sua famiglia” Liam Neeson torna a interpretare Bryan Mills l’ex agente della CIA, in un sequel mozzafiato dal ritmo incessante, dinamico e avvincente, Taken 3 – L’ora della verità, dal titolo originale Tak3n, un thriller d’azione, scritto, come i precedenti capitoli della trilogia Taken – Io vi troverò diretto da Pierre Morel e Taken – La vendetta di O. Megaton, da una sceneggiatura di Luc Besson come sempre affiancato da Robert Mark Kamen. Oliver Megaton dirige con grande determinazione e padronanza sul set il suo nuovo action, riconducendoci alle migliori ambientazioni originali che hanno reso celebre la saga nei due film precedenti, due successi garantiti con un incasso totale di circa 600 milioni di dollari in un crescendo costante e meritato. Il terzo capitolo attualmente distribuito negli USA ha già incassato per i Box Office circa 62 milioni di $ a fronte di un budget di circa 55 milioni di $ e si prevede un altrettanto successo in Italia. Il punto di forza di Taken 3 – L’ora della verità è il carismatico attore protagonista assoluto (in riferimento anche ai due precedenti capitoli), Liam Neeson, da definirsi un inesauribile Rambo contemporaneo (nonostante l’età), sprezzante del pericolo pur di proteggere gli affetti familiari, un antieroe ingiustamente incriminato e braccato dalla CIA. La storia si snoda attraverso una trama abbastanza scontata e prevedibile, riallacciandosi al finale del precedente Taken – la vendetta dove avevamo lasciato un Bryan Mills sereno dopo una lunga scia di sangue e finalmente riaccasato con la sua famiglia. In Taken 3 – L’ora della verità il protagonista sembra proseguire nell’aver ritrovato la felicità nell’ambiente domestico e nel lavoro, ma alcuni fatti determinano una rottura con il passato, e i legami affettivi vengono recisi in modo drammatico con l’uccisione della moglie Lenny (Famke Janssen), trovata morta in casa sua, nel suo letto, pertanto l’ex agente della CIA viene accusato ingiustamente
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del brutale omicidio e costretto a fuggire da Los Angeles, ritrovandosi inevitabilmente braccato dagli stessi agenti della CIA e dall’FBI per un omicidio mai commesso. L’unico obiettivo della sua vita a cui aggrapparsi è trovare i veri assassini della moglie, guidati da uno spietato criminale, e dimostrare tutta la sua innocenza. Quella dell’ex agente speciale Mills diventa così una ferrea lotta contro il tempo, ha solo 48 ore per proteggere se stesso, ma soprattutto l’unico affetto rimasto, sua figlia Kim (Maggie Grace). Il protagonista Bryan Mills, interpretato sempre con grande energia da Liam Neeson, sembra non trovare mai pace nelle sceneggiature firmate da Megaton e Kamen, un personaggio continuamente tormentato dalle azioni infauste subite dai suoi persecutori, ma sempre con la chiave giusta nella tasca per uscire da ogni situazione ai limiti del possibile, in modo determinato e vincente; d’altra parte i titoli della trilogia sono molto eloquenti nel contenuto, e con questo ultimo capitolo si chiude l’intera saga giunta ormai all’epilogo finale, anche molto prevedibile nonostante la new entry di Forest Whitaker (nel ruolo di un agente FBI) e con un forte impatto dinamico ed emotivo da revenge movie. Ed è lo stesso protagonista nel corso di un’intervista a dichiarare: “E’ una bella storia piena d’azione. Ma penso che siamo giunti alla fine”. Inoltre il nuovo Taken si avvale di una trama che sembra trarre chiaramente ispirazione dal precedente capolavoro di genere, “Il fuggitivo” di A. Davis. E’ superfluo provare a confrontare L. Neeson con l’indimenticabile Harrison Ford (due attori con caratteristiche molto diverse), perché nell’insieme “Taken 3 - L’ora della verità” non richiede uno sforzo particolare da parte del protagonista già ampiamente collaudato nei precedenti capitoli sempre con la stessa intensità, ma ciò che rende davvero interessante l’intero film è come Megaton sia riuscito a creare nell’insieme un quadro sequenziale arricchito da una moltitudine di inseguimenti, colpi di scena ed azioni mozzafiato, dando concretezza al gioco delle parti contrapposte con grande efficacia. Le riprese di Taken 3 – L’ora della verità per un cast quasi interamente già presente nei precedenti capitoli di Megaton, si sono svolte in diversi paesi: in Spagna (nelle città di Murcia e Alicante), in Francia (negli Studios Cité du Cinéma, di Saint Denis) e negli USA (nelle città di Los Angeles, Atlanta e presso l’University di Southern California). Inoltre il cast include Al Sapienza (nel ruolo del detective Johnson), Leland Orser (Sam), Jon Gries (Casey) e Dougray Scott (Stuart John). “Taken 3 – L’ora della verità” distribuito dalla “20th Century Fox” ci attende ancora una volta al cinema. “Ma…. siamo proprio convinti che tutto finisce qui?”
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50 SFUMATURE DI GRIGIO,
di S. Taylor Johnson AL CINEMA DAL 12 FEBBRAIO 2015
di Carlo Lanna per Oggialcinema.net
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50 Sfumature di Grigio verrà proiettato in pompa magna in tutte le sale cinematografiche dal 12 Febbraio, due giorni prima della Festa degli Innamorati. Avete già prenotato il vostro biglietto? Esatto perché il lungometraggio che s’ispira alla nota trilogia di romanzi scritti da E.L. James e diretto da Sam Taylor Johnson, è già un successo di pubblico dato che, le multisala hanno messo in prevendita i biglietti facendo scoppiare una vera e propria mania. I libri sono in ristampa con le immagini tratte dal film, i blog e i giornali del settore non fanno altro che parlare di questo fenomeno puramente voyeuristico, e tutti sembrano amare e a volte emulare il fascino di Mr Grey e di Anastasia Steele. 50 Sfumature di Grigio quindi rappresenta il fenomeno commerciale più hot del 2015 (senza tagliere nulla all’appeal dei cinecomics).
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La vicenda è ambiata a Seattle e le immagini del libro prendono vita in men che non si dica quando Dakata Johnson incontra per la prima volta lo sguardo sexy e seducente di Jamie Dorman. Il noto attore che con questo film sbarca ufficialmente il lunario, diventa a conti fatti l’uomo più amato e odiato del pianeta. L’attore infatti da vita al famigerato Christian Grey, il seduttore, il maniaco del che farà di Ana la sua schiava d’amore. La giovane subisce il fascino diabolico di Mr. Grey e mentre continuerà a struggersi d’amore per quest’uomo criptico e irresistibile, sperimenterà tutte le sfumature del sesso e soprattutto comincerà a capire che il suo amante nasconde un segreto, qualcosa che ha condizionato le sue scelte di vita. 50 Sfumature di Grigio in realtà non sarà un film erotico, perché se nel libro le parole danno libero sfogo all’immaginazione, nel lungometraggio tutto sarà rivisitato con un far si peccaminoso ma allo stesso tempo patinato ed etereo. Infatti non ci saranno nudi frontali per gli attori, alcune parti verranno alleggerite o del tutto eliminate (come una scena di sesso che nel romanzo ha fatto quasi ribrezzo per la sua totale irrealtà); ma a parte questo 50 Sfumature di Grigio vuole essere una storia d’amore
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che nella sua interezza ed irrealtà colpisce proprio per questa grande attrazione fisica che intercorre fra i due protagonisti. Si amano, si odiano, si cercano e non possono far a meno l’uno dell’altro, come se Ana e Christian fossero stati colpiti da un incantesimo. Il passato del sexy Mr. Grey però incombe e, almeno nel primo capitolo della loro sfumatura d’amore, impedisce ai due personaggi di vivere la storia al di fuori della sfera sessuale. Un film che comunque non ha avuto vita facile almeno nella sua realizzazione. Se l’attrice protagonista è stata scelta immediatamente, è proprio il buon Christian Grey che ha tardato a trovare un volto. Prima si pensava a Matt Bomer, poi la scelta è caduta su Charlie Hunnam – star di Sons Of Anarchy – poi dopo che l’attore ha declinato si è deciso di investire modello Jamie Dorman. Conosciuto agli addicted di serie tv, il giovane attore incarna alla perfezione tutte le caratteriste del suo alterego cartaceo. Dunque è tutto pronto per il 12 Febbraio, lasciatevi sedurre da un film erotico, intenso e a tratti anche intimistico, ma non vi fermate alle apparenze.
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NOI E GIULIA, I QUARANTENNI IN CRISI DI EDOARDO LEO AL CINEMA DAL 19 FEBBRAIO 2015
di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net
Una storia di amicizia, rocamboleschi fallimenti, resistenza e riscatto. Cinquantenni della nostra Italietta, cinque eccentrici tipi umani, quattro ‘falliti’ e una giovane donna fuori di testa che proveranno a lottare come possono per realizzare il proprio sogno di fuga dalla città.
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Bros, l’impianto è quello classico della commedia anche se l’intento è sempre stato quello di “riuscire a divertire, senza togliere gravità a quella che è forse la maggior piaga sociale di questo tempo. Una storia dei nostri giorni. Una storia di resistenza civile. E inoltre, tema non secondario, raccontare un passaggio generazionale dei quaranta-cinquantenni nel nostro paese”. Già, perché questa volta a finire sotto la lente deformante del comico sono proprio loro: non più i trentenni precari e in fuga di cui il nostro cinema si è abbondantemente nutrito negli ultimi tempi, ma una nuova generazione di quarantenni in crisi. Quelli del piano B, che “a 20 anni era il chiringuito sulla spiaggia. A 40, quasi sempre, si tratta di un agriturismo”. Protagonisti sono Diego (Luca Argentero), Fausto (Edoardo Leo) e Claudio (Stefano Fresi), tre perfetti sconosciuti, quarantenni insoddisfatti accomunati da un unico desiderio: fuggire dalla città e aprire un agriturismo. A loro si unirà Sergio (Claudio Amendola), un cinquantenne invasato ed Elisa (Anna Foglietta), donna incinta e sopra le righe. Ben presto il loro sogno di evasione dovrà scontrarsi con le velleità di Vito (Carlo Buccirosso), camorrista venuto a riscuotere il pizzo a bordo di una vecchia Giulia 1300.
Il terzo lungometraggio di Edoardo Leo (dopo “Diciotto anni per i piccoli dialoghi è fondamentale, non lo abbandonerò più”). Chissà dunque cosa ci riserverà il futuro cinematografico di Scott. Di sicuro, però, viene la curiosità di immaginarsi cosa avrebbe potuto fare di Blade Runner e di Alien con l’uso della stereoscopia. Ma questa è un’altra storia.
La grande fuga di cinque sconfitti si trasformerà in un tragicomico tentativo di riscatto, che supera così i limiti del buffo. “‘Noi e la Giulia’ potrebbe sembrare, all’inizio, un classico film su una grande storia di amicizia, ed in parte lo è. – racconta il regista – Ma è il tipo di “sopruso” contro il quale combattono che porta la storia oltre la commedia. L’avventura di questi cinque sconfitti è riuscire a fare qualcosa di ‘bello’, come quell’agriturismo, in un posto brutto, deprimente, pericoloso, da cui tutti scappano”.
“Noi e la Giulia” (sei settimane di riprese tra Matera e Roma) arriverà in sala il prossimo 19 febbraio distribuito da Warner
Una lunga, disperata e folle corsa che forse porterà laddove tutti vorrebbero, se solo si avesse abbastanza coraggio.
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MORTDECAI,
L’ULTIMA OCCASIONE DI RILANCIO PER JOHNNY DEPP AL CINEMA DAL19 FEBBRAIO 2015
di Marco Valerio per Oggialcinema.net
Gestire un branco di russi inferociti, i servizi segreti inglesi, una moglie dalle gambe chilometriche ed un terrorista internazionale non sarà cosa facile. Ma Charlie Mortdecai ci riuscirà. In giro per il mondo, armato solo del suo fascino e della sua bellezza, Charlie intraprenderà una corsa contro il tempo per riuscire a recuperare un dipinto rubato, che si dice contenga il codice per accedere ad un conto bancario in cui era stato depositato l’oro dei Nazisti. Diretto da David Koepp, Mortdecai vede protagonista Johnny Depp nel ruolo brillante e carismatico di un ricco mercante d’arte, il Signor Charlie Mortdecai. Innamorato della sua incantevole moglie, interpretata da Gwyneth Paltrow, ma anche del lusso più sfrenato, del brandy e dei suoi baffi, Charlie Mortdecai non si fermerà davanti a nulla pur di ottenere quello che vuole. Con Mortdecai, Johnny Depp tenta il rilancio artistico dopo una lunga serie di flop commerciali e diverse prove attoriali a dir poco lontane dagli standard dell’attore tre volte nominato ai premi Oscar. Gli ultimi quattro film che hanno visto protagonista Depp sono stati dei disastri di pubblico e critica,
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sonori flop al botteghino oltre che decisamente deludenti dal punto di vista qualitativo: da The Rum Diary – Cronache di una passione di Bruce Robinson a Dark Shadows di Tim Burton; da The Lone Ranger di Gore Verbinski a Transcendence di Wally Pfister. Mortdecai si ispira al libro Don’t point that thing at me di Kyril Bonfiglioli, primo volume di una trilogia pubblicata da Edizioni Piemme, in uscita in Italia dal 10 febbraio 2015 con il titolo Mortdecai. I libri di Bonfiglioli sono molto conosciuti e apprezzati nel Regno Unito ma pressoché ignoti nel nostro Paese: un eventuale successo di Mortdecai potrebbe essere l’ideale occasione per riscoprire l’autore inglese morto nel 1985. Il film è una commedia d’azione che segna una nuova collaborazione tra David Koepp e Johnny Depp: i due hanno già avuto l’occasione di lavorare insieme, infatti, nello sfortunato thriller Secret Window del 2004. Per il regista si tratta del settimo film, il primo dal 2012, anno del thriller Senza freni con Joseph Gordon-Levitt e Michael Shannon. David Koepp è noto soprattutto come rinomato sceneggiatore di alcune pellicole culto degli anni novanta come Jurassic Park di Steven Spielberg, Carlito’s Way e Mission: Impossible di Brian De Palma e La morte ti fa bella di Robert Zemeckis. Prodotto e interpretato da Johnny Depp, Mortdecai può contare su un cast di grandi nomi, a cominciare dal premio Oscar Gwyneth Paltrow. Tra gli altri attori di richiamo impegnati nel film segnaliamo Ewan McGregor, Paul Bettany, Oliver Platt, Jeff Goldblum e la splendida Olivia Munn, lanciata dalla serie televisiva The Newsroom creata da Aaron Sorkin. Le riprese del film sono iniziate a Londra il 21 ottobre 2013 e sono proseguite poi interamente in Inghilterra, tra le città di Greenwich, South Kensington e Taplow. La pellicola, inizialmente programmata per un debutto negli Stati Uniti il 6 febbraio 2015, viene in seguito anticipata ed è stata distribuita nelle sale cinematografiche statunitensi a partire da venerdì 23 gennaio. In Italia, invece, Mortdecai arriverà a partire da giovedì 19 febbraio, distribuito dalla Adler Entertainment.
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KINGSMAN,
SEGRET SERVICE SPY MOVIE IN SALSA POP AL CINEMA DAL 25 FEBBRAIO 2015
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
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Per chi pensa che James Bond negli ultimi anni sia diventato troppo serio, ecco un film che riporta irriverenza, “giocosità” e ironia nel mondo degli spy movie. Una rilettura del genere che – guarda caso – è a firma di uno dei cineasti contemporanei più coraggiosi e originali: Matthew Vaughn (The Pusher, Kick-Ass, X-men: L’inizio). Con Kingsman: Secret Service, il regista adatta per lo schermo la miniserie di fumetti The Secret Service, ideata da Mark Millar e disegnata da Dave Gibbons, confermando la sua estetica postmoderna, iperbolica, sopra le righe, pop. Considerato dalla critica statunitensi il prodotto mainstream più rischioso degli ultimi anni, Kingsman costituisce una ventata d’aria fresca per la classica formula spionistica britannica e racconta la storia di una segretissima organizzazione che forma spie. Uno dei suoi agenti, Harry Hart, recluta il giovane Eggsy, figlio di un suo stimato collega ormai scomparso, e insieme dovranno ostacolare Richard Valentine, determinato a “salvare” il mondo.
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“Ho probabilmente preso una decisione folle quando ho accettato di girare Kingsman”, afferma Vaughn che ha rifiutato per questo progetto il nuovo capitolo della saga degli X-Men (X-Men: giorni di un futuro passato, poi andato nelle mani di Bryan Singer). “Avevo tra le mani un blockbuster potenzialmente da 800 milioni di dollari ma ho preferito questo film perché lo sentivo più mio”. Sicuramente a convincere Vaughn è stata anche la possibilità di portare nuovamente sullo schermo la creatività di Mark Millar, dal quale aveva già tratto il suo fortunato Kick-Ass. E come nel film con Aaron Johnson e Nicolas Cage, anche qui il regista ci immerge in un mix di grottesca ultra violenza, azione sfrenata e atmosfera quasi cartoonesca animata da personaggi in equilibrio tra follia e genialità. A muoversi nel frenetico e assurdo mondo creato da Vaughn è un cast di assoluto livello, che va da sir Michael Caine a Mark “Luke Skywalker” Hamill, da Samuel L. Jackson, villain della situazione, a Colin Firth, fino a Taron Egerton, che interpreta il protagonista Eggsy. Se quest’ultimo, attore gallese famoso in patria per la serie televisiva The Smoke, rappresenta la vera scoperta del film (e sicuramente di lui sentiremo ancora parlare), la sorpresa ce la regala senza dubbio Colin Firth, per la prima volta impegnato in un ruolo d’azione, così fisico. “Mi sono voluto prendere un rischio – racconta Vaughn - era difficile immaginarsi Colin che fa a calci e pugni, ma lui ha dato tutto ed è stato grande”. Un’esperienza che senza dubbio ha segnato in positivo il premio Oscar per Il discorso del re, finora quasi sempre volto rassicurante di commedie e drammi intimisti. “E’ stato stancante ma mi sono divertito tantissimo”, dichiara l’attore inglese. “Ho passato sei mesi allenandomi tutti i giorni, tre ore al giorno. Avevo un team straordinario che mi seguiva: personal trainer, ragazzi delle forze speciali, insegnanti di arti marziali e dei Thai boxers. Fino a questo film, il mio massimo a livello d’azione era stato tirare i capelli a Hugh Grant”. Chissà che per lui non si apra una nuova strada nell’action.
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5 CURIOSITà
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FADE TO GREY
cinquanta sfumature di grigio in 5 curiosità
AL CINEMA DAL 12 FEBBRAIO 2015 di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
Fade To Grey, come cantavano nel 1980 i Visage. Dissolversi nel grigio. O, se volete, perdersi in Mr. Grey. Così si chiama il grande protagonista di Cinquanta sfumature di grigio, in originale Fifty Shades Of Grey, titolo che rende meglio il doppio senso con il nome del personaggio. Il libro best seller di E.L. James, primo capitolo di una trilogia, è finalmente diventato un attesissimo film. La storia la conoscete tutti: è quella di una studentessa, Anastasia Steele, che per caso si trova a intervistare un miliardario, il giovane e affascinante Christian Grey, che la coinvolge in una torbida e intensa storia d’amore e di sesso estremo. Cinquanta sfumature di grigio, distribuito da Universal e diretto da Sam Taylor-Johnson, la regista di Nowhere Boy (la direzione era stata proposta ad Angelina Jolie, che non ha accettato), sarà nelle nostre sale dal 12 febbraio. Buon San Valentino hard… 1. Grigio intenso o grigio spento? È l’interrogativo che si stanno facendo tutti, appassionati e non. Come saranno sul grande schermo le scene che tutti hanno immaginato dopo averle lette sulla pagina scritta? E.L. James, la fortunata autrice del libro, ha dichiarato che le scene cariche di passione delle sue pagine non sono state edulcorate. Ma il dubbio rimane. Tanto che si dice che negli Stati Uniti Cinquanta sfumature di grigio
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potrebbe uscire in due versioni: una vietata ai minori e una più “soft” per teen-ager accompagnati. 2. I’m Too Sexy? Altre indiscrezioni, riprese da Us Weekly, raccontano di alcune riprese aggiuntive, girate con i due protagonisti dopo la fine della lavorazione del film, perché la protagonista, Dakota Johnson (figlia di Don Johnson e Melanie Griffith), non si sarebbe poi dimostrata così sexy come il ruolo vorrebbe. Lei sembra pensarla diversamente. “Il mio segreto è che non provo vergogna, non ho problemi, posso fare qualsiasi cosa” ha dichiarato. 3. Metodo Stanislavskij. Ma sarà abbastanza sexy il protagonista maschile, il Mr. Grey che ha fatto sognare così tante donne? Quello che sappiamo è che Jamie Dorman, il prescelto, si è preparato bene, cercando di immedesimarsi nel ruolo. Si è recato in una stanza segreta per assistere a una relazione sadomaso. “Mi è stata offerta una birra e poi ho visto il gioco sadico di un uomo con due schiave” ha raccontato. Per lui si è trattato solamente di un momento di… formazione professionale, che però non sembrano averlo coinvolto, anzi. “Quando sono tornato a casa da mia moglie e dal mio bambino, mi sono dovuto fare una lunga doccia prima di toccarli”. 4. Full Frontal. Il nudo integrale di Mr. Grey non ci sarà. Fatevene una ragione, sta proprio nel contratto che ha firmato Jamie Dorman. Proprio la dichiarazione dell’attore in merito ha provocato molte preoccupazioni tra i fan del libro, che difendevano la natura esplicita e “estetica” del racconto. Dorman ha spiegato però che il film è stato pensato per un target di pubblico molto vasto, e non aveva senso scandalizzarlo con scene troppo esplicite. 5. Cosa c’entra Bergman? La prima audizione che Dakota Johnson ha fatto per il ruolo di Anastasia Steele si basava sulla lettura di un monologo tratto da Persona, il film del 1966 di Ingmar Bergman. Il monologo è stato scelto per capire se l’attrice potesse maneggiare con maturità e tranquillità il soggetto del film. Il test finale per i due protagonisti invece è consistito nella recitazione del primo e dell’ultimo capitolo del libro.
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2. La griglia di partenza. Chi è il favorito? Uno dei sistemi che usa la stampa per nominare i favoriti alla corsa all’oro è quella di contare i film che hanno più nomination. Non sempre funziona, visto che spesso i film migliori hanno meno nomination, ma tutte nelle categorie più importanti. Ma volendo stare al gioco e fare un’ideale griglia di partenza degli Oscar, eccola qua: Grand Budapest Hotel di Wes Anderson e Birdman di Alejandro Gonzales Inarritu (9 nomination); The Imitation Game (8); Boyhood di Richard Linklater (7); American Sniper di Clint Eastwood (6); Interstellar, Foxcatcher, Whiplash e La teoria del tutto (5).
AND THE OSCAR GOES TO… di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
And the Oscar goes to… è una di quelle frasi magiche per chi ama il mondo del cinema. È la formula che, sul palco della cerimonia più importante per l’industria cinematografica mondiale, si pronuncia prima di annunciare il premiato. Chi saranno i vincitori di quest’anno? Questo non possiamo saperlo. Ma vogliamo aspettare gli Academy Awards 2015 insieme a voi con queste dieci curiosità sul premio più ambito da chiunque faccia cinema. 1. Milena, la grande bellezza. Dopo il colpo grosso dello scorso anno con l’Oscar per il miglior film straniero vinto da La grande bellezza di Paolo Sorrentino, c’è poca Italia agli Academy Awards di quest’anno: nessun film candidato.A tenere alta la nostra bandiera c’è Milena Canonero, che ha ottenuto la nomination per i costumi di Grand Budapest Hotel di Wes Anderson. Per la costumista italiana sarebbe la quarta statuetta dorata: ha infatti vinto già tre Oscar nel 1976, per Barry Lyndon di Stanley Kubrick, nel 1982, per Momenti di gloria di Hugh Hudson e nel 2007, per Marie Antoinette di Sofia Coppola. È alla sua nona nomination: è stata in lizza altre cinque volte, per La mia Africa, Dick Tracy, Tucker, Titus e L’intrigo della collana.
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3. I grandi delusi. Tra i grandi delusi ci sono sicuramente David Fincher: il suo L’amore bugiardo – Gone Girl ha ottenuto una sola nomination, quella di Rosamund Pike come miglior attrice protagonista. Ma l’interpretazione da bionda hitchcockiana dell’attrice inglese è di quelle che lasciano il segno, e potrebbe bastare per rendere giustizia a un gran film. Delusione anche per Vizio di forma, di P.T. Anderson, due sole nomination, e per The Lego Movie, escluso dalle nomination come miglior film d’animazione, secondo molti ingiustamente (ma è in nomination per la canzone).
4. Pixar, dove sei? A proposito di film d’animazione, la cinquina è questa: Big Hero 6, The Boxtrolls, Dragon Trainer 2, Song Of The Sea, The Tales Of The Princess Kaguya. Non notate niente? Certo, manca la Pixar, la casa di produzione leader del mercato d’animazione, che sconta le ultime scelte un po’ troppo commerciali. Planes 2 – Missione antincendio forse non è un film da Oscar. La Pixar non era entrata in nomination anche con Monsters University, lo scorso anno, e con Cars 2 qualche anno prima. Eppure negli ultimi dieci anni l’aveva sempre fatta da padrone: da Alla ricerca di Nemo e Gli incredibili, fino a Ratatouille, Wall-E e Up, Toy Story 3 e Ribelle – The Brave. Forse negli ultimi Pixar manca quella fantasia e quella poesia che ce li ha fatti amare. E che potrebbe tornare in Inside Out.
5. Fratelli, dove siete? A sorpresa, non ci sono i Fratelli Dardenne e il loro intenso Due giorni, una notte tra i candidati per il miglior film straniero: il loro film era stato scelto per rappresentare il Belgio, ma non è entrato nella prestigiosa “cinquina”. A difendere il loro lavoro però c’è la protagonista del film, Marion Cotillard, candidata come miglior attrice protagonista: per lei sarebbe il secondo Oscar, dopo la vittoria per La vie en rose, biopic su Edith Piaf.
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6. Un viaggio lungo 12 anni. Secondo molti – e anche secondo chi scrive - dovrebbe essere l’anno di Richard Linklater e del suo Boyhood, film unico per la sua lavorazione durata 12 anni, per seguire la crescita di un bambino e mostrarci come possa diventare uomo. Senza effetti speciali, solo con il passare – reale – del tempo. Linklater è stato sempre molto amato dalla critica americana, ma finora non era stato molto considerato dall’Academy: aveva ottenuto solo due nomination, alla miglior sceneggiatura per Before Midnight nel 2014 e per Before Sunset – Prima del tramonto nel 2005, entrambe firmate insieme a Julie Delpy e Ethan Hawke. Anche Hawke è stato nominato in questi Oscar, come miglior attore non protagonista per Boyhood: per lui è la seconda nomination da attore non protagonista, dopo quella del 2002 per Training Day.
7. Meryl per sempre. Anche quest’anno ci sarà lei, la grande Meryl Streep. È stata nominata come miglior attrice non protagonista per il musical Into The Woods. Una carriera incredibile la sua: siamo a quota 19 nomination! È la donna con più nomination nella storia degli Oscar, seguita da Katharine Hepburn a 12. Sembra quasi strano allora che di Oscar ne abbia vinti solo tre: due da protagonista, per La scelta di Sophie e The Iron Lady, e una da non protagonista, per Kramer contro Kramer. Ma la sua carriera ci sembra ancora molto, molto lunga…
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8. Maxi Cooper. Bradley Cooper è alla terza nomination in tre anni consecutivi. Dopo Il lato positivo e American Hustle, entrambi con la regia di David O. Russell (il primo come protagonista, il secondo da non protagonista), è arrivata la segnalazione per American Sniper di Clint Eastwood, da protagonista. Che sia la volta buona?
9. Literature Academy Award. Molte delle pellicole nominate come miglior film in questa edizione sono tratte da libri: da The Imitation Game (da Alan Turing. Storia di un enigma di Andrew Hodges) a La teoria del tutto (da Verso l’infinito di Jane Wilde, ex moglie di Stephen Hawking); da American Sniper (è l’autobiografia di Chris Kyle) a The Tale Of Princess Kaguya, il film dello studio Ghibli nominato tra i film di animazione, che è tratto da uno dei racconti più antichi del Giappone, Storia di una tagliabambù. Foxcatcher, tratto da una storia vera, concorre invece, oltre che come miglior film, come miglior sceneggiatura originale, ma sulla vicenda era uscito già un libro, scritto da Mark Schultz, Foxcatcher. Una storia vera di sport, sangue e follia.
10. Ma perché Oscar? Come mai, ci siamo chiesti in tanti, il premio degli Academy Awards si chiama Oscar? La leggenda narra che il nomignolo, poi diventato il suo nome d’uso comune, fu affibbiato alla statuetta dorata nel lontano 1931, quando, alla prima premiazione, Margaret Herrik, Segretaria dell’Accademia delle Arti e della Scienza del Cinema, nel vedere la statuetta, esclamò: “Ma somiglia a mio zio Oscar!”
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BIRDMAN,
La recensione AL CINEMA DAL 5 FEBBRAIO 2015
da Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
“Come Don Chisciotte, non siamo altro che una ridicola commedia degli equivoci. Se il cinema è solo un mucchio di verità raccontato attraverso le bugie oppure un mucchio di bugie raccontato con molte verità, allora forse senza battere ciglio e in un solo continuo punto di vista, questo film è la mia battaglia contro l’ego. O forse volevo fare questo film solo perché, come dice Sam a Riggan, sono terrorizzato a morte, come tutti, di non contare nulla”. Alejandro Gonzàles Iñárritu attraverso il volto di Keaton narra l’epopea di un attore tormentato dal suo passato, dalla gloria del suo celebre personaggio, Birdman, il supereroe protagonista di una trilogia di blockbuster anni ’90 che lo ha reso una star e allo stesso tempo una meteora. E’ intrappolato in un passato che gli ha conferito notorietà, dal quale però non riesce a liberarsi. Con una velata ironia, il film, gioca sulla referenza di Batman, riportando alla memoria il Keaton-ex uomo pipistrello nei primi due film di Tim Burton, prima di essere soppiantato
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da numerosi altri attori. La crisi esistenziale di Keaton-Riggan si districa tra la rassegnazione alla normalità e la capacità di sopravvivere all’inevitabile tramonto e pone il protagonista al centro di un confronto, aspro e al limite della ragione, con la sua intrinseca follia. Una follia che si esprime attraverso la voce del suo passato. Siamo spettatori di una guerra clandestina a cui ognuno di noi, a proprio modo, ogni giorno deve sottostare e che si manifesta nel momento in cui la realtà si scontra con i propri sogni, in cui le ambizioni diventano ossessioni. Nell’affrontare il suo alter ego giovane, Keaton talvolta torna a sentirsi invincibile e se questo vuol dire far saltare in aria la città con la forza del pensiero, che sia. Nel gioco delle parti, la sua coscienza alternativa lo contrappone ad un egocentrico attore di talento arrivato per salvare lo spettacolo che rappresenta l’ultimo disperato tentativo di riacciuffare il successo. Edward Norton è così folle e imprevedibile da alternare momenti di grande verità a raptus d’incredibile spregevolezza. Alimentando la dose di humor della pellicola. C’è molto spazio su cui riflettere, su cui interrogarsi e domandarsi se, al tempo d’oggi, non essere presenti sui social network vuol dire non esistere. Un eterno conflitto che si dispiega tra apparire o essere, vivere o twittare, Los Angeles o New York. Un’opera “sperimentale”, come la definisce il regista, girata in lunghi piani sequenza legati tra loro da invisibili suture digitali. Come se quel piccolo teatro di Broadway, in cui si snoda tutta la vicenda, fosse la sala in cui lo spettatore oggi è seduto.
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E’ stata definita una black comedy, ma Inarritu usa gli elementi della commedia per parlare di una tragedia. Umana, personale, professionale, paterna. Michael Keaton batte il ritmo come una batteria prepotente. Edward Norton è una tromba sempre pronta a variare ritmo e intenzione. Il film, rapisce grazie all’interpretazione magistrale dei suoi attori, ma non perde mai di vista il suo centro nevralgico, vale a dire la riflessione su una decadente umanità. Il Batman di Tim Burton Michael Keaton, l’Incredibile Hulk Edward Norton, la ragazza di Spiderman Emma Stone, sono necessari per trasformare il mondo dei supereroi in una metafora della nostra epoca. Solo Naomi Watts, nella sua visibile fragilità, ci ricorda il senso di debolezza che attanaglia l’uomo, che per sopravvivere alle difficoltà, si aggrappa al ricordo d’infanzia e all’esigenza di realizzare il sogno di maturità. Seguendo la legge dell’assurdo, la dinamica degli avengers, Birdman è in grado di volare. E compie un viaggio nella mente umana che vale la pena di intraprendere. Forse perché esiste un supereroe nell’animo di ognuno di noi. E la sua voce, che governa a tratti sul nostro agire, ci ricorda la differenza tra amore e ammirazione. Tra critico e artista. Tra oblio e memoria. Iñárritu ha inserito alcuni momenti magici, qualche intensa battuta contro la popolarità, ma con questo film si allontana drasticamente dalle pietre miliari del dolore come Amores Perros (2000), 21 grammi (2003), Babel (2006) e l’ultimo Biutiful. Il finale lascia molto perplessi e forse, nonostante ci si domandi per l’intero corso della storia se il protagonista finisca con l’uscir di senno o meno, avrei amato un senso meno metafisico del suo percorso, una conclusione della storia più concreta. Vi state ancora domandando chi è Birdman? Un uccello piumato che parla alla nostra coscienza. Quello che in qualche modo tutti temiamo e desideriamo allo stesso tempo. Perché tutti abbiamo un Birdman nella nostra vita. Tutto sta a saperlo gestire.
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TAKEN 3,
L’ORA DELLA VERITA’ La recensione AL CINEMA DAL 11 FEBBRAIO 2015
da Londra Katya Marletta per Oggialcinema.net
La frase chiave: “My first priority is my doughter” “La mia priorità è mia figlia” La trama: L’ex-agente CIA, Bryan Mills (Liam Neeson), riappacificatosi con la sua famiglia cerca di costruirsi una nuova esistenza e di trovare serenità lontano dai pericoli della sua vecchia vita. Ma questa parentesi di relax purtroppo non è destinata a durare a lungo. Un nuovo terribile evento sta per abbattersi su di lui, stravolgendo tutto. Bryan viene coinvolto ingiustamente nell’omicidio della ex-moglie Lenore (Famke Janssen), trovata morta nel suo letto. L’FBI, la CIA e la polizia di Los Angeles, ritenendolo l’unico colpevole, iniziano una serrata caccia all’uomo; Bryan è costretto ad armarsi e a fuggire al più presto dalla città. Deve rintracciare gli assassini di Lenny, dimostrare la sua innocenza e proteggere l’unica cosa che gli è rimasta: Kim (Maggie Grace), sua figlia. Guidato dal suo straordinario intuito e dalle grandi abilità da ex agente l’ex
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della CIA, Bryan metterà in campo tutto se stesso per portare a termine la sua vendetta in una serrata corsa contro il tempo. La Recensione: Adrenalina, sentimento, brividi in “Taken 3 - L’ora della verità”- diretto da Olivier Megaton - il sessantaduenne Liam Neeson non risparmia colpi di scena, arricchendo il suo storico personaggio Bryan Mills, di vibrante azione, umanità e romanticismo. La rocambolesca spy story di Luc Besson (sceneggiatore e produttore), si avvia alla sua soddisfacente conclusione, almeno così sembra. La fortunata saga iniziata nel 2008 con “Io vi troverò”; proseguita con il secondo episodio nel 2012 “La Vendetta”, nel terzo episodio con “L’ora della verità”, esaurisce la trama del suo eroe, portando in scena una formula più incalzante e sentimentale. Taken 3 ha un ritmo diverso dai due film precedenti. Cosa c’è ancora da raccontare della storia di Bryan Mills? A dirla tutta è sempre un grande rischio espandere la scrittura originale di un film, i sequel spesso sono contenitori di storia diluita. Certamente quello che s’intuisce dopo aver visto il film è che si arriva ad una conclusione, ad una sorta di epilogo che armonizza tutta la trilogia. Il duro dal cuore tenero Mills ha cambiato vita, ha promesso che starà vicino alla sua famiglia e s’impegna a rispettare questo giuramento. Le sue giornate non sono più quelle adrenaliniche dell’agente CIA ma quelle di un aitante neo pensionato. Mills cerca di dimenticare il suo passato. Il suo unico scopo è quello di riappacificarsi con la sua famiglia e farsi perdonare l’assenza come padre. Nel frattempo Lenny, sua ex moglie, la donna che ama da sempre, cerca di
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avvicinarsi a lui anche sul piano sentimentale. Ma non riuscirà nel suo intento. Verrà misteriosamente uccisa. Dal momento del ritrovamento del suo cadavere il film si apre a pieno ritmo al thriller d’azione. Bryan fugge perché deve trovare gli assassini e dimostrare la sua innocenza. Il serratissimo inseguimento della polizia mantiene il pubblico incollato allo schermo per diversi minuti, regalando scene avvincenti. Il finale del film riserva un inatteso colpo di scena che rimette tutta la trama nuovamente in gioco. Ed è questo che caratterizza questo ultimo episodio; l’effetto sorpresa. Chi ha ucciso Lenny colpirà ancora e Bryan deve proteggere a tutti i costi sua figlia. Liam Neeson si riconferma il mattatore della scena; irresistibile anche nei panni dell’eroe più agè.
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KINGSMAN,
SEGRET SERVICE La recensione AL CINEMA DAL 25 FEBBRAIO 2015
da Londra, Katya Marletta per Oggialcinema.net
La frase chiave del film: “Your father saved my life” - “Tuo padre mi ha salvato la vita” Voto: 4/5 Trama: Harry Hart (Colin Firth) è l’agente veterano di un’organizzazione indipendente d’intelligence internazionale chiamata “Kingsman”, che opera ai più alti livelli di spionaggio. Impeccabile e imperturbabile, nel suo spiccato aplomb British, Harry è una glaciale e spietata macchina da guerra. In una missione ad alto rischio, un suo compagno di spedizione gli salva la vita; un sacrificio in pieno spirito Kingsman, che mette al riparo il gruppo e l’operazione. A Harry toccherà il compito di comunicare la brutta notizia alla famiglia; alla moglie e al piccolo figlio Gary “Eggsy” (Taron Eggerton). Senza la guida di un padre, Eggsy crescerà in un ambiente ostile e di malviventi. Intanto l’organizzazione è alla ricerca di un nuovo agente segreto da formare e inserire al più presto nella squadra. Harry propone come recluta Eggsy. Il ragazzo, superate le iniziali titubanze, decide di prendere parte, insieme ad altri aspiranti spie, al durissimo e competitivo programma di addestramento. Dando prova di grande coraggio e sagacia Eggsy supererà tante difficili prove, eccetto l’ultima, quella determinante per diventare un agente Kingsman; ma non è tutto perduto. Intanto si fa strada una minaccia mondiale. Il contorto genio tecnologico Richard Valentine (Samuel L. Jackson), affiancato nel suo progetto criminale dalla bellissima Gazelle, le cui gambe bioniche sono un’arma letale, fa incetta di adepti per portare a termine la sua cospirazione: distruggere l’umanità. Il suo slogan “Free call, free internet, forever”, è un richiamo irresistibile. Ma una giovane spia è sulle sue tracce ed è un vero Kingsman.
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Recensione: La nuova pellicola del regista inglese Matthew Vaughn, “Kingsman - The Secret Service”, trasposizione cinematografica della miniserie di fumetti di Mark Millar e Dave Gibbons (The Secret Service del 2012), è un omaggio alla migliore tradizione dei British spy movie. ll film mutua solo una parte dello spy comic book, mantenendone prevalentemente il concetto di base della trama; per il resto nel suo racconto Vaughn arricchisce i suoi personaggi di nuova connotazione e caratteristica. Zio Jack, del fumetto di Millar, infatti sarà Harry Hart, l’agente segreto veterano, elegante e spietato, modellato in stile 007, e la giovane recluta non sarà più suo nipote ma il figlio di un ex agente morto in missione. Kingsman, che a tratti si muove sul filo della parodia del film di James Bond, è una pellicola meravigliosamente assurda, molto irregolare e complessa, che al contempo coinvolge il pubblico sia con risate che sgomento. L’abilità del regista spicca maggiormente nella costruzione delle scene più violente, inquietanti ed estreme in linea splatter ma in modo non convenzionale. Permane come leitmotiv la visione simbolica totally British, in una descrizione scrupolosa, quasi maniacale, dell’ambientazione, dei costumi. La bravura e l’elegante interpretazione di Colin Firth, inoltre, determinano la caratura della pellicola. L’attore inglese conferisce al suo Harry l’essenza dell’impeccabile British man, arricchendolo d’irresistibile fascino. Impreziosiscono il cast attori dal calibro di Michael Caine, Samuel L. Jackson, Mark Hamill e Mark Stron.
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Cinquanta sfumature di grigio,
la colonna sonora con Beyoncé AL CINEMA DAL 12 FEBBRAIO 2015 di Marco Goi per Oggialcinema.net
Cinquanta sfumature di grigio è uno dei film più discussi e criticati dell’anno. E manco è ancora uscito. L’adattamento cinematografico del clamoroso bestseller omonimo scritto da E. L. James è destinato a far storcere il naso a parecchi anche per via della sua colonna sonora. All’interno della tracklist annunciata della soundtrack di Cinquanta sfumature di grigio sfilano infatti brani di generi ed epoche parecchio differenti e distanti tra loro. Qualcuno potrebbe quindi non restare del tutto convinto dalla scelta di affiancare la diva del pop/R&B di oggi Beyoncé alle eterne icone del rock’n’roll, i Rolling Stones, e pure allo storico crooner Frank Sinatra. Invece tutto questo, e molto altro, lo troverete all’interno della variegata e leggermente schizofrenica selezione musicale operata per il film. Il primo pezzo della colonna sonora di Cinquanta sfumature di grigio a essere stato rilasciato è il brano che accompagna il primo trailer della pellicola. Si tratta di una nuova versione esclusiva e piuttosto straniante della celebre hit di Beyoncé e Jay-Z “Crazy in Love”. La star è protagonista della soundtrack anche con un altro remix, questa volta di “Haunted”, un pezzo contenuto sull’ultimo album omonimo di Beyoncé che viene suonato nel secondo trailer di Cinquanta sfumature di grigio. Il brano che apre la colonna sonora dell’atteso film è invece la cover della classica “I Put a Spell on You” cantata da Annie Lennox. Un brano scritto dal cantautore blues Screamin’ Jay Hawkins nel 1956 con un testo che si adatta perfettamente ad accompagnare il “particolare” rapporto tra i due protagonisti della storia, Anastasia Steele (Dakota Johnson) e Christian Grey (Jamie Dornan). Nella sensualissima soundtrack del film vi è spazio poi per il pop Sia, Jessie Ware, Skylar Grey (con un nome come il suo, davvero immancabile) ed Ellie Goulding con la sua nuova romantica hit “Love Me Like You Do”, e per il sound sexy del nuovo re dell’R&B The Weeknd, una specie di Barry White per
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le nuove generazioni. Si ritorna invece a viaggiare indietro nel tempo, più precisamente al 1978, con “Beast of Burden” dei Rolling Stones, e a fine anni ‘50 con la raffinata “Witchcraft” di Frank Sinatra. Non è finita qui. Nella colonna sonora del film ci sono pure l’elettronica di AWOLNATION e le musiche originali composte da Danny Elfman, il collaboratore abituale di Tim Burton. Cinquanta sfumature di grigio, allora? Certo, ma anche 50 sfumature di musica.
Tracklist 1. “I Put A Spell On You (Fifty Shades of Grey)” – Annie Lennox 2. “Undiscovered” – Laura Welsh 3. “Earned It (Fifty Shades Of Grey)” – The Weeknd 4. “Meet Me In The Middle” – Jessie Ware 5. “Love Me Like You Do” – Ellie Goulding 6 . “Haunted (Michael Diamond Remix)” - Beyoncé 7 . “Salted Wound” – Sia 8 . “Beast Of Burden” – The Rolling Stones 9 . “I’m On Fire” – AWOLNATION 10 . “Crazy In Love (2014 Remix)” – Beyoncé 11 . “Witchcraft” – Frank Sinatra 12. “One Last Night” – Vaults 13. “Where You Belong” – The Weeknd 14. “I Know You” – Skylar Grey 15. “Ana And Christian” – Danny Elfman 16. “Did That Hurt?” – Danny Elfman
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Romeo&Juliet,
una spenta colonna sonora illuminata da Zola Jesus AL CINEMA DAl 12 FEBBRAIO 2015 di Marco Goi per Oggialcinema.net
La storia di Romeo&Juliet ritorna sui grandi schermi. Il dramma tanto romantico quanto tragico per eccellenza firmato da William Shakespeare vive ancora una volta grazie a questa nuova versione firmata dall’italiano Carlo Carlei ma girata in inglese e interpretata da un cast prevalentemente anglofono, in cui spiccano Damian Lewis, Ed Westwick, Paul Giamatti e i due giovani protagonisti Douglas Booth e Hailee Steinfield. A questo punto è lecito domandarsi quanto sia necessaria una nuova versione di una storia tanto celebre. Il pubblico è destinato a dividersi anche riguardo al risultato finale. Da una parte, i fan del Bardo avranno modo di gustarsi un adattamento parecchio fedele al testo originale. Dall’altra, chi invece si aspetta una rilettura originale di Shakespeare, com’era stato il fenomenale Romeo + Juliet firmato da Baz Luhrmann, rimarrà assai deluso. Romeo&Juliet non regge minimamente il confronto della memorabile versione anni Novanta con Leonardo DiCaprio e Claire Danes non solo a livello di fantasia e personalità, ma anche per quanto riguarda la colonna sonora. La soundtrack di Romeo + Juliet sfoggiava alcuni nomi di punta della scena musicale dei 90s come Radiohead, Garbage e Cardigans, questi ultimi presenti con il romanticissimo brano tormentone “Love Fool”. Una colonna sonora pazzesca, che contribuiva in modo fondamentale a creare la dimensione post-moderna e fuori dal tempo in cui Romeo e Giulietta visti da Baz Luhrmann si muovevano.Chris Martin e soci, dopo aver contribuito alla soundtrack di Hunger Games: La ragazza di fuoco con “Atlas”, hanno scritto il nuovo pezzo “Miracles” apposta per la soundtrack di Unbroken. Una canzone sognante molto nel loro stile che non farà gridare al miracolo, ma è comunque parecchio emozionante e rappresenta la ciliegina sulla torta ricchissima cucinata da Angelina Jolie. Di tutt’altra natura è la versione di Carlo Carlei, rispettosissima del testo originale di Shakespeare. Sullo stesso piano si muove la colonna sonora, molto classica, orchestrale, ricca di momenti di pathos ma del tutto priva di originalità, o anche solo di un briciolo di personalità. I tappeti di archi che accompagnano il
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film in quasi ogni momento sono raffinati, quanto leziosi. Le musiche composte da Abel Korzeniowski sono impeccabili, eppure non lasciano il segno in nessuna scena, nemmeno quelle teoricamente più emozionanti, di cui l’opera shakespeariana è per altro piena. Il compositore polacco si limita a svolgere il compitino, senza mai convincere davvero. Peccato, perché in curriculum Abel Korzeniowski vanta le musiche inquietanti della serie Penny Dreadful e l’ottimo score di A Single Man, che gli è valso una nomination agli Oscar per la migliore colonna sonora originale. Il momento musicale più degno di nota il film ce lo regala solo all’infuori della pellicola. Il trailer di Romeo&Juliet è accompagnato da “Skin” di Zola Jesus, splendida ballata che è stata usata anche in un episodio dell’ottava stagione di Grey’s Anatomy. Il pezzo è presente sull’album “Conatus” del 2011, ma la cantante americana di origini russe Zola Jesus è intanto fresca di pubblicazione di un disco nuovo, “Taiga”. Il consiglio è quello di andarvi a recuperare i suoi pezzi, mentre da questa nuova anonima versione di Romeo&Juliet e dalla sua spenta colonna sonora potete anche tenervi lontani. Il Bardo non se la prenderà troppo a male.
Tracklist 1. Juliet’s Dream 2. Forbidden Love 3. Queen Mab 4. The Cheek of Night 5. First Kiss 6. Trooping with Crows 7. A Thousand Times Good Night 8. Come, Gentle Night 9. Wedding Vows 10. Fortune’s Fool 11. From Ancient Grudge 12. Death is my Heir 13. Tempt Not a Desperate Man 14. 15 The Crypt 16. Eternal Love
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Eternal Love. Romeo&Juliet AL CINEMA DAL 12 FEBBRAIO 2015
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
“Due famiglie, entrambe dello stesso livello di prestigio nella stupenda Verona, dove è ambientata la nostra scena”. Questo il prologo che apre l’immortale tragedia di William Shakespeare, la storia d’amore tra le più famose e rappresentate di sempre. Perché l’amore è da sempre la principale fonte d’ispirazione per le menti più creative. Se poi è tragico, ancora meglio. Romeo e Giulietta è ormai un ipertesto: vi si rincorrono ed enumerano versioni cinematografiche, trasposizioni coreografiche, rivisitazioni letterarie, interpretazioni musicali, una tradizione frastagliata e diversificata, nella quale non è facile inserirsi con originalità. Persino William Shakespeare fu a sua volta ispirato nella scrittura di Romeo e Giulietta dal poeta romano Ovidio. Anche in quel caso i due innamorati s’incontrano davanti al muro di un giardino (simile al balcone di Giulietta) e conosceranno entrambi un destino fatale con un doppio suicidio. Ogni generazione ha mantenuto in vita l’opera di Shakespeare in varie forme, riscoprendo continuamente come la storia di questi due innamorati riesca a dare un senso all’infinito ciclo di amore e odio, di violenza e passione che contraddistingue l’esistenza umana. Esistono oltre quaranta versioni cinematografiche di Romeo e Giulietta, di cui la prima nel 1900. Ci sono storie fatte di sogni e sogni fatti di storie, e ci sono racconti in cui storie e sogni coincidono. Nel Musical. West Side Story del 1936 fu una tra le più importanti versioni dei classici di Hollywood. Dopo 4 anni di
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successi e di repliche ininterrotte a Broadway, Robbins e Wise, superando non poche difficoltà, portarono sul grande schermo questo musical che contava già allora numerosissimi fan. Il film West Side Story del ‘61, vinse 10 Oscar, con le musiche di Leonard Bernstein, spostando l’azione nella New York degli anni cinquanta, raccontando la storia di due innamorati, Tony e Maria, appartenenti a famiglie in conflitto e di etnia differente. La fotografia dai colori vivi, l’ambientazione popolare ma, soprattutto, le coreografie perfettamente eseguite dagli attori e le straordinarie musiche della coppia L.Bernstein-S.Sondheim decretarono l’enorme successo di questo capolavoro. Senza tempo. Nel Romanticismo. E’ il 1968, Franco Zeffirelli dirige il film che vinse due Oscar. Acclamato in tutto il mondo (40 milioni di dollari incassati negli USA) anche grazie alla meravigliosa colonna sonora composta da Nino Rota. Qualcuno l’ha definita l’ultima e definitiva versione cinematografica dell’opera shakespeariana, ma sicuramente è la trasposizione più romantica e fedele al testo originale, con un linguaggio ricco di poesia e un ritmo prettamente teatrale. Cosa conserviamo nella memoria? La sequenza in cui, scesa la notte, la festa è finita, Romeo si apposta sotto il balcone di Giulietta: le parole d’amore e i baci dureranno fino all’alba. Magistrale. Nella trasposizione contemporanea. Il film del 1996 Romeo + Giulietta, diretto da Baz Luhrmann, tenta un’inversione di tendenza in una versione teneramente rispettosa, utile ad avvicinare i giovanissimi al capolavoro di Shakespeare. Luhrmann ha aggiornato l’ambientazione dello spettacolo: Verona diventa Verona Beach, un luogo urbano e pieno di
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violenza. Una rielaborazione post moderna in cui il regista rende omaggio alla cultura popolare, a Mtv e al montaggio dei video musicali, miscelati in un panorama cittadino sgargiante. Nei ruoli di Romeo e Giulietta figurano Leonardo DiCaprio e Claire Danes, di cui ricorderemo gli sguardi, mascherati, che si incrociano, attraverso un acquario. Una meravigliosa istantanea. Nel backstage. Due anni più tardi, nel 1998, la passione per Romeo e Giulietta è ancora forte. Un altro film, Shakespeare in Love, immagina che uno sfortunato amore della vita dello stesso Shakespeare (Joseph Fiennes) abbia ispirato il testo. Nel dramma che si svolge dietro le quinte, William Shakespeare si innamora di una nobildonna (Gwyneth Paltrow), Viola de Lessops, che è già impegnata con un uomo del suo stesso rango. Da non perdere: la sequenza in cui il giovane scrittore Will tenta di scrivere la frase dal titolo “Romeo ed Ethel la figlia del pirata” e la sua relazione segreta con Viola, che si veste da ragazzo per incarnare il ruolo di Romeo, trasforma la commedia in tragedia. Intensa. Nei versi. E nelle Letters to Juliet, con Amanda Seyfried e Vanessa Redgrave. Diretto da Gary Winick, racconta la storia di un’aspirante scrittrice, che assieme al suo ragazzo Victor vola da New York in Italia per ritrovare un po’ di romanticismo e incappa nel famoso cortile di Giulietta Capuleti, dove le visitatrici di tutto il mondo lasciano a Giulietta lettere di amori perduti o desiderati. La storia è ispirata al “club di Giulietta”, un’associazione volontaria che risponde alle lettere che i turisti lasciano sotto il balcone dell’eroina shakespiriana, e si avvale di splendide cornici toscane in cui affondare una parte della narrazione. Introspettiva. Nel fantasy in costume. Nemmeno il tempo di sospirare per questa nuova vicenda, che la macchina hollywoodiana ha già ripreso il suo cammino. Quanto è difficile realizzare un adattamento cinematografico di Romeo e Giulietta, dopo che molti ci hanno già provato, sfornando capolavori? È la domanda cui cerca di rispondere Carlo Carlei con Romeo&Juliet, che già dall’uso dell’ampersand nel titolo invita al confronto con il Romeo+Juliet di Baz Luhrmann. Ed è evidente che Carlei, come Luhrman, ha voluto realizzare una versione utile a riavvicinare i giovanissimi al capolavoro di Shakespeare, ricordando loro che questa storia non solo li vede protagonisti, ma racconta l’amore adolescenziale come nessuno ha saputo fare meglio. E lo fa nel momento giusto, il 2014 rappresenta il 450° anniversario della nascita di Shakespeare. Romeo and Juliet attinge anche a molto altro: la cornice rinascimentale zeffirelliana, calda e luminosa fa da sfondo all’intera messa in scena, ma prende numerosi spunti anche dall’estetica di Twilight, visibile soprattutto nella scelta di alcuni membri del cast o nelle scene di duello che rimandano a uno scontro pari a quello dei vulturi. In bilico fra eros e thanatos, tra il fantasy e la fiaba nera, si consuma poggiando su una colonna sonora che non tace nemmeno un minuto. A dare un colore in più alle parole di Shakespeare, già infinitamente musicali.
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Conta solo la scossa che ti arriva.
La vita e la carriera di Roger Ebert in Life itself AL CINEMA DAL 19 FEBBRAIO 2015
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
La vita è un romanzo, un film, una storia d’amore. Fatti di alti e bassi tra cui navigare senza paura, come seppe fare Roger Ebert. Life itself racconta la storia di una delle voci culturali più influenti d’America. Dal premio Pulitzer fino allo show televisivo, fotografando la sua estenuante lotta contro il cancro che lo ha iconizzato ulteriormente a livello socio culturale. Per Roger Ebert, storica firma del “Chicago Sun-Times”, i film erano macchine che generano empatia. Avete presente il sistema delle “stellette” che tanto va di moda oggi al fine di valutare un film? Bene, lo ha inventato lui. Un’alternativa al sistema dei Thumbs Up o Thumbs Down. Un antenato del “mi piace” contemporaneo. Il suo stile conciso diretto, spesso brutale nella sua sincerità, era il suo marchio principale, ben esemplificato dalla cosiddetta critica relativa e non assoluta. Per anni questa
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espressione ha segnato il successo o l’insuccesso di un film in America, perché il pollice in questione apparteneva a Roger Ebert, il più grande critico cinematografico del mondo, come lui stesso amava definirsi. Egocentrico, brillante, divertente, grande narratore, Ebert è il protagonista del documentario Life Itself, come la biografia che lui stesso scrisse prima di morire a 71 anni, consumato dal cancro. Il film ripercorre l’avventura della sua vita, l’amore per la settima arte e il controverso rapporto con il mondo del giornalismo, senza trascurare lati oscuri come la lotta contro la dipendenza dall’alcol. La pellicola di Steve James, prodotta dall’amico di vecchia data Martin Scorsese, è un interessante viaggio nella vita del precocissimo redattore che iniziò già a fare carriera col giornale della scuola occupandosi di politica, ma fu presto nominato critico cinematografico ufficiale del quotidiano Chicago SunTimes, dove rimase a vita, nonostante le lusinghe e le offerte dei giornali concorrenti a seguito dell’attribuzione del premio Pulitzer. Con la sua totale complicità, il documentario parte dai giorni della sua malattia, quando il cancro gli portò via la mandibola destra, dandogli un’espressione a metà tra l’allucinato e il divertito resa popolare da una sua foto sulla copertina di Esquire. Continuando a parlare di quest’uomo illuminato, anche dopo quel giovedì 4 aprile 2013. Anche quando la sua penna si è arrestata. Perchè la sua stella, cementata sulla Hollywood Walk of Fame, continuerà a brillare. In ogni parola che anima le recensioni di una vita, che vivono ancora li, nel suo blog su rogerebert.com. In ogni commento, giudizio, recensione o critica postata al mondo. Perché la cosa che ha contraddistinto Ebert rispetto a tanti altri suoi colleghi è quella di aver avuto un rapporto prioritario con il suo pubblico. Il suo più grande merito è quello di aver reso popolare il cinema tra la gente comune e di aver reso la critica cinematografica comprensibile a tutti senza annacquare però l’analisi rigorosa. Sarcastico e pieno di sé al punto di annichilire con la sua dialettica chi osava contrapporsi ai suoi ragionamenti sui film, fu anche molto generoso soprattutto in nome del suo amore per il cinema.
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avere la minima conoscenza della materia, il cinema sembra invece essere il terreno che legittima chiunque a dare libero sfogo al proprio talento inespresso. Un fiume incontenibile di giudizi scorre sul web con tanta arroganza quanta mancanza di argomentazioni, suffragati da altrettanti “like” compiacenti. Il critico, uno che possa equiparare la caratura di Roger Ebert è nemico del banale, del facile e dello scontato, uno che non si ferma certo alle apparenze. E allora, forse, risulta più rassicurante ascoltare il parere del vicino, dell’uomo qualunque o del famoso di ritorno dall’Isola che quasi sempre la pensa come noi. Abbandonare il giudizio alla sola giuria popolare, non rischia di condizionare il mercato e la distribuzione dei film, orientandoli verso un progressivo appiattimento dell’offerta con prodotti sempre più di consumo e intrattenimento? Forse. Forse le parole che, più di tutte le altre ci ha trasmetto Ebert e che dovremmo fare nostre, sintetizzando al meglio il suo amore per il grande schermo e trascendendo ogni banalità, sono queste: «I film belli sono sempre troppo corti, e quelli brutti sempre troppo lunghi». Anche in questo aveva perfettamente ragione.
I suoi giudizi sono racchiusi ancora nei suoi libri, da Doris Day e The Social Network… 40 anni di cinema secondo Roger Ebert. Uno dei pochi critici cinematografici che aveva il coraggio di dire e scrivere le cose senza nessuna remora di deferenza, facendo i propri sbagli certo, ma con un’onestà intellettuale, una ironia e una schiettezza rara, soprattutto in un Paese come il nostro, dove scriver di cinema è considerato da molti un passatempo, un qualcosa di secondo piano rispetto al giornalismo di cronaca. Memorabile rimase la frase lapidaria con cui stroncò “Deuce bigalow”, in italiano “Puttano in saldo”: «Parlando in qualità di vincitore di un premio Pulitzer, Mr. Schneider, posso dire che il suo film fa schifo» (in realtà il termine è decisamente più forte, ndr). La proiezione del documentario Life itself si accompagna a una riflessione sullo stato della critica cinematografica italiana che porta a chiederci, non senza amarezza, se una figura come quella di Ebert tornerà mai. Siamo atterriti e ancorati al pregiudizio che il critico sia un vecchio bacchettone che spara sentenze che vanno a premiare solo film barbosi e lontani dal gusto del pubblico. Prendiamone atto, il ruolo del critico non piace a nessuno. Tacciato di snobismo e intellettualismo, è puntualmente bersaglio di facile ironia. Forse dovremmo invece rievocare l’idea un po’ romantica che il critico educhi, indirizzi, insegni e – perché no? – offra una propria proposta culturale, distinguendo il buono dal mediocre e l’eccellente dal pessimo secondo criteri precisi anche se non necessariamente unanimi. Le ragioni per cui sarà difficile intravede un nuovo Ebert sono molte. In primis perché in Italia la critica non è un mestiere. Se in altri campi, infatti, vi è ancora un minimo senso del pudore che impedisce di esprimere il proprio parere senza
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Sguardi sul set. The Cinema Show di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Ci sono momenti in cui il cinema si trasforma in fotografia. Ci sono fotogrammi che rimangono così impressi nella memoria che la pellicola sembra essersi fermata. Fotografia e cinema si guardano, si raccontano e prendono ispirazione reciproca in un intreccio di immagini, storie, racconti, dal bianco e nero al colore, in un percorso fatto di rimandi e contaminazioni. Figlie, per certi versi dello stesso padre, fotografia e cinema devono la loro natura su pellicola a George Eastman, un imprenditore statunitense pioniere della fotografia, che nel 1888 fondò la Kodak, nota soprattutto per la produzione di pellicole fotografiche e cinematografiche. Regalandoci sogni, poesie, racconti intimi e fantastici della nostra esistenza. “La fotografia deve essere silenziosa”. Così Roland Barthes stabiliva una delle condizioni per l’estasi temporale che può sorgere quando l’osservatore mette in gioco la propria soggettività sprofondandosi nell’immagine fotografica: “non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.” Fotografie di scena, ritratti in studio, scatti eseguiti durante le pause sul set oppure in strada di sorpresa, restituiscono un affresco variopinto del mondo del cinema e la sua dimensione sospesa tra realtà e immaginario. Una storia, a cura di Daniele De
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Luigi e Marco Pierini, narrata dagli scatti dei fotografi della collezione della Galleria Civica di Modena in calendario dal 7 febbraio 2015. Il percorso espositivo abbraccia un secolo di cinema: dal cortometraggio sperimentale “Thaïs” di Anton Giulio Bragaglia, del 1917, lungo tutto il Novecento fino ai film italiani e internazionali degli ultimi anni e ai suoi protagonisti, da Woody Allen a Bill Murray, da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino. Saranno più di quaranta gli autori in mostra: dal neorealismo del fotogiornalista Federico Patellani al mood più fashion di Horst, il percorso espositivo prosegue con le immagini scattate da Gina Lollobrigida stessa, e Tazio Secchiaroli, che ha ispirato il ruolo di Riccardo Paparazzo nel film di Federico Fellini La Dolce Vita, rimanendo nella storia come icona del paparazzo per eccellenza, termine per il quale tuttora non esiste traduzione in altre lingue, regalando al mondo un pezzo di storia tutto italiano. Scorrono, come sulla pellicola di un film, i volti dei grandi protagonisti del cinema italiano e internazionale. Accanto alle bellissime Carroll Baker e Marilyn Monroe, posano i nomi dei nostri contemporanei Carlo Verdone, Cristiana Capotondi e Claudia Gerini, ritratti da Giovanni Cozzi.
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Tra i divi e le dive messi in posa ci sono Marlene Dietrich e Carroll Baker, John Huston e Tony Curtis, Totò e Roberto Benigni, Claudia Gerini e Cristiana Capotondi. Registi immortalati sui set dei loro film, in momenti di concentrazione (Visconti, Antonioni), impegnati in intense conversazioni con gli attori (Bertolucci con Depardieu in Novecento, Pasolini con la Callas in Medea) o intenti ad illustrare l’esecuzione dell’opera (Fellini in 8 e ½, i Taviani in Kaos) o sulla scena, con immagini scattate da alcuni dei più grandi interpreti di questo particolare genere fotografico sui set di film come La terra trema e Quarto potere. Così il frammento cinematografico si stacca dalla pellicola, fino a sprofondare in un vuoto che sfida l’immaginazione. E affiora una realtà parallela tra le pieghe della rappresentazione, uno spiraglio, estrapolato dal flusso, al quale solo il nostro sguardo può dare un senso. In questa dimensione la fotografia offre un’esperienza di resistenza al frenetico incedere della proiezione cinematografica: nel “pieno” che riempie lo sguardo e il pensiero, si apre un vuoto in cui s’immette un tempo supplementare della visione, un tempo analitico la cui durata si fonda sulla decostruzione, il rallentamento, l’arresto della temporalità prodotta dal film. A Modena, per aprire una finestra sulla Luce.
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SGUARDI SUL SET
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Quando l’abito fa il monaco. L’Hollywood Costume a Los Angeles.
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Vi ricordate l’abito rosso di Vivian, quando Richard Gere porta Julia Roberts a teatro per La Traviata, in “Pretty Woman”? E lo scintillio dei costumi del “Grande Gatsby”? Diciamo la verità, cosa sarebbe stato John Travolta ne “la Febbre del sabato sera” senza quel mitico abito a tre pezzi bianco con giacca, gilet e pantalone a zampa con tanto di banda laterale ancheggiante a ritmo delle canzoni dei Bee Gees? O Charlie Chaplin senza bombetta, l’uomo ragno senza tuta rossa e blu, Batman senza mantello, Indiana Jones senza cappello? Impossibile immaginare Audrey Hepburn far colazione da Tiffany con un tubino diverso da quel capolavoro di little black dress disegnato da Hubert de Givenchy. Ci sono abiti che contribuiscono alla costruzione del personaggio, a renderlo unico.
Costume, aperta al pubblico fino al 2 marzo 2015, a Los Angeles. La retrospettiva vede protagonisti pezzi unici che ogni cinefilo doc non può che riconoscere e ammirare in tutta la loro bellezza. I costumi, appartenenti a musei, collezionisti privati e studios cinematografici, ripercorrono circa cento anni di storia della filmografia americana e ne riflettono i cambiamenti propri delle diverse epoche.
“In ogni film, gli abiti sono la metà dell’impresa di dare vita a un personaggio. Diciamo molto attraverso quello che abbiamo addosso”. Chi lo sostiene? Meryl Streep, dall’alto di 3 Oscar, che aggiunge di dovere molto ai brillantini pensati per lei da Ann Roth in “Mamma Mia”. “Dovevo essere sexy: un’impresa titanica, praticamente. Quelli mi hanno aiutato”. Prendere nota: non si sa mai.
Gestita dal Victoria and Albert Museum e dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, la collezione è esposta nella storica Wilshire May Company Building, la futura sede del Museo Academy of Motion Pictures, prevista per il 2017. Una grande rassegna che ospita tra i costumi esposti anche “pezzi” davvero incredibili come l’originale vestito di Charlot, l’abito di Mary Poppins o gli outfit di Morticia Addams. Perché non c’è nulla di più profondo di quanto appaia in superficie. Con questo paradosso si potrebbe ben descrivere la mostra.
A celebrare questa arte percepita come laterale a quella vera e propria del cinema, sebbene ogni anno l’Academy of Motion Pictures assegni gli Oscar ai migliori costumisti, ecco una retrospettiva che raccoglie 150 costumi icone di tutti i tempi. Un viaggio che ripercorre il dialogo che s’instaura tra il personaggio e il suo costume designer. “Arriverei a dire che la lunghezza di una gonna, sopra o sotto il ginocchio, a volte è più importante di un’idea di sceneggiatura”, raccontava Bernardo Bertolucci, nel documentario del 2006 Sartoria Tirelli. I film sono storie, storie di persone e un costume designer che si rispetti deve sapere esattamente con chi ha a che fare, prima di creargli un look credibile. Una sinergia creativa, continua e vivace, alla quale rende omaggio l’esposizione Hollywood
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Una forma di “narrazione” sotterranea indirizzata direttamente allo spettatore: un messaggio inviato attraverso l’uso di precisi stili e codici di colori che consentono un’immediata collocazione dei personaggi all’interno della trama. Basti pensare all’archeologoavventuriero Indiana Jones, al tormentato Jim Stark di “Gioventù bruciata” oppure al messia digitale Neo: personaggi ai quali immediatamente è associata una evocativa immagine che li ritrae con i loro caratteristici costumi di scena, senza i quali non sarebbero stati gli stessi. La mostra Hollywood Costume non si limita quindi ad un’emozionante passeggiata nella “hall of fame”, ma ripercorre la storia del cinema attraverso gli abiti di scena indossati da personaggi divenuti icone del mondo di celluloide. Pone in evidenza come molti protagonisti del grande schermo abbiano acquisito ulteriore fascino e abbiano varcato le soglie del mito, proprio attraverso capi d’abbigliamento che sono divenuti caratteristici tanto quanto i volti dei loro interpreti. Oggi veri e propri feticci. Come l’abito di Zucchero Kandinsky (M. Monroe) in “Some Like it Hot”, così come le divise da lavoro di Superman, Batman, Catwoman, Spiderman. Basta un capo azzeccato… e in un attimo si entra nel mito.
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QUANDO L’ABITO FA IL MONACO
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Prove tecniche degli Oscar. di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Sul red carpet hollywoodiano non si combatte solo per accaparrarsi il titolo di migliore attrice dell’anno. In palio c’è l’award della più chic della serata. Ecco perché i Golden Globe sono considerati l’anticamera degli Oscar. Sarà per questo che le attrici più glamorous di Hollywood non si risparmiano con mise ad effetto, look mozzafiato, accessori da panico e abiti scenografici da gran sera. E mentre i globi di J. Lo continuano a brillare, sublimati in un look alla “Wanda Osiris” di Zuhair Murad (più adatto ad una capatina a Las Vegas che per i Golden Globe), noi cerchiamo di cancellare dall’immaginario comune l’iconografia dei copricapezzoli di Lena Dunham. Nella serata di premiazione della 72° edizione dei Golden Globes il dress code di successo ha voluto profonde scollature con una preferenza per i colori chiari. Fatta qualche eccezione. Strepitosa Katherine Heigl nell’impeccabile Zac Posen blu notte. Statuaria Kate Hudson avvolta in un’opera in bianco di Versace, fatto su misura. Peccato per le orecchie. Sienna Miller ha avuto un crollo: l’abito Miu Miu su di lei pareva il grembiulino della “bella lavanderina che lava i fazzoletti…”. La peggio vestita (e non solo quello): Lana del Rey, mummificata all’ennesima potenza in quattro dita di cerone, otto chili di ciglia finte, una tonnellata di capelli posticci cotonati in una bella tinta da supermercato fatta in casa.
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Tra gli eccessi si registra quello di Julianne Moore: il vestito argentato di Givenchy, troppo lucido, troppo piumato, troppo cheap. I look delle star più fashion sul red carpet dei Golden Globe 2015 si caratterizzano per scelte molto sofisticate, appannaggio, nella maggior parte dei casi, delle maison di moda italiana. Versace, Miu Miu, Ferragamo, a Los Angeles trionfa lo stile del Bel Paese. Con gli Oscar alle porte, attrici e donne dello spettacolo puntano su outfit davvero unici, dettando i trend che forse ritroveremo proprio nella notte del prossimo 22 febbraio. Ecco gli highlights. 50 sfumature d’argento. Nonostante i Golden Globes siano dorati quest’anno va di moda il silver, come ci mostrano Dakota Johnson (che prende alla lettera le 50 sfumature di grigio), Kate Beckinsale, Reese Witherspoon e Diane Kruger. Overdressed. Abiti ampi, da principessa o da gran ballo. Allison Williams, Taylor Schilling e Felicity Jones (che sceglie un Dior couture color ottanio degno di nota) non si lasciano scappare l’occasione. A volte ritornano. Il monospalla è un evergreen dei red carpet. Abbiamo tutte una maglietta monospalla comprata negli anni ‘90, lo so, ma speriamo che per la notte degli Oscar sia finita nel dimenticatoio. Fiammante. Sensuale e ben augurante, oltre che in pendant col red carpet.
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Fiammante. Sensuale e ben augurante, oltre che in pendant col red carpet. Quest’anno c’è stato il rosso strutturato di Lena Dunham in Zac Posen, quello minimal di Kate Mara in Miu Miu e quello sensuale a sirena dell’abito Dolce&Gabbana di Helen Mirren. Speriamo che il fuoco non si sia già spento. Tre le star che hanno superato le prove generali a pieni voti e siamo curiosi di rivedere sul red carpet della notte degli Oscar.
LE PROVE TECNICHE DEGLI OSCAR
Naomi Watts, promossa per il suo abito strapless in seta della collezione Gucci autunno inverno 2015. Il giallo non dona a tutte e sicuramente può risultare “chiassoso” su un tappeto color rosso. Non è così per Naomi Watts, splendida e unica nel suo outfit canarino, impreziosito da una collana “serpente” di Bulgari dal mood retrò e una semplice clutch bianca. Divina. Perfetta e impeccabile come sempre, Amal ha camminato sul red carpet dei Golden Globe con un bellissimo abito firmato Dior Couture, giocando a fare Gilda con i suoi lunghi guanti bianchi. La signora Clooney, che ha ricevuto dal marito l’ennesima dichiarazione d’amore commovente e strappalacrime (e qui l’invidia sale ancora di più), era assolutamente glamour, incorniciata in un raggiante sorriso costellato di diamanti di Harry Winston. Icona. Emma Stone in pole position. Perché se ti chiami Emma Stone puoi anche osare i pantaloni sul red carpet. Una creazione sobria ma accattivante nello stesso tempo di Lanvin, che fonde insieme stile maschile e femminile in un modo assolutamente sublime. Superlativa.
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Serie tv, i personaggi femminili creati da shonda rhimes di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Questo è stato l’anno dei personaggi femminili forti, spietati, algidi. L’anno in cui le donne sono diventate i nuovi uomini. Hanno coraggio, sono intelligenti, forti, belle, dominano con classe, si districano tra emozioni e pragmatismo. All’origine dei giochi di potere, si muovono nell’ombra, tramano. La First Lady Claire, moglie di Frank Underwood in House of Cards è l’emblema di questa rivoluzione di donne in grado di rottamare le quote rosa. Halle Berry è un’astronauta. Tea Leoni un segretario di Stato. Sharon Stone un vicepresidente. La nuova stagione delle serie Usa riempie l’immaginario televisivo di super donne che combattono il maschilismo sulla Terra. E se un tempo ci siamo appassionate alle avventure sentimentali e sessuali di Carrie e amiche, oggi a dominare il tempio sacro delle serie tv americane, ci sono nuove bad girls. A proposito di donne potenti e di prodotti seriali, secondo il Times il 2014 è stato l’anno di Shonda Rhimes, una delle 100 persone più influenti del mondo. Dalla sua mente sono nati gli intrecci e le avventure dei medici di Grey’s Anatomy e Private Practice, gli intrighi legati alla Casa Bianca di Scandal e il legal drama How get away with murder che a gennaio ha debuttato in Italia. Non succedeva dal 1982 che un solo autore avesse tre spettacoli in prima serata; l’ultimo era un uomo, Aaron Spelling. Le serie televisive prodotte da una delle afroamericane più importanti d’America, grande amica di Oprah Winfrey, hanno la capacità di condire un genere televisivo – medical drama, political drama, legal drama – con intrecci sentimentali propri
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della soap opera, creando personaggi cardine diventate vere e proprie eroine contemporanee. Grey’s Anatomy è una sorta di specchio del mondo in cui viviamo, Scandal è un melodramma. Le regole si discostano dal quotidiano, si parla di omicidi e non di medicine, eppure anche Scandal riesce a raccontare con la stessa intensità le relazioni insite negli esseri umani. Lo fa attraverso lo sguardo di donne sempre più impegnate al centro della scena politica e di quella economico-finanziaria, ma coinvolte ugualmente in intriganti intrecci, che s’innamorano, che vivono passioni forti. Personalità, spesso “black”, armate di potere e grande carattere che, come Shonda Rhimes, un po’ mettono in soggezione. Qualcuno le ha definite nere incazzose. Al di là di ogni clichè, il colore in questo scenario è solo un dettaglio: parte della rivoluzione televisiva sta proprio nel non considerare l’etnia rilevante. In Grey’s Anatomy, Miranda era scritta come una biondina e Cristina come una nera, e poi sono state interpretate rispettivamente da una nera e da una coreana. A conferma che quel che conta è l’identità, che non ha niente a che vedere con questioni di razze e stereotipi. E’ la tempra che rende i personaggi della Rhimes icone di un’epoca avanguardista. La Pope è una delle più riuscite e particolari donne di Shonda. L’avvocatessa di Scandal ci ha ispirato con la sua tenacia e con quel mix di intelligenza e fiuto tutto al femminile. Lei che ha fatto del problem solving il suo credo, portandoci a riflettere sui risvolti del potere, politica e rapporti tra servizi segreti e istituzioni. Se l’ossimorico binomio forza/ fragilità nelle protagoniste di Grey’s Anatomy è meramente accennato, in Olivia Pope è molto più accentuato. Passionale, importante, sicura nel lavoro e vulnerabile nella vita privata a causa della precoce perdita della madre e dell’assenza dell’affetto del padre, Olivia torna bambina ogni volta in cui s’interfaccia con un uomo.
L’ultima donna di Shonda, Annalise Keating, protagonista dell’ultima fatica televisiva della produttrice How to get away with murder, a differenza degli altri personaggi femminili creati dalla Rhimes non rappresenta un’icona di bellezza. Interpretata dal Premio Oscar Viola Davis è l’ideale controparte di Olive. Annalise infatti non è l’amante ma la moglie tradita - e al contempo traditrice - che non soccombe alle scelte sbagliate del marito. Vendicativa ma anche lei fragilissima è la versione più matura, anche anagraficamente, delle eroine nate dalla mente femminile e femminista di Shonda Rhimes. Sarà nera per semplice caso, ma anche lei è decisamente incazzosa.
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Johnny Depp.
Da James Dean a Keith Richards di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
“Non sono mai stato un cocainomane. Ma ho preso un sacco di medicine e bevuto tanto alcol. Cercavo di stordirmi per non sentire la mia confusione. Era stupido, lo so. Ma è una cosa umana”. “Non crescerei mai i miei figli a Hollywood. Nessun bambino dovrebbe crescere lì”. “Il mio corpo è un diario, in un certo senso. È come usano fare i marinai, per i quali ogni tatuaggio significa qualcosa. Un determinato periodo della vita, un evento bello o brutto, viene inciso sulla propria carne. Se lo si fa da soli con un coltello o ci si fa fare un tatuaggio da un artista professionista è la stessa cosa”.
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“Per parlare di Johnny Depp, iniziamo… dalle iniziali”. Scriveva così, qualche anno fa, il compianto Ezio Alberione (grande maestro nello studio dei corpi attoriali, e padre putativo anche di questa rubrica). Aveva ragione, Ezio. Sì, perché le iniziali di Johnny Depp sono J.D., proprio come quelle di un altro attore entrato nel mito, quel James Dean, archetipo impresso nella memoria collettiva come “il” ribelle per eccellenza. “A rebel wihout a clue”, un ribelle senza un indizio, cantava Tom Petty nella sua Into The Great Wide Open, del 1991, nel cui video, diretto da Julien Temple, c’era proprio Johnny Depp, nei panni di Eddie Rebel, rockstar e divo con look alla James Dean.
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È stato anche quel video a fissare nella memoria il look e l’allure di Depp, insieme al suo primo film d’autore, quel Cry Baby (1990) di John Waters, che lo vedeva in un look sixties, con tanto di banana imbrillantinata. Per tutti gli anni Novanta Depp è stato questo: il ribelle alla James Dean, l’outsider che sceglieva ruoli da outsider, l’artista che evitava i film di cassetta (la lista è lunghissima, da Intervista col vampiro a Speed, da Titanic a Matrix), a differenza dei suoi colleghi divi. Eppure Depp era divo più di loro. L’attore che poteva permettersi qualunque cosa, l’attore rockstar, noto per la sua passione per il rock non solo come musica (tanto che all’inizio la recitazione sembrava un lavoro per continuare a suonare), ma anche come stile di vita, come dimostrano i suoi anni Novanta, anni vissuti pericolosamente, tra fidanzate da rockstar, come Winona Ryder (per cui si tatuò sul braccio la frase “Winona Forever”, poi cancellata) e Kate Moss, e alberghi distrutti come neanche le migliori band degli anni d’oro. “Era il Kurt Cobain del cinema”, scrive Stephanie Merry sul Washington Post. Quegli occhi profondissimi e taglienti incorniciati da una cascata di capelli incolti, il look tutto giacche di pelle, anfibi, collane e bracciali ne fanno un icona che va al di là del suo successo nei film. Per molte donne è da sempre l’uomo più sexy. Proprio perché non fa niente per esserlo. Nato per essere un outsider, Johnny Depp è l’uomo perfetto per diventare l’alter ego su celluloide dell’outsider per eccellenza del cinema americano, quel Tim Burton che ha fatto della diversità e dell’individualità la poetica della sua carriera. L’incontro avviene nel 1990, con Edward mani di forbice, storia di un tenero Frankenstein con delle lame al posto delle dita. Un personaggio surreale, sospeso, astratto, dentro il quale però covava la sofferenza e la passione, che Depp riusciva a far uscire grazie ai suoi occhi, anche sotto un trucco pesante. Per anni la cifra di Depp è stata proprio questa: la grande sensibilità con cui ci ha reso vicini, reali, tangibili personaggi estremi e grotteschi. È capitato con gli altri film che hanno continuato il grande sodalizio con Burton: Ed Wood, il peggior regista del mondo, il Willy Wonka sociopatico de La fabbrica di cioccolato, Sweeney Todd, il barbiere assassino pieno di dolore, quello che forse è stato il suo ultimo ruolo davvero memorabile. Ma, anche senza il sodale Burton, negli anni Novanta restano impressi i suoi ruoli in Buon compleanno Mr. Grape, Arizona Dream di Kusturica, Dead Man di Jarmusch. Ruoli che lo definiscono nella sua dimensione di attore da culto. La seconda svolta nella carriera di Johnny Depp avviene nel 2003, quando decide di partecipate al film-attrazione (è proprio così, nasce da un’attrazione di Disneyworld) La maledizione della prima luna, primo film della serie I Pirati dei Caraibi. Depp riesce ad affrontare un film di cassetta disegnando un personaggio memorabile, il Capitano Jack Sparrow. Lo fa per fare film che possa vedere sua figlia, dice, ora che è un padre di famiglia dopo la lunga unione con Vanessa Paradis. Il film sbanca al botteghino e Depp ottiene una nomination all’Oscar, il successo è totale, di pubblico e critica. Ma quel pirata, bandana, pizzo, capelli rasta e bracciali, rischia di diventare una prigione. Depp diventa Sparrow per altri tre sequel, e nel frattempo inanella altri successi d’autore (La fabbrica di cioccolato, Sweeney Todd, Parnassus, Nemico pubblico). È ancora, in maniera indiscussa, il numero uno. Ma quelle maschere che, come direbbero Zafòn e Oscar Wilde, rivelavano, invece di
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nascondere, la vera natura dei personaggi, sembrano essere diventate oggi una maniera, una compiaciuta abitudine per il divo americano. Il Cappellaio Matto di Alice In Wonderland, il vampiro Barnaba Collins di Dark Shadows (entrambi ancora con Burton), e il suo personaggio in The Lone Ranger, un indiano dal viso dipinto e un corvo sopra i capelli, non sembrano avere la profondità che Depp sapeva dare ai suoi personaggi. The Lone Ranger, come altri suoi film (vedi Transcendence) sono stati dei flop piuttosto sonori al botteghino, che sembrano negare l’equazione Depp uguale successo a cui eravamo abituati. Anche il recente Mortdecai, in uscita questo mese, in cui è un buffo detective con baffetti da sparviero, sembra andare verso quella china. Lo vedremo ancora mascherato in Into The Woods, nelle nostre sale ad aprile, musical che è un all star team dei personaggi da fiaba, dove il nostro è il lupo cattivo. Ancora mascherato, ancora pesantemente truccato, i baffoni e un cappellaccio in testa. Sembra che Depp, in questi anni, voglia nascondersi, negarci la sua anima, invece che rivelarla. Mentre la sua vita privata lo ha fatto tornare sotto i riflettori per la fine della storia con Vanessa Paradis e la sua unione con Amber Heard. Giovane, bionda, in ascesa. Anche questo un cliché. Eppure non ci scordiamo cosa riesce a darci Johnny Depp. Le sue interpretazioni più famose hanno dietro un grande lavoro di studio, d’ispirazione e immedesimazione. Il suo Edward mani di forbice era ispirato a Charlie Chaplin. Il suo Willy Wonka de La fabbrica di cioccolato era un misto tra Michael Jackson e Faye Dunaway. Mentre il suo capolavoro, Jack Sparrow, prendeva le sue movenze caracollanti e la sua parlata da Keith Richards dei Rolling Stones, ma anche da Pepè la puzzola dei Looney Tunes, per disegnare un cartoon rockstar in carne ed ossa. Ecco, Johnny Depp sembra essere passato da James Dean, interpretazioni tutte nervi e fragilità, a Keith Richards, rockstar che con i suoi Rolling Stones porta in giro da anni lo stesso show, lo stesso repertorio. Ma, noi che lo conosciamo, che abbiamo visto tante volte quello sguardo dietro mille trucchi e maschere, sappiamo che tornerà lui. Rivogliamo Johnny Depp. È THE FACE del mese di febbraio perché: l’attore che ha segnato gli ultimi vent’anni del cinema americano con le sue interpretazioni torna con altre due maschere, quella di Mortdecai, in uscita a febbraio, e con il lupo cattivo di Into The Woods, da noi ad aprile. Guardiamoli per capire se dietro la maschera c’è ancora quella sensibilità che ce lo fa tanto amare.