N°25 DICEMBRE 2014
PRIMO PIANO TRA GLI ALTRI
MAGIC IN THE MOONLIGHT IL RICCO, IL POVERO E IL MAGGIORDOMO LO HOBBIT 5 CURIOSITà
LO HOBBIT GONE GIRL RECENSIONI FILM
Mommy Magic in the moonlight L’amore bugiardo COLONNE SONORE
GONE GIRL JIMMY’S HALL SPECIALE FILM
MAGIC IN THE MOONLIGHT GLAMOUR
LA SCARPA INDOSSATA AD ARTE THE FACE
ROSAMUND PIKE SPECIALE NATALE - CALENDARIO DELL’AVVENTO SPECIALE TOP TEN FILM 2014 SPECIALE TOP TEN SERIE TV 2014
IL RICCO, IL POVERO E IL MAGGIORDOMO dal 11 dicembre al cinema
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SOMMARIO
oggi al cinema
COLONNE SONORE
Le colonne sonore che hanno creato il cinema
Magazine PRIMO PIANO
La lente di ingrandimento di Oggi al Cinema sui film del momento
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Jimmy’s Hall La colonna sonora del Jazz e Folk irlandese
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SPECIALE FILM
Mommy Alla scoperta di Xavier Dolan
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Magic in the Moonlight Magico Allen
5
Il ricco, il povero ed il maggiordomo Ritornano Aldo, Giovanni e Giacomo
7
Lo Hobbit La battaglia delle 5 armate di P. Jackson
9
Jimmy’s Hall Ken Loach torna in Irlanda
L’amore bugiardo Gone Girl, la colonna sonora di Trent Reznor
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Volete qualcosa di diverso dalle solite recensioni? In Speciale Film trovate un punto di vista diverso, un’analisi originale e particolare Danzed and Confused
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In Europa, with love
26
The Who il ritorno in sala di Quadrophenia
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GLAMOUR
Tutto ciò che è glamour e fascino: dagli ultimi fashion trends agli outfit consigliati
5 CURIOSITà
Cosa si nasconde dietro la nascita di una pellicola?
La Scarpa indossata ad Arte. 28
Hobbit - Scontro Finale 13
La Moda come la Fisica. Sublimata nel cinema 30
Mind Games - L’amore Bugiardo 14
THE FACE
RECENSIONI FILM
Il volto del mese
Le recensioni approfondite ed esclusive dei film in programmazione Magic in the Moonlight Tra magia e disincanto al chiaro di luna - La recensione Mommy, Il capolavoro di Xavier Dolan - La recensione Gone Girl Il nuovo pregevole film di David Fincher - La recensione
Rosamund Pike. Ghiaccio bollente 16
SPECIALE NATALE
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CALENDARIO DELL’ AVVENTO
35
SPECIALE TOP TEN FILM 2014
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SPECIALE TOP TEN SERIE TV 2014
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Direttore responsabile
Segreteria di redazione
In redazione
Direzione pubblicità e marketing
Emma Mariani
Antonio Valerio Spera, Marco Valerio, Carlo Lanna, Elisabetta Bartucca, Maurizio Ermisino, Antonio Gentile, Massimo Padoin, Marco Goi, Valeria Ventrella
Hanno collaborato Antonella Brianza
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Greta Cortesi
Alberto De Palma
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PRIMO PIANO
MOMMY,
alla scoperta di Xavier Dolan AL CINEMA DAL 4 DICEMBREE 2014
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
E’ la prima volta che un film del giovanissimo Xavier Dolan arriva nelle sale italiane. Un nome sconosciuto al grande pubblico, quello del regista canadese, ma per i frequentatori dei festival cinematografici e i cinefili attenti allo sviluppo del cinema internazionale non è di certo nuovo. Così dopo quattro film passati tra Cannes e Venezia, c’è voluto il premio speciale della giuria all’ultima manifestazione francese per convincere i distributori italiani a portare Mommy, suo ultimo lavoro, nel nostro paese. Un “traguardo” meritato, strameritato che speriamo possa far scoprire anche in Italia quest’immenso talento di soli venticinque anni che illumina ormai da tempo il panorama festivaliero internazionale. L’occasione buona per una
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distribuzione italiana c’era già stata la scorsa stagione, quando il suo Tom à la ferme venne presentato in concorso al Lido. Bertolucci, presidente di giuria, scelse incomprensibilmente di non assegnargli nessun riconoscimento e i nostri distributori non ebbero la giusta dose di coraggio per decidere di inserirlo nel proprio listino. Ma poco male, il pubblico italiano avrà l’opportunità di conoscere Dolan nel migliore dei modi, perché Mommy rappresenta, insieme al già citato Tom à la ferme, il punto più alto della sua giovane carriera, un film dallo straordinario impatto emotivo che tocca alla pancia e al cuore. Girato nell’inconsueto formato 1:1 – “la visione dello spettatore non è così soggetta a distrazioni ed è attirata direttamente dallo sguardo del personaggio”, spiega il regista - Mommy è ambientato a Montreal e racconta del complicato rapporto tra una madre ed un figlio affetto da disturbi mentali. A riequilibrare la loro relazione, arriva inaspettatamente in soccorso la vicina di casa, ex insegnante ora con problemi nell’espressione verbale. E’ l’incontro tra tre anime perse, che iniziano piano piano a scoprirsi vicendevolmente per poi comprendere meglio loro stesse. Per dare volto e spessore emotivo ai tre protagonisti Dolan ha scelto degli interpreti a lui cari: Anne Dorval, Suzanne Clement e il giovane Antoine-Olivier Pilon avevano infatti già illuminato con la loro bravura altre opere del regista canadese ma, in
quest’ultima pellicola, si superano e brillano in un crescendo d’intensità e commozione. Un crescendo emotivo composto da numerose scene madre che nel film procede di pari passo con l’evoluzione della libertà stilistica di Dolan. Un istrionismo estetico audace, governato però lucidamente dall’autore, che ripone attenzione in ogni minimo dettaglio, occupando anche diversi ruoli nella realizzazione dell’opera. Come dai suoi esordi, Dolan non è solo regista, ma anche produttore, sceneggiatore, montatore e costumista; un caso raro se non unico nel panorama cinematografico mondiale: “I costumi rappresentano il primo contatto visivo con lo spettatore – dichiara l’autore – e spesso vengono trascurati”. Un dato, quest’ultimo, che ci offre ancora di più la cifra della particolarità del nuovo talento canadese. Un autore completo che sa gestire il suo estro giovanile con la maturità di un veterano della macchina da presa. E finalmente, grazie alla Good Films, anche il pubblico italiano potrà andare alla scoperta di Xavier Dolan.
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Magic in the moonlight, Magico Allen AL CINEMA DAL 4 dicembre 2014
di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net
L’incanto degli anni ’20, la magia, l’amore, la Costa Azzurra e il Sud della Francia con i suoi splendidi paesaggi e sullo sfondo la musica jazz dell’epoca d’oro. E poi un cast affollatissimo (da Colin Firth a Emma Stone, Jacki Weaver, Simon McBurney) diretto da Woody Allen in una storia magica e romantica, che rievoca le suggestioni di “Midnight in paris”: “Magic in the Moonlight”, in sala dal 4 dicembre, sembra ispirarsi proprio a quelle fascinazioni e alla sconfinata ossessione del regista Newyorkese per la magia. Non è un caso che incantatori e prestigiatori siano apparsi ripetutamente nelle sue storie bizzarre: sui palcoscenici di Broadway in “The Floating Lightbulb” dove l’interprete principale è un giovane illusionista; in “Scoop” dove è lo stesso Allen a vestire i panni dell’improbabile mago ‘Splendini’ (Sid Waterman); senza dimenticare l’ipnotizzatore de “La maledizione dello scorpione di Giada”, il guaritore di “Alice” o l’indovino di “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”. La magia come sottile fil rouge che da sempre accompagna sotterranea le sofisticate commedie di Allen e che trova in “Magic in the Moonlight” quasi un approdo naturale. L’occasione è la storia di un grande prestigiatore cinese, Wei Ling Soo, sotto le cui sembianze si nasconde l’identità di
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Stanley Crawford (Colin Firth), arrogante e scorbutico signore inglese deciso a smascherare una sedicente medium, Sophie Baker (Emma Stone). Teatro della sua missione diventa la tenuta dei Catledge, in Costa Azzurra, dove l’affascinante Sophie abita insieme agli altri componenti della famiglia: la madre Grace, il figlio Brice (Hamish Linklater) e la figlia Caroline (Erica Leerhsen). In un continuo gioco di illusioni sospeso tra magici imprevisti, lo scetticismo di Stanley sarà messo però a dura prova ... l tutto condito dall’incanto dei ruggenti anni ’20 quando i medium “erano molto seguiti – racconta Allen – e gente molto famosa, come ad esempio Arthur Conan Doyle (creatore di Sherlock Holmes) li prendevano molto seriamente. Succedevano ogni tipo di incidenti, come fotografie spiritiche che lasciavano la gente sbigottita e le sedute spiritiche erano molto comuni”. Ma c’era anche qualcuno, come il celebre Harry Houdini, impegnato a smascherarli solo però per una profonda fede in una vita possibile nell’al di là; un antispiritismo che si avvicina a quello del personaggio di Stanley, se non fosse che il mago di Allen non crede in nessuna forma di vita dopo la morte. “Come specialista nell’arte dell’illusionismo, - spiega Firth – è scettico riguardo qualunque cosa di spirituale, mistico od occulto. È orgoglioso di se stesso nel contraddire le persone che dichiarano che durante le sedute spiritiche accada qualcosa di veramente magico. Credo che questa sia la prima volta che interpreto un personaggio veramente antipatico. Sono sicuro che il pubblico vorrà tirarmi una torta in faccia”. Un illusionista colto e intelligente che alla fine capitolerà davanti all’unico vero incantesimo: l’amore.
PRIMO PIANO
“La magia del film è l’amore – dice Emma Stone – Magari non ha neanche un senso logico ma è ciò che c’è di bello e di magico”, perché “vedere qualcuno ed esserne istantaneamente attratti è una cosa inspiegabile”, le fa eco il regista. Che anche questa volta come in “Midnight in Paris” e “To Rome with love” si affida alla fotografia dell’iraniano Darius Khondji, candidato all’Oscar per “Evita” e abituale collaboratore di registi visionari come Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro (“Delicatessen” e “La città perduta”). In questo caso la sua principale fonte di ispirazione sarebbe stato il fotografo francese Jaques Henri Lartigue. “Volevamo fare un film luminoso e gioioso, ma con una gamma di colori forti che dessero struttura visiva al film – rivela Khondji – Abbiamo usato obiettivi Cinemascope degli anni settanta per la fotografia, usando un processo speciale per abbassare il contrasto ed ammorbidire le immagini naturalmente”. Al resto ci ha pensato l’estrema e proverbiale precisione del regista, “con annotazioni accurate e dettagliate su quello che voleva vedere fino a quando non ne era del tutto soddisfatto”.
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PRIMO PIANO
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Il ricco, il povero e il maggiordomo, ritornano Aldo, Giovanni e Giacomo AL CINEMA DAL11 dicembre 2014
di Antonio Gentile per Oggialcinema.net
“C’è solo un obiettivo importante nella vita: mandare la palla in buca ”. Da una frase tratta dal film “Il ricco, il povero e il maggiordomo” si direbbe di si. Dopo quattro anni d’assenza è di ritorno, per il grande cinema, l’esilarante trio composto da Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti con l’aiuto di Morgan Bertacca per sceneggiatura e regia, e Valerio Bariletti e Pasquale Plastino per la scrittura del soggetto. Dopo “La banda dei Babbi Natale” di P. Genovese, (tra i film campione d’incassi del 2010), i tre comici si ripropongono con una commedia che potremmo definire un classico cinematografico scritto e diretto a quattro mani; determinante è stato il lavoro svolto da M. Bertacca, un ragazzo promettente cresciuto con il trio dal 2002, e che di recente ha realizzato il backstage dello show “Ammutta Mudica” andato in onda sui canali di Mediaset.
La nuova commedia “Il ricco, il povero e il maggiordomo” si differenzia molto dai precedenti nove film del trio, per via di un numero sostanzioso di presenze femminili nel cast degli attori, abbandonando pertanto situazioni comiche con una visione tipicamente teatrale dove il trio si presentava come unico protagonista della commedia, un esempio tipico è stato “La legenda di Al, John e Jack”. Il nuovo film condotto dall’energico trio ci racconta di un ricco e arrogante broker dell’alta finanza, (Giacomo), possessore di un ufficio personale da sogno collocato nella city di Milano e di una favolosa villa, accessoriata di piscina, appena fuori città. Giacomo ha una grande passione per il golf, mentre il suo maggiordomo (Giovanni), un esperto d’arti marziali e filosofie orientali, segretamente intrattiene una relazione movimentata con Dolores (Guadalupe Lancho), una domestica sudamericana, focosa e dominante. Aldo, il terzo incomodo e motivo scatenante degli eventi tragicomici, conduce tutt’altra vita, svolgendo senza licenza l’attività di ambulante e coabitando con una madre burbera e fustigatrice in un quartiere popolare, con l’unico suo diversivo: allenare occasionalmente una squadra di extracomunitari.
PRIMO PIANO
Un imprevedibile incidente si rivela il motivo del loro incontro. Aldo, durante una fuga dai vigili a caccia di licenze, viene investito dall’auto di Giacomo, che come risarcimento gli propone alcuni lavori da svolgere nella villa, Aldo sogna una licenza d’ambulante, e accetta il compromesso. Ma alcune notizie inaspettate sconvolgono i singoli piani del trio, un crack finanziario manda in frantumi l’intero capitale economico di Giacomo, che perde tutto ciò che possiede, a tal punto da chiedere ospitalità al povero Aldo presso la casa materna. Tra situazioni rocambolesche e strategie improbabili per uscire da una crisi irreversibile, Giacomo escogita un piano per un prestito bancario, ma la funzionaria di banca (Francesca Neri), chiede ulteriori garanzie. Riusciranno Aldo, Giovanni e Giacomo a raggiungere i loro obiettivi? “Il ricco, il povero e il maggiordomo” accostato per le tematiche trattate al “Il capitale umano”, mette in evidenza come attraverso consistenti differenze di classi sociali diametralmente opposte (il ricco arrogante e il povero vitale e multietnico), si arriva a condividere gli stessi fallimenti con la stessa voglia e l’entusiasmo di ricominciare da zero non perdendo mai le speranze future, Aldo, Giovanni e Giacomo sanno come affrontare questo tema in chiave comica e grottesca attraverso una commedia godibile per le numerose scenette trattate con una comicità unica e chiaramente riconoscibile. Un film che certamente non tradirà le aspettative dei numerosissimi spettatori con la voglia di divertirsi in modo sano e in attesa di rivedere nuovamente l’inesauribile terzetto in una ritrovata veste. Inoltre “Il ricco, il povero e il maggiordomo” è stato interamente girato a Milano (disponendo di 65 location tra cui il 15esimo piano della “Diamond Tower”), si avvale di aver applicato il protocollo ecosostenibile di “Edison Green Movie” (come già è stato fatto di recente per “Il capitale umano” di P. Virzì e in “Torneranno i prati” di E. Olmi), in riguardo all’abbattimento dei consumi energetici, oltre ad un corretto smaltimento del materiale ritenuto inquinante, un aspetto molto importante e assolutamente da non trascurare. Il cast si avvale di una nutrita presenza di attori (in particolar modo attrici), di grande esperienza tra cui Francesca Neri, Giuliana Lojodice, Rosalia Porcaro e Sara D’Amario, che danno una sferzata innovativa per un cliché ormai collaudato nel tempo. Dall’11 Dicembre per la distribuzione “Medusa Film”, Aldo, Giovanni e Giacomo ci aspettano in tutte le multisale. Il trio scherzando durante una conferenza stampa rivela : “Sono i ruoli che si sono buttati su di noi. Ci siamo fatti dei provini e alla fine Aldo vince sempre, perché non so come mai, la faccia da povero ce l’ha lui”.
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LO HOBBIT
la Battaglia delle 5 Armate di P. Jackson AL CINEMA DAL 17 dicembre 2014 di Carlo Lanna per Oggialcinema.net
“L’epica trilogia ispirata ai romanzi di Tolkien arriva al suo capitolo finale. Si conclude così all’apice della sua bellezza il viaggio inaspettato nella Terra di Mezzo”. Non sempre la trilogia de lo Hobbit ha convinto gli estimatori dei romanzi di Tolkien, dato che Peter Jackson, ha portato sul grande schermo un’epopea ben diversa dal Signore degli anelli. Ora dal 17 Dicembre, giorno in cui arriverà in tutti i cinema La Battaglia delle 5 Armate, il regista arriva finalmente a scrivere la parola fine alle avventure di un giovane Bilbo Baggings (Martin Freeman). Lo zio del ben più famoso Frodo Baggings, insieme ad una congrega di 13 nani, questa volta dovrà fronteggiare il diabolico drago Smaug – fuggito dalla sua prigione – mentre una temibile battaglia sta per prendere vita, una battaglia che nel bene o nel male cambierà il volto della Terra di Mezzo. Già sedotto dal potere dell’Anello Sovrano, Bilbo, riuscirà ad adempiere al suo destino? La battaglia delle Cinque Armate sbarca nei cinema in un momento molto importate per la filmografia del genere; infatti Peter Jackson concepisce forse il lungometraggio più bello ed emozionante di tutto il moderno franchise. Nel tentativo quindi di creare un ponte fra Lo Hobbit e la mitologia del Signore degli Anelli, Peter Jackson, costruisce una trilogia dai toni più fiabeschi, meno violenta ed incisiva della precedente, ma senza dimenticare tutte le sue caratteristiche peculiari. La Battaglia delle 5 armate è, quindi, il film del riscatto. Quasi nessuno ha mai apprezzato fino in fondo il lavoro svolto dal regista che, ispirandosi al romanzo intitolato appunto Lo Hobbit ma senza dimenticare il Similarion ed i famigerati Racconti perduti, ha concepito una vera epopea fantasy, elettrizzante forse un po’ fanciullesca ma comunque di grande impatto visivo ed emotivo.
Quest’ultimo capitolo è quello più intimistico, più elettrizzante dopo la lunga introduzione narrata ne Il Viaggio Inaspettato e le grandi emozioni che ci ha regalato La Desolazione di Smaug. La trilogia, quindi, raggiunge il suo massimo splendore cercando di rimediare agli errori subiti in passato, ed il regista, decide di portare al cinema un lungometraggio più vicino ai gusti del pubblico senza però dimenticare la sua poetica. La Nuova Zelanda, come avvenuto per il Signore degli Anelli, è il teatro delle vicende de lo Hobbit dove i suoi paesaggi e le lande desolate sono i protagonisti principali. Il cast è quasi tutto confermato, dato che Evangeline Lily, Orlando Bloom e Luke Evans, sono ancora tra i co-protagonisti; Manu Bennett presterà nuovamente la sua voce ad Azog – orco fedele al potere di Sauron - e lo stesso accade per lo Sherlock televisivo alias Benedict Cumberbatch, che sarà nuovamente Smaug. Cosa accadrà ora che l’ira di Smaug si abbatterà sulla città alle pendici della Montagna Solitaria? Ed il mago Gandalf, rapito dagli spettri di Sauron, riuscirà a raggiungere la sua “compagnia”? Proprio nella fortezza dove Gandalf è prigioniero, si sta radunando un esercito di orchi, capitanati da Azog, che marcia verso la Montagna Solitaria. Intanto gli Elfi Silvani di Bosco Atro, non appena ricevuta la notizia del colpo che è stato inferto al potere del drago, guidati da Re Thranduil, si muovono anch’essi alla Montagna Solitaria per avere una parte del tesoro di Erebor, tesoro che reclamano anche gli stessi Uomini del lago in merito alla promessa fatta a loro da Thorin. Il tesoro dei nani è dunque il centro di una battaglia epica e sanguinolenta. Ed in tutto questo cosa accadrà al giovane Bilbo? Non resta che accomodarsi in sala e conoscere il destino finale dei popoli della Terra di Mezzo.
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Jimmy’s Hall,
Ken Loach torna in Irlanda AL CINEMA DAL 18 dicembre 2014 di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
L’etichetta di cinema sociale per l’opera di Ken Loach è tanto appropriata quanto riduttiva. Il regista britannico, nato artisticamente nella corrente del Free Cinema, da sempre, infatti, non ha solo lanciato acute riflessioni sulla classe operaia, sui diritti umani, sulla politica, ma ha anche saputo disegnare personaggi a tutto tondo, descrivere con verità le emozioni del quotidiano, commuovere e divertire attraverso racconti sviluppati con la mano e l’occhio di un grande narratore.
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Con Jimmy’s Hall, Loach conferma questa sua grande abilità di storyteller e ancora una volta dimostra come sia in grado di cambiare continuamente “faccia” alla passione sociale che anima la sua ispirazione artistica. Dopo una commedia, La parte degli angeli, vincitrice del Premio della Giuria a Cannes 2012, e un documentario, The Spirit of ’45, dove si raccontavano le conquiste sociali nella Gran Bretagna post-Seconda guerra mondiale, il regista torna all’affresco in costume immergendosi nell’Irlanda degli anni ’30, periodo appena successivo a quello della Guerra civile già portata sullo schermo nel 2006 nel film Palma d’Oro Il vento che accarezza l’erba. “In questo secondo film sull’Irlanda – spiega Loach - ci troviamo dieci anni dopo il periodo raccontato nel primo. Ne Il vento che accarezza l’erba un personaggio diceva che l’Irlanda era infestata dai preti. La Chiesa condizionava all’epoca la vita della popolazione, e nei miei due film ho voluto raccontare proprio questo. Jimmy’s Hall racconta infatti di Jimmy Gralton, che nel ‘32 dà vita ad un circolo ricreativo, una sala da ballo dove danzare, incontrarsi, confrontarsi, sognare. Un locale aperto a tutti che suscita però l’ira di diversi abitanti, di molti proprietari terrieri e della Chiesa, appunto.
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Il film è il racconto di questo contrasto, di questa sfida tra sogni e falso perbenismo. “Penso sia un racconto di grande importanza – prosegue Loach - dove si fa vedere come in molti in quegli anni si opponessero al sano divertimento, alle feste, ed anche come la Chiesa sappia mettersi a braccetto con il potere economico. Non credo ci sia differenza da quello che succede oggi, Stato e Chiesa sono organi di repressione”. Scritto da Paul Laverty, autore delle sceneggiature dei film del regista inglese da La canzone di Carla in poi, interpretato da un sontuoso Barry Ward, per la prima diretto da Loach, e condito da una colonna sonora che spazia dal jazz alla musica Irish tradizionale, il film potrebbe sembrare un’opera che intende rappresentare la purezza dell’ideologia comunista.
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Ma Loach e Laverty non sono d’accordo: “Con Jimmy, non volevo dipingere un comunista, ma uno spirito libero che attraverso l’arma della danza si scontrava contro chi voleva controllare le coscienze”, dichiara il regista. E lo sceneggiatore gli fa eco: “Jimmy è uno di quegli uomini che creano contatti tra le persone, uno di quegli uomini umili che vogliono infondere coraggio nella gente. Il film è un omaggio alla gente come lui”. In uscita il 18 dicembre, Jimmy’s Hall è il titolo natalizio della Bim Distribuzione. Una scelta coraggiosa che speriamo possa premiare il film.
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5 CURIOSITà
HOBBIT SCONTRO FINALE
Lo Hobbit - La battaglia delle 5 armate in 5 curiosità AL CINEMA DAL 17 dicembre 2014 di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
Tredici lunghi anni. Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate chiude un cerchio, quello dell’avventura tolkeniana di Peter Jackson iniziata nel 2001 con Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello. È un’era che si conclude. Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate è il terzo film della trilogia de Lo Hobbit, un’operazione per certi versi opposta a quella de Il Signore degli Anelli: lì si trattava di un’opera letteraria lunghissima, composta da tre libri complessi, che hanno richiesto al regista neozelandese un grande lavoro di sintesi, in scrittura e in montaggio. Lo Hobbit invece è un libro non molto lungo, che Jackson ha trasposto in tre film, facendo un esercizio opposto: aggiungere invece che togliere. Così sono state inserite parti di sceneggiatura non presenti nel libro, e sono state utilizzate anche le appendici de Il Signore degli Anelli. L’avventura di Jackson nella Terra di Mezzo finisce qui. A meno che non decida di rispolverare il Silmarillion…
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1. Due di tre. L’opera filmica Lo Hobbit originariamente doveva essere composta da due film. Ma Peter Jackson non ha resistito alla tentazione di firmare un’altra trilogia. Così il girato è stato spalmato su tre film: i due film originari sono diventati il primo e il terzo, e la parte finale del primo e la parte iniziale del terzo sono diventate il secondo film. Per il secondo film sono state allora scritte e girate delle scene aggiuntive durante l’estate del 2013. 2. Come si cambia. Anche per questo il titolo del terzo film è cambiato. Quando era ancora il “secondo” film, si sarebbe dovuto chiamare There And Back Again (Il racconto di un ritorno in italiano). E il titolo era stato dunque conservato per quello che è diventato il terzo film di una trilogia. Ad aprile 2014, però, Peter Jackson ha deciso di cambiare il titolo ne Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate. Primo, perché la battaglia del titolo è il centro del film. Secondo, perché There And Back Again era il titolo perfetto per una storia che vedeva l’arrivo di Bilbo a Erebor e la sua partenza, che dovevano essere entrambe contenute nel secondo film. Ma non aveva senso nel terzo film, quando Bilbo era ormai arrivato “there”, lì, nella desolazione di Smaug. Terzo, aggiungiamo noi: il nuovo titolo è molto più ad effetto. 3. La noia? No, grazie. La battaglia che dà il titolo al film dura 45 minuti e promette di essere ancora più spettacolare di quelle de Il Signore degli Anelli. Troppo lunga? Ma non ci si potrà annoiare. Peter Jackson infatti ha dichiarato che la scena è stata costruita con una regola ben precisa: ogni due-tre minuti in cui sono in scena personaggi anonimi sarà inquadrato uno dei personaggi principali. In questo modo il pubblico non dovrebbe distrarsi. La battaglia è stata pianificata sul set come se si trattasse di un vero scontro, il territorio è stato delimitato con precisione e i movimenti delle varie fazioni studiati e segnati con precisi schemi. 4. Classica. La scena in cui Bard (Luke Evans) combatte contro Smaug è stata girata da Evans da solo: il drago Smaug è stato creato in computer grafica e aggiunto successivamente. Per creare l’atmosfera sul set, Peter Jackson ha usato un brano di musica classica già utilizzato nel momento dell’incontro tra Naomi Watts e il gorilla in King Kong. For Lashes, Grace Jones e i Chemical Brothers. 5. Mai più senza. Tornare dalla Terra di Mezzo con un ricordino è stata una tentazione irresistibile per molti degli attori del cast. Così Martin Freeman si è portato a casa la sua spada e le protesi delle sue orecchie da hobbit, Richard Armitage si è tenuto la spada di Orcrist originale. Lee Pace ha scelto di prendere la sua spada elfica. La tiene nel portaombrelli…
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5 CURIOSITà
MIND GAMES
L’AMORE BUGIARDO Gone Girl
di David Fincher in 5 curiosità AL CINEMA DAl18 DICEMBRE 2014 di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net Sin da quando Nick in una delle prime scene si presenta al suo bar con un Mastermind, capiamo che L’amore bugiardo - Gone Girl è un rompicapo, un gioco tutto mentale. È la storia di un uomo che, la mattina del quinto anniversario di matrimonio, si accorge della scomparsa della moglie. David Fincher ci racconta la storia con la forma del thriller, con tutte le regole del genere, almeno tre colpi di scena a effetto, e poi cambia strada, e usa un’ironia inedita per lui. Come se fossimo nel suo The Game, Fincher ci trascina in una caccia al tesoro alla scoperta della verità e ci sfida alternando i punti di vista: quello del protagonista (Ben Affleck) e quello della moglie Amy (Rosamund Pike) che leggiamo attraverso il suo diario. L’amore bugiardo - Gone Girl è una storia d’amore e di trasformazione, l’immagine di un matrimonio che è come un castello di carte che crolla a rallentatore, un manuale su come ingannare il prossimo ma anche noi stessi. L’immagine che Ben e Amy si creano, e quella del loro matrimonio, è come il Tyler Durden di Fight Club, un altro da sé che vuole essere migliore, ma che non esiste. E il discorso sull’attenzione all’immagine prosegue quello iniziato con The Social Network.
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1. Mastermind. Non è un caso che Nick porti alla sorella gemella Margo, nel bar che gestiscono, il gioco da tavolo Mastermind. Il gioco viene messo su una mensola insieme ad altri giochi che si chiamano “Emergency!”, “Let’s Make a Deal” e “The Game Of Life”, anticipandoci in qualche modo il senso del film, e quello che sta per accadere. 2. The Boxer. Rosamund Pike ha preso e poi perso quasi sette chili ben tre volte per interpretare il suo personaggio in diversi momenti della sua vita. Per ingrassare ha seguito una “dieta” a base di hamburger e malto. Per rimettersi in forma, e per cambiare fisico e postura, si è allenata con un pugile professionista fino a 4 ore al giorno, e ha corso per otto chilometri in 42 minuti. 3. Relax, don’t do it. Anche stavolta, dopo The Social Network e Millennium - Uomini che odiano le donne la colonna sonora del film di David Fincher è stata realizzata tra Trent Reznor (Nine Inch Nails) e Atticus Ross. Il brief che è stato dato alla coppia si basava su delle musiche che Fincher aveva sentito in una sala massaggi: dovevano essere delle musiche rilassanti, ma Fincher le avvertiva come qualcosa di raccapricciante che non lo faceva sentire a proprio agio. Da qui l’idea di creare una musica che sembri rilassante ma che sia in grado di instillare un senso di terrore.
5 CURIOSITà
4. Sorridi. David Fincher è solito navigare su internet prima di fare i casting dei propri film: guarda diverse foto di attori per capire se possono essere adatti per i ruoli. Cercando l’attore in grado di interpretare Nick, Fincher ha notato un particolare sorriso che Ben Affleck ha in molte foto. Proprio quel sorriso, secondo Fincher, catturava una particolare emozione che doveva essere presente in una scena, in cui Nick Dunne sorrideva, che mostrava l’essenza del personaggio. Subito dopo quel giro su internet, Fincher ha scritturato Ben Affleck. 5. In cerca di Amy. Sembra impossibile immaginare la Amy di Gone Girl con un volto e un corpo che non siano quelli di Rosamund Pike. Eppure Amy doveva essere Reese Whiterspoon: l’attrice aveva comprato i diritti del libro di Gillian Flynn. Quando è entrato nel progetto David Fincher non sapeva del coinvolgimento dell’attrice. I due si sono incontrati e l’autore di Seven le ha spiegato la sua visione del personaggio. E anche la Whiterspoon è stata d’accordo sul fatto che fosse molto diverso da come lo intendeva lei. Nessun problema, quindi. E meglio così per tutti.
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Recensioni Film
Magic in the Moonlight tra magia e disincanto al chiaro di luna La recensione AL CINEMA DAL 4 dicembre 2014
Di Massimo Padoin per Oggialcinema.net
Una cosa si deve riconoscere a Woody Allen, è in grado di far assaporare al proprio pubblico l’atmosfera di un tempo passato. Bar in cui la luce è filtrata dal fumo di sigarette e la “hot music” viene suonata, ville al cui esterno vengono organizzati elegantissimi balli a base di smoking e champagne.
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Magic in the moonlight è anche questo, ritrae la fine degli anni ‘20 cercando di donare il gusto elegante che era proprio di quel contesto, per intenderci la vicenda si svolge per gran parte nella villa in Costa Azzurra di una famiglia di miliardari. In bilico tra lustrini e champagne, Magic in the moonlight sembra essere la faccia opposta de La rosa purpurea del Cairo, in cui la speranza per una vita migliore veniva a contatto con la magia di una sala cinematografica. Qui i protagonisti hanno poco da desiderare una vita migliore, del resto ci troviamo di fronte alla bella società snob e borghese, ma alla fin fine ad essere ricercata, seppur con un sostrato di diffidenza, è più sempre una prova di magia. Ma per un misantropo razionalista come Howard Burkan (Colin Firth), meglio conosciuto in tutto il mondo come il grande illusionista Wei Ling Soo, davvero la magia può esistere? Lui che è il più capace nello smascherare i trucchi di colleghi e mistificatori, può davvero credere che la graziosa Sophie Baker (Emma Stone) sia la formidabile sensitiva che tutti affermano? Quanto lo scorbutico Howard può avvicinarsi con diffidenza al fascino ingenuo della ragazza e non rimanerne invischiato, lui che è un uomo che guarda alla sostanza del proprio fidanzamento (razionalmente) perfetto? E, allo stesso modo, la giovane Sophie saprà mantenere le distanze da quell’uomo con un aplomb tanto discreto quanto indifferente alla sua arte?
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Durante la visione di Magic in the moonlight è quasi impossibile non porsi queste domande, ed è proprio questo il piacere di un racconto che scivola via con la stessa leggerezza con cui è stato realizzato. Woody Allen conferma la l’esilità del suo ultimo cinema, Blue Jasmine a parte, tornando all’atmosfera di magico romanticismo già visto in Scoop. Se la scrittura dei dialoghi, intrisi della solita ironia, si conferma prepotentemente essere uno dei punti di forza, lo stesso lo si può dire della coppia protagonista caratterizzata dall’elegante compostezza di Colin Firth e l’ingenua bellezza di Emma Stone, Magic in the moonlight mostra al contrario una certa svogliatezza registica Che Allen non sia un regista con particolare attenzione alla messa in scena già lo si sapeva, ma in questo caso si affida troppo al solo script. Ma in fondo poco male se comunque il regista newyorkese è in grado di calarci così dolcemente in un altro tempo, e questo più che grandi costruzioni registiche è sintomo invece di un affetto sincero. Tra disincanto e magia Woody Allen rimane sempre sul filo del rasoio, non esclude nulla perché in fondo più le sicurezze si solidificano e più di questo mondo ne sappiamo sempre di meno. Che sia conversare con uno spirito o la possibilità d’innamorarsi inaspettatamente. Del resto parliamo sempre di forze più grandi di noi.
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Mommy, il capolavoro di Xavier Dolan La recensione AL CINEMA DAL 4 dicembre 2014
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
Quando il talento è limpido, si riconosce immediatamente. È successo così nel 2009, quando l’appena ventenne Xavier Dolan presentò alla Quinzaine des Realisateurs la sua opera prima J’ai tué ma mère. Una commedia dalle tinte drammaticopsicologiche davvero folgorante, che nonostante la pochezza dei mezzi a disposizione, dimostrava oltre ad una fine scrittura, un’originalità e una personalità registica sopraffina. La carriera di Dolan è iniziata lì ed è continuata con altri tre film (due sempre a Cannes, in Un Certain Regard, l’altro a Venezia, in competizione), anch’essi ammalianti e sorprendenti come il primo, ma sempre diversi l’uno dall’altro.
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Mommy, , presentato in concorso a Cannes 2014, non solo conferma il talento e l’eclettismo del giovanissimo regista canadese, ma ne sancisce la sua clamorosa maturità. E’ un’emozione continua questo film, un turbine senza sosta che coinvolge, sconvolge, lascia senza fiato, non tanto e non solo per ciò che racconta, ma per come lo fa. Il film stupisce sin da subito, dalla prima inquadratura, quando ci si rende conto che assisteremo ad un film girato nell’insolito formato 1:1. Già nell’ultimo Tom à la ferme l’autore aveva osato trovate in questa direzione, ma qui si supera, e questa scelta visiva che potrebbe apparire come un vuoto, esagerato, presuntuoso esercizio formale, è in realtà funzionale ai contenuti e alle sensazioni messe in campo. La ristrettezza del formato è infatti l’espressione visiva dell’insoddisfazione dei tre protagonisti: una mamma single e senza lavoro, un figlio disturbato appena uscito da un riformatorio e la loro vicina di casa incapace di ripartire dopo un terribile lutto. o sguardo su questi personaggi è quindi all’inizio limitato e proporzionato alla natura della loro esistenza, senza orizzonti, senza sogni, apparentemente senza un futuro sereno. Ma man mano che queste anime (ri)entrano in sintonia tra di loro e con loro stesse, man mano che si riappropriano della loro vita riempiendola di speranza, lo sguardo di Dolan deve adeguarsi e lo schermo allora si allarga magicamente
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E’ sbagliato svelare questo colpo di scena “visivo” della pellicola, ma allo stesso tempo è necessario. Perché solo citandolo ci si può rendere conto della forza emotiva di questo film. Essa infatti non risiede esclusivamente nella descrizione della difficile relazione tra i protagonisti, ma anche nelle scelte visive con cui esse vengono cristallizzate sullo schermo. Guardando Mommy ci si commuove non solo per i momenti intensi tra madre e figlio, ma anche per uno stacco di montaggio, per una carrellata, per un primo piano, per un improvviso cambio di formato. Rimangono nel cuore i balli in casa, le proiezioni oniriche dei personaggi, le scene di “dolce violenza”, i continui momenti musicali. Ma ciò non sarebbe possibile se Dolan non fosse un regista sempre alla ricerca di sorprese, novità, innovazione, sperimentazione. E la potenza del suo cinema va rintracciata proprio nella facilità con cui la storia raccontata e le emozioni che la caratterizzano riescono a non farsi mai sovrastare da questa costante ricerca, dalle ardite scelte registiche. Anzi, quest’ultime risultano un mezzo per scavare ancora di più nella materia filmica, per valorizzare le splendide interpretazioni (in questo Anne Dorval, Suzanne Clément e il giovane AntoineOlivier Pilon sono straordinari), per creare pathos. Xavier Dolan con Mommy si dimostra così nuovamente uno dei più eleganti e profondi indagatori dell’animo umano e firma uno dei film più belli degli ultimi anni. Un’opera che decolla dopo pochi secondi e non concede mai discese di intensità e di poesia. Un capolavoro che merita di passare alla storia e di ricevere la Palma d’Oro.
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gone girl
il nuovo pregevole film di David Fincher La recensione AL CINEMA DAL 18 DICEMBRE 2014
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net
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triplo binario flashback oggettivi-flashback soggettivi-racconto presente, mescolando sapientemente le carte. Ci si trova quindi di fronte ad una materia cinematografica assai complessa, che però Fincher maneggia – potremmo dire manipola in questo caso – senza sbavature né incertezze, dando prova di un’impressionante maturità registico-autoriale. Partendo dal rapimento della moglie di Nick, giornalista appena ritrovatosi senza lavoro, il regista, anche grazie ad una sceneggiatura “ad orologeria” scritta dalla stessa autrice del romanzo da cui il film è tratto, costruisce un puzzle enigmatico ed angosciante i cui pezzi vengono man mano messi insieme in un turbine di eventi e rivelazioni senza sosta. E’ abbagliante osservare il modo in cui tutto ciò prenda vita sullo schermo in un solo film: Gone Girl (in Italia uscirà con il titolo L’amore bugiardo) è infatti un concerto in immagini in cui ogni strumento non sbaglia mai un’entrata né l’esecuzione di una nota, un dipinto dalle simmetrie perfette, una poesia dalla musicalità soave che contiene in sé una storia dolorosa. Un universo cinematografico unico, in cui tra l’altro si muovono alla perfezione i due protagonisti Ben Affleck e Rosamund Pike, entrambi (con la seconda un piccolo gradino sopra) capaci di muoversi, con un’estrema eleganza interpretativa, da un registro ad un altro misurando ogni sfumatura. Guardando quest’ultimo pregevole lavoro di Fincher, si ha dunque la dimostrazione che il cinema, anche quando spettacolare, può farsi arte pura. Un’arte quasi estasiante, che tiene incollati alla poltrona anche quando scorrono ormai i titoli di coda. Assuefatti dagli innumerevoli colpi di scena e dalle geniali trovate, si vorrebbe rimanere in sala per goderne ancora. Chapeau! che non ti aspetti e, forse, con Dan Gilroy abbiamo trovato un nuovo autore.
“Non avete visto ancora niente”. Sembra questo il messaggio inviato ripetutamente da ogni sequenza di Gone Girl, nuova fatica di David Fincher. Un film che meriterebbe una profonda analisi più che una semplice recensione per consentirci di esprimere un giudizio completo ed esaustivo. Non solo perché porta sullo schermo un racconto, tratto dal romanzo di Gillian Flynn, che vive di continui colpi di scena, ma perché si tratta di un’opera in cui lo stesso sviluppo narrativo segna ed influenza l’impianto formale e la tonalità stilistica, un po’ come succedeva in un altro grande lavoro di Fincher, Fight Club. La stratificazione di quel film, però, appare addirittura ridotta rispetto a quella di Gone Girl, dove essa si moltiplica e si articola su un’infinita serie di livelli, che si alternano, si incrociano e si sciolgono per le sue due ore e mezza di durata. Una stratificazione che si struttura, contenutisticamente, su una rappresentazione satirica ed ironica dell’assurdo sistema massmediale e del tipico atteggiamento americano (e ormai mondiale) che spettacolarizzano la vita, in particolar modo i fatti di cronaca nera, e su una profonda ed inquietante indagine psicologica e delle dinamiche dei rapporti umani; stilisticamente e tonalmente, su una frequente alternanza di generi, passando dal thriller alla commedia, dal dramma familiare al legal movie; ed infine, narrativamente, su un impianto circolare che gioca sul
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COLONNE SONORE
L’AMORE BUGIARDO
Gone Girl, la colonna sonora di Trent Reznor AL CINEMA DAL 18 dicembre 2014
dell’ultima pellicola di David Fincher è ricca di atmosfere tese e inquiete perfette per un thriller moderno. Atmosfere di cui Trent Reznor è sempre stato maestro. Qui sono assenti le chitarre elettriche e le ritmiche pesanti dei NIN, ma la tensione costruita da queste musiche è se vogliamo ancora maggiore. A un ascolto distratto si potrebbe pensare a un lavoro dalle tinte ambient, in realtà Reznor con il fido Ross è riuscito a creare una delle colonne sonore più spaventosamente misteriose, rarefatte e allo stesso tempo efficaci degli ultimi tempi. Ormai possiamo dirlo: Angelo Badalamenti ha trovato il suo degno erede. Nel complesso la soundtrack di Gone Girl appare forse un pochino, giusto un filino, meno originale rispetto a quella di The Social Network, ma anche questa volta Trent Reznor potrà dire la sua nel corso della notte degli Oscar. Scommettiamo?
di Marco Goi per Oggialcinema.net
L’amore bugiardo – Gone Girl si è rivelato uno dei successi più incredibili dell’autunno americano. Il nuovo film firmato da David Fincher con protagonisti Ben Affleck e Rosamund Pike ha superato in patria quota $150 milioni, una cifra davvero niente male in generale, e per un thriller in particolare. Per quanto riguarda la colonna sonora di questo Gone Girl, Fincher ha confermato il suo affezionato collaboratore musicale dei suoi ultimi lavori. Il detto dice che non c’è due senza tre e così vale anche per la novella coppia formata dal regista e dal musicista. Di quale musicista stiamo parlando? A comporre la soundtrack di L’amore bugiardo – Gone Girl c’è Trent Reznor, anche noto come il leader dei Nine Inch Nails, uno dei gruppi simbolo della scena industrial rock, e di recente pure nei How to Destroy Angels, la band che ha formato insieme alla mogliettina Mariqueen Maandig e al suo braccio destro Atticus Ross. Ed è proprio con quest’ultimo che ha composto pure questa nuova colonna sonora. L’ormai solido duo formato da Trent Reznor e Atticus Ross alla sua prima collaborazione con David Fincher per The Social Network nel 2010 si è subito aggiudicato l’Oscar per la miglior soundtrack. Il cantante dei Nine Inch Nails aveva già collaborato con il mondo del cinema insieme ad altri due pezzi da novanta: Oliver Stone e David Lynch. Per il primo aveva prodotto e selezionato i brani della colonna sonora del cult movie anni ’90 Assassini nati – Natural Born Killers; per il secondo aveva invece curato le scelte musicali di Strade perdute. Il suo primo lavoro di composizione completa per una pellicola l’ha però ottenuto con The Social Network e si può dire che gli è riuscito il classico centro al primo colpo. Un colpo parzialmente ripetuto poi con le musiche composte per Millennium – Uomini che odiano le donne, sempre in coppia con Atticus Ross, che questa volta non è valso loro un Oscar ma “solo” un Grammy Award, e ora con Gone Girl. La soundtrack
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Tracklist 1. “What Have We Done to Each Other?” 2. “Sugar Storm” 3. “Empty Places” 4. “With Suspicion” 5. “Just Like You” 6. “Appearances” 7. “Clue One” 8. “Clue Two” 9. “Background Noise” 10. “Procedural” 11. “Something Disposable” 12. “Like Home” 13. “Empty Places (Reprise)” 14. “The Way He Looks at Me” 15. “Technically, Missing” 16. “Secrets” 17. “Perpetual” 18. “Strange Activities” 19. “Still Gone” 20. “A Reflection” 21. “Consummation” 22. “Sugar Storm (Reprise)” 23. “What Will We Do?” 24. “At Risk”
COLONNE SONORE
Jimmy’s Hall,
la colonna sonora tra jazz e folk irlandese AL CINEMA DAL 18 dicembre 2014 di Marco Goi per Oggialcinema.net
Jimmy’s Hall è il nuovo film di Ken Loach, un nome, una garanzia di britannicità. Questa volta il regista inglese si sposta un pochino più in là e torna a parlarci dell’Irlanda che già era stata protagonista del suo Il vento che accarezza l’erba, film Palma d’Oro al Festival di Cannes 2006. Anche il periodo storico resta pressapoco lo stesso. Con Jimmy’s Hall Ken Loach ci riporta indietro agli inizi degli anni Trenta, ma questa volta lo fa con un piglio un po’ più leggero e con toni maggiormente da commedia, sebbene la storia non risparmi anche qualche risvolto drammatico. La musica ricopre un ruolo particolarmente importante all’interno di questo ultimo lavoro di Ken Loach. Il titolo del film Jimmy’s Hall si riferisce infatti a una sala da ballo in cui passano il loro tempo libero i personaggi della pellicola. Il protagonista Jimmy Gralton (interpretato da Barry Ward), dopo dieci anni passati negli Stati Uniti, porta dal nuovo continente alla vecchia Irlanda la sua passione per il jazz, un genere che quindi è predominante all’interno della soundtrack del film. Un sound che inoltre fa il paio perfetto con un’altra soundtrack arrivata in questo periodo, quella di Magic in the Moonlight, la nuova fatica di quel patito di jazz che risponde al nome di Woody Allen, ambientata tra l’altro nello stesso periodo temporale, anno più, anno meno. Jimmy’s Hall si avvale di uno score originale molto intenso ed emozionante realizzato da George Fenton. Il compositore britannico nel corso della sua lunga carriera ha collezionato quattro nomination agli Oscar per le pellicole Gandhi, Grido di libertà, Le relazioni pericolose e La leggenda del re pescatore, senza però riuscire mai a mettere le sue mani sulla statuetta. Fenton è inoltre un collaboratore di lunga data di Ken Loach, per cui aveva già firmato le soundtrack di film come Ladybird Ladybird, Terra e libertà, My Name Is Joe, il citato Il vento che accarezza l’erba e l’ultimo La parte degli angeli. La coppia regista/compositore funziona alla perfezione anche in
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quest’ultima occasione e le musiche di Jimmy’s Hall riescono a essere brillanti durante le scene di danza e toccanti durante le sequenze più drammatiche. Nel film in più è usato “Siúil, a Ghrá”, un vecchio brano della tradizione folk irlandese. Il punto di forza della colonna sonora di Jimmy’s Hall sta però tutto nelle valide musiche di George Fenton che, dopo l’affascinante lavoro realizzato per The Zero Theorem di Terry Gilliam, quest’anno ha fatto un altro centro pieno.
Speciale Film
DANZED AND CONFUSED AL CINEMA il 2 e 3 il dicembre 2014
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Nick Cave e uno che ama definirsi “un impiegato della musica”, un po’ per vezzo, un po’ per condividere con il suo pubblico la ferrea autodisciplina che si è imposto, dopo i tanti baratri schivati per miracolo nel suo passato “dazed and confused” di outsider, dai retroscena moralmente opinabili. Rischiando di finire nel pantheon delle “vite bruciate” del rock. Lunga chioma nera, viso emaciato, sguardo tetro e profondo: Nick Cave ha anche le caratteristiche fisiche del poeta maledetto. E il suo vasto repertorio non è da meno: disperazione, orrore e morte si inseguono in canzoni malate, ossessive, ma sempre pervase da un’ansia di redenzione. E’ destino degli autori controcorrente come Cave essere fraintesi. Ma l’ambiguità, tra bene e male, vita e morte, follia e lucidità, ha sempre segnato l’opera del “bardo di Melbourne”. Un autentico stacanovista del rock. Suona, canta, scrive, compone, recita, immagina, agisce, architetta versi e trame, diventa attore. Non si ferma mai. Musica, letteratura, cinema: ogni arte ha il potere di sedurlo e di risucchiarlo tra le sue forme, i suoi tempi, i suoi stilemi. Un artista senza definizione. Un eccentrico spirito che ha calcolato i giorni trascorsi sulla Terra e ha deciso di raccontarli, facendo confluire davanti alla macchina da presa dei registi Iain Forsyth e Jane Pollard un estratto della sua versatilità. Quasi a voler imprimere su pellicola le sue arti vibranti ed ineffabili. “20,000 Days on Earth” è la
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rappresentazione romanzata di 24 ore nella vita di Nick Cave. I due registi sono partiti da un’annotazione scribacchiata da Cave nel suo diario, in cui scopriva di aver raggiunto i 20.000 giorni di vita, ottenendo totale libertà di riprendere la vita privata e pubblica del loro attore. Gli hanno piazzato le telecamere nelle stanze di casa, a Brighton, nell’auto, nello studio londinese dove il musicista si reca quotidianamente. Perché: “il fuoco sacro dell’ispirazione non scende dal cielo. L’ispirazione è un bisogno che va alimentato”, dice l’artista, protagonista nei panni di se stesso. “E perciò io vado in ufficio tutte le mattine, per cercarla. Ci vado tra le 8 e le 9, ogni giorno, e lì non trovo alcuna distrazione: solo una tastiera e una scrivania”. Elementi che evidentemente corrispondono al suo nutrimento quotidiano del suo processo creativo. Solo così, i Bad Seeds si trasformano in oggetti meravigliosi. Le idee, ancora da formare, in stato larvale, diventano poesia. Spesso in auto, il luogo privilegiato in cui i pensieri di Cave si materializzano nella forma e attraversano le persone che hanno avuto un ruolo nella sua storia. A differenza di quanto accadrebbe in un documentario tradizionale, questo film intreccia finzione e realtà fondendoli con un viaggio poetico e intenso in una “giornata immaginata” della vita di Cave, per tracciare un ritratto intimo e profondamente sincero del suo processo artistico. Per quasi due ore, immaginiamo di trovarci per 24 ore nella vita dell’iconoclasta rockstar Nick Cave. Una pellicola ibrida che rilegge, bilanciando i momenti ordinari con quelli straordinari, le sfumature di Nick Cave. Quelle che non abbiamo ancora colto o esplorato. Sfogliando tutti i particolari, incrociando le nostre impressioni con la sua realtà interiore, con il suo stile,
Speciale Film
Quelle che non abbiamo ancora colto o esplorato. Sfogliando tutti i particolari, incrociando le nostre impressioni con la sua realtà interiore, con il suo stile, libero da schemi precostituiti. Esaminando profondamente ciò che ci trasforma in quel che siamo, celebrando il potere di trasformazione dello spirito creativo. Nel passaggio da visione a materia. Esplorando gli abissi della mente, ai confini con (e spesso oltre) la follia. La pellicola unisce narrazione a prospettive, scrittura a vita vissuta, musica a profonde sedute di autocoscienza, in cui viene a galla tutto il genio di Nick Cave, la sua conturbante personalità, il suo rapporto esclusivo e intenso con la parola. Accolto con entusiasmo dalla critica al Berlinale e al Sundance Festival è già considerato un’ode lirica e inventiva alla creatività nonché un vero e proprio spartiacque del genere. In occasione dell’uscita nei cinema italiani del film il 2 e 3 dicembre - che nel cast vede la presenza dei Bad Seeds e di una splendida Kylie Minogue - arriverà nei negozi anche un vinile in edizione limitata con l’inedito Give us a Kiss, suonato in alcune date del Push The Sky Away tour, ed una versione di Jubilee Street registrata alla Sidney Opera House. Da qualcuno è stato definito la voce dell’apocalisse. Per il suo potere di terrorizzare e illuminare, sconcertare e commuovere.
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IN EUROPA, WITH LOVE AL CINEMA DAL 4 dicembre 2014
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
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Chris Wilton (Jonathan Rhys-Meyers) sta leggendo Delitto e Castigo, affrontando nel corso della pellicola gli stessi turbamenti vissuti a San Pietroburgo, ma consumati oggi tra le strade di una metropoli occidentalissima. È la Londra di Scoop, di Sogni e delitti, degli inevitabili intrecci di Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, quella nuda e complessa in cui qualcuno muore, qualcun altro uccide e i rapporti cambiano. Complice, la città, un’ombra che nutre i vizi e nasconde gli orrori. La sua traiettoria è virata in Spagna con “Vicki Cristina Barcelona”. Tra un viaggio a Oviedo e una cartolina degli scenari bohemién di Barcellona si distinguono i tratti tortuosi dell’arte di Gaudí. Il fatto che il regista abbia scelto Barcellona inserendola addirittura nel titolo del film non è un caso, l’obiettivo era di scrivere una storia in cui Barcellona fosse un personaggio come gli altri. Una città piena di bellezza visiva, con una sensibilità molto romantica. In cui riecheggia il suono del flamenco, sublimando la passione mediterranea di Barcellona. Una sensualità che alimenta il tradimento. La narrazione di Allen invade Parigi, permeata dall’estetica della belle epoque. Un magico viaggio tra le ninfee e i ponticelli giapponesi della celebre Casa di Claude Monet, a Giverny, poco fuori Parigi. Questa pellicola è l’occasione di riunire nella sua città del cuore i suoi scrittori del cuore, i musicisti, i pittori che ama, le epoche che lo affascinano, l’atmosfera nostalgica di una Parigi che si trasforma, che merita l’esaltante contaminazione di Hemingway e Dalí, Fizgerald e Man Ray, l’insolenza di Picasso, le note di Cole Porter. A mezzanotte, a Parigi, può succedere di tutto perché così ha deciso il regista, che svuota il suo cassetto di desideri disordinati e lascia che ciascuno prenda il proprio posto, esattamente come Gil (Owen Wilson) al mercato delle pulci. Una Parigi che crea illusione. E dipendenza.
Otto degli ultimi nove film di Woody Allen (l’eccezione è stata “Blue Jasmine”, girato a San Francisco) sono ambientati in Europa, anziché nella sua New York, la città in cui è nato, il suo originale epicentro creativo. La terribilmente amata New York, cartolina dei suoi capolavori ma soprattutto luogo dell’anima. Quella idolatrata e mitizzata, quella avvolta in un sublime in bianco e nero eppure sfavillante in cui sembrano esistere più di dieci motivi per cui valga la pena vivere, quella in cui il viso di Tracy appare persino più bello. Quella che l’altolocata Jasmine (Cate Blanchett) abbandona per San Francisco, in una nevrotica discesa all’interno di sé. Quella della panchina davanti al Queensboro Bridge, in cui lui stesso fece la più appassionata dichiarazione d’amore alla Grande Mela: “Questa è davvero una grande città, non importa cosa dicono gli altri”, dipingendo il quadro di un’affascinante New York, esaltandone la bellezza e la poesia. Oggi, nella poetica di Allen, New York è ancora li, immobile, come in una boule de neige. La sua rinascita e conversione al mood europeo ha avuto inizio nel 2005 con “Match Point”, girato a Londra. Un set intriso di contaminazioni dostoevskiane. In una delle primissime scene
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Da Parigi alla Città Eterna la strada non è così lunga. Una Roma a tratti esotica, fotografata in un nitido colore bruno, viene eletta a “luogo” simbolico di incroci maliziosi e capricciosi, spesso cinici, in un tributo al cinema di Fellini e Antonioni. Tra pomeriggi estivi e panorami mozzafiato, si fondono immagini, dettagli, colori di un tempo particolarmente malinconico. Lo sguardo del regista si sofferma sulle rovine e sui rimpianti. Come in un tempo che sembra essersi proustianamente fermato per Woody. In una Roma surreale. Infine, “Magic in the Moonlight”, l’ultima fatica di Allen, girata nel sud della Francia. Una lunga sequenza inquadra le ville sfarzose, i locali intrisi di musica e gli affascinati scenari della Costa Azzurra nell’epoca d’oro del jazz, con i suoi splendidi paesaggi e colori, gli stessi che esercitarono un fascino irresistibile e duraturo per le peregrinazioni europee di tanti artisti statunitensi (dalla folgorazione di Scott Fitzgerald a quella di Heminway). Una cartolina come le altre capace di ingannarci. Di nascondere tra le pieghe del luogo il cinismo di Allen che ci insegna, ancora una volta, quanta magia possa esserci dietro il velo ingannatore della realtà.
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THE WHO,
IL RITORNO IN SALA DI QUADROPHENIA AL CINEMA DAL 10 dicembre 2014 di Marco Goi per Oggialcinema.net
Chi sono i The Who? La domanda potrà suonare come un’eresia alle orecchie dei loro fan, ma può essere considerata legittima, se non altro per i lettori più giovani e per i profani del rock. E poi, diciamolo, con il nome che si sono scelti, se la sono proprio andata a cercare. Volendo riassumere brevemente la carriera dei The Who, possiamo dire che sono “solo” uno dei gruppi più importanti di tutta la Storia del rock’n’roll. Il gruppo londinese formato da Pete Townshend, Roger Daltrey, John Entwistle e Keith Moon, almeno nella storica formazione originale, ha pubblicato un sacco di canzoni popolarissime a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e diventate oggi degli autentici classici, come l’inno generazionale “My Generation” e l’emozionante ballatona
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“Behind Blue Eyes”, oltre a “Who Are You“, “Won’t Get Fooled Again” e “Baba O’Riley“, diventate poi le sigle delle serie tv CSI, CSI: Miami e CSI: New York. Anche i loro album hanno segnato la storia del genere, in particolare “Tommy”, che in Quasi famosi – Almost Famous viene proposto da Zooey Deschanel al fratellino protagonista della pellicola come il disco che gli cambierà la vita. Infatti sarà proprio così. L’album “Tommy” può inoltre essere considerato una vera e propria “rock opera” e nel 1975 è anche diventato un film diretto da Ken Russell. Un destino analogo a quello dell’altro grande disco fondamentale nella carriera dei The Who: Quadrophenia. Pubblicato nel 1973, è anch’esso una rock opera trasformatasi in una pellicola vera e propria che sviluppa la storia del protagonista James Michael Cooper interpretato da Phil Daniels, proprio quello che negli anni ’90 parteciperà al singolo “Parklife” dei Blur. Il film di Quadrophenia, diretto da Franc Roddam e con nel cast tra gli altri un giovanissimo Sting, è arrivato nelle sale per la prima volta nel 1979. Si tratta di una trasposizione cinematografica della storia raccontata da Pete Townshend nell’album, accompagnata dalla musica del gruppo e da canzoni di artisti vari che comprendono James Brown, Ronettes, Crystals, Kingsmen, Marvin Gaye e Booker T & The ‘M.G.’s. L’ambientazione del film ci riporta indietro fino al 1964, il periodo d’oro dei Mod, il fenomeno culturale e di moda di cui i The Who sono stati tra i massimi esponenti e la pellicola è un vero e proprio inno giovanile alla ribellione contro il sistema e contro il conformismo. Qualcuno a questo punto penserà che questo tuffo nel passato è bello e tutto, ma perché Oggi al cinema se ne occupa proprio adesso? Perché Quadrophenia ritorna nelle sale italiane in via eccezionale mercoledì 10 dicembre in una nuova versione restaurata e digitalizzata. Oltre a essere un appuntamento imperdibile per i fan dei The Who e del rock in generale, ci sentiamo di consigliare una visione anche al pubblico di “profani”, sia perché si tratta di una pellicola interessante a livello cinematografico, sia perché rappresenta un efficace ritratto, non solo musicale, ma anche sociale e storico, di un decennio tutto da rivivere. O da vivere per la prima volta. Quelle che non abbiamo ancora colto o esplorato. Sfogliando
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Glamour
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LA SCARPA, INDOSSATA AD ARTE.
di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Anche Monna Lisa per volere di Leonardo da Vinci, desideroso di esaltarne la figura e renderla più slanciata e sensuale, si convertì al tacco. Un gioco di altezze che piaceva già ai tempi delle matrone greche e romane e a lei, Caterina de’ Medici che, in occasione delle sue nozze col Duca d’Orléans, sfoggiò un paio di tacchi per camuffare la sua minuta statura. La scarpa col tacco alto è l’intrigante protagonista della mostra Killer Heels: The Art of the High-Heeled Shoe al Brooklyn Museum, aperta fino al 15 febbraio 2015. Uno degli oggetti più provocatori, simbolo di seduzione. Il dettaglio più sensuale, sexy ed estremo del guardaroba femminile. Con più di 160 modelli, da quelli artistici e di lavorazione laboriosa del XVII secolo a quelli contemporanei, la mostra The Art of the High-Heeled Shoe esamina il potere mistico e l’arte trasformativa delle scarpe con il tacco. Tessuti damascati, modelli in cristallo, suole rosse, zeppe intagliate nel legno, inserti in plastica: passato e futuro delle calzature convivono in un’esposizione che racconta l’evoluzione della storia della moda, un esempio di architettura, scultura. La mostra ripercorre i cambiamenti di stile e simbolismo avvenuti dal ‘700 ad oggi, scoprendo le calzature che hanno lasciato il segno nella storia della moda: si va dagli stiletto di Ferragamo realizzati per Marilyn al surrealismo di Elsa Schiaparelli. Senza dimenticare le vertiginose altezze di Vivienne Westwood, protagoniste della caduta di Naomi Campbell in passerella nel 1993. Modelli iconici, sintesi della collaborazione con i Grandi maestri dell’arte come Salvador Dalí (1937-1938) o l’archistar Zaha Hadid. I modelli contemporanei in mostra comprendono “Printz” di Christian Louboutin della collezione Primavera/Estate 2013-14, le pump Céline in pelliccia di visone; gli stivali in pelle nera con un tacco da 8 pollici disegnato da United Nude per Lady Gaga (2012). La mostra presenta inoltre sei cortometraggi a tema che sono stati commissionati per l’occasione da artisti come Ghada Amer e Reza Farkhondeh, Zach Oro, Steven Klein, Nick Knight, Marilyn Minter, e Rashaad Newsome. Un vero omaggio alla creatività dei designer e al coraggio delle donne che indossano i “killer heels”. A conferma che certe cose non cambiano mai. Abbiamo ricordato tutte quelle scarpe che magari non ci hanno cambiato la vita, però ci hanno permesso di affrontarla meglio. Sconvolgendo il cinema, la moda, il nostro concetto di costume.
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Un viaggio che ha origine dalle scarpette di cristallo di Cenerentola, che Louboutin ha immaginato e disegnato in una sua speciale collezione realizzata nel 2012, a quelle rosse di Dorothy ne Il mago di Oz. Dalle le ballerine Ferragamo di Audrey alle le Keds in tela bianca indossate dalla Baby di Dirty Dancing, correndo fino alle Nike nuove di zecca (e poi logorate) di Forrest Gump e quelle danzanti in “Footloose” . Passando per le le pumps Manolo Blahnick di Carrie Bradshaw. Ecco le calzature più celebri del grande schermo. Mille, coloratissime, sfarzosissime paia di scarpe per la viziatissima Marie Antoinette, nel film di Sofia Coppola del 2006 che rilegge in chiave pop la storia della regina di Francia decapitata insieme a Luigi XVI nel 1793. Manolo Blahnik e Christian Louboutin ci hanno messo la firma. La chicca: in una breve scena del film, la regista figlia di Francis Ford Coppola inserì volutamente un paio di Converse All Stars, generando un simpatico anacronismo. Altra pellicola che ha come motivo ricorrente le scarpe è il film “In Her Shoes, in cui Cameron Diaz e Toni Collette sono due sorelle molto diverse: l’unica passione che le accomuna sono proprio le scarpe. Famosissima la locandina del cult ambientato nel mondo della moda con Meryl Streep e Anne Hathaway,”Il diavolo veste Prada”, con una décolleté col tacco a forma di diabolico forcone. In questa pellicola Jimmy Choo è il guru del guardaroba di Runway. Scarpe di ogni colore e ogni foggia sono appese ad un filo in una celebre scena di “Big Fish”, surreale pellicola di Tim Burton. Degni di nota gli stivaletti rossi di Rose in Titanic indossati prima della scena del famoso ballo in terza classe. Non si conosce il nome dello shoe designer ma si sa che appartiene alla tradizione italiana. La celebre scarpa indossata da Marylin nel film “Gli uomini preferiscono le bionde”, disegnata da Salvatore Ferravamo, è impressa nell’immaginario universale. Non hanno il tacco, ma hanno fatto storia: le Onitzuka Tiger gialle. Sono tra le scarpe più rappresentative del cinema, indossate da Uma Thurman in Kill Bill.
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LA SCARPA, INDOSSATA AD ARTE.
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La moda come la fisica.
SUBLIMATA NEL CINEMA di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
Tra mode passeggere e capi che rimarranno attuali per i secoli dei secoli, abbiamo mappato i trend di questo inverno. L’imperativo è la sovrapposizione, di vecchi frame e nuovi modelli, principio della matematica e della fisica che riguarda le trasformazioni e le interferenze. Lo stesso concetto si traduce nella moda, che si piega ad infinite soluzioni contemporaneamente possibili e alternative plausibili. Uno diventa molteplice. Il molteplice si riassume nell’unità. Quello che è stato un tempo, in una vecchia pellicola, domani, sarà ancora. Come in una trasformazione chimica, da reminescenza liquida a materia glamour attuale. La femminilità contemporanea è un insieme sfaccettato di variabili che si miscelano, facendo confluire in un unico paradigma delicatezza e forza, sensualità e rigore. L’equazione di questa moda si traduce sul grande schermo o ne trae ispirazione. Rievocando grandi miti, tracciando paradigmi nuovi. In nome di una libertà di pensiero che è il vero must della donna di oggi. Ecco a chi ispirarsi per cogliere l’essenza di questa stagione.
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Look boyfriend L’inverno ha già delineato uno stile prevalentemente mascolino fatto di giacche, jeans boyfriend e tanto tweed. Una delle dive di riferimento del glamour, quando ancora dovevano inventarselo, è Marlene Dietrich. In “Marocco“ interpreta una showgirl perduta, abbigliata in abiti maschili, cilindro nero, frac con papillon bianco e stringate maschili. Marlene fu la prima a giocare con i codici dell’abbigliamento maschile, tenendosi sempre sul filo teso dell’ambiguità sessuale. Perfetta incarnazione dello stile Dior, senza tempo. Il Cappotto over La tendenza oversize comincia negli anni ottanta, quando le donne in carriera ostentano tailleur con le “spallone” super imbottite per dimostrare il loro successo. Oggi la moda extra large continua ad impazzare e il cappotto ne è il protagonista indiscusso. Nulla a che fare con la tragica drammaticità del film di Alberto Lattuada. Lungo, lineare, rubato dal guardaroba di lui. Spigato o in lana tartan per mise eleganti e trendy. In “The Grand Hotel Budapest”, Fendi ha realizzato un maxi cappotto in stile militare doppiopetto di astrakan grigio, mentre ha impreziosito di visone nero i bordi, il collo e il manicotto della sontuosa mantella di velluto di seta italiana dipinta a mano indossata da Madame D., impersonata da Tilda Swinton. La novità? E’ proprio la blanket coat, ovvero la mantella, declinata in diversi modelli, dal poncho alla vera e propria coperta, perfetta per i primi freddi. Corta, lunga, in maglia, in piumino, in pelliccia, in versione geometrica o check plaid. Oppure con cappuccio e ricamata come nelle fiabe. Nel 1931 usciva nelle sale cinematografiche americane “Mata Hari” con protagonista Greta Garbo, nei panni dell’avvenente spia doppiogiochista, condannata a morte per tradimento durante la prima guerra mondiale, che indossava una splendida mantella di velluto nero come la notte. Negli ultimi anni la mantella è tornata in primo piano, viste le uscite di grandi colossal fantasy internazionali. Indossata dalla bella Amanda Seyfried in “Cappuccetto rosso sangue” o ancora addosso a Daniel Radcliffe ed Emma Watson nell’ultimo capitolo di “Harry Potter e i doni della Morte”, o dalla vampira Dakota Fanning nel primo degli ultimi due capitoli della saga di Twilight. E non ci stupiremmo di rivedere al più presto il capo, che più di tutti ammanta di mistero per sua definizione le più belle storie d’amore e inganni, ancora una volta sul grande schermo. Le stringate maschili. Le fashioniste le conoscono come brogues, oxford o derby shoes ma in italiano sono le stringate maschili. E, da circa 80 anni, le indossano anche le donne. Dalle classiche Oxford, impreziosite da borchie, animal print, inserti in cavallino colorato o vernice, ai modelli estremi con suola platform, vero must di stagione. Nel 1977 Diane Keaton le indossa nel famosissimo Io e Annie, facendole divenire un capo emblematico del suo look anche fuori dal set. Vestita da Ralph Lauren si impone un nuovo ideale di femminilità, tra il mannish e l’ironico. Poi fu la volta di Isabella Rossellini, che nel 2003 si presenta al Lido di Venezia in completo gessato gilet-pantaloni e derby. Le brogues spopolano fra le fanatiche del look shabby chic, ai piedi di attrici, cantanti e celebrities.
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La chicca? La sera d’inverno scintilla, brilla, si illumina. Scegliete accessori dai dettagli metal o richiami lurex. Rievocando il mood del capolavoro “Gli uomini preferiscono le bionde” in cui Marilyn sfoggia un abito diventato cult, dorato e plissettato. Gli accessori Vi consigliamo di rispolverare il cappello dal taglio maschile di Audrey Tautou, che interpreta Coco Chanel, il foulard indossato da Carey Mulligan in una scena del film Il Grande Gatsby e gli occhiali tondi di Nicole Kidman in una sequenza del film Eyes Wide Shut, in stile Harry Potter. Passando dalle piume del “Cigno nero” che invadono il guardaroba di questo inverno, fino a cogliere le sfumature hipster dei Tenebaum, sempre di moda. Infine, un fermo immagine su pret a porter. Perché nessuno come il grande Altman ha saputo descrivere con maggiore maestria il grande circo della moda, che come un gomitolo di lana, si aggroviglia su ogni pellicola.
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THE FACE
Rosamund Pike. Ghiaccio bollente di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net
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THE FACE
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È stato tutto chiaro, sin dalla prima presentazione. Frost, Miranda Frost. Era il nome del personaggio che ci ha fatto conoscere Rosamund Pike, la Bond Girl de La morte può attendere, ultimo 007 dell’era Brosnan. Frost significa gelo. Ed era questo che ci era piaciuto dell’algida Rosamund, che ci appariva vestita di bianco e di strass, glaciale e (apparentemente) pura in un mondo di ghiaccio. Quell’espressione affascinante e controllata, imperturbabile, quel sorriso arcaico difficile da leggere, che può spostarsi con pochi, impercettibili cenni, da dolce a perfido, ci aveva conquistato subito. La Miranda Frost di Rosamund Pike, dopo averci ammaliato con il suo sorriso e le sue maniere, ci tradiva. E tradiva Bond, dopo aver fatto l’amore con lui. Un classico, capitato in molti film di 007. Ma quella biondina così dolce ci aveva ingannato proprio bene. Inglese, laureata in letteratura inglese a Oxford, abile studentessa e suonatrice di piano e di violoncello, Rosamund Pike per anni non ci ha regalato più le emozioni di quel primo incontro. Sembrava essersi stabilizzata in percorsi più rassicuranti. Come i film in costume, quell’Orgoglio e pregiudizio diretto dal compagno Joe Wright, dov’era la spalla di Keira Knightley, o The Libertine accanto a Johnny Depp. O come film elegantemente retrò, ambientati negli anni Sessanta, come We Want Sex o An Education, dove ha avuto l’intelligenza di ritagliarsi dei ruoli da comprimaria. Ha saputo spesso fare anche questo, come nel recente Non buttiamoci giù, la Pike. Ma il rischio era di non ritrovarla più in un ruolo principale. Questo fino a che non è arrivato uno di quei ruoli che possono cambiare una carriera. Quello che David Fincher le ha ritagliato ne L’amore bugiardo – Gone girl. La sua Amy è la riedizione dell’algida bionda Hitchcockiana, donna che visse due volte, o forse di più, forse frigida come Marnie. Fincher l’ha scelta perché, come Amy, è una figlia unica, una che è cresciuta senza dover dividere l’affetto familiare con nessuno, sempre al centro dell’attenzione. Una prima della classe, con una vita apparentemente perfetta. Per il ruolo, Rosamund Pike ha dovuto ingrassare e dimagrire più volte, prima a forza di hamburger e poi di duri allenamenti di boxe. Insomma, dietro a quell’immagine algida e affascinante c’è grinta e determinazione. La foto promozionale, scattata dallo stesso Fincher, che la ritrae sulla copertina del mensile di moda W, dice tutto sul suo ruolo e sul trasformismo di Amy: metà del volto è perfettamente truccato e scintillante, ma sull’altra parte Rosamund passa uno straccio per levarsi il trucco. È come un inganno che si svela, un castello di carte che crolla come il matrimonio perfetto di Nick ed Amy. Ma quella foto ci vuole dire anche altro. Che la Rosamund Pike che abbiamo visto finora al cinema non è ancora niente. E che la sua carriera, probabilmente, comincia solo ora. “Quando sei vestita come Miranda Frost, la gente pensa che tu abbia un carattere simile. Ma io avevo solo 21 anni e stavo tremando”
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“Quella di Daniel Day Lewis ne Il nome del padre è stata la prima performance che mi ha fatto pensare a quanto incredibile sia recitare. L’ho trovato sexy e credibile. Mi ha portato in un altro mondo. Alla fine del film ero in un fiume di lacrime.” “Credo che sia OK recitare secondo i propri punti di forza. E io ho questa caratteristica di “inglesità” che al pubblico piace, e non la nasconderò. Probabilmente non interpreterò mai una tossica e questo va bene, perché c’è gente che lo può fare molto meglio. Un punto di vista che è stato sostenuto a lungo è che un attore per provare la propria bravura debba scegliere i ruoli più coraggiosi che ci sono. Non sono d’accordo” È THE FACE del mese di dicembre perché: è la riedizione dell’algida bionda hitchcockiana che al cinema di oggi mancava. Ne L’amore bugiardo – Gone girl riesce a trasformarsi e a ingannare noi, oltre che se stessa. Una prova straordinaria. Che può essere l’inizio di una nuova carriera.
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SPECIALE NATALE
24, ANZI, 25 VOLTE NATALE di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net
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SPECIALE NATALE
24, ANZI, 25 VOLTE NATALE di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net 1- C’è posta per te. Per esaltare l’effetto benefico del Natale come ritorno all’infanzia dello spirito, il tempo benedetto in cui non ci si vergogna di ridere e scherzare, ballare e gustare il cibo, sentirsi bambini e versare lacrime di gioia. 2- Polar Express. La trama sognante, tratta dall’omonimo racconto scritto e illustrato da Van Allsburg, basterebbe come scusa per vederlo. Merita l’ironico Tom Hanks negli insoliti panni di sei personaggi diversi, protagonista di otto anni compreso. Non sempre la tecnologia 3D rende un buon servizio alle favole: in questo caso, però, la magia è assicurata. 3-The nightmare before Christmas. Perché c’è la firma di Tim Burton. Se non bastasse, perché è un capolavoro della tecnica stopmotion e perché ci fa capire che ognuno ha la sua utilità nel mondo.
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4- Il Grinch. Forse la storia del Grinch è così memorabile perché, se siamo onesti, possiamo immedesimarci in lui. E se Il Grinch riuscì a trovare il buono nel Natale quando imparò a guardare oltre le trappole mondane, c’è speranza per tutti noi. 5-Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato: Gli Umpalumpa sono un mito. 6- The Family Man: Per la frase indelebile nella storia del cinema. “So che potremmo andare ognuno per la propria strada e ce la caveremmo bene, ma ho visto cosa potremmo vivere insieme. E io scelgo noi”. 7- Miracolo nella 34 strada. Un must del Dopoguerra hollywoodiano, un gioiello di poesia e umorismo che non sente minimamente il peso degli anni.
8- Edward mani di forbice: Potrei elencare un milione di motivi per cui rivedere ancora una volta questa parabola postmoderna sui pericoli della diversità. Alcuni critici l’hanno definito il miglior film di Tim Burton. Uno dei pochi film che hanno l’immenso pregio di non somigliare a nessun altro. È una forte bizzarria creativa poco integrata con la società. Per capire l’origine dell’aggettivo burtoniano, quello vero, quello più autentico. Una storia strappacuore, dal retrogusto amaro. Da vedere e basta. 9- Incontriamoci a Saint Louis. Una chicca. Una leggerezza cinematografica che non può che concludersi con l’accensione delle mille luci di Saint Louis.
10- Una poltrona per due. Una commedia impeccabile, che fa sbellicare dal ridere con una serie di gag che non stancano mai. Perché in questo periodo è necessario anche ridere. Accompagnati dall’inconfondibile sonorità di Eddy Murphy. 11- “La vita è meravigliosa”. Puntate sul sicuro con uno dei grandi classici senza tempo. Non potevamo non citarlo. Non potevamo. Questa è l’America di Frank Capra, un Paese nel quale le coscienze profumano di bucato e il bene prima o poi vince sempre. Questa pellicola del’46 è il simbolo di una riscossa prima di tutto morale che investe l’uomo comune, splendidamente interpretato da Jimmy Stewart con i suoi sogni infranti, le paure, gli sconforti e la tentazione di gettare la spugna e che culminano nel miglior lieto fine mai girato a Hollywood.
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12- La vera storia di Babbo Natale - Santa Claus. Per chi, come me, crede ancora a Babbo Natale nelle fattezze di David Huddleston.
17- Il diario di Bridget Jones. Quest’anno il maglione con la renna di Mr Darcy è tornato di moda. Frugate nei vostri armadi per il perfetto outfit natalizio.
13- L’amore non va in vacanza. Se vi sentite soli, cambiate aria. Jude Law potrebbe bussare alla vostra porta.
18- La neve nel cuore. Da inserire nella saga della programmazione “parenti serpenti”.
14- Love Actually. Per ballare come Hugh Grant nelle vesti del primo Ministro Inglese sulle note di “I feel it in my fingers”. 15- Babbo Bastardo. In previsione di cene infinite e relative calorie assunte, traffico isterico, negozi stracolmi e consegne forsennate, un po’ di cattiveria prima di tornare ad amare il Natale. 16- La bella e la bestia. Impagabile. Come la voce di Gino Paoli che sul finale sussurra “ti riporta via, come la marea, la felicità...”
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19- Bianco Natale. Un classico. Firmato dal regista di Casablanca. Il lieto fine è innevato. 20- Canto di Natale di Topolino. Ispirato al racconto di Charles Dickens. Da suggerire al tirchio zio Scrooge presente in ogni famiglia. Quel progressista aristocratico, conoscitore del prezzo d’ogni cosa e del valore di nessuna che inizia a tremare quando i nipoti si avvicinano minando scompiglio nella sua perfettamente equilibrata e doviziosa esistenza. Sperando in una redenzione natalizia, convinti che anche un’anima di cartone possa brillare a Natale.
21- Arthur Christmas. Per capire come poter consegnare regali in tutto il mondo nell’arco di una notte, slitta Enterprise a parte, entra in gioco la matematica. In base ai calcoli di Larry Silverberg, professore di Ingegneria meccanica e aerospaziale presso la North Carolina State University, Santa Claus deve consegnare, nella notte di Natale, doni a circa 200 milioni di bambini disseminati su 517.997.622 chilometri quadrati. Poiché in ogni casa abitano, in media, 2,67 bambini, l’anziano benefattore avrà circa 75 milioni di abitazioni da visitare, alla distanza media di 2,62 chilometri, e dovrà percorrere pressapoco 196.340 chilometri. Semplice, basta andare circa 8.180.295,55 chilometri orari. 22- Fred Claus. Se volete divertirvi con un Vince Vaughn scatenato tra gli elfi, sulle note di Elvis, questo film fa al caso vostro.
23- Lo schiaccianoci. Il balletto di Čajkovskij trasposto per il grande schermo evoca sempre, in sospensione tra fiaba e sogno, la magia della vigilia di Natale. 24- Mamma ho perso l’aereo. Un cult della mia generazione. Per chi ha, ancora, impresso nella mente il delizioso Macaulay enfant prodige e non quello tossico che bazzica i festini.
Natale- E.T. l’Extraterrestre. E’ veramente complicato dire qualcosa di originale su questo capolavoro di Steven Spielberg che da trent’anni commuove ed emoziona bambini e adulti. Da vedere perché, in fondo, siamo tutti un po’ alieni sulla Terra, in attesa del Meraviglioso.
SPECIALE TOP TEN
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FILM 2014
TOP TEN
Ci hanno fatto commuovere, alcuni ci hanno ricordato chi siamo, hanno diviso e aperto dibattiti, ci hanno proiettato in mondi paralleli, ci hanno sorpreso, deluso o fatto ridere. Sono i film di una stagione cinematografica che volge al termine, iniziata sotto il buon auspicio dell’Oscar a “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino e proseguita tra grandi ritorni d’Oltreoceano, sperimentazioni e un’iniezione di commedie italiane per rimpinguare un magro box office. Farne un bilancio non è facile, tantomeno stilare una classifica. Noi ci proviamo con una top ten che rappresenti nel migliore dei modi l’anno cinematografico che stiamo per lasciarci alle spalle.
I DIECI MIGLIORI FILM DEL 2014 di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net
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The Wolf of Wall Street La quinta collaborazione tra Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio ha ipnotizzato il pubblico in sala. Psichedelico e allucinogeno viaggio nella vita del celebre broker newyorchese Jordan Belfort, il film verrà ricordato soprattutto per la delirante performance di DiCaprio, qui a un passo dall’Oscar e completamente alla mercé del suo mentore, capace in un ciak di fargli fare di tutto: sbiascicare, folleggiare, farfugliare in preda all’ennesimo mix di sonniferi e coca o strisciare vittima delle allucinazioni. Anarchico e scorretto come “Animal House”, sfrontato e criminale come “Quei bravi ragazzi”, “The Wolf of Wall Street” racchiude le molteplici anime di un filmmaker che non ha certo bisogno di conferme, esplosivo nel raccogliere tutte le suggestioni che ne hanno caratterizzato il cammino artistico.
Lei Impossibile non innamorarsi di un film come quello in cui Spike Jonze si avventura nei meandri del fantascientifico, per indagare il sentire dell’uomo contemporaneo attratto e fagocitato dalle nuove frontiere della tecnologia. “Lei” è la singolare storia d’amore tra Theodore (l’estro e la genialità di Joaquin Phoenix) e un nuovo sistema operativo, la Lei del titolo (Samantha) interpretata nella versione originale da Scarlett Johansson, che in tutto il film sarà presente solo attraverso la propria voce. Una voce che si fa presenza sensuale e ironica, difficile immaginare che sia solo un software. Un film sulla natura stessa dell’amore che trova la propria sublimazione nello sguardo innamorato di Phoenix, in alcuni silenzi e nelle lunghe conversazioni con ‘Lei’. Smetto quando voglio Un piccolo miracolo della commedia tricolore. L’improvvisata banda di criminali guidata da Pietro Zinni (Edoardo Leo), ricercatore licenziato che cerca di sopravvivere alla crisi mettendo su una bizzarra squadra di gangster (tutti ex colleghi), è la sorpresa italiana di questo 2014. L’esordiente Sidney Sibilla realizza il mix perfetto tra le suggestioni del cinema contemporaneo targato Hollywood e la risata spietata, amara, paradossale della vecchia commedia all’italiana.
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12 anni schiavo È il film che segna il ritorno di un outsider come Steve McQueen, il genio di “Hunger” e “Shame”, e che porterà a casa l’Oscar per il Miglior Film, la Miglior attrice non protagonista (Lupita Nyong’o) e la Miglior sceneggiatura non originale (John Ridley). Riconoscimenti a parte, la storia - tratta dall’autobiografia di Solomon Northup, violinista di colore che verrà ingannato, torturato, rapito, privato della sua identità e ridotto in schiavitù dal 1841 al 1853 - colpisce per potenza narrativa e eleganza, da sempre cifra stilistica dell’artista britannico, sfugge ai canoni della narrazione da biopic e diventa un viaggio nell’inferno della prigionia, una lenta discesa nelle profondità del disumano, occasione per indagare con dovizia di particolari e crudo realismo i moti dell’animo. Storia di aberrazione e privazioni, che porta il talento di McQueen a Hollywood. Dallas Buyers Club Un film che ha tanti meriti, primo fra tutti quello di aver sdoganato Matthew McConaughey dal ruolo del belloccio in dozzinali commedie d’oltreoceano e averne svelato il talento fino a fargli conquistare un Oscar per la Migliore interpretazione. Un progetto indipendente, costato 5 milioni di dollari appena, basato sulla storia vera di Ron Woodroof, rozzo elettricista texano, cowboy da rodeo, donnaiolo che scopre di essere sieropositivo nella metà degli anni ’80, quando l’Aids era ancora considerata solo una ‘malattia da gay’. Il regista JeanMarc Vallée e le interpretazioni dei due attori protagonisti, McConaughey e un dolente Jared Leto (Oscar come Attore Non protagonista), regalano a “Dallas Buyers Club” l’impatto e la profondità umana dei grandi film. Il capitale umano Rappresenta il Bel Paese nella corsa verso gli Oscar, ma solo a gennaio sapremo se il film con cui Paolo Virzì mette in scena livori e mostri dell’Italia contemporanea entrerà nella cinquina delle nomination per il Miglior Film Straniero. Il regista di “Ovosodo” e “La prima cosa bella” abbandona i toni morbidi della commedia e si reinventa, azzardando un’incursione nel territorio inesplorato del thriller, una virata verso il noir sofisticato, come il romanzo omonimo su cui si basa il film, il best seller di Stephen Amidon. La borghesia brianzola ricca e benestante, l’inconfessabile sottobosco di due famiglie dell’opulento Nord, un misterioso incidente attorno al quale ruota il destino dei protagonisti: tutto diventa paradigma delle misere italiche. Meriterebbe vederlo nella rosa dei cinque che si contenderanno l’ambita statuetta.
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Boyhood La rivelazione del 2014 arriva dal Festival di Berlino. Un esperimento senza precedenti, un film lungo una vita, dove il cinema supera il concetto stesso di rappresentazione. Dodici anni di riprese, in cui Richard Linklater ha riunito lo stesso cast di attori (Ethan Hawke, Patricia Arquette, Lorelei Linklater, Ellar Coltrane) per una manciata di giorni all’anno, quelli strettamente necessari per girare: il risultato è “Boyhood”, storia di una famiglia americana attraverso un arco temporale che va dal 2002 al 2013. Al centro la vita di Mason e sua sorella Samantha, dall’infanzia all’adolescenza, fino all’età adulta in un epico romanzo di formazione che mette al bando il trucco o l’espediente di ricorrere ad attori adulti per rappresentare i protagonisti nel loro diventare grandi. “Boyhood” sublima lo scorrere del tempo, sfida la magia del cinema e fotografa la vita umana nel suo divenire, scolpita nell’invecchiare dei corpi e dei volti. Anime nere Allo scorso Festival di Venezia in molti hanno sperato di vederlo nel palmares dei premi ufficiali. Così non è stato, ma “Anime nere”, terzo film di Francesco Munzi, ha lasciato il segno. Un racconto di sangue, faide, ‘ndrangheta che inizia in Olanda, passa per Milano e finisce sulle vette dell’Aspromonte, ad Africo; tratto liberamente dall’omonimo libro di Gioacchino Criaco, è la storia di tre fratelli, figli di pastori vicini agli ambienti della malavita. Munzi sfugge ai clichè della narrazione classica del gangster movie e realizza un ibrido perfetto tra realismo e suggestioni magico-arcaiche. Un ritratto senza paure, onesto, sincero, evocativo di un cinema che va da Luchino Visconti al Francis Ford Coppola de “Il padrino”. Storie di criminalità dove la guerra tra clan lascia il posto ad una lotta universale tra bene e male e alla secolare contrapposizione tra padri e figli. Interstellar Uno dei ritorni più attesi: quello di Christopher Nolan che, chiusa la trilogia de “Il cavaliere oscuro”, si lancia fino ai confini dell’Universo, in un pellegrinaggio interstellare basato sul trattato del fisico teorico Kip Thorne sulla possibilità di viaggiare nel tempo. Un salto nella fantascienza tra scene da storia del cinema, warm hole e corpi fluttuanti in una quinta dimensione, alla conquista di un pianeta diverso dalla Terra devastata da una piaga che ne ha decimato le risorse naturali. Un film che a tratti assume i contorni di un compendio filosofico sull’umanità, rievocando un illustre predecessore come “2001:Odissea nello spazio”. Certo, non uno dei migliori di Nolan, ma che non si può non amare per coraggio, impatto e per la portata epica di un’operazione che aldilà del dibattito scientifico scatenato, apre il cuore.
Il giovane favoloso Prima Venezia, l’applauso della critica e del pubblico festivaliero, poi il successo al botteghino. Il Giacomo Leopardi raccontato da Mario Martone ne “Il giovane favoloso” è il riscatto del cinema italiano insieme ad altri pochissimi esempi. A rendergli merito non solo una regia che lo restituisce allo spettatore nel suo aspetto più contemporaneo – giovane, ribelle e precario – ma anche un’interpretazione, quella di Elio Germano, che ha saputo tratteggiarne il tormento, l’ironia, la sofferenza e il candore del poeta, agendo parole, pensieri e sensazioni. Incantato dalla vita, appassionato e rivoluzionario.
SPECIALE TOP TEN
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SERIE TV 2014
TOP TEN
TUTTE LE SERIE TV CHE SI SONO DISTINTE NEL 2014 di Carlo Lanna per Oggialcinema.net
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10. Outlander. In arrivo anche qui in Italia, la serie liberamente ispirata al romanzo di Diana Gabaldon, ha letteralmente infiammato l’estate. Gli 8 episodi che compongono la prima stagione (altrettanti ne arriveranno da aprile 2015), hanno condotto il pubblico tra le Highlands scozzesi in un viaggio nel tempo tra storia e mito. La storia d’amore fra Clarire e Jamie è stato il punto di partenza per una serie inviante, emozionante e dal grande fascino. La rete americana Starz ha trovato la sua gallina dalle uova d’oro.
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7. Banshee. Posto d’onore per la violentissima serie trasmessa in America sul canale Cinemx ed in Italia su Sky Atlantic. Giunta alla seconda stagione (ed è in arrivo una terza), la serie è riuscita a confermare tutte le premesse della season one vincendo dove altri hanno fallito: ovvero nel portare in tv un racconto sui generis, impreziosito da tanti clichè ma emozionante come pochi nella sua interezza. Le avventure al limite dell’assurdo dello sceriffo Hood sono ormai una costante nell’universo seriale.
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4. Orange is The New Black. La qualità viene sempre premiata, e questo accade con la serie della Netflix (disponibile anche qui in Italia grazie al servizio Infinity). La seconda stagione della serie al pari della prima, è stato un viaggio intenso e drammaticamente divertente, nei meandri di un carcere femminile, alla scoperta di usi, costumi e strambe abitudini. Tutto fila liscio in Orange is The New Black che, con il passar degli episodi, vince lo scettro di serie rivelazione dell’anno (per la seconda volta).
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Da True Detective ad Outlander, ecco le 10 serie tv più belle dell’anno. Un altro anno di serie tv sta giungendo al termine ed è tempo di fare un breve recap. Per chi ha vissuto questa stagione televisiva nella sua interezza, si è reso conto che poche sono le vere novità di spicco; alcune di queste in pochi episodi sono diventati del cult assoluti, molte sono state le conferme, e nel marasma si è dato libero sfogo al vero intrattenimento a discapito della qualità. Abbiamo quindi deciso di riassumere in una classifica, una top 10, tutte le serie tv che secondo il nostro parere sono state le più belle, le più appassionanti e che si sono distinte. Ripercorriamo dunque le 10 serie tv dell’anno da gennaio a dicembre del 2014.
9. Looking. Dalla HBO arriva una dramedy di grande impatto sulla realtà omosessuale di San Francisco. E’ stata una delle prime serie tv più interessanti che il 2014 ci ha regalato. In puro stile hipster, siamo contagiati dalla vivacità ma anche dalla drammaticità delle vicende personali di Patrick, Agustin e Dom. Tre amici che tra amori e sfide giornaliere cercano di trovare un posto nel mondo. La serie è stata rinnovata per una seconda stagione, e la prima è tutt’ora in onda su Sky Atlantic. 6. Manhattan. Questa è stata la vera scoperta dell’estate televisiva. In bilico tra family e costume drama, la serie (rinnovata per una seconda stagione), ha raccontato con freschezza e tanta passione la nascita della bomba atomica, fra bizzarrie, colpi bassi e segreti. Un mix vincente che passo dopo passo ha fatto emergere una scrittura pulita, coinvolgente ed eclettica. Inedita per ora in Italia tornerà, sul canale WGN America, la prossima estate.
3. The Affair. Questa è una novità fresca fresca che proviene dall’America. Rinnovata qualche giorno fa per una seconda stagione ed ancora inedita per il pubblico italiano, la serie ha colpito per quella sua brillante linea narrativa, quella voglia di raccontare una storia controversa ed illustrata da due punti di vista differenti. The Affair è inusuale ma colpisce sia per profondità di temi che alcuni personaggi a tutto tondo.
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8. How to get away with murder. La nuova serie di Shonda Rhimes è stato un successo quasi annunciato. La creatrice di Scandal e Grey’s Anatomy ha portato in tv un legal drama intelligente e adrenalinico con tutte le varianti del caso. Ha debuttato negli USA lo scorso settembre, e in poco tempo si è guadagnato la fiducia del pubblico. A conti fatti questa è una delle poche serie tv, trasmessa negli ultimi mesi, che ha convinto tutti anche i detrattori per quel suo mix di battute graffianti ed un plot twist avvincente ed emozionante. 5. The Leftovers. Lo show che segna il ritorno in tv di Damon Lindelof (il creatore di Lost), ha dato un vero scossone a tutto l’universo seriale. Quello portato da lui sullo schermo è un racconto criptico, intenso, fondato sui sentimenti e le sensazioni. Può non convincere fin dalla prima battuta, ma rimane una delle serie più meta-fisiche della tv. È attesa la seconda stagione per il prossimo anno sempre e comunque con il marchio HBO.
2. The Knick. Clive Owen arriva per la prima volta in tv e partecipa ad una serie che è subito un cult. Come un Grey’s Anatomy ante litteram, la serie ha promesso grandi emozioni e le ha mantenute fino all’ultimo minuto. Clive Owen è assolutamente raggiante come lo show a cui ha preso parte, che non delude per irrequietezza dei temi, violenza e caparbietà E’ una serie da scoprire.
1. True Detective. Non avrebbe bisogno di presentazioni, eppure questa a conti fatti, è la serie che ha convinto tutti sia il pubblico che la critica. È brillante nelle interpretazioni e nei contenuti, ha un plot twist che è un vero crescendo di colpi di scena e nulla viene lasciato a caso. La prima serie antologica della HBO (di cui fervono i preparativi per il secondo capitolo), arriva in cima alla nostra classifica per diritto perché, nella sua convenzionalità, ha dato uno scossone all’arte delle serie tv.