Jane Jacobs: attivismo politico, indagini antropologiche, nuove teorie urbanistiche

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Jane Jacobs di Agnese Turchi

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“In nessun luogo come nelle città l’aspetto esterno delle cose è indissolubilmente legato al loro modo di funzionare; […] È vano pianificare l’aspetto esterno di una città o speculare sul modo di darle una gradevole apparenza di ordine senza conoscere quale sia il suo spontaneo ordine funzionale; correre dietro all’apparenza delle cose, come se si trattasse dello scopo essenziale o del fatto dominante, non può produrre altro che danni.” JANE JACOBS

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Abstract: La presente ricerca nasce con l’intento d’investigare sulla figura di Jane Jacobs, personaggio complesso e versatile a tal punto da non poter essere inserito in una specifica categoria disciplinare: antropologa, sociologa, scrittrice, giornalista ma anche attivista, cittadina, moglie e madre ha fornito un contributo nuovo e fondamentale all’urbanistica moderna, tanto da costituire ancora oggi un punto di riferimento nella trattazione di molte questioni d’interesse attuale. Il lavoro è strutturato in tre parti. La prima ripercorre le tappe fondamentali della vita di Jane Jacobs, con l’intento di mostrare quanto per lei indissolubile fosse il legame tra vita privata e vita del giornalista/attivista. La seconda, cuore della trattazione, si concentra sulla prima grande opera dell’autrice, The Death and Life of Great American Cities; questo scritto, vero e proprio manifesto programmatico delle teorizzazioni jacobsiane, ha consentito da un lato di sviluppare una serie di riflessioni estendibili a gran parte delle opere postume, dall’altro di preparare il terreno per la terza parte della presente ricerca. Infine la terza parte è stata necessaria per comprende appieno il pensiero di Jane Jacobs e confrontarlo con quello di alcuni dei più grandi teorici dell’urbanistica del XIX e XX secolo, al fine d’individuare analogie e differenze.

La vita e le opere Una vita di attivismo Jane Butzner, più comunemente conosciuta come Jane Jacobs, fu un’antropologa, sociologa, scrittrice, giornalista e attivista statunitense, naturalizzata canadese. Nacque a Scranton, una piccola città di provincia della Pnnsylvania, nel 1916. Di famiglia borghese, dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore e aver lavorato per qualche tempo presso il giornale cittadino, fu incoraggiata a trasferirsi nella “Grande Mela”: la città cosmopolita dalle molteplici opportunità le avrebbe consentito di completare gli studi e di avvicinarsi con più facilità al mondo del lavoro1. Tuttavia in un clima di tensione e disagio dovuto alle conseguenze della Grande Depressione2, Jane Jacobs dovette affrontare tutte le difficoltà connesse al reperimento di un impiego: lavorò come segretaria, stenografa, giornalista, editor ed incappò persino nella disoccupazione. Nei momenti di maggior instabilità economica, priva di un lavoro, iniziò a coltivare l’interesse per la sua città e per la vita degli abitanti: attraverso lunghe passeggiate nei quartieri venne a contatto con la dimensione della strada, analizzò i comportamenti delle persone in relazione agli spazi urbani, osservò da vicino le manifestazioni di ricchezza e degrado, tentò di comprendere le dinamiche economiche e sociali sottese all’insediamento. Nei primi anni trascorsi a New York, Jane Jacobs scrisse

Jane Jacobs lasciò Scranton nel 1935 e si trasferì a New York nello stesso anno. In seguito alla caduta di Wall Street del 1929, le ripercussioni sul piano socio-economico furono durissime e si protrassero per tutto il decennio successivo. Queste ultime interessarono tanto i paesi esportatori di materie prime quanto i paesi industrializzati: diminuì il commercio internazionale, si abbassarono i redditi dei lavoratori così come i prezzi e i profitti. La caduta colpì in particolar modo la media borghesia la quale, fino a quel momento, aveva portato avanti investimenti in borsa e aveva innalzato la domanda di beni di consumo durevole (auto, elettrodomestici, mobili, ecc.). Il fatto che la media borghesia fosse stata la principale interessata al crollo della borsa comportò un indebolimento del mercato di quegli stessi beni, quindi la cessazione dei rapporti tra le industrie operanti nel medesimo settore e la riduzione di personale e salari. La situazione fu aggravata ulteriormente dalla stretta relazione tra sistema bancario (molte delle banche fallirono in seguito al ritiro del denaro dal mercato, da parte dei piccoli-medi risparmiatori) e settori dell’industria: spesso il fallimento del primo indusse al fallimento dei secondi. 1 2

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articoli per numerosi giornali di fama internazionale3; parallelamente coltivò l’interesse per le scienze politiche, la giurisprudenza, l’economia e la sociologia, frequentando numerosi corsi presso la Columbia University’s School of General Studies. Questi studi le permisero di avvicinarsi con occhio clinico a quegli ambiti cittadini che fino a quel momento aveva osservato da semplice fruitrice e ai quali, tuttavia, desiderava approcciarsi da esterna consapevole. Mentre lavorava per l’U.S. Office of War Information, prima in qualità di scrittrice poi di reporter per la rivista Amerika dell’U.S. State Department, fece la conoscenza dell’architetto Robert Hyde Jacobs con il quale si sposò nel 1944. Questi fu per lei una figura di grande importanza in quanto compagno di vita, sostenitore del suo lavoro nonché attivo collaboratore; la stessa Jacobs, a conclusione dell’opera magna The Death and Life of Great American Cities, affermò: “ […] sono grata a mio marito Robert H. Jacobs jr: non saprei più distinguere in questo libro le mie idee dalle sue”4. I due si trasferirono nel Greenwich Village, un quartiere prevalentemente residenziale situato nella circoscrizione di Manhattan, ad occidente della downtown: già da qualche anno Jane Jacobs era stata attratta dal vivace clima culturale e dalle peculiarità di questa zona5. La struttura dell’insediamento, nonostante fosse stata coinvolta nelle trasformazioni previste dal Piano Regolatore Generale del 1811, aveva tuttavia mantenuto l’assetto originario del villaggio colonico separato dal resto della città6: l’impianto viario non coincideva con la griglia di assi ortogonali che caratterizzava la restante Manhattan ma si componeva di un tracciato “disordinato” dalle strade strette e curve. Il carattere autonomo del quartiere, la posizione decentrata, la struttura irregolare e l’elevata densità abitativa fecero sì che venisse considerato dai più un suburbio, uno dei tanti “tumori” della città. Tuttavia, percepito il potenziale del Greenwich Village (risultato della mescolanza di più tipologie residenziali, di piccole attività commerciali, di spazi per la collettività, ecc.) i coniugi Jacobs decisero non solo di non trasferirsi ma anche d’intraprendere opere di ristrutturazione della loro abitazione: questo quartiere costituì per la giornalista il punto di partenza per lo sviluppo di riflessioni dal taglio economico, sociale, culturale quindi urbano. A tal proposito si ricordi che Jane Jacobs scrisse articoli per Sunday Herald Tribune, Iron Age Magazine, Cue Magazine e Vogue. Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.421. 5 Il Greenwich Village ha conservato sino ad oggi i suoi caratteri originari. Oltre a mantenere una dimensione raccolta ed intima, data dalle altezze moderate degli edifici e dal loro prevalente uso residenziale e commerciale (commercio al dettaglio), il quartiere continua a contraddistinguersi per essere il fulcro di ferventi movimenti socio-culturali, artistici e musicali determinanti per la trasformazione e l’evolversi del panorama statunitense e dei suoi valori. Popolato da intellettuali, risentì fortemente delle tendenze avanguardiste del primo ventennio del Novecento. Negli anni ’50 divenne la “sede” della Beat Generation e del movimento ad essa associato: qui si raccolse un gran numero di giovani studenti molti dei quali erano anche poeti, scrittori, artisti, musicisti, incompresi da una società americana che consideravano gretta e conformista. Si ricordino a tal proposito personalità come Allen Ginsberg e Jack Kerouac. In questo stesso quartiere, in seguito ai cosiddetti “moti di Stonewall” presso Christopher Street nel lontano (ma non troppo) 1969, ebbe origine il movimento omosessuale; i moti segnarono l’inizio del movimento di liberazione gay in tutto il mondo. Nella seconda metà del Novecento sembra che il Greenwich Village sia stato terreno fertile per molti generi musicali tra cui il folk ed il rock: artisti come Bob Dylan, Lou Reed, o Nina Simone vi iniziarono la loro carriera. 6 Il Greenwich Village, oggi chiamato anche “Village”, è uno dei quartieri più antichi di New York. Ricade nella circoscrizione di Manhattan, confina con i quartieri di Chelsea (nord), East Village (est), SoHo (sud) e si estende in senso nord-sud dalla 14th Street alla Houston Street e in senso est-ovest dalla Broadway al fiume Hudson. Il terreno su cui oggi sorge questo quartiere era inizialmente paludoso; a partire dal 1630, dopo le bonifiche portate avanti dai coloni olandesi, la zona fu adibita a pascolo. Divenne vero e proprio villaggio dopo l’occupazione inglese del 1664 e mantenne una sua autonomia, distaccato dalla sempre crescente Manhattan, sino alla seconda metà del XIX secolo. Il “Village” venne assorbito da Manhattan nel momento in cui un cospicuo numero di newyorkesi si trasferirono in campagna per sfuggire ad un’epidemia di febbre gialla, nel 1882. 3 4

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In questo stesso periodo Jane Jacobs iniziò a scrivere per la rivista Architectural Forum. Fu così che si avvicinò maggiormente all’architettura e alla pianificazione urbana tanto da ottenne i primi incarichi in materia.7 Da subito si mostrò interessata alla questione delle “rivitalizzazioni urbane” e alle conseguenze di cui il neighborhood avrebbe risentito. Più volte si rivolse pubblicamente ad architetti, pianificatori urbani ed intellettuali (in primis Lewis Mumford) così esortandoli: “[…] to respect – in the deepest sense – strips of chaos that have a weird wisdom of their own not yet encompassed in our concept of urban order.”8 Se da un lato espresse un nuovo e più sensibile punto di vista in materia di urban planning, dall’altro costituì una minaccia per pianificatori, architetti affermati ed imprenditori immobiliaristi. Nel 1958 iniziò a scrivere per il Fortune Magazine. Questo è l’anno d’inizio di una serie di aspre critiche rivolte a Robert Moses, una delle personalità più in vista di New York nonché consigliere del sindaco.9 Jane Jacobs intuì che le strategie d’azione adottate in ambito urbano avevano ben poco a che vedere con la realtà dei fatti: lo scarto tra bisogni reali e azioni previste era troppo grande, come se un deus ex machina agisse indipendentemente dalle condizioni di vita in città. La politica adottata, sebbene fondata sul New Deal, sfociò in una serie di interventi pubblici nei quali la piccola scala (si pensi al concetto di vicinato urbano) venne soppiantata dalla grande scala, più precisamente da “grandi opere” come grattacieli (la maggior parte business centre) e autostrade. Gli articoli di Jane Jacobs, pubblicati sul Fortune Magazine, attrassero l’attenzione della Rockefeller Foundation che già da qualche tempo si era orientata verso la trattazione di tematiche urbane.10 Di lì a poco venne conferito alla giornalista un assegno di ricerca per portare avanti uno studio circa la pianificazione urbana e la vita della città americana: nello specifico le fu chiesto di indagare su come il primo aspetto avrebbe potuto migliorare il secondo, accrescendone il valore umano e culturale. La ricerca culminò nella pubblicazione della sua prima grande opera, The Death and Life of Great American Cities, nel 1961. Questo saggio11, come verrà dimostrato in seguito, fu indubbiamente uno dei più influenti per molti decenni; ancora oggi gran parte delle questioni che interessano la società americana sono lette attraverso le riflessioni della giornalista. Basti pensare al vasto numero di espressioni, tutt’ora in uso, introdotte per spiegare fenomeni risultanti dall’interazione di più componenti (politica, economia, pianificazione urbana, sociologia, ecc.): “social capital”, “mixed-uses”, “eyes on the street”, ecc. Oltre alle invettive contro gli architetti e gli urbanisti a lei contemporanei, è opportuno evidenziare che Jane Jacobs ha tentato di ridefinire le finalità della pianificazione e della ristrutturazione urbanistica partendo da questioni “semplici e comuni”12…perché è da queste che si possono dedurre principi e metodi d’intervento. A tal proposito si ricordi l’articolo commissionatole dalla stessa rivista, nel 1954: Jane Jacobs avrebbe dovuto seguire a Philadelphia un progetto di sviluppo urbano redatto da E. Bacon. Più che un articolo di elogi ne scaturì un articolo di aspre critiche: secondo Jane Jacobs il progetto non prestava abbastanza attenzione alla popolazione afroamericana (al disotto della soglia di povertà) direttamente coinvolta; inoltre il progetto di sviluppo sembrava porre fine al senso di socialità (fondamentale per la cultura afroamericana) che interessava le strade della zona. 8 Tratto dal discorso che Jane Jacobs tenne presso l’Harvard University nel 1956, in veste di giornalista per l’Architectural Forum. 9 A tal proposito si ricordi uno dei primi articoli per il Fortune Magazine, trattante l’imminente costruzione del Lincoln Center. Lo scritto di Jane Jacobs non ebbe i favori di molti architetti e pianificatori (collaboratori dell’Architectural Forum e dello stesso Fortune) sostenitori della cosiddetta “rigenerazione urbana”. 10 La Rockefeller Foundation aveva da poco assegnato un premio all’MIT, Massachusetts Institute of Technology, per aver condotto alcuni studi di estetica urbana. Questi studi, di lì a poco, avrebbero trovato il loro culmine nell’opera L’immagine della Città di Kevin Lynch. 11 Così definisce l’opera il sottotitolo dell’edizione italiana, pubblicata per la prima volta da Einaudi Editore S.p.A. nel 1969. 12 Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.3. 7

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Jane Jacobs, come si può intuire, è ricordata per le azioni di protesta concreta che condusse in opposizione a una serie di grandi piani e progetti. Tra gli anni ’50 e ’60 il neighborhood in cui risiedeva stava per subire considerevoli trasformazioni finalizzate alla realizzazione dell’ampliamento della New York University e all’attuazione di alcuni piani di riqualificazione proposti da Moses. Il fine ultimo del consigliere era quello di creare una superstrada, la Lower Manhattan Expressway (o Lomex) nel bel mezzo del Washington Square Park; attraverso un’azione di slum clearance sarebbero state attuate cospicue demolizioni (e successive ricostruzioni di grattacieli lussuosi) che avrebbero indotto 132 famiglie a lasciare la loro casa e 1000 attività a cambiare localizzazione. Jane Jacobs creò un comitato di opposizione, il Joint Committee to Stop the Lower Manhattan Expressway, che si componeva delle più illustri personalità del tempo nell’ambito politico e della pianificazione urbana13: con l’appoggio di alcune delle maggiori testate giornalistiche il comitato riuscì nel suo intento.14 Nel 1968 Jane Jacobs si trasferì a Toronto. La decisione di spostarsi nacque in primo luogo da una forte opposizione alla Guerra del Vietnam della quale gli Sati Uniti erano tra i principali protagonisti; in secondo luogo non aveva intenzione di combattere nuove battaglie contro la città di New York. Nonostante i buoni propositi iniziali, Jane Jacobs esercitò la professione di giornalista in modo attivo e, anche in Canada, fu coinvolta nuovamente in manifestazioni pubbliche di protesta nei confronti dell’amministrazione locale.15 Nel 1974, poco dopo aver ottenuto la cittadinanza canadese, la giornalista affrontò attraverso una lettura di tipo urbanistico la questione dell’eventuale indipendenza del Quebec dal Canada. Jane Jacobs era una sostenitrice del separatismo affinché la provincia coinvolta diventasse del tutto autonoma; quest’azione avrebbe portato notevoli vantaggi non solo a scala territoriale ma anche a scala urbana16 Il contributo che Jane Jacobs diede alla città di Toronto fu così importante che l’amministrazione decise di indire un premio (che prese il suo stesso nome) da attribuire a chiunque si fosse impegnato in attività volte a rendere la città vitale. Data la grande influenza che gli scritti della giornalista esercitarono tanto sul panorama intellettuale quanto su quello politico e su quello strettamente progettuale, nel 2002 la scrittrice ricevette il premio “Lifetime” dalla Community and Urban Sociology Section of the American Sociological Association. Jane Jacobs ebbe inoltre una grande influenza sulla pianificazione urbana di Vancouver tanto da essere chiamata “la madre del Vancouverismo”, in riferimento alla filosofia della “densità ben programmata” che la città si propose di seguire su suo consiglio. Jane Jacobs morì a Toronto all’età di 89 anni, nel 2006. Una vita di scrittura L’attivismo politico e sociale che Jane Jacobs esercitò sia in terra statunitense che in terra canadese oggi si riflette nella cospicua produzione di opere, scritti minori e articoli di giornale distribuiti tra gli anni Sessanta e gli anni Duemila. A testimonianza di quanto i suoi testi siano attuali e influenti, Carlo Olmo afferma: “I suoi lavori […] sono al centro non solo di un Tra le personalità di maggior rilievo si ricordino: Eleanor Roosevelt, Lewis Mumford, Charles Abrams, William H. Whyte. Nel 1968, nel corso delle contestazioni, Jane Jacobs fu arrestata durante un discorso pubblico, in quanto accusata di aver aizzato la folla e ostacolato la pubblica sicurezza. Dopo alcuni mesi di detenzione, riconosciuta la buona condotta, fu rilasciata. 15 Nel 1968 Jane Jacobs si oppose fortemente alla costruzione della superstrada Spadina Expressway e del relativo collegamento con la superstrada di Toronto; fu arrestata ben due volte nel corso delle manifestazioni. Il suo contributo fu così incisivo che la giornalista divenne un fondamentale punto di riferimento per la comunità locale. 16 Come si chiarirà in seguito, le riflessioni sviluppate in merito alla vicenda sfociarono nell’opera The Question of Separatism: Quebec and the Struggle over Separation, edito nel 1980. 13 14

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ripensamento che ritorna al testo iniziale ogni volta che esce un nuovo libro di Jane Jacobs, ma vengono utilizzati quasi come possibili fonti di legittimità in tante discussioni che attraversano oggi la società americana.”17 Il suo lavoro lascia trasparire una sorta di corrispondenza biunivoca fra cronologia degli eventi e tematiche affrontate: dalla prima metà degli anni Sessanta alla prima degli Ottanta Jane Jacobs si dedicò ai problemi delle città e al ruolo che queste hanno dal punto di vista economico e sociale; dagli anni Novanta la giornalista diede spazio a questioni di carattere più strettamente filosofico, con particolare riguardo per la natura di alcuni fondamentali valori socio-culturali e per la loro influenza nel processo di trasformazione della società. Terzo ed ultimo filone, nettamente distinto dagli altri, è quello riguardante il conflitto canadese per l’indipendenza della Provincia del Quebec. Indubbiamente l’opera di maggior rilievo rimane The Death and Life of Great American Cities, del 1961, scritta poco dopo le azioni di protesta contro la slum clearance indetta da Robert Moses per la costruzione della Lower Manhattan Expressway. Può definirsi un vero e proprio manifesto programmatico del pensiero jacobsiano in materia di urban planning: affrontando questioni di pianificazione, passando attraverso la sociologia e l’antropologia, per poi riprendere tematiche vicine alla politica e all’economia, Jane Jacobs dimostra grande abilità nel concatenare ambiti diversi ma strettamente relazionati fra loro. Quest’opera è figlia del proprio tempo: consiste in un’accesa critica alle politiche di trasformazione e riqualificazione urbana adottate nel corso degli anni ’50 tanto nelle città statunitensi quanto, più in generale, in gran parte del mondo occidentale. Fortemente contestate sono le zoning laws, finalizzate alla suddivisione del territorio municipale in base a specifiche funzioni e parametri18: secondo Jane Jacobs la monofunzionalità della zonizzazione avrebbe portato alla distruzione d’intere comunità, creando spazi urbani innaturali, poco relazionati fra loro o del tutto isolati. La giornalista tenta piuttosto di diffondere l’idea di un possibile mixed-use dello spazio cittadino in modo tale da generare quartieri a misura d’uomo, diversificati e dinamici secondo le peculiarità e le potenzialità di ciascun territorio.

Dalla prefazione di Carlo Olmo in Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.VII. Soffermandosi un attimo sulle libertà di cui dispone l’individuo e sul legame che questi ha con il contesto sociale a cui appartiene (più precisamente si fa riferimento al concetto di mileu sociale, poiché comprensivo di tutte quelle peculiarità che sono espressione di un’identità propria), è importante osservare come oggigiorno il pensiero di Jane Jacobs venga ripreso nel tentativo di bilanciare riflessioni diametralmente opposte. Definite da qualcuno neo-contrattualiste (Mulhall & Swift, 1996), l’idea jacobsiana di mixed uses degli spazi urbani e il binomio vita pubblica nelle strade/necessità di ordine sociale, sembrano porsi a metà strada tra idee marcatamente liberali e idee che riprendono il comunitarismo. Si ricordi che il neo-contrattualismo è un filone politico-filosofico che vede la scelta razionale alla base di quei principi ai quali dovrebbero conformarsi le istituzioni per poter essere considerate giuste; questa strategia d’azione sarebbe finalizzata alla salvaguardia dei diritti di ciascun individuo. Più precisamente si parla di “giustizia distributiva” quando ad ogni membro di una collettività sono garantite le stesse opportunità per godere di uguali libertà e diritti. Quando non si possono garantire le stesse opportunità, bisogna far sì che i meccanismi che muovono le decisioni istituzionali permettano una ripartizione equa delle risorse disponibili, in modo da favorire i soggetti più svantaggiati. 18 Le Zoning Laws sono state adottate per la prima volta a New York nel 1916. Questo insieme di norme aveva più finalità: in primo luogo classificava il territorio in zone omogenee in base alle specifiche funzioni svolte da ognuna (se spazio aperto, residenziale, agricolo, commerciale o industriale); in secondo luogo serviva a stabilire quali tipi di attività ammettere in ciascuna zona, quali tipologie edilizie avrebbero potuto ospitare le diverse attività (se abitazioni a bassa densità abitativa, come le case unifamiliari, o abitazioni ad alta densità abitativa, come i grattacieli), quali proporzioni rispettare tra spazio libero e spazio costruito all’interno di uno stesso lotto; infine agiva con l’intento di fissare una serie di parametri edilizi da rispettare durante il processo di nuova edificazione (il rapporto di copertura, il massimo volume costruibile per ogni lotto o isolato, le altezze massime raggiungibili, le distanze minime che ogni edificio doveva rispettare in rapporto al limite perimetrale del proprio lotto, il livello di densità edilizia raggiungibile da ciascun quartiere, ecc.). 17

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Contrastando i principi e gli scopi dell’urbanistica moderna, Jane Jacobs non tratta tecniche di riqualificazione urbana o questioni di forma; essa tenta di formulare adeguati e applicabili principi urbanistici attraverso l’osservazione e la comprensione delle dinamiche interne alla città: l’insediamento viene studiato da vicino con l’intento di ricercare le soluzioni ottimali per una gestione e trasformazione condivise. L’interdipendenza che sussiste fra lo spazio urbano e i cittadini (che comporta una molteplicità di utilizzi degli ambienti e un loro naturale adattamento) costituisce il materiale di cui Jane Jacobs si serve per la formulazione di considerazioni circa: la sicurezza delle strade, il degrado e la pericolosità di alcuni parchi urbani, la permanenza di determinati slums in una costante condizione di degrado, la presenza o l’assenza di un vicinato urbano, ecc. È chiaro che il percorso che Jane Jacobs intraprende parte dalla concretezza del “qui ed ora” per poi giungere alla formulazione di principi che non siano labili e distaccati dalla realtà. Opera altrettanto importante è quella dal titolo The Economy of Cities, edita nel 1969. Se nella pubblicazione precedente l’autrice si era concentrata sulle dinamiche della vita quotidiana della città, questa volta la sua attenzione si focalizza sul contesto economico in cui la città stessa si colloca, nel tentativo di capire perché alcuni insediamenti vadano incontro al degrado e altri no. Jane Jacobs parte da un postulato fondamentale, antitetico al pensiero tradizionale: che la città sia venuta prima dell’agricoltura o, più precisamente, che il periodo in cui fiorirono le città abbia preceduto la cosiddetta “era agricola”. L’autrice sostiene che l’insediamento urbano sia il luogo in cui abbia avuto origine ogni tipo di attività antropica e, in quanto tale, è anche il luogo da cui promana lo sviluppo economico; nel momento in cui si procede alla sostituzione dei beni importati con beni prodotti localmente si pongono le basi per una crescita economica di carattere esponenziale19. Jane Jacobs tiene a specificare che una produzione di tipo locale porta altri considerevoli vantaggi: aumento dei collegamenti infrastrutturali locali (in seguito all’intensificarsi della rete di relazioni a piccola scala); incremento della produzione; aumento dei saperi e delle competenze. Come le opere precedenti anche Cities and the Wealth of Nation, pubblicata nel 1984, ha come tema centrale la città e le sue complesse dinamiche. Gli insediamenti urbani hanno svolto un ruolo fondamentale nel corso della storia e costituiscono il motore dello sviluppo economico nazionale. Jane Jacobs sostiene che gli economisti, al di là del loro orientamento economicopolitico, tendono erroneamente a considerare ogni singolo paese un’unità a se stante; in realtà la ricchezza nazionale non è altro che la risultante della somma delle prestazioni economiche di ogni singola città e luogo. Questo è il motivo per cui Jane Jacobs sviluppa le sue teorie partendo dalla scala locale: non serve considerare parametri come “crescita” o “disoccupazione” alla macro-scala; prima è opportuno valutare le discrepanze che sussistono tra le città o le regioni. Ciò significa che se i dati (così generici) riportano risultati positivi, non necessariamente sono indice di un benessere diffuso. Systems of Survival: A Dialogue on the Moral Foundations of Commerce and Politics, del 1992, è il primo di una serie di scritti dal carattere più marcatamente filosofico. Quest’opera assume le sembianze di un dialogo fra cinque newyorkesi che interloquiscono su questioni morali; la conclusione di questo scambio d’opinioni consiste nell’individuazione di due sistemi di valori Jane Jacobs fa riferimento ad un vero e proprio ciclo di import-export. Passando attraverso una serie di steps la città può raggiungere una condizione d’indipendenza: in un primo momento è costretta ad importare prodotti; successivamente, arrivata ad un alto livello d’importazione e raggiunta la consapevolezza di una possibile autonomia in ambito produttivo, la città inizia a produrre da sé ciò che precedentemente importava; infine, una volta migliorata la produzione, è in grado di esportare verso altri insediamenti. In questo modo s’innesca un meccanismo circolare per cui la città esportatrice induce la città importatrice a seguire il medesimo percorso. 19

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che guidano il lavoro di ognuno: da un lato vi è la “sindrome del commercio” propria di chi è completamente inserito nel mondo degli affari, dall’altro vi è la “sindrome del controllo” propria di chi opera nel settore pubblico. Nel primo caso si parla di un insieme di valori correlati all’idea di business, quali concorrenza, efficienza, imprenditorialità, innovazione, ecc.; nel secondo caso invece, si parla di valori come obbedienza, gerarchia, lealtà, onore, ecc. Queste due sindromi non possono escludersi poiché sono complementari: Jane Jacobs sostiene che una società, per essere completa e funzionante, deve essere costituita dai rappresentanti sia dell’una che dell’altra morale. L’importante è che queste ultime non si mescolino fra loro; se così fosse danneggerebbero la società, dando origine a situazioni facilmente fraintendibili (in cui pubblico e privato non si distinguerebbero). Come l’opera precedente anche The Nature of Economics, del 1999, è stata scritta sotto forma di dialogo. Questa volta i protagonisti si ritrovano per parlare di ciò che economia e natura hanno in comune. Ne scaturisce una riflessione che culmina nella formulazione della tesi per cui tanto i sistemi economici quanto il sistema di natura funzionano secondo gli stessi principi. I primi sono come un ecosistema: tendono a mantenersi stabili nel tempo attraverso meccanismi di autoregolazione (feedback negativi) che entrano spontaneamente in funzione quando intervengono alterazioni del loro equilibrio. Tali meccanismi funzionano solo se lo squilibrio si mantiene entro certi limiti; in caso contrario entrano in funzione meccanismi opposti (feedback positivi), la cui azione tende ad accentuare lo squilibrio iniziale. A tal proposito Jane Jacobs esorta la collettività ad osservare costantemente la natura e a comprenderne le dinamiche: solo in questo modo si può essere in grado di “giustificare” un sistema economico non efficiente (in ogni caso ecologicamente coerente). Lo scritto più recente di Jane Jacobs s’intitola The Dark Age Ahead e risale al 2004. In questo libro vengono identificati i cinque pilasti della società occidentale: la famiglia, l’educazione superiore, l’indipendenza della scienza, il sistema tributario e l’autogoverno dal basso. L’autrice mostra tutta la sua preoccupazione nel vedere che questi valori stanno andando incontro al deterioramento, soprattutto nel contesto statunitense: qualora questa situazione dovesse andare oltre, si andrebbe incontro alla cosiddetta “demenza sociale”. Ne consegue un’esortazione ai suoi connazionali affinché questi si risveglino dal generale torpore da cui sono stati sopraffatti: evitando di sovrastimare se stessi potranno dare la giusta importanza a quei valori da cui tanto si sono allontanati. Un capitolo a parte è costituito dall’opera The Question of Separatism: Quebec and the Struggle over Sovereignity, edita nel 1984. Attraverso questo scritto Jane Jacobs mostra un grande coinvolgimento politico nelle vicende canadesi di quegli anni: l’autrice si prefigge sostenitrice della corrente separatista affermando che, qualora il Quebec avesse raggiunto l’indipendenza, città nodali del calibro di Montreal o Toronto (nonché tutte le restanti città canadesi, piccole o grandi che fossero) ne avrebbero tratto vantaggio, potendo aspirare sia ad un maggiore e autonomo sviluppo economico20 che ad una tregua dai conflitti interni al Paese.

Le due province si trovavano in situazioni economicamente diverse: il Quebec, di lingua francese, imperversava in una condizione di svantaggio economico rispetto all’Ontario, di lingua inglese. Questo fu il motivo per cui, al fine di ridurre le differenze, il governo canadese mise a disposizione dei fondi per adottare misure di sostegno alla provincia più povera. Gli abitanti dell’Ontario, considerando l’azione ingiusta, si scagliarono contro il governo stesso e contro gli abitanti della provincia rivale. 20

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Il pensiero jacobsiano Un manifesto programmatico Più di alte opere The Death and Life of Great American Cities merita un posto di rilievo poiché costituisce il punto d’esordio di una serie di teorizzazioni riguardanti la città e il suo funzionamento. Sin dalle prime riflessioni si percepisce tra le righe la volontà dell’autrice di posticipare l’approfondimento di alcune questioni a trattazioni successive, come se un solo saggio non fosse sufficiente a scandagliare l’intricata e complessa disciplina urbanistica. La natura di questo testo sembra essere quella di manifesto programmatico del pensiero jacobsiano: “Questo libro è un attacco contro gli attuali metodi di pianificazione e di ristrutturazione urbanistica. È inoltre, e soprattutto, un tentativo d’introdurre in questi metodi nuovi principi, diversi e addirittura opposti a quelli che oggi vengono insegnati dappertutto, nelle scuole di architettura e di urbanistica come nelle rubriche dei settimanali e delle riviste femminili. La mia polemica non è fondata su disquisizioni intorno alle tecniche di ristrutturazione, né intende sottilizzare sulle mode formali: è piuttosto una polemica contro i principi e le finalità che informano la moderna urbanistica ortodossa. Nell’enunciare principi diversi mi occuperò per lo più di questioni semplici e comuni: ad esempio, quali specie di strade urbane siano sicure e quali no; perché certi parchi siano meravigliosi, mentre altri sono moralmente – e a volte mortalmente – pericolosi; perché certi slums rimangano tali, mentre altri riescono a rinnovarsi spontaneamente, vincendo l’ostilità dei finanzieri e dei burocrati; quale sia la ragione per cui il centro delle città si sposta; che cosa sia (ammesso che esista) un vicinato urbano, e quali funzioni eventualmente esso svolga in una grande città. In breve, mi occuperò di come le città funzionino nella vita reale, perché questo è l’unico modo per capire quali principi urbanistici e quali metodi d’intervento possano giovare alla vitalità sociale ed economica della città, e quali invece tendano a mortificarla.”21 Jane Jacobs definisce il suo discorso un “attacco”. Con questo termine non ci si può che aspettare toni aspri e duri nei confronti di tutti quegli architetti/urbanisti portavoce dei metodi tradizionali di progettazione e pianificazione urbana. Lo scopo di questa invettiva è chiarita subito dopo: cercare d’introdurre nuovi principi che si contrappongano a quelli più comunemente seguiti. È chiaro che Jane Jacobs non si limita semplicemente a proporre un punto di vista alternativo a quello della “moderna urbanistica ortodossa”: l’autrice intende sostituire con idee nuove e concrete quanto trasmesso nelle scuole, nei giornali, nelle riviste. Pienamente consapevole dello scalpore che avrebbe suscitato, Jane Jacobs si guarda bene dall’addurre argomentazioni di tipo tecnico a sostegno della propria tesi; ella parte piuttosto dalle fondamenta dello urban planning, dalla necessità di una strategia adeguata che si serva dei principi per concretizzare un progetto politico. Ciò che fa la differenza è individuare tali principi in seno alle problematiche quotidiane di comune interesse; è evidente che le questioni prese in esame vengano affrontate con l’intento di rimarcare lo stretto e indissolubile legame tra elementi pianificatori e ripercussioni sulle interazioni uomo-ambiente (antropico e non antropico). Il dinamismo e la multiformità dell’insediamento urbano, aspetti che sono direttamente proporzionali alla pianificazione “interattiva”, traspaiono sin dal titolo dell’opera: la città è considerata un essere vivente e come tale nasce, cresce, matura e può morire. Alla luce di 21

Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.3.

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questa metafora, è chiaro che per Jane Jacobs l’insediamento antropico non è qualcosa di astratto e la sua trasformazione in senso evolutivo non può essere programmata solamente sulla carta22. La città presenta una struttura complessa all’interno della quale tutte le componenti sono essenziali e costituiscono gli organi di un corpo23; capire la “multifunzionalità” delle strade, il ruolo del quartiere, i possibili utilizzi dei parchi pubblici, la centralità della popolazione significa capire l’organismo nella sua totalità. Per fare questo è necessario che l’architetto e il pianificatore superino i formalismi della progettazione e della legislazione avvicinandosi al reale, in modo tale da attribuire all’indagine sul campo un ruolo chiave. Probabilmente è proprio dall’indagine sul campo che si deve partire per capire le argomentazioni addotte a sostegno delle tesi portate avanti dalla giornalista di Scranton. Se da un lato le passeggiate condotte per le strade di New York hanno costituito un vero e proprio modello formativo, dall’altro la militanza come attivista politica ha aiutato Jane Jacobs a delineare il suo orientamento in materia di urbanistica e ad individuare i bersagli delle sue invettive. È il “rapporto tra indagine, azione politica e scrittura come strumento di sostegno all’attivismo sociale che aiuta a collocare retoriche e immagini di The Death and Life of Great American Cities”24. Poiché la conoscenza diretta del mondo reale costituisce la fase preliminare di un percorso volto all’individuazione di principi solidi su cui fondare la nuova pianificazione urbana, la prima parte del percorso che intraprende Jane Jacobs è volutamente dedicata all’osservazione del comportamento sociale dei cittadini, all’analisi degli eventi più comuni e all’individuazione del funzionamento generale dell’insediamento. La seconda parte, diretta conseguenza della prima nonché punto nodale, consiste in un’indagine sulla necessità di usi diversi e sulle ripercussioni in ambito economico e sociale all’interno del panorama cittadino. Spesso un alto livello di diversità va di pari passo con un alto livello di dinamismo/vitalità e i quartieri che manifestano questo carattere sono gli stessi che offrono agli abitanti possibilità di riscatto e di presa d’iniziativa. Pertanto seguono alcuni esempi di decadenza e rigenerazione urbana, con approfondimenti circa l’uso che gli abitanti fanno della città. Infine l’attenzione è rivolta all’insieme di cambiamenti concreti a cui devono necessariamente sottoporsi gran parte delle tecniche di progettazione urbana adottate per la costruzione degli alloggi, la pianificazione del traffico, la strutturazione delle procedure amministrative, ecc., con l’intento di prevenire il divario tra teorizzazioni e realtà dei fatti. L’importanza della diversità “Gli elenchi del telefono per categorie sono rivelatori di un fenomeno che è il più importante, preso singolarmente, tra i fenomeni urbani: l’enorme numero e varietà delle parti che compongono una città. In effetti, la diversità è un carattere connaturato ai grandi centri urbani.”25 Attraverso un’immagine di vita quotidiana, Jane Jacobs ribadisce un concetto fondamentale: la percezione della varietà degli elementi di cui è costituito un insediamento dovrebbe avvenire in maniera spontanea e naturale. Tuttavia ciascuno manifesta una sempre maggiore propensione a concentrarsi su specifici ambiti, a seconda dei propri interessi; in Si ricordi che l’opera The Death an Life of Great American Cities nacque in seno alle numerose proteste di cui Jane Jacobs si fece portavoce, in antitesi alle trasformazioni urbane previste a New York tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sul modello del “mega-progetto” lecorbusieriano. 23 Nelle opere di Jane Jacobs il riferimento al mondo della biologia, e ancor più dell’ecologia, è piuttosto frequente. A tal proposito si ricordi che in The Nature of Economics del 1999, l’autrice struttura l’intera scritto sul presupposto per cui sistema economico e sistema di natura funzionino secondo gli stessi principi di autoregolazione. 24 Dalla prefazione di Carlo Olmo in Ibid, p. XV. 25 Ibid., p. 133. 22

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questo modo si rischia di cadere in errore, sottoponendo il corpo urbano26 alla separazione delle sue funzioni. Oltre ad essere espressione di un individualismo dilagante, la tendenza ad analizzare la città attraverso lo studio delle singole categorie (riunite in quadri d’insieme solo in un secondo momento) è diventata una prassi urbanistica. Ma poiché la città, per essere attiva ed autorigenerarsi, ha bisogno di una continua interazione fra le molteplici funzioni e un certo livello di diversità ed interdipendenza (tanto economica quanto sociale), potrebbe andare incontro ad una disgregazione progressiva laddove questi aspetti non si riscontrassero. Pertanto sia l’urbanistica che l’architettura hanno il compito di convogliare nelle zone malate tutte quelle relazioni che, una volta innescate, consentano di avere dinamismo non solo dal punto di vista fisico ma anche intellettuale. A ragione, Jane Jacobs parla di mixed-use dello spazio cittadino: in questo modo si ribadisce l’importanza di avere un insediamento omogeneamente versatile, che sia al tempo stesso supporto e generatore di nuove interazioni. In termini moderni potremmo definirlo multifunzionale. Ciò significa che nel momento in cui si investiga la città non si deve partire dalla valutazione dei singoli usi quanto piuttosto dalla valutazione delle loro combinazioni e mescolanze. Sebbene il risvolto economico della diversità di usi abbia primaria importanza, tuttavia è opportuno valutare in parallelo i risvolti di tipo sociale, culturale e politico poiché il sistema urbano è un sistema fondato sul principio della complementarietà; questo perché “[…] ogni specie di diversità suscitata dall’ambiente urbano poggia sul fatto che nelle città vengono a trovarsi a stretto contatto tra loro un gran numero di persone, rappresentanti di una vastissima gamma di gusti, di capacità, di esigenze, di produzioni e magari di manie.”27 Pertanto la diversità si riscontra sia alla piccola che alla grande scala: dal singolo fondo commerciale all’unità abitativa, dall’edificio all’isolato, dal quartiere all’insieme di più quartieri; inoltre coinvolge tutte le componenti della struttura urbana: l’età dell’immobile, lo stato di conservazione, le tipologie edilizie, la destinazione d’uso dell’edificio (mono-funzionale o multi-funzionale), la destinazione d’uso del non costruito; se poi si riflette sul modo in cui l’abitante vive la città vanno considerati: la gerarchizzazione dei percorsi e degli spazi, il livello di popolamento di un settore urbano, la percezione degli ambienti da parte del cittadino, l’attrattività di un luogo, ecc. La complementarietà entra così in gioco: la diversità commerciale che Jane Jacobs chiama in causa ha un enorme rilevo non solo dal punto di vista economico ma anche sociale. La varietà urbana dipende, direttamente o indirettamente, dalla presenza di attività commerciali all’interno dell’insediamento; il grado di dipendenza è legato alla variazione di sopradette attività in numero, genere e forma d’espressione. Un quartiere urbano in cui si trovano numerose attività commerciali presenta allo stesso tempo molte altre forme di diversità che possono riguardare: tanto l’aspetto assunto dai singoli isolati quanto il sistema di spostamenti interni al quartiere, tanto i rapporti sociali tra gli abitati in relazione alle attività quanto il valore che queste attività hanno per gli utenti esterni, tanto il valore culturale quanto la sicurezza. Bisogna ricordare che le città sono in grado di generare diversità solo nel momento in cui, al loro interno, si formino opportuni raggruppamenti economici di più usi.28 L’espressione “corpo urbano” è ripresa dal testo di Giancarlo Paba Corpi urbani. Differenze, interazioni, politiche, edito nel 2010. Nonostante la molteplicità di accezioni che può avere, nella presente trattazione questo termine è da intendere come sinonimo d’insediamento urbano. 27 Ibid., p. 137. 28 Per avere un’idea concreta, si riporta un estratto da The Death and Life of Great American Cities: “Da un lato c’è, per esempio, la gente che abita o lavora nel North End di Boston, nell’Upper East Side di New York o nella zona di New Beach – Telegraph Hill a San Francisco, che può fruire di un larghissimo patrimonio di diversità e vitalità. A formare questo 26

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A tal proposito, Jane Jacobs sostiene che siano necessarie quattro condizioni. In primo luogo il quartiere deve servire almeno due funzioni primarie; tali funzioni devono far in modo che le strade siano popolate in maniera continuativa (a tutte le ore della giornata) e che le persone possano utilizzare in comune le attrezzature a disposizione nella zona. In secondo luogo è importante che gli isolati non raggiungano dimensioni troppo grandi ma che siano contenuti; in questo modo è possibile incrementare il dinamismo all’interno del quartiere, rendendo fluido lo scorrimento e garantendo allo stesso tempo un maggior livello di sicurezza durante la circolazione29. I quartieri devono permettere una commistione di popolazioni a reddito differente; questo avviene attraverso una diversificazione dell’edificato in base all’età e allo stato di conservazione. Infine la densità della popolazione deve essere piuttosto elevata, in particolare quella della popolazione residente: è la condizione necessaria, ma non sufficiente, per evitare consumo di suolo, disgregazione, dispersione, monotonia, stallo culturale ed intellettuale. Queste quattro condizioni sono fondamentali per generare diversità urbana. Nel caso in cui vengano soddisfatte, non è detto che i quartieri raggiungano uno stesso grado di diversità interna30. Nel momento in cui una sola delle condizioni viene meno, significa che non c’è un adeguato sfruttamento delle potenzialità del quartiere. Il primo di questi principi fornisce una spiegazione del perché Jane Jacobs nutra una grande avversione nei confronti delle zoning laws. Finalizzata alla suddivisione del territorio municipale in base ad usi e parametri specifici, la zonizzazione avrebbe portato alla distruzione d’intere comunità attraverso la creazione di spazi monofunzionali innaturali, poco relazionati fra loro e talvolta del tutto isolati. Strutturare un quartiere su singole funzioni significa privarlo della possibilità di essere dinamico, attrattivo, frequentato e sicuro. Per far sì che ciò non accada deve sussistere un grado di complementarietà tale da potersi autorigenerare naturalmente. Infatti se convivono due o più funzioni primarie, queste portano alla nascita di funzioni secondarie che in assenza delle prime non riuscirebbero a sopravvivere.31 Incentivare la commistione di più funzioni significa incentivare l’utilizzo continuato delle strade, sia di giorno che di notte; ciò significa indurre il cittadino residente, il lavoratore pendolare ed il visitatore a frequentare la zona a tutte le ore della giornata32. La presenza di tutti e tre i tipi di popolazione innesca un meccanismo a catena: gente sempre nuova è richiamata a frequentare le strade della zona; a sua volta la clientela potenziale aumenta; le attività commerciali sono in patrimonio contribuiscono notevolmente i visitatori provenienti da altri quartieri; ma non sono stati loro a gettare le basi della diversità in zone come queste o nei numerosi nuclei di diversità e di efficienza economica qua e là disseminati nelle grandi città. All’estremo opposto, vi sono nelle città enormi insediamenti umani che non riescono a creare altro che ristagno e alla fine una mortale insoddisfazione. Non è che gli abitanti siano gente diversa, più ottusa o incapace […] vi manca un quid che possa catalizzare le capacità d’interazione economica degli abitanti del quartiere e facilitare la formazione di raggruppamenti e di usi. A quanto pare, questo fenomeno di spreco delle potenzialità di una popolazione urbana può aversi in agglomerati anche molto popolosi. Prendiamo per esempio una delle circoscrizioni amministrative di New York, il Bronx”. Ibid., pp. 138 - 139. 29 Isolati più corti permettono di rendere il percorso maggiormente movimentato: così facendo l’attenzione del conducente è continuamente richiamata dalle variazioni del tracciato, in antitesi alle lunghe e uniformi high-way. 30 Si ricordi che i quartieri possono presentare potenzialità differenti a seconda delle loro caratteristiche; questo aspetto contribuisce a generare più livelli di diversità all’interno dello stesso contesto urbano. 31 Se un quartiere dovesse perdere alcune delle sue funzioni primarie, ad esempio un’attività industriale, ne risentirebbero le funzioni secondarie, ad esempio gli esercizi commerciali: questi ultimi si troverebbero costretti a chiudere poiché non sarebbero in grado di sopravvivere con una clientela di soli residenti. Allo stesso modo, se un’attività industriale dovesse perdere la popolazione residente, gli esercizi commerciali non potrebbero rimanere in vita a lungo con una clientela costituita dai soli lavoratori. 32 Per migliorare la disuniformità di distribuzione degli utenti nel corso della giornata è necessario, nell’ambito della programmazione di usi potenziali, capire quali potrebbero essere gli apporti al quartiere da parte dei nuovi usi. Il risultato dovrebbe essere un incremento considerevole del numero di utenti nei cosiddetti “momenti morti” (primo pomeriggio, sera, fine settimana).

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grado di ampliarsi ulteriormente; infine cresce il numero dei soggetti attratti, data la maggiore offerta di cui dispone il quartiere. L’importanza della strada Avere utenti durante tutto l’arco della giornata consente d’introdurre una questione molto cara a Jane Jacobs: l’importanza della strada in termini sociali. Sostanzialmente la strada funge da interfaccia fra gli ambienti interni e gli spazi esterni: essa è portavoce di dinamismo, relazioni, scambi, collegamenti. In base a come le persone utilizzano un’infrastruttura, si possono comprendere molti aspetti dell’organizzazione e del funzionamento dell’insediamento: primo fra tutti l’efficacia della mescolanza di usi. Se in ore differenti della giornata le persone che si servono delle strade intraprendono percorsi separati, significa che le funzioni non sono mescolate ma semplicemente vicine; si può parlare di mescolanza efficace quando alcuni dei soggetti che percorrono le medesime strade si servono delle stesse attrezzature. Jane Jacobs sostiene che le strade siano “i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali”33; in quanto tali assolvono contemporaneamente a molteplici funzioni: sebbene queste ultime siano correlate alla funzione primaria (la circolazione) tuttavia non coincidono con essa, trattandosi di veri e propri usi autonomi. La capacità di garantire una costante condizione di sicurezza rimane una delle funzioni più rilevanti. Affrontare questo tema significa considerare la strada nella sua complessità, pur mantenendo la consapevolezza che ciascuna sua parte34 interagisce in modo differente con gli utenti. Non si può pensare a marciapiedi e pedoni come a “passivi beneficiari della sicurezza o vittime disarmate del pericolo”: piuttosto “i marciapiedi, gli usi lungo di essi e i loro utenti sono personaggi attivi del dramma tra civiltà e barbarie che si svolge nelle città”35. Il pericolo lungo la strada è l’esito dell’interazione di più individui; pertanto questo problema affligge tanto i suburbi quanto le piccole città e le metropoli. A ragione, Jane Jacobs sostiene che il modo più efficace ed efficiente per mantenere l’ordine pubblico sia far affidamento sulla “complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi”36. Né la polizia né tantomeno la dispersione37 dei cittadini sono sufficienti a garantire uno stato di tranquillità e sicurezza; al contrario la prima incrementa e fortifica il sentimento di paura, la seconda spopola i quartieri rendendoli più vulnerabili. In particolare, quando una strada è molto frequentata diminuisce drasticamente la possibilità di subire aggressioni o di essere soggetti a qualsiasi tipo di manifestazione di criminalità. Per fare in modo che una strada accolga un sempre crescente numero di persone è importante che vi sia una chiara separazione tra spazi pubblici e privati, diversamente da quanto accade nei quartieri suburbani o nei grandi complessi residenziali dove la compenetrazione delle due parti non permette d’incanalare gli utenti lungo le vie di comunicazione. Contrariamente a quello si potrebbe pensare, se gli affacci delle abitazioni sono rivolti verso la strada, la sicurezza dell’individuo aumenta per il solo fatto di essere maggiormente esposto alla vista e al giudizio degli altri: si può parlare di naturale sorveglianza esercitata da tutti coloro che vivono Ibid., p. 27. Le parti principali della strada a cui Jane Jacobs si riferisce in termini di sicurezza sono il marciapiede e la carreggiata. 35 Ibid. 36 Ibid., p. 29. 37 La dispersione degli abitanti, come si può osservare nel caso di Los Angeles, non aiuta a combattere il disordine urbano e la criminalità: quando il carattere del suburbio si sostituisce al carattere urbano la popolazione risulta molto più frammentata e meno interattiva; ne consegue una disgregazione delle relazioni tra i cittadini e una conseguente perdita delle norme derivanti dalla costante convivenza in uno stesso contesto sociale. Jane Jacobs afferma che a Los Angeles, città quasi interamente costituita sulla struttura del suburbio, i dati di criminalità sono tra i più alti d’America. 33 34

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quotidianamente la zona in qualità di residenti, lavoratori o utenti frequenti. A tal proposito Jane Jacobs parla di eyes on the street, gli occhi che sorvegliano più o meno consapevolmente la strada: quanto più essa è frequentata, tanto maggiore sarà la probabilità che qualcuno se ne interessi e si diletti nell’osservazione delle caotiche, per quanto naturali, dinamiche interne. Per fare in modo che la gente usi le strade spontaneamente (e altrettanto spontaneamente eserciti una qualche forma di sorveglianza) è necessario collocare lungo i marciapiedi un adeguato numero di esercizi commerciali e luoghi pubblici che possano essere frequentati sia di notte che di giorno: in pratica si deve favorire la diversità e il dinamismo cui precedentemente si accennava38. Sebbene le vecchie città sembrino governate da un disordine generale, tuttavia presentano un ordine intrinseco in grado di mantenere le strade sicure e allo stesso tempo vitali, un ordine “[…] fatto di movimento e mutamento, è vita e non arte, ma con un po’ di fantasia potrebbe essere assimilato alla danza; non ad una banale danza preordinata, in cui tutti compiono lo stesso movimento nello stesso istante, ma ad un complicato balletto in cui le parti dei singoli danzatori e gruppi si esaltano mirabilmente l’un l’altra, componendo un tutto organico”39. La metafora della ballata simboleggia molto di più del semplice dinamismo generato dalla multifunzionalità della strada; essa indica “[…] la possibilità della riappropriazione dello spazio da parte di attori sociali senza nome, del primato delle regole informali sugli apparati di norme e tecniche che cercano di governare la strada, quasi di un’antropologia urbana sulla storia della città”40. Attraverso quest’immagine di grande efficacia, Jane Jacobs sottolinea nuovamente quanto sia riduttivo programmare e pianificare la città a priori, secondo una concezione deterministica della realtà; indossati i panni del sociologo e dell’antropologo, l’autrice si discosta dai tecnicismi dell’urbanistica tradizionale per avvicinarsi a regole di natura sociale e morale, desunte dalla convivenza civile sulla strada e dal senso di appartenenza ad una comunità. A maggior ragione è opportuno ricordare un’altra fondamentale funzione delle strade: consentire i contatti umani. Infatti “[…] la vita sociale che si svolge nelle strade, ha un carattere pubblico e serve a radunare persone tra cui non esiste una conoscenza intima e privata e che per lo più non hanno interesse a conoscersi in tale modo”41. Nonostante i piccoli contatti quotidiani creatisi nell’ambito del quartiere possano sembrare insignificanti, in realtà contribuiscono a sviluppare un insieme di connessioni fondate su rispetto, fiducia e aiuto reciproco, fondamentali nei momenti del bisogno individuale e collettivo. Parlare di contatti fra gli abitanti di un quartiere non significa necessariamente dimenticare il concetto di privacy: indispensabile per chi vive in città, questa esigenza deve essere in perfetto equilibrio con il bisogno di ognuno d’instaurare con gli altri dei rapporti di vicinato. La strada (provvista di marciapiedi, spazi pubblici e attività commerciali) costituisce la linea di demarcazione tra vita pubblica e vita privata dell’abitante, poiché permette d’instaurare il giusto livello di relazioni. Quando la strada è priva di vita collettiva, i cittadini si trovano di fronte ad una scelta: se

Questi usi offrono a residenti ed estranei dei motivi concreti per frequentare i marciapiedi su cui si sviluppano; inoltre inducono la gente a passare in prossimità di luoghi che di per sé non avrebbero nulla di attrattivo (ma che per un qualche motivo si trovano nel raggio d’azione dell’attività coinvolta) rimettendoli in funzione. Si ricordi che negozianti e gestori sono i principali “sorveglianti” della strada poiché direttamente esposti al pubblico attraverso l’attività che esercitano; a maggior ragione hanno a cuore l’ordine, la sicurezza e la tranquillità della zona. 39 Ibid., p. 46. 38

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Dalla prefazione di Carlo Olmo in Jacobs Jane, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p. XVIII. 41 Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p. 51.

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ampliare lo spettro dei contatti e approfondire i rapporti più del necessario o se evitare ogni tipo di socializzazione. In entrambi i casi l’esito non può essere che negativo. L’importanza del vicinato urbano Nel momento in cui si costituiscono reti di persone interagenti fra loro finalizzate al raggiungimento di scopi comuni altrimenti non raggiungibili, si può parlare di capitale sociale: è la consapevolezza dei propri limiti e problemi a rendere efficiente un vicinato urbano. Il neighborhood, che costituisce un tema trasversale alla trattazione, è considerato da Jane Jacobs un normale organo di autogoverno e autogestione locale; tuttavia, se si parla di grandi città, il vicinato non può essere valutato come un’unità autosufficiente e chiusa in se stessa42. Secondo l’autrice sono ammessi tre tipi di vicinato: la città nel suo complesso, i vicinati di strada e i grandi quartieri aventi dimensioni di sub-città43; sebbene svolgano funzioni differenti, essi sono complementari e in quanto tali sono necessari per avere un vita urbana priva di alterazioni considerevoli. In questo senso non bisogna valutare la struttura complessiva della città esclusivamente in senso gerarchico: la forte compenetrazione di un vicinato nell’altro (in direzione crescente) riafferma l’importanza di un funzionamento tanto globale per quanto capillare dell’insediamento. Il primo tipo, la città nel suo complesso, consente di avere una visione unitaria dell’insediamento urbano. Per quanti raggruppamenti o suddivisioni si vogliano effettuare, l’entità dalla quale bisogna partire è comunque la città nella sua globalità: in questo modo il vicinato è costituito dall’intera comunità, indipendentemente dai quartieri a cui i singoli individui appartengono, e le interazioni devono essere lette ad ampia scala poiché i raggi d’azione degli individui hanno la massima estensione. Il secondo tipo, il vicinato di strada, per quanto circoscritto merita particolare attenzione. Al suo interno si riscontrano tutte le dinamiche cui si accennava precedentemente: la naturale rete di sorveglianza pubblica che permette di vivere in sicurezza il quartiere; i quotidiani contatti collettivi; le reti di fiducia, tolleranza e aiuto fra i singoli cittadini, ecc. Bisogna ricordare che tale vicinato non può essere delimitato in modo netto poiché gli abitanti, essendo soggetti mobili, compiono spostamenti di vario tipo e distanza. Dinamico e diversificato, il vicinato di strada non può essere considerato una unità isolata ma deve generare un continuum con i vicinati limitrofi, tanto dal punto di vista fisico quanto sociale ed economico; dove questo avviene, significa che l’autogoverno locale funziona in modo efficiente ed efficace. Il terzo tipo, il quartiere avente dimensione di sub-città, costituisce una forma di mediazione tra la città nel suo complesso (sede del potere) e il vicinato di strada (politicamente impotente). Questa forma di autogoverno locale ha il compito d’indirizzare le risorse economiche verso i vicinati di strada con più difficoltà, cosicché gli interventi siano puntuali, mirati e allo stesso tempo migliorino il funzionamento dell’insediamento in senso globale. È evidente che il quartiere ha un notevole peso sulla città, sia dal punto di vista amministrativo che decisionale: per essere efficiente deve continuamente raccogliere informazioni dalle strade, trasmetterle agli organi amministrativi e trasformarle in azioni concrete. L’azione di raccolta delle informazioni avviene per mezzo di organizzazioni associative o comitati che si costituiscono a livello di È opportuno specificare che, all’interno di una grande città, il vicinato urbano non può fornire ai suoi abitanti una vita simile a quella che si conduce in un paese o in un villaggio. Ciò non è possibile perché si parte da un unicum molto più grande, la metropoli: i cittadini possono usufruire di più servizi, hanno un maggior numero di opportunità di scelta, possono prender parte ad innumerevoli attività culturali e iniziative, interagiscono con la grande varietà di capacità umane di cui dispone il vasto insediamento. Pertanto, ciò che fa la differenza è il grado di ricchezza del substrato con cui si viene a contatto. 43 Nelle maggiori città, i grandi quartieri con dimensioni di sub-città possono superare i centomila abitanti. 42

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quartiere; ciò si verifica solo ed esclusivamente quando gli attori s’identificano con il luogo in cui abitano e quando sono intenzionati a cooperare con i loro vicini: se il cittadino si riconosce in un ambiente o in una zona, significa che la sua attenzione è stata attratta dal quel particolare frammento di città e con esso ha instaurato un rapporto dialettico. Questa volta l’importanza della disomogeneità del tessuto urbano, dell’intreccio di usi, della vivacità, del dinamismo, della varietà di soggetti interagenti sono da relazionare alla possibilità di formulare degli obiettivi condivisi per mezzo di un processo partecipativo.

Gli avversari Una fallace idea deterministica della realtà Complessi di case popolari diventati centri di criminalità e vandalismo (peggiori di tutti quegli slums che avrebbero dovuto soppiantare); complessi residenziali di medio livello, monotoni e privi del benché minimo “slancio di vitalità urbana”; complessi residenziali di lusso tanto sfarzosi per quanto volgari; centri per il commercio che hanno assunto l’aspetto di grandi magazzini suburbani in cui la standardizzazione è dominante; camminamenti che collegano luoghi non attrattivi; autostrade e superstrade che passano nel bel mezzo del centro cittadino. Questi sono i tumori che conducono l’insediamento verso una condizione di degrado permanente; questo è ciò che Jane Jacobs osserva per le strade di New York e riscontra nella maggior parte delle grandi città americane. Sebbene le recenti azioni di riqualificazione urbana siano finalizzate ad apportare valore aggiunto, tuttavia hanno terribili ripercussioni tanto nelle aree in cui intervengono quanto nelle zone limitrofe. I cosiddetti piani di ristrutturazione urbana sono la concretizzazione di una politica basata su formalismi e tecnicismi chiaramente legati ad un’idea deterministica della realtà (sarebbe più opportuno parlare di idea deterministica di assetti fisici e stili di vita dell’insediamento urbano); è proprio la natura predittiva di questo tipo di pianificazione che viene aspramente criticata dalla giornalista di Scranton. Portavoce di un metodo empirico basato sull’osservazione diretta della città e del comportamento sociale dei suoi abitanti, Jane Jacobs sostiene che l’insediamento non possa essere studiato a priori, solo sulla carta o sui rapporti economici: l’imprevedibilità degli eventi gioca un ruolo fondamentale e si sostanzia nelle interazioni fra i cittadini, nel rapporto uomo-città e nelle effettive risposte che il corpo urbano dà ai bisogni di ciascuno. Più precisamente Jane Jacobs si contrappone all’idea del mega-progetto, collocato acriticamente su una base territoriale consolidata e complessa, costituita da sedimenti materiali e cognitivi44: le grandi realizzazioni (che siano unità abitative, centri polifunzionali, centri culturali, ecc.) innescano dinamiche disgregative che coinvolgono sia il substrato fisico che quello socio-culturale. Dal punto di vista compositivo i quartieri suburbani di recente costruzione mostrano come si stia perdendo il duraturo confine tra città e campagna: il territorio45, che fino ad ora aveva mantenuto le proprie peculiarità compositive, sta andando incontro ad una sorta di spersonalizzazione ed appiattimento dei caratteri, fino ad assumere le sembianze di “un’unica distesa monotona e sterile”46; dal punto di vista delle relazioni interpersonali e del rapporto Qualora si necessiti di specifiche in merito al concetto di sedimenti materiali e cognitivi, si consulti: Alberto Magnaghi, 2001. Rappresentare i luoghi. Metodi e tecniche. Firenze: Alinea Editore, 2001. 45 Ibid. 46 Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.6. 44

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con il contesto accade che i vecchi residenti vengano bruscamene espropriati e subiscano uno sradicamento dal luogo in cui abitavano, che le piccole attività siano costrette a spostarsi con conseguenze disastrose dal punto di vista produttivo e commerciale, che chi viene chiamato ad alloggiare nei nuovi complessi sia indirettamente soggetto ad una divisione in base al reddito, che i nuovi residenti tendano ad auto-ghettizzarsi poiché intimoriti dalle realtà circostanti47. Alla luce di queste osservazioni è paradossale che siano in fase di declino gran parte di quelle zone soggette a recupero e ancor più paradossale è che non lo siano molte di quelle aree che, a detta degli urbanisti, dovrebbero esserlo48. L’origine di questo paradosso va ricercata nell’approccio metodologico utilizzato da teorici e tecnici della moderna urbanistica. Jane Jacobs sostiene che “le città siano un immenso laboratorio sperimentale, teatro dei fallimenti e dei successi dell’edilizia e dell’architettura urbana; in questo laboratorio l’urbanistica avrebbe dovuto imparare, elaborare e mettere alla prova le proprie teorie. Al contrario, coloro che praticano ed insegnano questa disciplina […] hanno trascurato lo studio dei successi e dei fallimenti riscontrabili nella vita reale, né si sono chiesti quali fossero le ragioni dei successi inattesi”49. Il più delle volte teorici e tecnici non sono stati capaci di osservare la città e di comprenderne la natura delle dinamiche, limitati dal carattere prescrittivo dell’urbanistica e dai rigidi codici operativi associati. Il tutto è sfociato in modelli tanto inadeguati per quanto utopistici attraverso i quali si è tentato di riaffermare un’idea anti-urbana dell’urbanistica moderna: le grandi dimensioni della metropoli (in termini di estensione spaziale) sarebbero deleterie per qualsiasi insediamento urbano; l’isolato diverrebbe l’unità di misura fondamentale; il verde costituirebbe l’elemento dominante dei nuovi piani e progetti; la strada assumerebbe un ruolo di secondaria importanza. Secondo Jane Jacobs il principale filone d’influenza è stato quello che si è aperto con le teorie urbanistiche di Ebenezer Howard. Il modello howardiano della città-giardino può definirsi la proiezione sul territorio di una precisa idea di ordine sociale50 e sostituendo alla città reale una Qualche anno dopo la pubblicazione di The Death and life of Great American Cities, si è iniziato a parlare di gentification. Questo termine, desunto dall’ambito sociologico, indica l’insieme dei cambiamenti urbanistici, sociali e culturali a cui un’area va incontro dopo una serie di interventi; questi ultimi possono interessare zone periferiche o centrali soggette ad un certo degrado e dove i costi abitativi sono piuttosto bassi. In seguito alle azioni di restauro e risanamento, vi affluiscono abitanti a più alto reddito. 48 Jane Jacobs è solita argomentare attraverso esempi concreti di città americane. In merito alla questione sopra accennata, uno dei quartieri maggiormente richiamati sin dall’Introduzione a The Death and Life of Great American Cities è North End, a Boston. L’origine di North End risale ai primi anni del XVII secolo quando immigrati italiani, poi irlandesi, decisero di stanziarsi in prossimità della zona industriale ai margini della città; i flussi migratori si protrassero fino alle soglie del Novecento. Sino ad oggi il quartiere ha mantenuto una struttura insediativa complessa, caratterizzata da: un’edilizia prevalentemente residenziale, piuttosto densa e dalle altezze modeste; da una grande scarsità di parchi e spazi verdi; da una maglia viaria irregolare ed intrecciata, in forte antitesi al tracciato di assi ortogonali che caratterizza le più recenti espansioni; da una mescolanza di attività e funzioni. Abitato da una popolazione economicamente al di sotto della soglia di povertà, North End è stato considerato per molto tempo uno dei peggiori slum di Boston. Per un insieme di ragioni il quartiere è stato l’oggetto di molti studi di architettura e urbanistica, con l’intento di raggiungere una soluzione adeguata per la sua “rivitalizzazione”. Jane Jacobs nota però che nonostante i mancati interventi (discutibilmente utili) questa porzione di città è riuscita a rigenerarsi dall’interno in completa autonomia, attraverso azioni di ristrutturazione operate dagli stessi abitanti. 49 Ibid. 50 L’origine delle teorizzazioni howardiane nasce dalla presa di coscienza della forte disparità di valore fra terreno fabbricabile in città e terreno fabbricabile in campagna. In città si assiste al fenomeno per cui la proprietà privata dei terreni fabbricabili genera un valore economico crescente del suolo edificabile quando si passa dalla periferia al centro; questo induce i proprietari dei terreni urbani a sfruttare i lotti in maniera intensiva, generando zone tanto dense e congestionate per quanto proficue (in questo senso il valore della terra è alla base delle disparità sociali tra gli abitanti). Con il concentrarsi degli interessi, la città amplia a dismisura le proprie dimensioni e finisce per ridurre notevolmente il terreno ad uso agricolo. Howard sostiene che solo attraverso l’eliminazione della speculazione privata si possa ottenere una bilanciata mescolanza fra dimensione urbana e 47

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città ideale, sembrerebbe non credere fino in fondo nella possibilità di riaffermare nella città consolidata una condizione d’ordine e di adeguato funzionamento. Con l’intento di arrestare l’espansione indiscriminata di Londra, contrastare il sempre crescente sovraffollamento dei quartieri e attuare una redistribuzione della popolazione nelle campagne spopolate, Howard intende addizionare due aspetti fondamentali: il primo, ripreso dalle teorie utopiste della prima metà dell’Ottocento con particolare riguardo per l’insegnamento di Robert Owen51, è quello di una comunità autosufficiente che funga da sintesi tra campagna e città; il secondo è quello dell’abitazione indipendente immersa nel verde con lo scopo di “[…] sottrarre la vita familiare alla promiscuità e al disordine della metropoli e di realizzare – diremo così – il massimo di ruralità compatibile alla vita cittadina”52. Secondo Jane Jacobs, quando Howard teorizzò il suo modello “[…] non aveva in mente delle città, ma nemmeno dei quartieri-dormitorio. Il suo scopo era la creazione di piccole città autosufficienti, che sarebbero riuscite davvero attraenti a condizione che tutti gli abitanti fossero stati docili, privi d’iniziative individuali e soddisfatti di trascorrere la vita in mezzo a gente ugualmente priva d’iniziative: come in ogni utopia, il diritto di prendere iniziative aventi un minimo di rilevanza era riservato ai pianificatori addetti ai lavori”53. Infatti la città-giardino, avente estensione areale e numero di abitanti predefiniti, si strutturava su un rigido schema distributivo delle funzioni pubbliche e private. Una serie di anelli concentrici e una fitta raggera di assi, consentivano di “zonizzare” il territorio affinché l’uso del suolo fosse il più razionale possibile: nell’anello centrale si trovavano gli edifici pubblici più importanti, circondati da un vasto parco; nell’anello mediano si distribuivano le residenze; nell’anello periferico sorgevano le industrie. Questi elementi bastano per individuare l’origine della forte discrepanza tra idee howardiane e idee jacobsiane. Jane Jacobs sostiene che le teorizzazioni formulate dal suo avversario siano state deleterie per lo sviluppo della città. Il primo grave errore è stato quello di separare le molteplici funzioni elementari, isolandole in differenti settori: in questo modo l’intricato sistema di relazioni che rende vitali le strade viene meno, i quartieri smettono di essere attrattivi, gli scambi perdono la spontaneità e le persone finiscono per prediligere una vita domestica e chiusa in se stessa. Il secondo grave errore è stato quello di subordinare qualsiasi azione pianificatoria al bisogno di ambienti salubri e a contatto con la natura: distribuendo il verde urbano in maniera diffusa e prediligendo la piccola abitazione unifamiliare, invece di un ambiente idillico si è ottenuto un territorio fisicamente e socialmente frammentato analogo a quello dei suburbi. Il terzo errore è stato quello di concepire il commercio come fornitura di merci standardizzata e regolare (nel tempo e nello spazio), prevedendo un mercato dimensione agricola, in modo tale da unire i benefici della città (disponibilità di servizi pubblici, relazioni, scambi, ecc.) e i benefici della campagna (il verde, la salubrità dell’aria, la tranquillità, ecc.). 51 Robert Owen (1771-1858), d’origine scozzese, fu un industriale e uomo politico. Distaccatosi dalle teorie di Adam Smith, decise di seguire un percorso indipendente basato sull’analisi dei rapporti economici: un’impresa industriale riesce a funzionare bene grazie a controlli organizzativi riguardanti tanto l’ordinamento interno quanto i limiti dell’azione economica rispetto alle esigenze del mercato; in questo modo si ottiene una condizione di equilibrio solo quando c’è armonia tra i fattori interni e le azioni esterne. Nel 1799 Owen decise di acquistare le filande di New Lanark e trasformarle in un villaggio di armonia e cooperazione. Oltre ad aver migliorato le tecniche produttive (attraverso nuovi macchinari, orari moderati e buoni salari), volle fornire all’insediamento abitazioni salubri, asili e scuole affinché le condizioni di lavoro fossero buone e creassero le basi per la formazione di una comunità attiva e cooperante. Convinto della complementarietà fra industria e agricoltura, previde un cospicuo numero di appezzamenti (che consentissero alla popolazione di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare) e di altri servizi strettamente connessi alla lavorazione dei campi. Owen fornì inoltre una serie d’indicazioni specifiche su: costo dei lavori per l’avvio di New Lanark, numero di abitanti previsti, estensione della terra da coltivare, organizzazione edilizia e funzionale delle strutture collettive, destinazione del surplus prodotto dal lavoro, ecc. 52 Leonardo Benevolo, 1960. Storia dell’architettura moderna. Bari: Editori Laterza, 2010, p. 367. 53 Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.16.

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perfettamente chiuso e in grado di alimentarsi autonomamente. “Per Howard gli aspetti della città che non potevano essere messi al servizio della sua utopia non avevano alcun interesse; in particolare egli non teneva nessun conto della varia e complessa vita culturale della metropoli. Né lo interessavano problemi come l’autodifesa delle grandi città dalle tendenze antisociali, la circolazione delle idee, la vita politica, l’evoluzione delle strutture economiche”54. Il modello della città-giardino, tanto atemporale per quanto funzionale, rifugge da ogni tipo di diversità e stratificazione territoriale e può essere considerato l’esplicitazione di un’idea congiunturale del tempo55: tenendo presente che la città va incontro ad oscillazioni cicliche della sua struttura in base a come lo scorrere del tempo interagisce con la base territoriale, Howard formula un modello insediativo che si estranea dal contesto e si giustappone al preesistente. La proposta di una rete di città-satellite, ideata con lo scopo di combattere il fenomeno della metropoli e attuare una pianificazione regionale, ha semplicemente anticipato quella che Luigi Mazza, in perfetta comunione con il pensiero jacobsiano, ha definito pianificazione tecnocratica56: il complesso sistema territoriale, oltre a subire passivamente l’azione di tecnici e professionisti, risente dell’impoverimento della sua struttura in seguito all’applicazione su ampia scala di un modello urbano indifferenziato. Secondo Jane Jacobs l’influenza del pensiero howardiano sull’urbanistica americana è avvenuta da un lato per mezzo delle teorizzazioni di una serie di urbanisti e pianificatori regionali, dall’altro attraverso l’operato di alcuni architetti. Tra i primi emerge Patrick Geddes: questi considera la città-giardino non tanto un modello con cui contenere l’incremento demografico della metropoli, quanto piuttosto il punto di partenza per lo sviluppo di un sistema articolato a scala territoriale. Il concetto howardiano di rete di città viene letto attraverso gli occhi del biologo, di colui che ha abbracciato le teorie evoluzioniste darwiniane e ne ha fatto un motivo di vita: da un lato si mantiene la distribuzione razionale degli insediamenti urbani su tutto il territorio regionale, dall’altro si procede ad una contestualizzazione degli insediamenti rispetto alle specificità locali57. Per quanto una lettura multidisciplinare e co-evolutiva del territorio regionale abbia segnato un punto di svolta per lo urban planning58, tuttavia Jane Jacobs sposta ancora una volta l’attenzione sulla città: la bioregione urbana esplicita il bisogno d’insediamenti urbani economicamente solidi sul territorio regionale, chiarisce l’importanza di uno stretto rapporto fra città e base territoriale ai fini di un fiorente sviluppo economico, è ottenibile solo quando le città sono multiformi/multifunzionali (cinque sono le forze che la tengono in vita: city works, city market places, urban capital, transplanted city workers, rural innovation) ed esercitano le loro forze sul contesto rurale circostante. Così lo sviluppo durevole sembra essere il frutto di una serie di dotazioni che il territorio presenta e sviluppa attraverso la società: in questo modo Jane Jacobs ribadisce che la pianificazione calata dall’alto è da considerare una minaccia per la bioregione

Ibid., p. 17. Per maggiori approfondimenti si consulti lo scritto di Luigi Mazza in: Di Biagi Paola (ed.), 2002. I classici dell’urbanistica moderna. Roma: Donzelli Editore, 2009. 56 Ibid. 57 Con specificità locali s’intendono tutti gli strati informativi che consentono di comprendere a pieno un territorio: morfologia, geologia, vegetazione, fauna, rapporti sociali, cultura, tradizioni, aspetti economici, ecc. Secondo Patrick Geddes è fondamentale che il planner sia consapevole delle potenzialità e delle criticità della realtà in cui si trova ad operare; pertanto è necessario svolgere una survey, una vera e propria indagine conoscitiva del luogo. Sebbene abbia bisogno di tempi piuttosto lunghi, questo modo di procedere consente di non pianificare in modo frettoloso o superficiale. 58 Patrick Geddes può definirsi il padre di della corrente di pensiero denominata Regionalismo e che di lì a poco sarebbe diventato Bioregionalismo. 54 55

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urbana in quanto la sua stessa natura prevede una regolamentazione autonoma che dipende dalla natura di ogni singolo insediamento. In America, intorno agli anni ’20 del Novecento, entrambe le teorie vennero riprese da un gruppo di studiosi definitisi “decentratori”59. Nato dalla costola delle teorizzazioni utopiste sulla città-giardino, questo filone di pensiero aveva come obiettivo quello di attuare un decentramento e diradamento delle grandi città sul territorio regionale: in questo modo vi sarebbe stata una redistribuzione degli abitanti60 e delle loro attività attraverso la formazione di tante città-satellite più piccole. Lewis Mumford, con cui Jane Jacobs ebbe l’occasione di confrontarsi (o meglio scontrarsi) più volte, fu uno dei principali esponenti del regional planning. Alla luce delle analisi dirette condotte sulla metropoli americana, Mumford parla di megalopoli: poiché si tratta di un insediamento omologante, spersonalizzante e in continua espansione l’umanità è destinata “a vivere in un mondo sempre più disumanizzato che rischia di restare privo di città o di diventare un immenso alveare umano”61; ciò si verifica solo se la popolazione non si riscatta, se non è in grado di valorizzare le proprie qualità attraverso un nuovo ordine urbano62. Pertanto la grande città americana innesca processi de-territorializzanti che generano naturalmente due fenomeni opposti ma complementari: la fuga dalla città e la congestione. Da da un lato prendono campo suburbi informi e frammentari caratterizzati da monofunzionalità, basse densità di popolazione, bassa densità edilizia e prevalente “rimescolanza di strade”63; dall’altro l’aumento demografico e la concentrazione di tutte le funzioni primarie nella metropoli portano alla convergenza dei flussi principali in una macroarea, con conseguente sovraffollamento di corpi urbani, umani e non. Mumford sostiene che le utopie siano strettamente necessarie per il raggiungimento di un adeguato ordine urbano; tuttavia queste hanno bisogno di una base informativa oggettiva per concretizzarsi (desunta dalla conoscenza approfondita del contesto ambientale, della storia, delle potenzialità del luogo, ecc.). Sebbene quella mumfordiana non sia un’utopia rigida ed autoritaria come quella di Howard tuttavia, attraverso la negazione della metropoli e il suo frazionamento in piccoli centri più rurali e meno urbani variamente dislocati sul territorio, mostra una certa propensione all’attuazione di un modello fondamentalmente deterministico e calato dall’alto64. Questa definizione è stata proposta da Catherine Bauer, anch’essa appartenente al gruppo dei cosiddetti urbanisti decentratori. Inoltre si ricordino personalità del calibro di Clarence Stein, Henry Wright e, come si vedrà tra non molto, Lewis Mumford. Molti di costoro appartenevano alla Regional Planning Association of America (RPAA). 60 Negli anni in cui gli urbanisti decentratori formularono le loro teorie, la popolazione degli Stati Uniti stava invecchiando; pertanto l’azione di decentramento era finalizzata non tanto a contenere la crescita delle metropoli quanto a redistribuire una popolazione stazionaria. 61 Lewis Mumford, 1961. La città nella storia. Milano: Bompiani, 2002, nello scritto di Luca Pes in: Di Biagi Paola (ed.), 2002. I classici dell’urbanistica moderna. Roma: Donzelli Editore, 2009. 62 L’ordine urbano cui Mumford si riferisce si può ottenere attraverso: la comprensione della vera natura storica della città, l’individuazione delle funzioni originarie, la previsione di quelle che potrebbero generarsi in un futuro prossimo, l’eliminazione dei “difetti di origine” (più propriamente original disabilities). 63 Arcade Fire, Suburban War. By: Win Butler, Regine Chassagne, William Butler, Tim Kingsbury, Richard R. Parry, Jeremy Gara (aka Arcade Fire). 64 Mumford prevedeva una serie d’interventi volti alla regolamentazione dei nuovi insediamenti. Jane Jacobs, in completo disaccorto, ricorda che: “secondo queste idee, la strada è per l’uomo un ambiente sfavorevole e quindi le abitazioni non devono essere rivolte vero di essa, ma verso spazi interni verdi e riparati; le strade troppo frequenti costituiscono uno spreco, vantaggioso solo per gli speculatori immobiliari che misurano il valore di un suolo in base allo sviluppo del fronte stradale. Nell’architettura urbana l’elemento fondamentale non è la strada ma l’isolato, e specialmente il grande isolato. Le attività commerciali devono essere segregate dalle zone residenziali e da quelle verdi; la richiesta di merci di un quartiere deve essere calcolata “scientificamente” e in base a ciò deve essere stabilita la superficie massima da destinare alle attività commerciali. La presenza di numerosi estranei è, nel migliori dei casi, un male necessario: una buona urbanistica deve cercare di offrire almeno una parvenza d’isolamento e di privacy di tipo suburbano”. Da: Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.19. 59

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Jane Jacobs riserva attacchi ben più violenti a colui che sembrerebbe aver estremizzato questa visione “antiurbana” dell’urbanistica, Le Corbusier. Costui diffonde un modello completamente diverso dai precedenti, definito Città Radiosa: costituito da grattacieli densamente abitati e circondati da vasti parchi pubblici, questo tipo d’insediamento si discosta totalmente da quello dei decentratori bastato sull’abitazione indipendente unifamiliare. Lo scopo di Le Corbusier è quello di alloggiare la popolazione in unità d’abitazione che siano in grado di garantire una densità urbana molto elevata e allo stesso tempo ridurre drasticamente la percentuale di suolo edificato; inoltre la circolazione ha un ruolo determinante poiché l’insediamento viene liberato il più possibile dalle strade superflue al fine di consentire spostamenti più fluidi e naturali. Come afferma Jane Jacobs si tratta del perseguimento di una “utopia sociale” con la quale consentire massima libertà individuale65. Le Corbusier concepisce il terreno come una sorta di piattaforma verde sulla quale adagiare acriticamente tanti blocchi isolati: in questo modo si oppone drasticamente al concetto di città come corpo identificabile, definito e separato dal territorio rurale 66; piuttosto persegue il sogno della città totale informale, diffusa, priva di limiti e di forma, invisibile e ubiquitaria67. I motivi per cui la Città Radiosa non ha incontrato difficoltà d’accettazione da parte di studiosi, tecnici professionisti o semplici cultori della materia sono numerosi. In primo luogo definendo il proprio modello urbano una sorta di “città-giardino verticale”68, Le Corbusier esplicita la volontà di adottare, per quanto solo superficialmente, alcuni dei principi della cittàgiardino; tenendo presente che quest’ultima era stata interpretata dai più come la città “umana”, a misura d’uomo e funzionale (poiché portavoce dell’unità di vicinato, del grande isolato, del contatto con la natura), ne consegue che la Città Radiosa abbia avuto una certa facilità d’attecchimento. In secondo luogo il modello lecorbusieriano appare chiaro, sintetico e ordinato architettonicamente parlando: per cui la grande capacità comunicativa delle forme è riuscita ad attrarre non solo architetti e urbanisti ma anche imprenditori immobiliaristi e amministratori comunali. A ragione, Jane Jacobs sostiene che il modello originario della cittàgiardino ed il successivo modello della Città Radiosa spesso siano stati combinati fra loro in vario modo; questo si percepisce in tutte quelle zone che hanno subito azioni di ristrutturazione urbana69 poiché questa pratica “si riduce in gran parte al gioco di abilità di trasformare la zona in una variante accettabile di “città-giardino radiosa” lasciando tuttavia in piedi un gran numero di vecchi edifici”70. Ma queste combinazioni che cosa hanno generato? Per dare una risposta concreta si deve tronare a quanto osservato da Jane Jacobs lungo le strade delle grandi città americane: complessi di case popolari diventati centri di criminalità e vandalismo (peggiori di tutti quegli slums che avrebbero dovuto soppiantare); complessi residenziali di medio livello, monotoni e privi del benché minimo “slancio di vitalità urbana”; Con libertà individuale non s’intenda la libertà di fare ciò che si vuole quanto piuttosto una libertà legata alle responsabilità ordinarie. 66 Si fa riferimento alla necessità di compenetrazione fluida tra città e campagna, uno degli aspetti più importanti delle teorie lecorbusieriane. 67 Per maggiori approfondimenti si consulti lo scritto di Pier Giorgio Gerosa in: Di Biagi Paola (ed.), 2002. I classici dell’urbanistica moderna. Roma: Donzelli Editore, 2009. 68 La Città Radiosa può essere considerata come il tentativo lecorbusieriano di adattare la città-giardino a densità abitative più alte. 69 La ristrutturazione programmata non prevede la demolizione di tutti gli edifici presenti sulla zona in cui interviene . 70 Jane Jacobs, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009, p.22. 65

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complessi residenziali di lusso tanto sfarzosi per quanto volgari; centri per il commercio che hanno assunto l’aspetto di grandi magazzini suburbani in cui la standardizzazione è dominante; camminamenti che collegano luoghi non attrattivi; autostrade e superstrade che passano nel bel mezzo del centro cittadino.

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Bibliografia BENEVOLO Leonardo, 1960. Storia dell’architettura moderna. Bari: Editori Laterza, 2010. DAVIS Mike, 2006. Il pianeta degli slum. Milano: Feltrinelli Editore, 2006 DI BIAGI Paola (ed.), 2002. I classici dell’urbanistica moderna. Roma: Donzelli Editore, 2009. HOSPER Gert-Jan, Jane Jacobs: her life and work, in “European Planning Studies”, vol. 14, n. 6, 2006, pp. 723-32. JACOBS Jane, 1961. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane. Torino: Giulio Einaudi Editore S.p.A., 2009. MAGNAGHI Alberto, 2001. Rappresentare i luoghi. Metodi e tecniche. Firenze: Alinea Editore, 2001. PABA Giancarlo, 2010. Corpi urbani. Differenze, interazioni, politiche. Milano: FrancoAngeli s.r.l., 2010.

Sitografia http://fff.org/explore-freedom/article/jane-jacobs-spontaneity-cities/ http://www.de-architectura.com/2010/01/jane-jacobs.html http://www.millenniourbano.it/cara-signora-lurbanistica-non-fa-per-lei/ http://www.millenniourbano.it/la-signora-che-osservava-la-strada/ http://www.nyc.com/visitor_guide/greenwich_village.75855/editorial_review.aspx http://www.planum.net/vita-e-morte-delle-grandi-citta-review http://www.thefederalist.eu/site/index.php?option=com_content&view=article&id=509&la ng=it https://www.opendemocracy.net/ecology-urbanisation/jacobs_3492.jsp http://lawdigitalcommons.bc.edu/ealr/vol28/iss4/8/

Immagine di copertina: https://it.wikipedia.org/wiki/Jane_Jacobs

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