N°28 MARZO 2015
LA CASA DEL CINEMA t-media.it
PRIMO PIANO TRA GLI ALTRI
BLACK OR WHITE FOCUS FOXCATCHER 5 CURIOSITà
BLACKHAT THE DIVERGENT SERIES -INSURGENT RECENSIONI FILM
BLACK OR WHITE FINO A QUI TUTTO BENE FOXCATCHER COLONNE SONORE
SENZA LUCIO QUEEN ROCK MONTREAL SPECIALE FILM
CENERENTOLA GLAMOUR
I trendsetter di Scarlett - LA MODA DEL 2015 SAVAGE BEAUTY - Alexander Mcqueen 10 COSE, CHE AMO DI JOSEPH SPECIALE SERIE TV
The HonoUrable Woman
FOXCATCHER
THE FACE
KEVIN SPACEY
Al cinema dal 12 marzo 2015
SPECIALE EVENTI
DIETRO LA MASCHERA.La mostra di andy gotts Il museo del gioiello di vicenza
SOMMARIO
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LA CASA DEL CINEMA
oggi al cinema
COLONNE SONORE
Le colonne sonore che hanno creato il cinema
Magazine PRIMO PIANO
Senza Lucio. Tre anni di vita senza Lucio Dalla.
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Queen Rock Montreal. Il film concerto della band di Freddie Mercury.
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SPECIALE FILM
La lente di ingrandimento di Oggi al Cinema sui film del momento Black or White. Kevin Costner tra alcool e questioni razziali.
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Focus. Storia d’amore e di truffe nella sfida tra geni del crimine.
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Foxcatcher. American history catch.
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Suite Francese. Dal best seller al grande schermo.
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Chi è senza colpa. L’ultima volta di James Gandolfini.
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The Divergent Series. Insurgent di Robert Schwentke.
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5 CURIOSITà
Cosa si nasconde dietro la nascita di una pellicola? Blackhat. He’s the mann.
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Insurgent. Tris d’Assi.
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RECENSIONI FILM
Volete qualcosa di diverso dalle solite recensioni? In Speciale Film trovate un punto di vista diverso, un’analisi originale e particolare Cenerentola.
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GLAMOUR
Tutto ciò che è glamour e fascino: dagli ultimi fashion trends agli outfit consigliati I trendsetter di Scarlett - La moda del 2015.
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Savage Beauty - Alexander Mcqueen.
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10 cose che amo di Joseph.
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SERIE TV
Tutto ciò che è glamour e fascino: dagli ultimi fashion trends agli outfit consigliati The Honourable Woman. Le onorevoli bugie della vita.
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THE FACE
Il volto del mese
Le recensioni approfondite ed esclusive dei film in programmazione
Kevin Spacey. La beffa più grande del diavolo è stato convincere che non esiste. 36
Black or White. La recensione.
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SPECIALE EVENTI
Fino a qui tutto bene. La recensione.
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Dietro la maschera. La mostra di Andy Gotts.
Foxcatcher. La recensione.
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Il museo del gioiello di Vicenza. Set di Gioielli. 39
Direttore responsabile
Segreteria di redazione
In redazione
Direzione pubblicità e marketing
Emma Mariani
Antonio Valerio Spera, Marco Valerio, Carlo Lanna, Elisabetta Bartucca, Maurizio Ermisino, Antonio Gentile, Massimo Padoin, Marco Goi, Valeria Ventrella, Katya Marletta
Hanno collaborato Antonella Brianza
Greta Cortesi
Alberto De Palma
Progetto grafico e impaginazione Target Media Srl
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PRIMO PIANO
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Black or White,
Kevin Costner tra alcool e questionI razzialI AL CINEMA DAL 5 MARZO 2015
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
Passato con successo all’ultimo Festival del Film di Roma, Black or White segna il ritorno sul grande schermo per Kevin Costner. Un ritorno che ci regala un attore che non ha paura di abbandonare i personaggi tutto d’un pezzo tipici della sua carriera cinematografica e che, al contrario, ha il coraggio di rimettersi in gioco con un ruolo difficile, complesso e ricco di sfumature. L’attore di Balla coi lupi e di Waterworld interpreta infatti Elliott Anderson, un vedovo alcolizzato che si ritrova coinvolto
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nella battaglia legale per la custodia della nipote Eloise, che ha contribuito a crescere. In “lotta” con lui c’è la nonna paterna Rowena Jeffers (interpretata dal premio Oscar Octavia Spencer) e il cugino avvocato della ragazza (Anthony Mackie). La sfida legale si fa difficile e oltre alle questioni personali entra in gioco anche quella razziale, dato che la famiglia paterna di Eloise è afroamericana. «Black or White prima di tutto è un film sulla famiglia», racconta il regista Mike Binder. «L’idea è nata da un’esperienza personale. Io e mia moglie infatti abbiamo contribuito alla crescita di un nostro nipote “biracial” che aveva perso i genitori e la sorella. Abbiamo pensato che fosse un buon punto di partenza per una storia e così è nato il film». Il pensiero di affidare il ruolo principale a Kevin Costner è stato immediato, dato che Binder aveva già diretto l’attore nel 2005 in Litigi d’amore: «Io e Kevin siamo amici – prosegue il regista e lui ha messo tanto di suo nel film, non solo perché è la star di questa pellicola, ma anche perché l’ha prodotta». A metà tra legal thriller e dramma sociale, con sprazzi di delicato umorismo, Black or White tratta un tema delicato e quanto mai attuale come il razzismo, dunque, ma si approccia ad esso in modo differente rispetto al resto della produzione statunitense degli ultimi anni. Il film infatti prova ad osservare il problema razziale nella sua “degenerazione”, raccontando cioè una di quelle situazioni in cui esso in realtà non dovrebbe essere tirato in ballo. «Non c’è niente di coraggioso nel produrre un film
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come Selma» – dichiara Binder, che torna dietro la macchina da presa a sette anni di distanza dall’ottimo Reign Over Me. «Quello è un film ben fatto, ben interpretato, con una storia che tutti conosciamo e che sicuramente è necessario portare sullo schermo. Ma non c’è nessun rischio dietro un prodotto del genere. Black or White invece prova cerca di offrire un punto di vista poco trattato». Una strada non semplice quella intrapresa dell’autore, ma sposata e condivisa con entusiasmo dal suo interprete: «Tutti abbiamo difficoltà con il tema razzismo - dichiara Costner spesso si confonde il razzismo con il semplice disaccordo solo perché magari una delle persone coinvolte è di colore». Ma se questo tema centrale del film ha rappresentato il motivo principale per cui il divo americano ha deciso di interpretare il personaggio di Elliott, per gli studios invece esso ha solo alimentato i dubbi: «Nessuno voleva farlo – prosegue l’attore - così ho detto a mia moglie che l’avremmo dovuto produrre noi. Avrei pagato per interpretare la scena finale in tribunale, e così è stato». Il film è uscito a fine gennaio in patria ed ha incassato 20 milioni di dollari. Non una cifra eccezionale, ma ottima se si considera l’esiguo budget produttivo di 9 milioni di dollari: il giusto riconoscimento per Binder e Costner e una bella rivincita sugli studios.
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Focus,
storia d’amore e di truffe nella sfida tra geni del crimine AL CINEMA DAL 5 marzo 2015
di Marco Valerio per Oggialcinema.net
Nicky (Will Smith) è un esperto maestro nel depistaggio e si ritrova coinvolto sentimentalmente con un’aspirante criminale, Jess (Margot Robbie). Mentre Nicky cerca di insegnarle i trucchi del mestiere, il rapporto tra i due diventa molto intimo ma anche problematico, tanto che Jess viene allontanata brutalmente. Tre anni dopo, l’ex fiamma, ormai compiuta femme fatale, si presenta a Buenos Aires in occasione di una corsa automobilistica
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molto rischiosa. Nel bel mezzo di quest’ultima pericolosissima missione di Nicky, lei rischierà di mandare all’aria i suoi piani… ed il consumato truffatore potrebbe trovarsi in seria difficoltà. Tra rapine e furti, e accompagnati da una sofisticata atmosfera, i due protagonisti si fronteggeranno tra amore e odio, dando vita a una sfida romantica e adrenalinica in cui le poste in gioco partono già alte per poi salire esponenzialmente. I magistrali colpi messi a segno da Nicky, li porteranno dall’innevata New York alla soleggiata New Orleans, fino ad una delle più belle città del Sud America, Buenos Aires. Tra una partita finale di Football ed una gara di corsa automobilistica estremamente competitiva, si innescherà una reazione ad alto tasso d’adrenalina, tra avventure e romanticismo. Focus – Niente è Come Sembra, è scritto e diretto da Glenn Ficarra e John Requa, ovvero le due menti creative dietro al grande successo della commedia romantica Crazy, Stupid, Love. In qualche modo la formula vincente di quel film è stata ripresa e riadattata per l’occasione in veste action: quindi alla forte componente umoristica e sentimentale è stata unita la spettacolarità e l’adrenalina tipica del thriller. Con Focus – Niente è Come Sembra, Glenn Ficarra e John Requa hanno accettato la sfida di intrecciare i motivi ricorrenti dell’heist
PRIMO PIANO
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movie con quelli della commedia sentimentale. Spiegano i due registi e sceneggiatori: “La natura di un film incentrato sulle truffe, è quella di intrattenere il pubblico con la trama, mentre un film romantico richiede l’esposizione emotiva dei personaggi. Questo era senz’altro uno degli aspetti più complicati. Non si sarebbe potuto compromettere la trama per i contenuti emotivi, ma servivano comunque contenuti emotivi per aiutare l’evoluzione della storia”. Obiettivo comunque portato a termine in maniera positiva, grazie anche alla scelta di un cast a dir poco eterogeneo e funzionale. Will Smith ha deciso di lavorare con la coppia di registi e sceneggiatori dopo aver visto Crazy, Stupid, Love, film da lui molto amato. Margot Robbie invece è stata notata e successivamente scritturata grazie alla sua grande interpretazione in The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese dove recitava al fianco di Leonardo DiCaprio e Jonah Hill. Il cast è completato da Rodrigo Santoro (visto nella serie televisiva Lost e nei due film della serie 300), Gerald McRaney, BD Wong, Robert Taylor, Dominic Fumusa, Brennan Brown e Griff Furst.
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Inoltre il film ha potuto contare sulla supervisione speciale di Apollo Robbins, soprannominato “Il Ladro Gentiluomo”, che ha prestato la sua consulenza ideando e coreografando i movimenti delle mani per originali inganni e furti. Inizialmente per i ruoli dei due protagonisti erano stati scelti dai registi Emma Stone e Ryan Gosling, già protagonisti di Crazy, Stupid, Love. I due attori nominati all’Oscar hanno poi abbandonato il progetto e sono stati sostituiti rispettivamente da Kristen Stewart e Ben Affleck. I molteplici impegni dei due hanno portato poi ad un nuovo casting: Affleck è stato sostituito da Will Smith, mentre Margot Robbie ha battuto la concorrenza di attrici come Michelle Williams, Jessica Biel, Rose Byrne e Olivia Munn. Prodotto dalla Di Novi Pictures di Denise Di Novi (produttrice di film come Edward mani di forbice, Ed Wood, Nightmare Before Christmas e Crazy, Stupid, Love) e distribuito dalla Warner Bros, Focus – Niente è come sembra debutta nelle sale americane venerdì 27 febbraio, mentre arriverà nei cinema italiani a partire da giovedì 5 marzo.
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FOXCATCHER, AMERICAN HISTORY CATCH
AL CINEMA DAL 12 MARZO 2015 di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
FOXCATCHER, il film di Bennet Miller ci racconta una storia ambientata nel mondo della lotta libera per parlarci dell’America. Se a un certo punto di un film entra in scena una pistola, è sicuro che prima o poi sparerà. Parola di Sir Alfred Hitchcock. Foxcatcher non sfugge a questa regola ferrea del cinema: finisce in tragedia, dopo un incedere inquietante e carico di tensione. Foxcatcher racconta una storia vera: quella di Mark Schultz, campione di lotta libera, oro alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, di suo fratello Dave, lottatore e allenatore di Mark, e della proposta che entrambi ricevettero dal miliardario John Du Pont. Appassionato di lotta, in
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cerca di rivincite personali e pubbliche, il magnate propose loro un contratto per formare un team di lotta libera – si chiamerà Foxcatcher, come la tenuta di Du Pont – in grado di puntare alle Olimpiadi di Seul del 1988. Du Pont lo fa perché ama la lotta, per sostenere atleti che, a differenza dei sovietici, non sono tenuti molto in considerazione dal proprio paese, “per dare una speranza all’America” come dice lui. Ma tra lo schizofrenico miliardario e l’ingenuo Mark si instaura uno strano rapporto. “Un coach è un fratello, un mentore, un padre, un leader” sentiamo dire a Du Pont in un’intervista. E capiamo come Mark diventi per lui quell’amico e quella famiglia che non ha mai avuto. Foxcatcher è prima di tutto uno di quei grandi film di attori, di quei grandi ruoli preparati con meticolosità e resi con un grande lavoro di mimesi e di sottrazione. Channing Tatum è il campione Mark Schultz: ingrossato, ispessito non solo nel fisico ma anche nel volto, i suoi tratti, resi rudi dall’espressione e da un lavoro sulla mascella, perdono quel po’ di dolcezza che eravamo abituati a trovare in lui. Ma il suo broncio costante e il fisico possente non celano due occhi da cucciolo spaesato, da ragazzo senza famiglia qual è Mark. Mark Ruffalo è il fratello Dave, una barba ispida a sporcare i tratti gentili, e un grande lavoro sul corpo e sulle movenze, quasi animali, dentro e fuori dal campo di lotta. Ma la parte del leone la fa Steve Carell, nel ruolo di John Du Pont: irriconoscibile, invecchiato e appesantito sotto un pesante trucco, fa un grande lavoro sullo sguardo e sulla voce (se potete vedete il film in lingua originale). Gli occhi sono spenti, fissi, hanno quella calma apparente prima che si scateni una tempesta. La voce è flebile, ed è accompagnata da un mezzo sorriso, che trasmette inquietudine più che sicurezza. Carell ha raccontato che, nei primi giorni di riprese, era solito restare sul set con la maschera e il grande naso finto, e questo creava inquietudine nel cast e nella troupe. L’attore ha ammesso come il
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suo sia un personaggio disturbante, e che sia stato meglio lavorare lontano da Los Angeles (in Pennsylvania) e dalla propria famiglia. Foxcatcher è uno di quei film che lasciano il segno: in chi guarda, ma anche in chi ci lavora. Durante le scene di lotta, ricostruite alla perfezione, così come l’atmosfera dei secondi anni Ottanta, ci sono state contusioni, lividi, addirittura un timpano di Tatum che è stato danneggiato. Foxcatcher è reale anche per questo, non solo per la storia vera che racconta. Foxcatcher è cinema classico, cinema che è perfetta ricostruzione del reale, ma non per questo non riesce ad essere metafora. La storia di Du Pont e dei Fratelli Schultz ci racconta in realtà quella di un’America che crede che tutto si compri con i soldi o si risolva con un’arma. C’è la pistola di cui sopra, ma tutto il film è costellato dalla presenza di armi, e le scene di lotta si intervallano a quelle di storiche guerre americane, di carri armati e fucili. Quasi a voler sottintendere un’idea di violenza che una certa America persegue in nome di un patriottismo fine a se stesso. Du Pont, conservatore e reazionario, negli anni Ottanta parla di “una nazione che ha perso la propria morale e i propri valori”. Il suo impegno nel team Foxcatcher è qualcosa che fa, oltre che per riscossa personale, anche per quella di un’intera nazione. Tra le parole che un regista chiede a Dave di usare in un’intervista per un documentario su Du Pont c’è “dominio”. È una parola che più di tutte racchiude il senso di una storia come quella di Foxcatcher. E di tutta una serie di storie americane.
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Suite francese, dal best seller al grande schermo AL CINEMA DAL 12 MARZO 2015
di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net
L’amore proibito ai tempi della guerra, il sapore di una storia gelosamente custodita dall’oblio per oltre mezzo secolo e poi l’idea di trasporre sul grande schermo uno dei maggiori successi editoriali francesi nell’ultimo decennio. Ci sono voluti settant’anni prima che il romanzo Suite Francese di Irène Némirovsky diventasse un film (in sala dal 12 marzo), il secondo di Saul Dibb dopo l’esordio con “La duchessa” nel 2008. E non sarebbe probabilmente mai successo se la figlia di Irène, Denise Epstein, non lo avesse ritrovato, molto tempo dopo la deportazione e la morte di sua madre ad Auschwitz per
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tifo, nel 1942. A lei Irene aveva affidato i suoi quaderni, scritti che Denise avrebbe custodito per mezzo secolo portandoseli sempre dietro in una valigia, ma senza mai leggerli pensando fossero dei semplici diari. Quando agli inizi degli anni ’90 decise di dedicarsi ad una prima lettura, si ritrovò invece davanti alle prime due parti (Tempesta in giugno e Dolce) di un romanzo, che Irene aveva concepito come un poema strutturato in cinque parti. Fu allora che Denise iniziò faticosamente a trascrivere quelle pagine scritte dalla madre con una calligrafia piccolissima per risparmiare carta e inchiostro. Nel 2004 finalmente le due novelle furono pubblicate con il titolo di ‘Suite francese’ da un editore transalpino e il romanzo divenne nel giro di pochissimo un best seller tradotto in 38 lingue, che oggi sbarca anche in sala. Ambientato in Francia nel 1940, il film racconta la storia di Lucille Angellier (Michelle Williams) stretta tra il dispotismo della suocera (Kristin Scott Thomas) e l’attesa di ricevere notizie del marito prigioniero di guerra. Un’esistenza soffocante che il destino non impiegherà molto a stravolgere: nella città appena invasa dai nazisti, Lucille si ritroverà infatti a essere travolta dalla passione per Bruno, un raffinato ufficiale tedesco dislocato in casa sua (Matthias Schoenaerts). Il cast è all star: dalla straordinaria protagonista di “My week with Marilyn”, all’interprete maschile di “Un sapore di ruggine
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e ossa”, passando per l’imperturbabile incedere di Kristin Scott Thomas. Venti sono i milioni di dollari spesi per un totale di otto settimane di riprese che hanno portato attori e maestranze a spostarsi tra il Belgio e la Francia (negli ultimi giorni di ciak). Ed è lo stesso Dibb ad essersi occupato insieme a Matt Charman della sceneggiatura, che nel 2004 – prima che i diritti del romanzo passassero dalle mani della Universal Pictures a quelle della TF1 Droits Audiovisuels – era stata affidata all’autore de “Il pianista” Ronald Harwood. Il risultato? Una storia soprattutto di donne, come ammette lo stesso regista: “Ciò su cui volevo concentrare l’attenzione era il senso della guerra raccontata dal punto di vista di un civile e, in particolar modo, dal punto di vista di una donna”. E se Dibb sarà riuscito a trasferire sul grande schermo l’incanto di un romanzo che è riuscito a far appassionare milioni di persone, lo sapremo solo il prossimo 12 marzo quando il buio della sala avrà l’ultima parola.
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Chi è senza colpa,
l’ultima volta di James Gandolfini AL CINEMA DAL19 MARZO 2015
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
Il noir è un genere che nel nuovo millennio sta vivendo una vera e propria rinascita. Una conferma di questo è rappresentata dall’ultima pellicola del belga Michaël R. Roskam, Chi è senza colpa. Scritto da Dennis Lehane, il film sembra proseguire sulla scia del precedente lavoro del regista, Bullhead. Da una parte perché si muove anch’esso sul labile confine tra innocenza e colpevolezza, dall’altra perché come nell’altro film, anche in questo, gli animali occupano un ruolo importante. Se infatti il protagonista di Bullhead si somministrava degli ormoni per i tori, definendo chiaramente il suo destino, in questa pellicola è il rapporto con un cane che cambia le sorti del personaggio principale. Ambientato a Brooklyn, il film racconta di Bob Saginowski, barman che lavora nel pub del cugino, vecchio proprietario del locale ed adesso “dipendente” di un criminale ceceno che sfrutta il pub per riciclare il suo giro di denaro sporco. Il passato che si cela dietro alla sua vita solitaria è però pronto a tornare a galla quando si imbatte in un cucciolo di pittbull, che decide di “adottare”, e Nadia, una giovane ex tossicodipendente. Nel momento in cui un uomo arriva a rivendicare i propri diritti sul cane e sulla stessa ragazza, sua ex fidanzata, e il cugino decide sfidare il suo boss per riappropriarsi del pub, Bob si ritrova costretto a rivelare la sua vera natura.
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A parte la relazione uomo-animali che, come detto, ci riporta la pellicola sulla scia segnata Roskam con il suo film precedente, Chi è senza colpa presenta tutti gli elementi del genere, dall’indagine poliziesca alle rapine, dai traffici clandestini alla costante ambientazione notturna, fino a personaggi che sono dei veri e propri antieroi. A incarnarli sullo schermo, un cast d’eccezione: Tom Hardy (Locke, Il cavaliere oscuro – Il ritorno), Noomi Rapace (Sherlock Holmes), Matthias Schoenaerts (Un sapore di ruggine e ossa) e il compianto James Gandolfini, qui alla sua ultimissima apparizione sul grande schermo. «Quando ho detto ai miei amici che James Gandolfini avrebbe fatto parte del cast nessuno ci credeva. Lui era straordinario, divertente e un grande professionista. E’ stato d’ispirazione per tutti noi». Con queste parole Roskam ricorda l’emozione provata nel dirigere il protagonista de I Soprano nel suo esordio americano. Un’emozione condivisa da Noomi Rapace, la quale ha vissuto il set con due personaggi con cui sognava lavorare: Gandolfini, ovviamente – «soltanto trovarselo davanti era stimolante» -, e lo stesso Roskam. L’attrice era infatti rimasta folgorata da Bullhead e voleva assolutamente essere diretta dal regista belga. «Ho ricevuto la sceneggiatura di Chi è senza colpa prima ancora che fosse stata affidata a Michael e l’ho amata da subito, per la storia e i personaggi» – racconta la protagonista di Uomini che odiano le donne. «Quando poi mi hanno detto che sarebbe stato Michael il regista, ho pensato che non ci sarebbe stato nessuno meglio di lui. E’ stato un onore far parte del suo primo film americano. Registi come lui sono autori che possiedono un loro personale universo e adoro farne parte». Un universo, quello di Roskam, che strizza l’occhio al cinema di genere del passato. The Drop (titolo originale del film) è infatti un noir di quartiere che richiama alla mente molti vecchi film, vera ispirazione per l’autore: «Io amo i vecchi gangster movie, i crime movies, quelli ben fatti, innovativi, che sanno anche essere dei drammi sociali – dichiara il regista – e se nel film il mondo della malavita, abitato da personaggi che devono confrontarsi con il loro lato oscuro, è descritto così bene, lo devo principalmente a Denis Lehane, che sa raccontare tutto ciò rimanendo fedele alle regole del genere». Insomma, uno sceneggiatore, una garanzia.
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The Divergent Series,
Insurgent di Robert Schwentke AL CINEMA DAL 19 MARZO 2015
di Carlo Lanna per Oggialcinema.net
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Dal 19 Marzo arriva nei cinema Insurgent. Il sequel della Divergent Saga, nuovo fenomeno pop/commerciale, a conti fatti rimane uno dei film più attesi dai giovanissimi, confermandosi un calderone di idee e di grandi emozioni. Ispirato al secondo romanzo scritto da Veronica Roth, Insurgent risulterà molto piacevole agli estimatori di Hunger Games, per chi invece ha scoperto il grande appeal del franchise grazie all’omonima saga letteraria, troverà in questo film un semplice passatempo dato che Insurgent, prende le distanze dai libri fin dal suo incipit. “Una scelta può cambiare il destino di una persona o annientarlo del tutto, ma qualsiasi essa sia, le conseguenze vanno affrontate.” E’ su questo dualismo che oscillerà la trama del lungometraggio che vede quasi tutto il cast confermato, come Shailene Woodley, Theo James, Octavia Spencer, Suki Waterhouse, Jonny Weston, ma che vede in Robert Schwentke un nuovo e giovanissimo regista.
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Il film segue Tris e la sua ricerca di alleati tra le rovine di una futuristica Chicago. Riprendendo il filo della narrazione, Tris (Shailene Woodley) e Quattro (Theo James) sono in fuga, inseguiti da Jeanine (Kate Winslet), la leader degli Eruditi, una fazione elitaria assetata di potere. In corsa contro il tempo, devono scoprire il motivo per cui la famiglia di Tris ha sacrificato la propria vita e perché i vertici degli Eruditi fanno di tutto per fermarli. Condizionata dalle scelte compiute, ma decisa a proteggere chi ama, Tris con Quattro al suo fianco, affronta sfide impossibili fino a scoprire la verità sul passato e le conseguenze che avrà sul futuro del loro mondo. Con tutti i classici stilemi di un moderno Young Adult, Insurgent pennella all’interno del suo plot, un racconto intenso, intimistico, emozionante, senza dimenticare una buona dose di mistero, una storia d’amore nata tra le fiamme della rivolta ed una cornice post-apocalittica da cui traspare tutta l’insoddisfazione di una generazione di giovani sognatori. La pellicola quindi con tutte le attenuanti del caso, si conferma una grande fucina di idee, l’erede morale di Hunger Games. Infatti mentre la saga con Jennifer Lawrence il prossimo anno giunge al suo epico finale, quella con Shailene Woodley arriva adesso al suo apice narrativo. Dopo che in Divergent sono stati tratteggiati i volti dei personaggi ed i dettami di una società in caduta libera, Insurgent punta alla spettacolarizzazione del plot facendo trasparire tutte le forti emozioni del romanzo di riferimento. Dal trailer diffuso nel mese di dicembre dello scorso anno, traspaiono già tutti i cambiamenti stilistici del lungometraggio: dai personaggi che sono più sicuri di sé, dal ritmo che si incalza, fino ad arrivare ad una narrazione intensa e decisa. Insurgent quindi, figlio di una moda dilagante, seppur non brilla per originalità ha charme da vendere. Integrazione sociale e voglia di cambiare il mondo sono i temi che più colpiscono del lungometraggio. In un momento in cui la stessa filmografia di genere è in crisi, vedi i flop di Shadow Hunters, La sedicesima Luna ed Il Mondo di Jonas, Insurget conferma le ottime premesse lanciate da Divergent diventando così il secondo franchise più redditizio dopo Hunger Games.
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BLACKHAT
HE’S THE MANN il nuovo film di Michael Mann in 5 curiosità
AL CINEMA DAL 12 MARZO 2015 di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
Come nella famosa pubblicità, basta la parola: Michael Mann. Uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo torna alla regia con Blackhat, nelle nostre sale dal 12 marzo. L’idea di partenza della storia è che nessuno meglio di un criminale possa catturare un altro criminale. Nicholas Hathaway, in base a questo principio, viene contattato dalle polizie di Stati Uniti e Cina per provare a fermare un’organizzazione di hacker che sta attaccando attraverso la rete i capisaldi della finanza e dell’economia. Michael Mann torna nelle nostre sale a cinque anni di distanza dal suo ultimo film, Nemico pubblico, e sceglie Chris Hemsworth come protagonista. Accanto a lui ci sono Wei Tang e Viola Davis. Dalle rapine alle banche nelle depressione degli anni Trenta, ai delitti cibernetici di oggi, il passo è allo stesso tempo lungo e breve. 1. Cappello nero. Il termine Blackhat (letteralmente: cappello nero) è un termine che serve a contraddistinguere i “cattivi”: viene dai film western, dove normalmente i villain usavano i cappelli neri. Quando si parla di hacker, un blackhat è colui che fa pirateria cibernetica per fini personali o per arrecare danni agli altri. Inizialmente, il film doveva semplicemente chiamarsi “Cyber”.
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2. Digitale. Blackhat è il primo film di Michael Mann ad essere girato completamente in digitale, materia in cui l’autore di Miami Vice è considerato un maestro assoluto. Infatti Collateral, Miami Vice e Nemico pubblico erano stati girati in gran parte in digitale ma contenevano alcune sequenze girate in pellicola 35 mm. Blackhat è anche il primo film di Mann a usare delle lenti anamorfiche dai tempi di Heat – La sfida. 3. Realtà e finzione. La trama del film è stata ispirata da un caso vero, quello di Stuxnet, un worm creato per attaccare i sistemi di controllo industriali. Creato nel 2010, Stuxnet ha distrutto almeno un quinto dei sistemi di controllo nucleari dell’Iran. E sulle sue origini si sa molto poco… 4. Musica nera… di rabbia. Il compositore della colonna sonora Harry Gregson-Williams ha espresso il suo disappunto verso Michael Mann perché il regista avrebbe usato solo una minima parte delle composizioni create per il film. Gran parte del suo lavoro è stato rimpiazzato da composizioni di Atticus Ross (il sodale di Trent Reznor al lavoro con Fincher per le musiche di The Social Network, Millennium e Gone Girl) e Leopold Ross. 5. Una donazione… interessata. Blackhat è stato girato tra Chicago, Giakarta e Hong Kong. In particolare, Michael Mann ha donato circa 38 mila dollari al Community Chest di Hong Kong a nome della Hang Seng Bank, come ringraziamento per aver avuto il permesso di girare per cinque sere nell’area di ingresso della banca.
5 CURIOSITà
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INSURGENT TRIS D’ASSI in 5 curiosità
AL CINEMA DAL 19 MARZO 2015 di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
Insurgent, diretto da Robert Schwentke, è il secondo atto della saga di Divergent tratta dai best seller di Veronica Roth: seguirà Allegiant, che arriverà il 18 marzo 2016. A produrre è qualcuno che di saghe se ne intende, la Summit Entertainment di Twilight. Ma la saga di Divergent è qualcosa di molto diverso, tocca temi adulti come il conformismo, il classismo, la discriminazione, e la dittatura: siamo insomma dalle parti di Hunger Games, e questo è forse il migliore tra i prodotti che seguono questo filone. La divisione della società in senso orizzontale, non in classi sociali ma in fazioni, è molto originale. A ognuno è permesso di essere rigorosamente una cosa sola. E la repressione delle individualità è il primo passo verso il controllo. La saga di Divergent riesce a cogliere il nodo focale di quella che è l’adolescenza: non sapere ancora qual è il proprio posto nel mondo, la paura di restare esclusi dai gruppi, il bisogno di appartenere a qualche tribù. E la difficoltà nel compiere le prime scelte, di affrontare le proprie paure. Di essere se stessi. Tris, una ragazza come tante, vive a Chicago, in futuro non troppo lontano, dopo che il mondo è stato devastato da una guerra. I sopravvissuti si sono chiusi dentro alla città, recintandola con un muro e dividendosi in rigide fazioni, in modo che ognuno sappia qual è il proprio destino. Alla fine del primo film Tris era riuscita a fuggire oltre al muro che circondava la città, insieme al fratello Caleb e all’amato Four. Ma siamo appena all’inizio: all’orizzonte c’è la guerra tra fazioni. 1. Cronaca di un successo annunciato. La saga di Divergent è stata uno dei maggiori successi nel settore Young Adult: Divergent ha incassato 288 milioni di dollari in tutto il mondo, ed è stata questa, ovviamente, la spinta alla realizzazione di Insurgent. Il regista Neil Burger non è stato confermato solo per motivi di impegni lavorativi e la regia è passata a Robert Schwentke. Per mantenere le riprese sotto segreto il più possibile, il titolo di lavorazione provvisorio del film è stato Mineral. 2. Le bionde e la città. Anche Insurgent conferma una delle regole dei film di questo tipo: giovani attori emergenti nelle parti dei protagonisti, e grandi attori nei ruoli da non protagonisti: così, dopo Kate Winslet, presente in Divergent e anche qui (è al primo sequel della sua carriera), abbiamo un’altra grande, bionda star di Hollywood. È Naomi Watts che, per esigenze di scena, ha tinto i suoi capelli di castano. A proposito di cambiamenti: il film è ambientato a Chicago ma, a differenza del primo, questo è stato girato ad Atlanta.
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3. Alta fedelta? I fan della saga letteraria di Veronica Roth sono piuttosto agitati. Dalle prime note diffuse dalla produzione e da alcune dichiarazioni si potrebbe capire che il secondo film della saga sarà meno fedele al libro rispetto al primo. Theo James (Four) infatti ha dichiarato che, se in Divergent si trattava di rendere omaggio al materiale letterario, visti anche i suoi numerosi fan, il successo del film ha permesso di osare nella seconda puntata. Ad esempio, il personaggio di Edgar nel libro non c’è, mentre altri personaggi del libro non sono nel film… Ma i fan come la prenderanno? 4. Natural Born Warrior. Saranno molte le ragazze che si potranno identificare in Tris. Anche perché ha il volto pulito e semplice di Shailene Woodley, tanto espressiva nei suoi occhi da cucciolo spalancati verso il mondo, ma anche tanto comune che chiunque può identificarsi in lei. Shailene, al di là dell’aspetto gentile, è una guerriera nata. È una che si perde per un paio di settimane nei boschi del Maine, con pistola e ascia, per corsi di survivalismo. 5. Diamoci un taglio. In Insurgent vedremo Shailene Woodley con i capelli corti. È stata una sua scelta, dopo averli tagliati per il suo ruolo in Tutta colpa delle stelle, non usare una parrucca. In realtà, anche nel libro il personaggio di Tris taglia i capelli: ma non così corti come quelli che vedremo su Shailene.
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LA CASA DEL CINEMA
Black or White, né bianco né nero La recensione AL CINEMA DAL 5 MARZO 2015
da Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net
Da quel Balla coi lupi che gli valse due Oscar – uno come regista e l’altro come produttore – sono passati ventiquattro anni. Tanti per una carriera che lo ha visto ricoprire i ruoli più diversi, non abbastanza però per lasciar sedimentare una questione spinosa come quella dello scontro razziale. Così Kevin Costner torna a parlare di diversità “perché il razzismo in America è tutt’ora un grosso problema” e lo fa ancora una volta con un piccolo film, oggi come allora, se pensiamo che Balla coi lupi costò 16 milioni e ne incassò 500: Black or White di Mike Binder, vecchia conoscenza dai tempi di Litigi d’amore, si inserisce proprio in questa tradizione. Costner interpreta e produce un film che lo ha commosso sin dalla prima pagina di sceneggiatura, la quinta che Binder gli mandò; la divorò in soli tre giorni al termine dei quali decise che quella storia meritava di essere raccontata, a costo di
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metterci dei soldi. E così è stato. Insolito vederlo nei panni di un nonno, l’avvocato Elliott Anderson, che affoga nell’alcol il dolore per la perdita delle due figure più importanti della sua vita, figlia e moglie: la prima morta di parto all’età di 17 anni, la seconda in un incidente. Ora quello che gli rimane è la nipotina birazziale, Eloise, che la nonna paterna Rowena (Octavia Spencer) vorrebbe affidare alle cure del padre, Reggie (André Holland), l’uomo che l’aveva abbandonata subito dopo la morte della madre, a un passo dalla redenzione ma irrimediabilmente tentato dal crack. La battaglia per l’affidamento rispolvera rancori sopiti fino a quel momento e diventa l’occasione per riportare alla luce comportamenti, clichè, luoghi comuni di uno scontro di razze con cui l’America contemporanea non può non fare i conti. Certo, un film che non brilla per originalità con un impianto narrativo tradizionale, che forse vale più nelle intenzioni che nella fattura; un dramma familiare e sociale, stemperato dallo humour che ne risolleva qui e lì le sorti. L’ironia con cui Octavia Spencer caratterizza il suo personaggio, le battute di una ragazzina (l’esordiente Jillian Estell) che bacchetta il nonno rimettendolo in riga, in un mondo in cui i bambini assumono le movenze degli adulti, la sequela di duetti tra l’alcolizzato e barcollante Elliot e l’audace nonna Wee Wee o il tutore tutto fare Duvan (Mpho Koaho), regalano gli unici guizzi del film, che purtroppo affoga i buoni propositi nella retorica e si rivela prevedibile ad ogni scena. Magra consolazione il fatto che il film si ispiri ad una storia vera.
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LA CASA DEL CINEMA
Fino a qui tutto bene, una lezione per Moccia La recensione AL CINEMA DAL 19 MARZO 2015
da Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
Cinque studenti, un appartamento, voglia di divertirsi, sogni infranti, incomprensioni e amore. No, non è il solito film di Moccia. Anzi, un film che quest’ultimo dovrebbe vedere e studiare per comprendere come sia possibile fare un film con questi elementi, come si possano utilizzare gli stereotipi senza per forza cadere nel patetico e nel banale, come una storia del genere possa divertire con intelligenza, essere resa sullo schermo in maniera verosimile e possa far riflettere in modo credibile sulle incertezze dell’Italia di oggi. Fino a qui tutto bene non è uno di quei film che sorprendono o segnano una stagione. Si tratta comunque di una commedia, sì piacevole, ma semplice e dagli sviluppi già visti. Ma a consentirle di elevarsi rispetto agli standard delle altre pellicole italiane riconducibili a questo universo narrativo, è
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il tono assolutamente disincantato in cui il giovane regista Roan Johnson avvolge il racconto. Le vicende degli ultimi tre giorni di convivenza di questi cinque giovani coinquilini in un appartamento di Pisa, sono infatti rappresentate senza iperboli, esagerazioni, scelte narrative che trascendano la dimensione del possibile. C’è una storia d’amore, ma non si scade mai nel melenso o nell’inserimento di gesti eclatanti; c’è manifesta la difficoltà economica del momento, ma non si finisce mai nella descrizione banale e ostentata dell’insoddisfazione giovanile; ci sono liti e incomprensioni, ma non i soliti siparietti dei tentativi di fare pace. Altro dato da non sottovalutare è la coralità della storia. Una coralità perfetta, gestita ed articolata da Johnson (sin in regia che in scrittura) senza preferenza su nessun personaggio, intrecciando senza sbavature le vicende personali dei cinque protagonisti e portandole a confluire in una storia unitaria e compatta. Questa capacità nel gestire la variegata materia narrativa è forse l’aspetto che più salta all’occhio vedendo Fino a qui tutto bene e questo era in fondo anche il pregio maggiore della sua precedente pellicola, il divertente e riuscito I primi della lista. Quel film, però, nonostante si ispirasse ad una storia vera, viveva dell’esasperazione dei caratteri dei suoi personaggi. Nel suo ultimo lavoro, invece, l’autore sceglie la strada del realismo, facendosi solo a tratti prendere la mano – rimane sempre una commedia e certi momenti sono necessari. In questo, fondamentale è l’apporto degli attori, che lasciano esplodere una naturalezza fuori dal comune. I giovani Paolo Cioni, Paolo Giommarelli, Alessio Vassallo, Guglielmo Favilla, Silvia D’Amico (già apprezzati comunque in altri film) sono una vera e propria scoperta. Speriamo che l’industria cinematografica se ne accorga. Così come speriamo possa concedere più spazio a Roan Johnson, futuro della nostra commedia.
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LA CASA DEL CINEMA
Foxcatcher,
la vera storia di John Du Pont La recensione AL CINEMA DAL 12 MARZO 2015
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
Dopo Capote e Moneyball – L’arte di vincere, il regista Bennett Miller firma un’altra pellicola tratta da una storia vera. In concorso al 67° Festival di Cannes, Foxcatcher si incentra sulla figura di John Du Pont, miliardario americano, componente della nota famiglia Du Pont, titolare dell’omonima e importantissima azienda chimica. Ornitologo, concologo, filatelista, appassionato di sport, come lui stesso amava definirsi, Du Pont ci ha lasciato quattro anni fa, mentre stava scontando in carcere la pena per l’uccisione dell’ex campione di lotta olimpica Dave Schultz. Il film porta sullo schermo le vicende che hanno preceduto questo omicidio, cercando di fare luce su una tragedia mai definitivamente motivata e spiegata. All’inizio Foxcatcher ha le sembianze di uno sport-movie, ma gradualmente diventa un disperato dramma in cui l’elemento sportivo è esclusivamente funzionale all’evoluzione emotiva e psicologica dei personaggi. Con il suo consueto stile, mai retorico né manieristico, apparentemente freddo e distaccato, Miller scruta nelle dinamiche umane che si instaurano tra i tre protagonisti. Parte da Mark Schultz, anche lui campione del wrestling, e dal suo rapporto con il fratello Dave; poi si sposta su Du Pont, entrando nella sua “dimora”, nel suo stile di vita, nella sua latente omosessualità, nella sua complessa, per non dire malata, relazione con la madre; ed infine mette insieme le tre figure, creando un triangolo di ossessioni, di paure, di incertezze, di sentimenti mai espressi, di cadute fragorose, di prese di coscienza dolorose.
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Con un climax coinvolgente, Miller ci introduce in un vortice di tentazioni, studiando come l’animo umano possa essere sopraffatto dal potere e possa rimanere incastrato nell’ansia di successo, di benessere, di ricchezza. A differenza di un film come Moneyball, in cui la parola era mezzo necessario al fine di una narrazione chiara e non ellittica, qui l’autore decide di prediligere i silenzi, la fisicità, gli sguardi. E’ attraverso le espressioni del viso, i movimenti del corpo, gli occhi pieni di lacrime o persi nel vuoto che lo spettatore riesce a comprendere i sentimenti e le emozioni dei personaggi. E il merito di questo risultato lo si deve ovviamente anche agli interpreti. C’è un Mark Ruffalo che gioca di sottrazione e che in questo modo sa infondere di naturalezza il suo Dave; troviamo un Channing Tatum sorprendente nel ruolo di Mark, capace di improvvisi cambi di tono ed imprevedibili sfumature; ma soprattutto uno Steve Carell monumentale nella parte di John du Pont. Aiutato senza dubbio da un trucco che ne stravolge l’aspetto, il comico americano sparisce completamente dietro il suo personaggio, illuminando lo schermo per profondità e verità.
COLONNE SONORE
Senza Lucio,
tre anni di vita senza Lucio Dalla AL CINEMA DAl 1 MARZO 2015
di Marco Goi per Oggialcinema.net
Senza Lucio non è il classico film documentario che ripercorre la carriera di un artista. Come dice il titolo stesso, Senza Lucio si propone più che altro l’obiettivo di scavare nel vuoto che la scomparsa di Lucio Dalla ha lasciato. Nel mondo della musica, così come nella vita delle persone che sono state al suo fianco. La pellicola documentario diretta da Mario Sesti è uno sguardo rivolto al grande cantautore bolognese visto attraverso gli occhi dell’amore, quelli del suo compagno Marco Alemanno, che accompagna la visione in veste di voce narrante. Un tipo di approccio a una storia biografica che ricorda quello del recente La teoria del tutto, il biopic sulla vita del geniale Stephen Hawking tratto da un romanzo scritto dalla sua ex moglie Jane Wilde Hawking, nonostante in quel caso non si tratti di un lavoro documentaristico. All’interno di Senza Lucio trovano spazio le voci di vari colleghi e artisti che nel corso degli hanno avuto a che fare con Lucio Dalla, come Renzo Arbore, i fratelli Taviani, Isabella Rossellini e Toni Servillo, ma anche guest star internazionali come Paolo Nutini, Charles Aznavour e John Turturro. Un’occhiata attenta è però gettata dal regista Mario Sesti anche nei confronti dei paesaggi, dalla Puglia all’Etna, e di quella natura tanto amata da Lucio Dalla. Molto ridotta invece la presenza in video di Marco Alemanno, a voler sottolineare la natura privata della loro relazione, così come in generale del carattere parecchio riservato di Lucio Dalla. Tra le chicche che saranno particolarmente apprezzate dai fan del cantautore vi sono poi un video raro di Lucio Dalla in versione clarinettista jazz, oltre a un sacco di foto inedite scattate dallo stesso Alemanno. Distribuito nelle sale a tre anni di distanza dalla scomparsa del cantante, Senza Lucio è quindi un documentario biografico che risulta poco convenzionale, capace di emozionare in maniera singolare, proprio come la musica di Lucio Dalla.
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COLONNE SONORE
Queen Rock Montreal,
il film concerto della band di Freddie Mercury AL CINEMA DAl 16 MARZO 2015
di Marco Goi per Oggialcinema.net
Queen Rock Montreal è l’occasione per rivivere all’interno della sala cinematografica l’atmosfera di un concerto della band capitanata da Freddie Mercury. Il film documentario arriva nelle sale italiane soltanto per tre giorni, il 16, 17 e 18 marzo. Arriva, o forse sarebbe meglio dire torna. Queen Rock Montreal non è infatti una novità assoluta. La storica esibizione che il gruppo britannico ha tenuto in Canada al Forum de Montréal il 24 novembre 1981 è un doppio album nonché un DVD già pubblicato nel 2007. Quello di Montreal è il primo concerto filmato interamente in 35mm e ora approda nelle sale italiane in una nuova scintillante versione rimasterizzata in UltraHD, con tanto di surround sound. Un’occasione unica allora per godersi il concerto in una qualità alitissima sia da un punto di vista sonoro che visivo, ma anche l’opportunità per vedere i Queen all’apice della loro popolarità mondiale e pure della loro forma musicale, a cavallo tra le leggendarie hit degli anni Settanta e le nuove sperimentazioni degli anni Ottanta. Queen Rock Montreal contiene al suo interno tutte le hit più memorabili di Freddie Mercury, Brian May, John Deacon e Roger Taylor, da “Somebody to Love” ad “Under Pressure”, da “Crazy Little Thing Called Love” a “Another One Bites the Dust”, fino ad arrivare a “Bohemian Rhapsody”, “We Will Rock You” e “We Are the Champions”, brani che siamo sicuri riusciranno a trasformare le sale cinematografiche in cui saranno proiettati in veri e propri stadi pieni di gente che canta in coro. Per quanto il live in questione non sia inedito e per quanto dei Queen siano stati realizzati anche altri film-concerto come Hungarian Rhapsody: Queen Live In Budapest, che nel 2012 aveva fatto registrare 80.000 presenze nelle sale italiane, l’appuntamento nei cinema con Queen Rock Montreal è comunque da non mancare per tutti i fan più accaniti di Freddie Mercury e soci. Un appuntamento per poter vivere, anzi rivivere, in compagnia una delle performance più epiche nella storia della band.
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LA CASA DEL CINEMA
CENERENTOLA. E lo chiamavano «sesso debole».. AL CINEMA DAL 12 MARZO 2015
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
“I sogni son desideri chiusi in fondo al cuor” cantava ben sessantacinque anni fa Cenerentola nel celebre cartoon divenuto un blockbuster ante litteram grazie al genio e al coraggio di Walt Disney che investì nel film una cifra che avrebbe potuto far fallire gli studi e invece li consegnò al trionfo. Nel 2015 evidentemente a quel sogno si crede ancora. In casa Disney hanno infatti deciso di portare in sala i classici animati di un tempo con Cenerentola prossimo titolo della Major. Cinderella vedrà Kenneth Branagh alla regia e Chris Weitz in cabina di scrittura, con Lily James, Richard Madden, Cate Blanchett ed Helena Bonham Carter protagonisti. A confermare la tendenza che le favole funzionano ancora ma non sono più appannaggio dell’animazione bensì del live action (meglio se con molta azione e possibilmente virati verso atmosfere gotiche). Così, dopo la doppia Biancaneve (quella in forma di commedia di Lily Collins e Julia Roberts e quella decisamente più dark e riuscita di Kristen Stewart e Charlize Theron) e la Malefica di Angelina Jolie (terzo incasso dell’anno in Usa e miglior risultato di sempre della Jolie) molte altre eroine Disney escono dal disegno e il confronto carta - carne e ossa diventa inevitabile. Il 12 marzo avremo la Cenerentola di Kenneth Branagh con l’attrice di Downton Abbey Lily James nei panni dell’orfanella che sogna il principe azzurro. L’autorevole matrigna ha i lineamenti di Cate Blanchett. Duri quel tanto che basta per fare di lei il polo attrattivo della pellicola in uscita, ultima in linea temporale a cambiare le regole dei più tradizionali giochi. La zucca, la scarpetta e i topolini, gli ingredienti della storia ci sono tutti. La sensazione è che il regista inglese sia stato molto fedele all’iconografia disneyana: c’è il vestito celeste, la scarpetta di cristallo, i rintocchi della mezzanotte, la zucca che diventa cocchio e i topolini. C’è l’abito (rosa) strappato, le sorellastre, la matrigna e naturalmente la madrina, forse il personaggio che più si discosta dall’originale cartoon. E’ Helena Bonham Carter il cui aspetto esteriore oscilla tra la mostruosità della strega e l’esuberanza di una fata tutta boccoli d’oro e tulle argentato.
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E poi naturalmente c’è il principe interpretato da Richard Madden, reduce dal grande successo tv de Il trono di spade. “E’ impossibile pensare a Cenerentola senza ricorrere a Disney e alla sue immagini senza tempo con le quali siamo cresciuti, momenti irresistibili per un cineasta” aveva dichiarato Branagh all’inizio della lavorazione del film. E la sensazione, ma sarà solo il film a confermarlo o a smentirlo, è che a quell’immaginario Branagh si sia piegato diligentemente. Quello che colpisce incredibilmente di queste favole in stile revival è l’importanza del ruolo della cattiva, della strega, della matrigna, appannaggio di icone che hanno ben più carattere e valenza delle candide protagoniste. Cate Blanchett si unisce alla perfida schiera di antieroine disneyane in carne, ossa e platform come matrigna cattiva di Cenerentola. Laddove un tempo a sostenere i classici Disney non vi erano che eroine buone, dotate di una voce così vellutata da indurre al silenzio persino gli usignoli, troppo stereotipate, tutte belle e ben vestite, in alcuni casi non proprio sveglissime e in altri decisamente antipatiche, ora ci sono mostri di cattiveria mistificati dietro i visi più belli che Hollywood abbia mai plasmato. Proprio per questo connubio di potere e malvagità, affascinano. Sin da bambine, senza rendercene conto, siamo cresciute con l’idea del lieto fine. Altro che mela avvelenata: i bocconi che abbiamo mandato giù sono stati ben più subdoli. Nessuno all’epoca ha specificato che i fatti, le persone, i colpi di fortuna, non sono realmente accaduti e sono frutto di una fervida immaginazione che non trova riscontro oggettivo nella realtà. Nessuno ci ha stroncato al momento, informandoci che la vita è tutta un’altra storia. Ci hanno lasciato agonizzare per anni. Non solo ci hanno illuse che il grande amore arriva a cavallo, ma ci hanno fatto credere che è necessario ispirarsi alle scialbe protagoniste piuttosto che mirare alla tenacia dell’antagonista. Come no. Solo oggi, con una nuova coscienza e anni di esperienza, possiamo affermare con coraggio, meglio la strega che Biancaneve. Tra mele avvelenate e sortilegi, furti di cuccioli dalmata e spietate condanne a morte, sono il prototipo della cattiveria, la personificazione del male, ma sono loro ad insegnarci le vere regole del gioco. In onore della malvagia villain, rispolveriamo l’allure eccentrica e affascinante, di tutte le cattive Disney alle quali oggi potersi ispirare. Tenendo a mente che nella vita come nei film, sono le cattive ad avere il più alto tasso di fascino.
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Julia Roberts. Anche lei cattiva nei panni della Regina di Biancaneve, seriamente determinata ad uccidere la ragazzina pur di mantenere il titolo di più bella del reame. Il film, uscito nel 2012, ha incassato 63 milioni di dollari solo in territorio americano. La più divertente del reame. Perché l’ironia, udite udite, è l’arma più tagliente. Charlize Theron. La meravigliosa Regina Cattiva di Biancaneve e il Cacciatore, uscito nel 2012 per rimarcare la rivalità tra 01 Distribution e Universal, ha battuto la Roberts assicurando alla pellicola un incasso di 152 milioni di dollari solo negli Usa. Dark Lady. In Christian Dior. Angelina Jolie. Zigomi a punta, labbra come il fuoco e occhi cerulei, Angelina Jolie è perfetta per dare vita alla Malefica de La Bella Addormentata nel Bosco. Non per niente, Maleficent (2014) ha raggiunto la soglia dei 238 milioni di dollari incassati solo negli Stati Uniti. Sublime icona appena uscita da una vecchia ed indimenticabile sfilata del grande stilista Alexander McQueen. Cate Blanchett. Sarà lei, l’eterea Cate Blanchett, a dare nuova vita a Lady Tremaine, più nota come la matrigna cattiva di Cenerentola, nella pellicola firmata da Kenneth Branagh e pronta a debuttare nelle sale italiane il prossimo 12 marzo. Arguta arrampicatrice sociale.
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Glamour
La moda del 2015,
interpretata da Scarlett Johansson. di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
“Ho vissuto esperienze di ogni tipo, ho recitato ruoli in ogni decade, in ogni periodo storico e ho lavorato con ogni tipo di regista”. Scarlett lo ha affermato in un’intervista per Swide. com, il magazine online di Dolce&Gabbana. La relazione di Scarlett con il mondo della moda è molto stretta, sullo schermo come nella vita reale. L’attrice ha preso parte a campagne pubblicitarie per Mango, Louis Vouitton e altri grandi player all’interno dell’industria della moda. Ha collaborato inoltre con Estée Lauder e L’Oréal. La collaborazione più famosa è però forse quelle con Dolce&Gabbana, coi quali collabora da diversi anni. Nel 2013 è stata protagonista di una campagna ispirata agli anni Sessanta per la fragranza “The One”, diretta da Martin Scorsese, accanto a Matthew McConaughey. Ci siamo ispirati alla varietà dei costumi e dei personaggi da lei interpretati per fare un viaggio nella storia della moda e tracciare le macro tendenze della prossima stagione. Pronti a imbarcarvi nella macchina del tempo della moda e a passare in rassegna i 10 articoli più iconici e rappresentativi indossati da Scarlett Johansson all’interno dei suoi film e rievocati sulle passerelle della prossima stagione? Il corsetto L’altra donna del re. Maria Bolena. Il corsetto fu introdotto nel XIV secolo, ma assunse la forma che conosciamo solo nel 1500. Veniva portato sotto i vestiti, esaltava il seno e stringeva il busto. Corsetto sexy e trasparente, abbinato ad una gonna in pizzo, un outfit davvero sensuale. Scarlett Johansson ha scelto un look sexy per la prima del film “Captain American: The Winter Soldier”, l’ultimo episodio della saga dedicata al supereroe della Marvel. Visto in passerella: Dolce e Gabbana.
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Le perle La ragazza con l’orecchino di perla. Griet. Scarlett indossa le perle, nonostante faccia parte della servitù, perché il pittore Veermer vuole aggiungere luce al ritratto che sta realizzando. Le perle sono un must have di ogni tempo, un accessorio caro a Coco Chanel e Audrey Hepburn. Largo ai bijoux maxi e alle collane lunghe, nella primavera 2015 vedremo il grande ritorno delle perle, ma anche degli orecchini pendenti, dei foulard ampi e delle frange. Scintilla femminile. Un esempio? Per incorniciare il viso con un tocco di femminilità raffinata, la linea di orecchini Dior si adorna di perle fini, oro bianco, rosa o giallo e cristalli sfavillanti. Visto in passerella: Chanel /Dior.
Cappellino The Prestige. Olivia Wenscombe. Negli ultimi anni del XIX secolo la moda era portare i capelli raccolti sul capo. L’acconciatura veniva impreziosita da un cappellino. Scarlett ne porta uno per buona parte del film. Uno stile on top chiede accessori all’altezza della situazione. Visto in passerella: Saint Laurent/ Issey Miyake .
Guanti Le seduttrici. Meg Windermere. Negli anni ‘30 i guanti si portavano corti in pelle di giorno, in set, lunghi fino ai gomiti, la sera. Oggi i guanti sono declinati in vari tessuti e possono essere rifiniti con borchie, frange e pietre. Le passerelle lo hanno decretato chiaramente: l’Autunno Inverno 2014/2015 è la stagione della cappa. Con i guanti lunghi, of course. Che diventano l’accessorio must have di stagione, da collezionare in più colori e da acquistare anche in varianti luxury, con applicazioni gioiello per serate speciali. Uno stile da trendsetter da riproporre anche in primavera. Visto in passerella: Christian Dior /John Galliano
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Rossetto Rosso
La parrucca Black Dalia. Kay Lake. L’imprenditrice Elizabeth Arden, durante la seconda Guerra Mondiale, fece del rossetto un simbolo di forza e tenacia. Durante gli anni ’40, il 90% delle donne americane portava rossetto rosso. Vanno sempre molto forte i rossetti chiari e naturali per le labbra ma rimarrà sempre di moda il rossetto rosso, così anche per la primavera estate 2015. Visto in passerella: Burberry / Christian Dior
Cintura a vita alta
Lost in translation. Charlotte. Nella Francia del XVIII secolo la parrucca divenne un modo per indicare il proprio status sociale. In quest’epoca le donne iniziarono ad utilizzare oggetti eccentrici come questi. Oggi, tra le strade di Tokyo è possibile incappare in giovani che indossano parrucche colorate. E’ comunque un tratto caratteristico di chi abbraccia la cultura del cosplay. Indimenticabile la scena del karaoke tratta da Lost in Translation. Come dimenticare l’ondeggiante parrucca rosa e lo scambio di sguardi con Murray? Visto in passerella: Moschino. Occhiali tondi
Hitchcock. Janet Leigh. La donna tipo degli anni ‘50 aveva una forma a clessidra. Gli stilisti utilizzavano le cinture proprio per enfatizzare il punto vita. Stile e classe in passerella, molto vintage style. Visto in passerella: Alberta Ferretti.
Salopette L’uomo che sussurrava ai cavalli. Grace MacLean. Scarlett ha iniziato a recitare da bambina, ma il film che l’ha portata all’attenzione di tutti è stato probabilmente L’uomo che sussurrava ai cavalli, girato quando aveva meno di 15 anni. La salopette è uno dei simboli degli anni ‘90, tornata in auge recentemente. E’ stata indossata per esempio da Alexa Chung. Discriminata per lungo tempo e associata solo ad un outfit premaman, ecco che lascia tutti a bocca aperta e torna in voga, da abbinare a gioielli vistosi, tacchi alti e piccole pochette. Un capo dedicato a chi ama osare, rivisitato in seta, pelle e materiali eco. Visto in passerella: Agona Resort.
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Scoop. Sondra Pransky. Utilizzati per la prima volta nel medioevo. Poi Lenin, Marx, Gandhi. Ma è solo negli anni ‘60 che grazie a John Lennon gli occhiali tondi diventarono popolari. Oggi sono un must per chi ha uno stile boho chic. Gli occhiali da vista da intellettuale sono la nuova mania, un accessori cult che gioca sempre più un ruolo da protagonista. Basta buttare un occhio ai backstage delle sfilate! Potendo scegliere anche le modelle optano per gli iconici occhialini tondi. Visto in passerella: Prada. Total white The Island. Sarah Jordan. Il bianco viene utilizzato per rappresentare la moda del futuro. Ad esempio Jean Paul Gautier si occupò dei costumi del film “il Quinto Elemento” nel ‘97 e fece largo uso del bianco. Se molti in inverno sognano il mare, c’è chi d’estate vorrebbe la neve: ma solo per rubarne il candore, rifugiandosi in quella sensazione di ovattata freschezza. Visto in passerella: Zac Posen/ Mila Schön.
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Savage Beauty, il sublime come esaltazione dell’esperienza emotiva. di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Nel 2011, l’anno successivo alla sua morte, gli fu dedicata una retrospettiva al “Met” di New York, diventata una delle mostre più popolari nella storia del museo, con oltre 660mila visitatori. Oggi l’omaggio a McQueen avrà luogo nel suo paese d’origine. Sedici mila biglietti per la mostra “Savage Beauty” di Londra sono già stati venduti. Questa parabola sarà illustrata dal 14 marzo al 19 luglio 2015 attraverso i 200 capi e oggetti in esposizione, sul filo conduttore di alcuni temi ricorrenti come il “sartoriale sovversivo”, i giochi di luci e ombre, le ispirazioni tratte dal mondo animale e naturale, la commistione fra artigianalità e tecnologia. La sua ossessione per i costumi storici lo portò spesso al “Victoria and Albert Museum“. Qui tornerà, stavolta non per osservare, ma per essere osservato. Lo stesso team formato da Sam Gainsbury e Anna Whiting ha riprogettato la mostra “Savage Beauty”, arricchendola di nuovi elementi, rispetto all’esordio americano, in grado di raccontare anche i primi anni di ‘Lee’, quando il figlio di un tassista scozzese e di una maestra affinava la sua leggendaria capacità di tagliare tessuti con mano sicura a Savile Row, tempio della sartoria maschile inglese, prima di andare a lavorare da Romeo Gigli a Milano per poi tornare a Londra e diplomarsi alla Central Saint Martins, fucina di talenti della moda britannica e internazionale. La carriera di McQueen, che dal 1996 al 2001 è stato direttore creativo di Givenchy, è stata segnata dalle collaborazioni con musicisti del calibro di David Bowie e Björk, e dalla presenza di assistenti e amiche fidate come Isabella Blow, la stylist dalle mises incredibili che lo ha lanciato, e Sarah Burton, che dal suicidio dello stilista ha preso le redini del gruppo e lo sta portando avanti con successo, come dimostrato dal fatto che è stata lei a disegnare il vestito da sposa della Duchessa di Cambridge.
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Alexander McQueen
Si preannuncia come la più grande mostra della primavera 2015. Londra celebra il talento selvaggio del suo figlio più geniale, Alexander McQueen. Non è possibile ridurre la sua vitalità con l’etichetta di stilista, perché McQueen era un vero artista e ogni defilée una performance. Si esponeva, in modo temerario. La passerella era l’attimo liberatorio per esprimere la sua dirompente creatività. Il Victoria & Albert Museum, definito dallo stesso McQueen “il tipo di posto in cui vorrei rimanere chiuso di notte”, porterà nella capitale britannica ‘Savage Beauty’, una mostra che ha già fatto il tutto esaurito negli States.
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McQueen ha sempre affermato la propria natura di performance artist, motivo per il quale per molto tempo non mise in vendita le sue creazioni. La sua missione non era produrre vestiti. La moda, come lui stesso aveva dichiarato, era solo un mezzo. L’introspezione, l’osservazione degli elementi naturali e l’idea di meraviglia davanti all’immenso sono gli elementi che caratterizzano il suo mondo. Il Romanticismo è la finestra da cui lo osserva. Celebrato per il suo straordinario talento creativo che ha combinato con una conoscenza profonda della sartoria, con l’eclettismo e la sfida continua ai confini dell’arte e della moda, fondendo le più moderne tecnologie con la tradizione artigianale.
Veri e propri spettacoli di teatro e d’arte nati dall’intelligenza sfrenata di una persona mancata troppo presto. Proclamato ben 4 volte “Best british designer”, Alexander McQueen ha sempre spinto l’acceleratore della creatività all’eccesso. Pensate alle leggendarie scarpe “Armadillo”, con il tacco da 20 a 30 centimetri e la forma definita pericolosa da molte modelle. Ogni sfilata dello stilista inglese appariva come una provocazione, nelle forme e nei colori, così come nella scelta delle location, drammatiche e stravaganti, in perfetto equilibrio tra performance teatrale, musicale e cinematografica. Un’enorme stanza della galleria sarà dedicata alla ricostruzione di “Pepper’s Ghost”, ologramma spettrale di Kate Moss che apparve come gran finale della sfilata McQueen del marzo 2006, avvolta in un abito di ondeggiante di organza. L’obiettivo della retrospettiva è raccontare come il pensiero di Alexander McQueen sia sempre stato avido di nuova linfa. Prendendola dalla storia, dai paesi del mondo, dalla natura. Proprio come uno spirito romantico: continuamente a caccia d’ispirazione e originalità. Il mondo di McQueen è ancora intrappolato tra due binari paralleli. Tra esaltazione e oblio. Con fare surrealista l’artista arriva ad annullarsi. Nel caso di McQueen, il suo estro indelebile è delegato alle sue meravigliose bellezze selvagge.
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Alexander McQueen
Tra le altre creazioni di McQueen in mostra al V&A ci sono anche una giacca stampata della collezione “It’s a Jungle Out There” del ’97 e un abito a campana impreziosito da cristalli brillanti del 2009. Questa sarà la più ricca raccolta di pezzi disegnati dallo stilista e collaboratori finora mai vista, a partire dalla raccolta post-laurea del 1992 di McQueen alla Central Saint Martins School fino ai suoi disegni finali per la sfilata a/i 2010, anno della sua scomparsa. In mostra gli splendidi e al contempo bizzarri stivali con plateau e gli abiti con stampe digitali creati per la collezione Plato’s Atlantis del 2010. Un viaggio che sfuma i confini tra arte e moda. Tra mondi incantati, creature infernali e una ricerca che va oltre l’abito. Se da una parte le sue creazioni sono l’esplosione primordiale di astrazione e istinto, dall’altra è impossibile non rimanere colpiti dalla costruzione sartoriale quasi architettonica.
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LA CASA DEL CINEMA
10 cose
che amo di Joseph. di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
La Mecca del Cinema lo ha già designato come “il Robert De Niro del Nuovo Millennio”, ma i suoi tratti somatici orientaleggianti, uniti a quello charme schivo e seducente, lo rendono decisamente più simile al tormentato Keanu Reeves. Incluso nel circolo dei nuovi “brain bunch” di Hollywood (ovvero “gli intelligenti”), insieme a James Franco, Tom Hardy, Jesse Eisenberg e Michael Fassbender, compare regolarmente nelle classifiche degli uomini meglio vestiti e sulle copertine delle riviste maschili. Joseph Gordon Levitt non è soltanto uno degli attori giovani più lanciati di Hollywood («Inception», «Looper», «Don Jon») ma un vero trendsetter. Prendete appunti.
1. Gentleman sotto i riflettori. Se pensate che sia facile essere eleganti in giacca e cravatta, vi sbagliate di grosso. Anche tra gli uomini, c’è chi è più chic e chi invece appare evidentemente non a suo agio con il completo, preferirebbe essere altrove e soprattutto vestito diversamente. E poi, c’è completo e completo: non è facile osare con i tessuti e modellare il fitting senza sfiorare il ridicolo. Insomma, ci vuole una classe innata. Sul red carpet, Joseph alterna smoking impeccabili ad abiti slim fit (spesso tre pezzi). Alexander Mc Queen, Calvin Klein, Armani: questi i suoi stilisti preferiti.
3. Il dettaglio fa la differenza. La spilla della coalizione di artisti alla quale appartiene (la HitRecord). Un tocco di colore esuberante. Una gioia per gli occhi e lo spirito. 4. Per indossare un certo vestito bisogna avere personalità e saperlo portare; se ti fai dominare dall’abito, il risultato non sarà per niente positivo. L’importante è scegliere un outfit il più semplice e minimal possibile: pochi trattamenti e rotture della superficie. Le texture audaci possono essere la variazione sul tema.
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Joseph Gordon
2. A volte ritornano: per la prossima stagione domina lo stile formale, con un tocco sofisticato. La moda uomo sarà caratterizzata da couture dal taglio sartoriale. Joseph Gordon Levitt trasuda fiducia in abiti esigenti con toni tenui e linee pulite. Un esempio? Abito blu scuro, camicia bianca, cravatta a pallini o con disegni geometrici. Ispiratevi alla sua allure per interpretare un mood classico contemporaneo.
Glamour
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5. Virile e, sensuale, ma con un sottofondo di dolcezza: parte da qui il nuovo concetto di bellezza maschile firmata Giorgio Armani, che durante l’ultima giornata di sfilate di Milano Moda Uomo esprime in passerelle una nuova visione dell’estetica contemporanea. Stufo del nero-batman, il giovane Gordon Levitt opta spesso per un look ton sur ton. Torna l’idea della camicia scura con cravatta scura. L’azzardo indovinato? La sottile cravatta e il piccolo dettaglio alla giacca rosso. Eccentrico anticonformista. 6. Principe urbano. Il regista e attore si mostra alla Berlinale con jeans, giacca e camicia tartan: un look ricercato e non troppo casual. In equilibrio tra romanticismo e spirito rock. In bilico tra formale e sporty. 7. E’ l’anno dell’uomo dandy. Rilassato e senza tempo, nel quale si riflette il Bob Dylan degli anni Sessanta su un letto di malinconiche foglie autunnali è l’uomo sulle passerelle della moda milanese. Una chicca? Il fermacravatta e fazzoletto da taschino. Amarcord vissuto con spirito avantgarde. 8. Ci vuole un fisico bestiale. Ma soprattutto faccia da bravo ragazzo, sorriso sereno, incastonato tra due fossette scolpite. Fate del vostro meglio. 9. Un artista in viaggio, che incappa in materiali preziosi, un uomo alla ricerca di avventure (sentimentali?) e scoperte (cinematografiche?): dal cashmere al visone, passando per il cuoio, declinati in una palette di colori che esalta le sfumature del grigio metropolitano per evolversi in marroni, tocchi di carta da zucchero, e qualche accenno di bordeaux. Questo il guardaroba della prossima stagione. Oscar per migliore interpretazione? Il favoloso abito in velluto di Alexander McQueen sfoggiato con la giusta attitudine, come insegna Gordon Levitt. Must have? Le stringate di vernice.
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Joseph Gordon
10. Infine, lanciate messaggi subliminali. Con le tshirt stampate. Sdoganate dall’abbigliamento intimo dei marinai americani della Seconda guerra mondiale, da questo momento in maglietta bianca si potrà andare anche sul red carpet. Se avrete occasione.
SPECIALE Serie tv
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THE HONOURABLE WOMAN,
Le onorevoli bugie della vita. di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
“Di chi ti puoi fidare?” è il refrain con cui inizia ogni episodio di The Honourable Woman, la serie targata BBC che segna il debutto televisivo di Maggie Gyllenhaal, un altro volto di Hollywood prestato al piccolo schermo. La perfetta recensione sta in un tweet d’un ex giornalista del Times: «Il punto di The Honourable Woman è che non abbiamo la più pallida idea di cosa stia succedendo. Un po’ come in Medioriente». Non ne hanno idea gli spettatori, che guardano i colpi di scena e le sottotrame ammassarsi, e appena sono convinti d’aver capito un segreto scoprono che era un frammento d’un mistero più complesso. La prima puntata è fatta soprattutto di sensazioni: ansia e pericolo, accompagnate da una solitudine esistenziale. The Honourable Woman è una serie minimale, rarefatta, lontana da Homeland, punta tutto sullo stile e su un’aura di autoralità innegabile. Ci sono le spie, ci sono i politici, c’è la diplomazia, c’è la geopolitica; non ci sono i cliché che abbiamo già visto mille volte. La purtroppo sempre attuale guerra Israelo-Palestinese, fa da sfondo a questo thriller politico, rinunciando a semplificarla, e riuscendo anzi a dare un’idea della sua enorme complessità: soprattutto umana, oltre che politica. Il New York Times giudica positivamente l’imparzialità di una sceneggiatura “scevra da provocazioni” in cui buoni e cattivi esistono da entrambe le parti, mentre per il Guardian “autenticità” e realismo affrancano la serie da qualsiasi pregiudizio. L’attenzione allo scotto emotivo del conflitto è dichiarata già nel titolo. Honorability, traducibile con “onestà” e “dignità”, è il principio sensibile che, dichiara la produzione, manca ai dossier e ai resoconti tattico-strategici che riceviamo dalla regione. E si evince nella figura della protagonista, Nessa Stein, baronessa inglese e figlia di uno dei maggiori tycoon dell’industria degli armamenti israeliana, che si trova coinvolta in un intrigo politico che mette a repentaglio la sua carriera e famiglia. Lei, donna d’affari compassionevole, si ritrova molto spesso ad assumere le sembianze di una pedina, inevitabilmente. Tra bombe, check-point, imbrogli, sequestri di persona, assassini, tradimenti, sensi di colpa e colpi di scena, si riflette sullo stato attuale dell’impasse in Medio Oriente, riuscendo a risvegliare interesse e compassione per le conflittualità lontane. Più di una volta si smette di respirare dalla tensione. Merito dei due attori formidabili, Stephen Re, ma soprattutto Maggie Gyllenhaal, una sorta di icona del cinema
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indie mondiale. Del resto la Gyllenhaal respira aria di cinema da quando è venuta al mondo: suo padre Stephen è uno stimato regista, la madre Naomi Foner una scrittrice e sceneggiatrice e il fratello minore, Jake, un interprete di successo. Sono in tutto otto episodi, declinati in una prospettiva privata dal ritmo lento che più che lavorare sui fatti scava nelle emozioni che questi provocano nei protagonisti. Raffinato, elegante, grigio, fatto di molti momenti di solitudine accompagnati da una colonna sonora di tutto rispetto (i Radiohead, a un certo punto) per un lavoro basato principalmente sull’atmosfera. «Di chi ti fidi? Come fai a deciderlo? Da quel che dicono? Dall’aspetto che hanno? Da quel che fanno? Da come lo fanno? Tutti abbiamo dei segreti. E tutti diciamo bugie. Per tenere quei segreti al sicuro dagli altri, e da noi stessi. Qualche volta, raramente, può accadere che qualcosa non ti lasci altra scelta che svelare il segreto. Mostrare al mondo chi sei davvero. Il tuo io nascosto. Ma, perlopiù, mentiamo. Teniamo al riparo i nostri segreti: dagli altri, da noi. Il modo più semplice per riuscirci è non sapere neppure noi chi siamo. Da questo punto di vista, è incredibile che riusciamo a fidarci di qualcuno». Il monologo di Nessa Stein apre ogni puntata, alle parole quasi non presti più attenzione, è suono senza senso come le preghiere recitate da piccoli. E invece. Saggiamente, il New York Times l’ha paragonata ad un romanzo di Le Carrè.
THE FACE
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Kevin Spacey.
La beffa più grande del Diavolo è stato convincere che non esiste di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
“La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste”. Parole di Roger “Verbal” Kint. Anno di grazia 1995, l’anno che ha fatto conoscere al mondo Kevin Spacey: Verbal Kint ne I soliti sospetti e John Doe in Seven. Il Diavolo, probabilmente: in entrambi i film Spacey rappresentava il Male. I suoi due villain da antologia sceglievano di apparire in modo opposto. Il primo mimetizzandosi, mistificando, nascondendosi in un uomo apparentemente insignificante. Il secondo esibendosi,
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scegliendo lo show, facendosi annunciare da efferate uccisioni ad effetto prima di manifestarsi direttamente alla stazione della polizia che lo stava cercando. Prima del gran finale, i minuti che il suo John Doe passa in macchina con i poliziotti Somerset e Mills ci tiene inchiodati, ci riempie di paura. È ammanettato, è separato da loro da una griglia. Eppure parla, non dice cose a caso. E ci guarda, con quegli occhi. Sappiamo che è pericoloso, anche se pare sotto controllo. Il Diavolo può tutto. E così sarà.
THE FACE
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Quei due personaggi non sono più usciti dal nostro immaginario collettivo. E neanche dal mondo di Spacey. Nella sua carriera tutto torna. La camminata claudicante e insicura di Verbal Kint è in fondo quella di Frank Underwood, il grande protagonista della serie tv House Of Cards, che ha regalato nuovamente a Spacey un grande ruolo che merita. E che il cinema ultimamente non aveva più saputo dargli. Anche Underwood, come il Diavolo, ha convinto il mondo di non esistere: la serie inizia mentre lui è un deputato della Camera degli Stati Uniti, è il capogruppo della maggioranza. Non uno che appare, ma uno che tira le fila. Sempre in secondo piano, sempre senza apparire, Frank scala le gerarchie fino a diventare il Presidente degli Stati Uniti. Il gioco di House Of Cards (prodotta da quel David Fincher che lo lanciò in Seven) è palese, ed è rivolto proprio a noi che guardiamo: Frank parla guardando in macchina, si rivolge proprio a noi. La sua scelta è svelarci gli intrighi della Casa Bianca, della politica e del potere, renderci partecipi, complici. Come in ogni gioco della politica, cosa che Frank sa fare benissimo, ci ha proposto uno scambio: lui ci svela i segreti, in cambio del nostro appoggio. Sì, perché se nella realtà, o anche in altri film, tiferemmo contro un personaggio del genere, e a favore di chi cerca di incastrarlo, qui siamo sfacciatamente dalla sua parte. Per lo stratagemma che vi abbiamo detto. Ma anche perché, pur con modi da condannare, è uno che fa le cose. E forse perché un po’ di cattiveria e ambizione risiedono in tutti noi. Siamo tutti Frank Underwood. Il suo Frank permette a Kevin Spacey di realizzare cose che agli altri suoi personaggi non era concesso. Per esempio, una relazione con una donna molto più giovane, la giornalista Zoe Barnes, interpretata da Kate Mara: una cosa che il suo Lester Burnham, il protagonista di American Beauty di Sam Mendes (Oscar come miglior attore protagonista, dopo il non protagonista vinto per I soliti sospetti), si poteva solo sognare, mentre immaginava la lolita Mena Suvari, compagna di scuola della figlia, cosparsa di petali di rose rosse. Spacey fu voluto fortemente da Mendes, mentre la Dreamworks proponeva attori di grido come John Travolta, Kevin Costner o Bruce Willis. È un ruolo insolito, nella carriera di Spacey, quello di un perdente, di un frustrato. “Generalmente interpreto personaggi molto furbi, manipolativi e intelligenti” dichiarò Spacey. “Di solito io mi muovo nell’oscurità, in una sorta di acque pericolose. Qui invece si tratta di un uomo che vive un passo alla volta, agendo d’istinto. È questa in realtà una parte molto più vicina a me, per il mio modo di essere, rispetto alle altre”. Ispirato alle movenze “grossolane e comiche” di Walter Matthau, ma anche al Jack Lemmon de L’appartamento (a cui dedicò l’Oscar), Lester Burnham vede nel film cambiare il proprio fisico da flaccido a tonico (l’attore dovette cambiare spesso la propria postura, visto che il film non venne girato in ordine cronologico), grazie a lunghi allenamenti al vogatore. Proprio quell’attrezzo che Claire, sua moglie, regala a Frank Underwood in House Of Cards, per renderlo più atletico, e a cui, per amore (o per timore?) Frank si dedica ogni sera al piano inferiore della propria abitazione. Anche Lester, come Frank, in American Beauty ci ha conquistati subito grazie al suo rivolgersi a noi in voce off. Confidandosi.
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E forse la chiave della grandezza di Kevin Spacey, e dei suoi personaggi, è proprio questa: l’umanità. Codardi e perdenti, o spietati e vincenti, i suoi personaggi si aprono a noi. Ci dicono le loro ragioni. Il resto lo fa l’attore. I suoi sguardi liquidi, melliflui, taglienti, quel modo di guardare dal basso verso l’altro.Il sorriso dolciastro e suadente che in pochi istanti può mutare in ghigno beffardo, che si fa largo tra le due gote scavate che sono il suo marchio di fabbrica. Come il suo Frank Underwood, Spacey è terribilmente attento a ogni aspetto, anche mediatico, della sua carriera e della sua vita. Sin da quando convinse Fincher a non inserire il suo nome nei titoli di testa di Seven per non rovinare l’effetto sorpresa del suo ingresso in scena. Per arrivare alla sua vita privata, di cui ha fatto sempre trapelare poco o niente. Ma non ci occorre sapere molto di lui. Ci bastano i suoi personaggi. “Se guardo agli ultimi dieci anni, dove ho recitato ogni anno in teatro, mi piace pensare questa decade mi abbia reso un attore migliore. Tutto questo lavoro mi ha preparato a lavorare nel miglior modo possibile, e sono convinto che se non avessi fatto tutto questo, non sarei stato pronto per una cosa come House Of Cards”. “Ammiro così tanto Woody Allen. Ero arrivato a un punto che, ogni volta che annunciava un nuovo film, non riuscivo mai ad avere un’audizione né c’era qualcuno che mi avvisasse. Così ho deciso di regalargli un abbonamento a Netflix perché vedesse House Of Cards. Mi ha risposto, mi ha ringraziato e mi ha detto di aver visto molti miei lavori, e che mi avrebbe tenuto in considerazione per i prossimi film”. “Sono abituato al fatto che la gente pensi che io sia pazzo. E lo sapete? Amo questa cosa”. È THE FACE del mese di marzo perché: il suo Frank Underwood, protagonista di House Of Cards, la cui terza stagione è appena partita su Sky Atlantic, è uno dei personaggi del momento. E regala al grande attore uno di quei ruoli da villain che forse il cinema non gli dava più.
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dietro la maschera. LA MOSTRA DI ANDY GOTTS
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Come un reporter sportivo, che in una frazione di secondo deve raccontare l’intera competizione, Andy Gotts svela l’anima di star internazionali e attori emergenti. Da Scarlett Johansson a Brad Pitt, diverse celebrità si sono lasciate immortalare abbandonandosi davanti all’obiettivo come se fosse uno specchio, giocando con le proprie espressioni. Siamo abituati ad ammirarli in pose plastiche, impeccabili, sul grande schermo o sulle copertine delle riviste patinate. Quando pensiamo ad una star di Hollywood, spesso l’immagine che ci viene in mente è qualcosa di assolutamente artificioso, espressione del bello e famoso, qualcosa che va molto oltre la realtà. In questo caso, però, il potere del fotografo è riuscito a spingersi aldilà del personaggio pubblico. Sono sempre loro, solo più umani. Prima di essere star, sono persone, e forse proprio per l’ironia e la caratterizzazione che in primis danno a se stessi sono riusciti a diventare famosi dove altri sono rimasti meteore o non sono riusciti a diventare così celebri. Giocosa e intima, questa serie fotografica è estremamente dettagliata, con un realismo e una creazione dell’ambiente attorno al ritratto davvero particolare. Andy Gotts è riuscito a ritrarre le stelle del cinema e della musica sotto una nuova luce. Svelando il lato meno noto dei divi candidati ai BAFTA Awards negli ultimi cinquant’anni. Colti in pause di riflessione o mimiche teatrali, star come Al Pacino, Michael Caine, Penelope Cruz, Jodie Foster, personalità che hanno lasciato più di un segno nella storia del cinema. Al centro degli scatti di Gotts ci sono tratti del volto immediatamente riconoscibili, lontani dalle pose da red carpet o dal trasformismo tipico delle foto di backstage. “Cerco di svelare il lato insolito di visi universalmente famosi” spiega il fotografo londinese che ha lavorato per grandi magazine, da GQ a Glamour immortalando alcuni tra i più noti divi di celluloide dei nostri tempi. Un progetto durato svariati anni durante il quale il fotografo inglese ha viaggiato da una parte all’altra del globo per cogliere l’essenza di più di cento attori. La mostra “Dietro la Maschera” di Andy Gotts approda al Williamson Art Gallery & Museum in una colossale esposizione che inaugura il calendario delle mostre di questo nuovo anno. La mostra sarà aperta al pubblico dal 24 gennaio sino al 22 marzo 2015. Uno stile fotografico scarno e pulito. Che si riempie delle parole di Gotts, dei suoi ricordi durante gli scatti. Di Elena Bonham-Carter racconta, ad esempio, di averle scattato una foto nella sua casa londinese in cui l’eclettica attrice sembrava piuttosto angelica. Ad un certo punto, però
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Gotts ha avvistato una collezione di cappelli, tra i quali ne ha scelto uno da giullare. Tra uno scatto e l’altro, però, Helena ha sbadigliato e il fotografo è riuscito a cogliere proprio quel momento così naturale e spontaneo. Il giorno in cui Scarlett Johannson avrebbe dovuto posare per Gotts, aveva avuto una giornata piena e faticosa e lo shooting era l’ultimo dei suoi impegni in agenda. Il fotografo ha quindi pensato bene di preparare il set prima dell’arrivo dell’attrice. Una volta arrivata le ha fatto bere due bicchieri di champagne e poi, in rapida successione, le ha gridato alcune emozioni e lei doveva tradurle in un’espressione. Da non perdere un ritratto inedito di De Niro che, ammiccando, ripete la famosa citazione di Taxi Driver (Ma dici a me?), pellicola per la quale ottenne una nomination come miglior attore nel 1977.
IL DIVO
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IL MUSEO DEL GIOIELLO DI VICENZA.
SET DEL GIOIELLO di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Il primo in Italia, uno dei pochi al mondo dedicato esclusivamente al gioiello. 9 sale tematiche che ospitano circa 400 gioielli, per un percorso inedito che si snoda nel tempo e nelle culture. Uno spazio permanente di 410 metri quadrati, progettato dalla designer spagnola Patricia Urquiola, collocato all’interno della Basilica Palladiana, frutto dell’impegno della società fieristica vicentina nel rendere Vicenza un autorevole polo culturale del gioiello. Con l’aiuto di Molteni e Flos, la celebre archistar si è imbattuta nella sfida di far convivere un luogo iconico come la Basilica Palladiana, edificio storico del XVI secolo, Patrimonio Mondiale dell’UNESCO dal 1994, e un allestimento innovativo per donare al Museo un’alta valenza artistica, espressione dell’incontro tra il Rinascimento e l’epoca contemporanea. Il Museo del gioiello di Vicenza offre un’originale ed eterogenea esperienza estetica e conoscitiva sul gioiello, valorizzando un oggetto antichissimo e profondamente radicato nella cultura umana, raccontando storia e arte dei metalli preziose in tutte le loro sfaccettature, dalla preistoria al futuro. L’antico dialoga con il contemporaneo e i capolavori etruschi o neoclassici sono affiancati dai gioielli più innovativi in 3D printing. Si sviluppa in un percorso che si declina attraverso nove sale espositive i cui nomi sono Simbolo, Magia, Funzione, Bellezza, Arte, Moda, Design, Icone e Futuro. A ciascun gioiello la sua storia, raccontata per svelare il carattere poliedrico ed eclettico dei preziosi. Una scelta curatoriale di forte impatto, che si propone di restituire la complessità semantica del gioiello con punti di vista molto eterogenei. È dinamico anche nel suo principio espositivo: non esiste una collezione permanente, ma il flusso artistico cambia ogni due anni, come i curatori. Uno degli aspetti più originali del museo è, infatti, la rotazione biennale delle opere che consentirà al visitatore di recarsi più volte all’interno di questo prestigioso luogo per ammirare sempre nuovi e diversi oggetti preziosi. Questo spazio indaga la storia del gioiello tra arte, moda e tradizione, ed è possibile ammirare amuleti antichi, pezzi di epoche lontane, oggetti appartenenti alle star del secolo passato e memorabilia dei miti del teatro, fino alle creazioni contemporanee. Apriti Sesamo.
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SET di gioielli
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Tra le chicche esposte, la parure di corallo rosa appartenuta a Paolina Bonaparte, i bijoux de couture di Chanel e Schiaparelli, una spilla di diamanti e zaffiri del soprano Renata Tebaldi, la Zip creata da Van Cleef & Arpels per la Duchessa di Windsor, la spilla in pigmento verde di Giampaolo Babetto con il collier di Bulgari o il Tatoo di Tord Boontje, e la collana Audrey Hepburn in «Colazione da Tiffany» con la corona regale di Flora Sasson, solo per citarne alcuni. Tra i luccichii delle preziose parure in mostra si scorgono, così, anche brandelli di storia, non solo europea ma planetaria. Una carrellata mozzafiato sui più bei gioielli indossati dalle più importanti dive del cinema e dalle signore del jet set mondiale, senza dimenticare le teste coronate che alla bellezza naturale dei diamanti hanno sempre aggiunto il fascino discreto del sangue blu. Il cinema ha sempre reso omaggio al mito del gioiello. Come dimenticarne alcuni, indelebili, impressi ormai nella memoria collettiva. Il celebre collier di Marilyn Monroe, soprannominato “Moon of Baroda” con al centro svettante un magnifico diamante 24 carati. La diva lo indossò in occasione della prima negli Usa del film “Gli uomini preferiscono le bionde”. Gloria Swanson che dei diamanti era un’instancabile collezionista, arrivò a possedere un’intera collezione firmata “Art de Cartier”. E la star messicana Maria Felix con il suo collier a forma di serpente fece epoca. Entriamo nella leggenda. Il 18 settembre 1837 veniva inaugurato a New York il primo negozio dell’esclusiva gioielleria Tiffany & Co. al n° 259 di Broadway. È l’inizio di un mito senza tempo. Le sue creazioni hanno “vestito” celebrità come Liz Taylor, Jacqueline Kennedy, Diana Vreeland. Un’aura senza tempo, che brilla ancora oggi nel cinema contemporaneo. Tutto, nel film di Baz Luhrmann, Il Grande Gatsby, è luminoso, accecante, sontuoso. Come i gioielli creati appositamente da Tiffany & Co. Milioni e milioni di dollari in gioielli, protagonisti, a modo loro, sul grande schermo. Indimenticabile il capolavoro di Truman Capote che ha poi ispirato il film di Blake Edward. E ricordiamo lo stupendo girocollo di diamanti di Harry Winston indossato da Ingrid Bergman in Notorius del 1946 e il girocollo in diamanti e oro bianco creato da Chanel per Keira Knightley protagonista di Anna Karenina nella versione del 2012 di Joe Wright. E mentre Cartier ricrea i gioielli che appartennero a Grace Kelly, per il film “Grace of Monaco”, rievochiamo l’anello di fidanzamento con solitario squadrato donato da Ranieri di Monaco alla futura principessa. Balza alla mente la creatività della Maison Chopard, chiamata dalla produzione del film dedicato a Lady D a proporre una selezione realista della magnifica collezione di gioielli appartenuta alla Principessa. Una carrellata di orologi, gioielli e borse Chopard appaiono sullo schermo, tra cui diversi segnatempo e gioielli delle collezioni Happy Diamonds, ma anche creazioni di Alta Gioielleria, come gli orecchini che Diana amava particolarmente indossare da soli, come unici gioielli.
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