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ISSUE Nº1 . 07/2016
Š b.l.petretto
“Troppe persone spendono soldi che non hanno guadagnato, per comprare cose che non vogliono, per far colpo su gente di cui non gli importa nulla� Frase di Will Rogers ricordata da Zygmunt Bauman al festival Leggendo Metropolitano di Cagliari.
AINAS ISSUE Nº1 . 07/2016 INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e fotografia Sofía Arango Echeverri Comunicazione Maria Victoria Gomez, Lucía Vaca Foto di copertina, Serie Atlantidea ©ottaviopinna Copy 2016, Ainas Nº 1 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge.
Is ainas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AINAS reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione bimestrale, cartaceo e telematico Iscizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. Editore Bianca Laura Petretto Direttore responsabile Roberto Cossu
www.bbartcontemporanea.it info@bbartcontemporanea.com
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AINAS MAGAZINE
ISSUE Nº1 8 CHAPTER 1 . NEWS 10 a piedi nudi sull’acqua 14 tunga, esercizi di libertà 18 l’età di shirley 22 jheronimus! 26 il divenire verticale
30 CHAPTER 2 . SPECIAL 32 donato sartori
33 il signore delle maschere 36 io e il sessantotto 40 il cuoio e il martello
64 CHAPTER 3 . INTERVIEW 66 achille bonito oliva
72 CHAPTER 4 . CROSSING 74 shot by me
76 piero menditto and the abramovic method
80 CHAPTER 5 . PATAATAP 82 inner gigi rigamonti
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EDITORIAL
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C’è un paradosso nella nostra epoca: mentre l’idea di bellezza è caricata all’inverosimile, sulle leve della moda mercantile e dell’immagine esasperata, fiorisce un paesaggio di bruttezza. Una bruttezza concettuale, come i “non luoghi”, e una bruttezza di forma, materiali, concezioni urbane. L’alluminio anodizzato e il cemento sono archetipi di un’estetica imperante. Ma ogni epoca deve fare i conti con se stessa e con ciò che la caratterizza, e forse in questo senso il brutto non esiste. Del resto vale ciò che ricorda Umberto Eco proprio nella “Storia della bruttezza”: “In quasi tutte le teorie estetiche, almeno dalla Grecia ai giorni nostri, è stato riconosciuto che qualsiasi forma di bruttezza può essere redenta da una sua fedele ed efficace rappresentazione artistica”. Il punto decisivo, insomma, è la maestria. E prima ancora, poiché nell’età globale gli spazi si sono ristretti ma contenendo sempre più oggetti, la ricerca. L’esplorazione. Anche questo è un paradosso: se lo spazio è più limitato è ancora più importante il viaggio. Forse non ci fanno caso i visitatori delle mostre di arte contemporanea, ma la tensione di ogni artista, oggi, è frugare e fissare. Forse lo è sempre stata, ma mai come nella nostra epoca: è cruciale, fin quasi al dolore, raccontare e spiegare il mondo in cui viviamo. C’è (magari giustamente) una carenza di metafisica e un bisogno ossessivo (magari sano) di realismo. E allora l’artista è colui che guarda. E che viaggia. Siano distanze lunghe o brevi, più luoghi anziché uno solo, cammina incessantemente. Va avanti. Raccoglie e procede. E veste molti abiti, assume molti volti: è anche scienziato, teatrante, scrittore, fotografo. Talvolta deve solo chinarsi a raccogliere un ramo secco, talvolta è un rabdomante. L’importante è che non si fermi. La rapidità, un’altra leva della bruttezza, diventa il suo mezzo di locomozione perché non può farne a meno. E si parla della rapidità che impone il realismo, e cioè il brevissimo scarto fra ciò che accade in questo momento e il bisogno di raccontarlo, perché adesso è già tardi. Tutto questo è una rivoluzione e il concetto di “Erranti” è quello che la definisce. Il suo valore, al di là di tutto, è che non ha confini: né di genere, né –6–
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di luogo, né di ispirazione. L’unica regola è non avere convenzioni e aprirsi alla scoperta. L’idea più estesa di “Erranti” come movimento è esposta dall’editrice in un catalogo di questo primo numero della rivista. Parliamo di un movimento che ispira la pubblicazione, ma naturalmente “Ainas” è anche altro. Vuole essere altro: tutto ciò che incontriamo e tutto ciò che si trova all’incrocio delle mete dei viaggiatori. Come per esempio la mostra (poco tempo fa) della colombiana Chia Devis al B&BArt Museo di Collinas, in Sardegna. Opere che nascono dal dolore e dalla vita vissuta, in terre dove spesso la vita ha un valore puramente fittizio: pennellate forti, roventi, che disegnano un cielo plumbeo confuso con la terra cupa. Il senso di un disastro incombente dove, minuscolo punto, una bambina nuota, è sospesa, vive. Tanto piccola da contenere l’energia della prima particella del Big Bang, dentro l’orgia della minaccia. Racconta se stessa, Chia Devis, eppure il suo viaggio interiore è il viaggio di una zona del mondo. Con i materiali che ama, con le paure che teme, erede di suggestioni antiche (Hokusai) e attuali (Jaime Arango Correa). L’Italia e i paesi latino-americani sono rotte di “Erranti”. Un incrocio importante di una cartina geoartistica che però non ha confini nella pagine di Aìnas. Ci saranno universi personali e pubblici, istantanee di bellezza da scoprire e bruttezza da riscattare. Ci saranno le passeggiate sulle acque di Christo e frames di chi ha una vocazione. Ci saranno pensieri, parole e immagini non mediate. E questo è un altro passaggio chiave: se l’arte contemporanea, e purtroppo così sembra, ha prevalentemente il ritmo imposto dal mercato, è giusto ampliare l’offerta. Non solo crociere obbligate, ma rotte infinite. E libere. Belle o brutte, ricche o povere, nella certezza che le distinzioni sono solo impressioni. Roberto Cossu –7–
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CHAPTER 1 . NEWS
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a piedi nudi sull’acqua – 10 –
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Christo cammina sull’acqua. Sul lago d’Iseo, il 18 giugno del 2016. Una passerella gialla galleggiante di tre chilometri disegna “the Floating Piers”, progetto sexy ideato da una coppia di artisti, Christo e Jean Claude; nasce durante il solstizio d’estate e scompare definitivamente il 3 luglio 2016. Nomen omen e il gioco è fatto. Un artista contemporaneo che vive a NY, bulgaro, classe ‘35, crea una piattaforma di luce che unisce Montisola a Sulzano, in Italia, per essere calpestata, vissuta e consumata da tutti. L’opera di Christo non si può possedere ed è stata smantellata dopo sedici giorni di vita, è libera, non ha padroni e non risponde a logiche economiche usuali. L’artista ha finanziato l’installazione con fondi personali, (15 milioni di dollari che provengono dalla vendita delle sue opere) e ha lavorato con una squadra di professionisti competenti e appassionati per realizzarla. In rete la concreta camminata di Christo ha sollevato molte reazioni:” Un’alternativa alla sagra della lumaca gialla”, critica Philippe Daverio, “una passerella sul nulla”, la definisce Vittorio Sgarbi, “una promenade sull’acqua”, per Achille Bonito Oliva. 70.000 metri quadri di tessuto giallo ricoprivano un sistema modulare di 200.000 cubi galleggianti in polietilene che fluttuavano sulle onde. In media 75mila visitatori al giorno hanno calpestato l’opera. Sui social i titoli più disparati: una giovane che camminava su Floating Piers cade in acqua e muore, consigli per visitare l’opera, un’altra giornata di pienone, una tempesta sul lago d’Iseo, ancora caos e attese, per la passerella scatta la denuncia, successo, ressa di motoscafi, babele di lingue, in tremila bloccati a Brescia, boom di visitatori, e se fosse un capolavoro? Foto aeree, particolari, bozzetti, visi, folla, tutto si mischia risucchiato da un lungo serpente giallo che presto abbandonerà la pelle. Rimane l’immagine di un piano ocra intonso, al suo primo vagito, e un uccello solitario che si accomoda sopra per fare il nido. Aveva ragione Jean Claude, un’opera decisamente sexy.
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tunga, esercizi di libertà – 14 –
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La duchessa di Windsor, nel 1937, suscitò scalpore per aver indossato, prima del suo matrimonio, un vestito in seta bianca con la stampa di aragosta e ciuffetti di prezzemolo. Salvator Dalì era l’autore insieme a Elsa Schiapparelli. La provocazione di un oggetto conosciuto e sistemato in un contesto inusuale rivelava i bisogni dell’inconscio, in questo caso sessuali. La ripetizione di queste provocazioni la ritroviamo in “Xipòfagas Capilares”, nel 1985, nell’arte di Tunga che fa del corpo un territorio espressivo e ripropone la stranezza del confronto simile alle strategie surrealiste. Due adolescenti unite per i capelli che vagolano per la stanza, tenendosi per mano, sono l’immagine animata tridimensionale per riflettere sulla condizione umana. Il tema del doppio non è letterale, lo shock della costruzione bipolare genera un’atmosfera inquieta. La fusione di oggetti sconnessi crea un corpo simbolico, un feticcio. “Teresa” fa la sua comparsa a Buenos Aires nel 1999 con il coinvolgimenti di cento disoccupati e nel 2012 a Inothim. Si tratta di una performance, un feticcio collettivo, in apertura del Padiglione dedicato a Tunga, che ha utilizzato i corpi di cento giardinieri impegnati a intrecciare foglie. Ripetono all’infinito le azioni e creano una corda lunga abbastanza per fuggire simbolicamente dalla prigione. “Teresa” è la perdita, l’incertezza, l’inefficacia delle istituzioni, è la libertà. L’artista brasiliano è scomparso lasciando all’arte contemporanea l’eredità di un segno radicale dove la sperimentazione convive con l’integrazione senza accettare compromessi. Del vestito di seta bianca con il dipinto dell’aragosta rimane la forma disintegrata che fluttua in una rete mobile: “True Rouge”, installazione del 1998 di dimensioni variabili. Rosso autentico, è la vita d’artista, un esercizio sperimentale di libertà dell’arte casuale di Tunga.
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BALLO DI POMPEI
Dress from the Liquid Mezzanine collection by Sofía Arango Photography by Marco Castellani and Renèe Liskai
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l’età di shirley – 18 –
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Shirley è una sorta di Adaline. Non invecchia mentre attraversa la cronaca americana dal 1931 al 1965. Come non invecchia la Storia. Perché oggi, in questo momento e in tutti i momenti che definiscono il presente, siamo ciò che eravamo o non eravamo, e l’arte (talvolta) sembra inventata per ricordarcelo. L’arte? In questo caso i quadri di Edward Hopper, ovvero il misticismo della sospensione. Del tempo che si congela. Tanto più necessario quando il bisogno è “ricordare”. Il film “Shirley. Visions of Reality” del regista austriaco Gustav Deutsch è tutto qui e nella sua essenzialità concettuale e immaginativa è geniale. Una protagonista (un’attrice del Living), la sua vita scandita da frammenti di radiogiornale che a loro volta scandiscono eventi: la guerra, il razzismo, la crisi economica, le conquiste sociali. Shirley e le sue impressioni, la sua forza, le sue delusioni, il suo essere carne su cui gli avvenimenti decisivi fissano rughe che non vediamo ma sentiamo. Questo però è un ragionamento cinematografico: ciò che colpisce nel film è come sia l’arte (di Hopper) a determinare il ritmo e l’umore. Sì, l’umore. La consapevolezza, di chi ha fatto il film e di chi lo guarda, che la malinconia di una stanza, la spersonalizzazione in un vagone del treno, la “solitudine” che sembrano esprimere pose, mobili, vestiti, sono già tutto il racconto. Basta raccoglierlo, come una piccola-grande razzia in una mostra. Poi sistemare i quadri, come fa Deutsch, con la più semplice scansione temporale, da “Hotel Room” a “Chair Car”. E infine trascriverli cinematograficamente, con matematico rispetto dei colori, degli incroci, delle atmosfere. I tratti e i movimenti della danzatrice Stephanie Cummings, nell’avvolgente colonna sonora jazz, fanno il resto. Così il film cattura l’anima di un artista che ha catturato l’anima del suo tempo.
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LIFE HOPPER A real life frame
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jheronimus!
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È irresistibile: se decidessimo che un alieno è arrivato davvero sulla Terra, il suo nome sarebbe Jheronimus Bosch. Non basterebbe la definizione di André Breton: “Autentico visionario”. E neppure quella di Rafael Alberti: “Massimo creatore di sogni”. C’è un punto di confine, nelle cose umane, che neppure l’immaginazione può superare. Oltre c’è il non-umano, ovviamente inaccessibile. A meno che non si ipotizzino altri mondi sconosciuti, assai più sviluppati. Che magari hanno una nozione per noi inconcepibile dello spirito. E così, parlando del “mago” olandese, bisogna fare i conti con Wilhelm Fraenger, che l’ha studiato ossessivamente. E soprattutto con quella figura, stranamente vestita, che compare in un pannello del “Regno millenario” (ovvero “Il Giardino delle delizie”): gli occhi nerissimi, il naso arcuato, la bocca larga e sensuale, in un impasto che suggerisce volontà di potenza. Il Gran Maestro del Libero Spirito, regista oscuro e occulto, supremo suggeritore di Hieronymus, che ha presenziato al primo giorno della Creazione dell’uomo. Allievo di esseri misteriosi, extraterrestre o meno, comunque Bosch ha visto molto. Troppo, per i nostri occhi. Nessun visitatore di mostre potrà mai dire di averlo abbracciato nei dettagli, tanto più se si volesse inoltrare nella foresta di simboli. Ci sarà sempre una civetta nascosta dietro un finestrino a moltiplicare gli enigmi. La meraviglia, il privilegio, è provarci. Per esempio al Prado, dove fino all’11 settembre è aperta la mostra-omaggio per il quinto centenario della morte. Un viaggio attraverso 65 opere dell’alieno che conosce perfettamente le virtù e (soprattutto) le follie del molto umano.
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EL JARDÍN DE LAS DELICIAS A detailed view
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il divenire verticale – 26 –
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Un libro impressionante di un maestro dell’estetica italiana esce in questi giorni nelle librerie, una raccolta degli scritti critici dal 1933 a oggi, curata da Luca Cesari, pubblicata da Bompiani: “Estetica senza dialettica - Gillo Dorfles”. Centosei anni, Dorfles, che si definisce “fenomenologo del gusto”, ha dedicato la sua vita alla scienza, all’arte e alla letteratura con lo sguardo alla vita quotidiana. In una intervista rilasciata a Luigi Mascheroni, afferma che «la nostra epoca non è l’epoca di un gusto, ma quella dei moltissimi gusti. Non è mai stato così. E ogni età ha avuto il suo gusto. Con la modernità abbiamo un gusto che si rifà semplicemente alle ultime opere che appaiono nel panorama artistico. E così oggi sono le opere che affermano il gusto, non è più il gusto che presiede alle opere». E la sua opera ha un sapore verticale, si articola da una parola all’altra e costruisce grattacieli di idee, di ipotesi, di linguaggi che ritrovano il gusto dell’idioma. “Estetica senza dialettica” è la città verticale di Shibam nel deserto yemenita di Ramlat al Sab’atayn e incarna la convinzione di Dorfles che “l’architettura è e rimarrà la forma d’arte più importante, perché lega la vita e le passioni dell’uomo con le strutture abitative in cui si esprimono le forme sociali”. La più vecchia città grattacielo del mondo, del XVI secolo, abitata da oltre 2000 anni mostra i suoi 500 giganti di 40 metri con i prospetti di fango ocra e bianchi, surreali muri che anelano al cielo. Costruire pensieri, parole, frasi, dialoghi è un po’ come creare dal fango i mattoni, restaurare le facciate, abbellirle con i cromatismi o lasciare il degrado interno. Fa parte dell’umanità mettere insieme il bello e il brutto. Per dirla come il maestro, “per fortuna il kitsch non tramonta mai. Avremo sempre esempi inattesi di gusto deteriore. La vera opera d’arte esiste solo in contrapposizione al kitsch» Nell’ultima fatica di Dorfles, come nel gesto dell’operaio di Shibam che decora la finestra all’ultimo piano del grattacielo, si ritrova la umana necessità del divenire.
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CHAPTER 2 . SPECIAL
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IL SIGNORE DELLE MASCHERE Forse l’immagine più bella se l’è regalata da solo: “Sono andato ben oltre le colonne d’Ercole”. Nessuna auto-lusinga. Con quelle parole Donato Sartori voleva semplicemente ricordare che ha raggiunto paesi lontani. Culture da scoprire. Mondi da inventare. Lo ha fatto indossando qualcosa che esiste da sempre, come il mito: la maschera. Perché, figlio-erede di Amleto, Donato era la maschera. Non qualcosa da mettere sul volto per aggiungere orpelli al teatro, ma il teatro stesso. Di più: ha fatto entrare la sua arte - perché questa era ed è diventata - nel quotidiano della realtà urbana. Le feste o le cerimonie incentrate sul mascheramento urbano attraverso le vele acriliche, le ragnatele colorate, si sono svolte nei centri storici, avvolgendo strade, edifici, chiese e campanili, piazze e palazzi. Modificando l’usuale aspetto estetico. Quella che si chiama “rivisitazione”. Donato non c’è più, ma il suo mondo è più vivo che mai. Affidato alla volontà della sua compagna, Paola Pitzi, e di una nuova generazione. È giusto celebrarlo come se fosse ancora tra noi. Attraverso le sue parole.
Watch more here: WWW. SARTORIMASKMUSEUM.IT – 33 –
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PHOTOSERIES ON DONATO SARTORI SY SARAH SARTORI The view of the Daughter Archivio Centro Maschere e Strutture Gestuali
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SPECIAL
IO E IL SESSANTOTTO “I moti europei del ’68 mi colsero a Parigi ove frequentavo la scuola di teatro di Jacques Lecoq. I movimenti culturali e politici di quel momento storico maturarono in me la decisione di indagare, tra le arti visive ed il teatro di ricerca, l’idea di unificare i vari ambiti artistici e creativi sotto un unico cappello: la pluridisciplinarietà della maschera. Le ricerche iniziate, oltre trent’anni fa, sull’origine delle figure nel Teatro all’improvviso e l’incontro con le feste popolari in America Latina e con riti cristiani importati dalle comunità ecclesiastiche di gesuiti e domenicani, tutt’oggi ancora viventi in alcune remote regioni, mi convinsero ad addentrarmi sempre più in questa area culturale poco indagata e ancor meno conosciuta: la maschera medioevale utilizzata nei riti ecclesiastici ai primordi del secondo millennio... Proseguii per anni in questa direzione spostandomi spesso in diverse località e Paesi del mondo ove, tra arte storia e cultura raccolsi, faticosamente, un tassello dopo l’altro, le tessere di questo gigantesco mosaico che, poco a poco, mi apparve in tutta la sua complessità. Nei primi anni novanta tra i boschi di conifere e betulle nel profondo nord della Svezia, nell’Helsingland, al gelido confine con la Lapponia, scoprii l’esistenza ancora viva di fate, figlie delle più antiche Erodiade, Morgana, Satia, Abbundia, Perchta e Holda, gli spiriti folletti (Trolls), della maga delle acque Vittra, stretta parente dell’Anguana alpina e dello spirito dei boschi per eccellenza la Skugs-Rå, fata-strega dalle sembianze femminili dai seni ed i capelli lunghi, che correndo a mezz’aria (gettando le tette all’indietro) scompare allo sguardo del cacciatore furioso (Odino-Hellequin) aprendo un foro che si dilata sulla schiena. Fu proprio qui che ebbe inizio il mio lungo viaggio nel mondo inferico di Hellequin, Herleking, Herlaquin e della tanto temuta familia Herlechini. Infatti il Folkteatern, storico teatro svedese diretto da Peter Oskarson, mi chiese di trasferirmi in un minuscolo paesino della regione dell’Helsingland in cui era stata convocata una straordinaria comunità culturale proveniente da tutto il mondo – 36 –
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in occasione di un progetto europeo dal nome altisonante: World Theater Project. Conobbi qui una delle più prestigiose compagnie teatrali dell’Opera di Pechino, il gruppo di danza di guerra del Mozambico, gli attori e danzatori del teatro Kuttyattam (una ramificazione antica del più conosciuto Katakali indiano, danza sacra della regione del Kerala), oltre a vari docenti, studiosi e storici che provenivano dalle Università del nord Europa. Il gruppo svedese presiedeva le operazioni di ricerca ed io ebbi a disposizione l’atelier dei miei sogni ove sarebbero nate tutte le figure fantastiche che popolavano il mondo ctonio del lungo periodo medioevale. Maskverkstaden era il nome del laboratorio di scultura ove ebbi, per anni, la fortuna di creare, assieme ai miei allievi e assistenti, i personaggi- maschera che divennero le figure teatrali sperimentate da questo straordinario teatro del mondo, come l’aveva etichettato il regista Peter Oskarson, l’artefice svedese di questo miracolo culturale. Qui, in vari anni di indagini, venni a conoscenza di testi antichi stilati da ecclesiasti come Orderico Vitale, Walter Mapp e molti altri amanuensi del tempo che cristallizzarono con scritti e miniature le tradizioni orali, le credenze, le superstizioni e paure del medioevo cercate e tradotte dal Meisen degli anni trenta e da Otto Driesen ai primi del secolo scorso che ci tramandarono l’epopea millenaria della masnada selvaggia e della Odinsjagten condotta dal gigante diabolico Hellequin, oppure i racconti e romanzi coevi, ove vengono citati personaggi e le figure che animavano i turbolenti Charivari. Nacquero così le maschere che mi permisero di sperimentare, tra gli altri materiali, il cuoio conciato secondo le antiche tecniche vichinghe, tratto dagli animali nordici: l’alce e la renna, ma anche la lince, le rane e i pesci. Hellequin dunque ma anche Hennequin, Herlechinus, Herlequin, nomi che fanno ricorrere alla più emblematica delle figure della Commedia dell’Arte: Arlecchino”. Donato Sartori – 37 –
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IL CUOIO E IL MARTELLO “Il procedimento tecnologico che usai, fu di scolpire in uno stagionato legno di conifera quella che sarebbe stata la matrice su cui appoggiare il cuoio per formare la maschera, badando bene di considerare lo spessore di quest’ultimo per non deformare i lineamenti di ciò che volevo eseguire, tenendo presente, per esempio, che lo spessore delle rughe sulla superficie della pelle dovevano avere maggiore larghezza ed incavo nel legno. Quando questo fu finito e levigato, cominciò la vera e propria lavorazione della maschera definitiva. Scelsi un fianco di bel cuoio a concia vegetale (tannino), lo misi a bagno in acqua pulita e appena tiepida, ve lo tenni per trenta o quaranta minuti non dimenticando di strizzarlo ogni tanto per toglierne la naturale rigidezza. Quindi cominciai una lunga fase di applicazione sul legno, usai delle puntine da calzolaio per fissarne i lembi, in ottone o rame per evitare i brutti aloni che creava il ferro al contatto della pelle umida. L’operazione mi richiese almeno due o tre ore di applicazione data la notevole asperità delle superfici da aderire. Ripresi il lavoro dopo un lungo tempo di asciugatura lenta e naturale per evitare un ritiro troppo violento del cuoio. Avevo sul tavolo delle sgorbie affilatissime, lame da calzolaio, martelli e stecche di varie forme che mi ero costruito con dello stagionato legno di bosso. Iniziai la battitura con l’arnese più importante: un martello in corno di bufalo pieno e levigato, appuntito da una parte e leggermente bombato dall’altra; impaccavo rapidamente punto per punto la morbida superficie facendole prendere forma, delineavo gli incavi con le stecche, badando soprattutto che i piani dei lineamenti fossero ben decisi e definiti. Questo considerando che l’impatto della luce dei riflettori su una superficie approssimativa poteva rovinare senza recupero l’effetto che volevo ottenere sulla scena. Dopo una lunga applicazione senza sosta (sapevo che il tempo di evaporazione era limitato) quando battei l’ultimo colpo, la – 40 –
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maschera aveva assunto in tutte le sue caratteristiche formali l’aspetto che avevo previsto. Attesi che fosse del tutto asciutta ed iniziai con le sgorbie il lavoro di rifinitura, assottigliando i bordi in modo tale da poterli rivoltare ed incollare verso il cavo, inserendo all’interno del bordo un sottile filo metallico per assicurare una certa rigidità al tutto. Verniciai a più riprese l’interno con della vernice nitrocellulosica che ha la proprietà di rendere la superficie interna impermeabile ma nello stesso tempo porosa in modo da lasciar traspirare la pelle sudata dell’attore. Il taglio degli occhi, delle narici e della bocca concluse la fase operativa di costruzione; restava da applicare una patina, anche questa frutto di lunghe ricerche, che rendesse la luce della maschera leggermente opaca, che mantenesse intatta la matericità del cuoio senza coprirlo, bensì donandogli così un caldo colore di ossido e di tempo. Usai dei bitumi provenienti dall’Arabia, attualmente di difficile reperimento, e l’opera era fatta, viva e piena di quel calore umano che hanno le cose vere”. Donato Sartori
“La scomparsa di Donato ha lasciato un gran vuoto, ma Sarah ed io siamo ben decise a continuare quanto iniziato da Amleto, ampliato da Donato e, speriamo ravvivato, sperimentato e trasformato dalla terza generazione” Paola Pitzi
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CHAPTER 3 . INTERVIEW
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Cosa suggerirebbe a una persona che entra per la prima volta alla Biennale di Venezia? “Come spettatore, nei Giardini c’è la prova del pluralismo culturale di questa istituzione, che è la più antica Biennale. E in qualche modo assembla ogni due anni e documenta il pluralismo creativo diffuso ormai in tutti i continenti, e nello stesso tempo sviluppa anche una conoscenza delle differenze, in quanto ai Giardini si celebra un valore, che è la consistenza delle differenze. Pure per l’artista è utile visitare i padiglioni come spettatore, perché anche per gli artisti esiste il grande problema dell’informazione, dello spazio, seppure oggi sopperito da Internet, che permette un viaggio da fermo, domestico”. La mostra svolge oggi un servizio pubblico, per citare un suo concetto centrale? O è, perlopiù, il passatempo del turista? “Credo che le mostre abbiano una grande funzione nella società di massa in cui viviamo. E già da tempo ormai si è sempre più allargato il fenomeno espositivo. Credo che il critico con le parole scrive nei libri e con le mostre scrive nello spazio. E utilizza le opere al posto delle parole per creare un percorso di conoscenza e anche emozionale per lo spettatore. Dunque credo che la mostra abbia una funzione conoscitiva molto interessante in quanto l’impatto con le opere da vicino è importante più di quanto possa essere da sola la lettura di un saggio con le riproduzioni delle opere nei libri. È molto importante la capacità del critico, assistito da un architetto, di allestire, di sviluppare una scrittura espositiva, capace di produrre informazione ma anche comunicazione”. Esiste un professionismo letale dell’arte contemporanea? “Senza dubbio il sistema dell’arte, che si è sviluppato attraverso il fenomeno della globalizzazione, è rintracciabile nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quarto mondo. C’è una iperproduzione sia di opere che di mostre. Le mostre poi hanno anche una funzione aggregativa, socializzante. Le istituzioni pubbliche, spesso anche – 67 –
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la classe politica, hanno interesse a realizzare mostre eclatanti, capaci di intercettare il consenso del pubblico”. Esempio di arte che fa “vivere” i non luoghi: stazioni della metropolitana di Napoli. Che lei ha promosso. In Sardegna qualcosa del genere l’ha pensata Pinuccio Sciola per l’asse stradale più importante dell’isola. Per qualcosa che funziona (e bene) un oceano di occasioni perdute? C’è un corto circuito fra società e arte? “Vorrei ricordare che io, già negli anni Settanta, ho realizzato mostre in spazi che appartenevano alle architetture del passato e persino alla geologia. Allora non esistevano in Italia musei di arte contemporanea, tranne la Galleria nazionale d’arte moderna. Parlo della mostra “Amore mio” a Montepulciano, della mostra di arte, cinema, teatro, musica, tutti i linguaggi, nel parcheggio di Villa Borghese costruito da Moretti, ho fatto impacchettare da Christo Porta Pinciana. Anche a Venezia, quando ho diretto la Biennale, non mi sono fermato ai Giardini, dove esistono i padiglioni, ma ho sviluppato dodici luoghi espositivi in tutta la città, finanche sui vaporetti. È importante che l’arte contemporanea intercetti il pubblico e scenda nel quotidiano, e questo è il senso di quello che abbiamo realizzato a Napoli, con 120 artisti internazionali in tante stazioni. Io poi ho scelto gli artisti anche in consonanza con le forme dell’architettura. Quello che è interessante è che siamo entrati veramente nell’immaginario collettivo della città di Napoli, abbiamo toccato la sensibilità della popolazione, tanto che non c’è stato un gesto di teppismo. E tutta la città è orgogliosa di questo grande fenomeno. Se ci sono altri tentativi ben vengano. È positivo ed è un modo di intercettare attraverso la quotidianità anche un rapporto con l’arte contemporanea, senza dover andare solo nei luoghi consacrati, negli opifici, nei musei. L’arte che scende per strada, entra nei sotterranei, accompagna nei suoi attraversamenti urbani la popolazione che si sposta”.
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Behind, The Couple by Jaime Arango Correa
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INTERVIEW
Il protagonismo, e lei è un protagonista, è lo strumento principale dell’arte nel paesaggio contemporaneo? “Il protagonismo è indispensabile in quanto in un’epoca come la nostra, dove ci sono stati il crollo delle ideologie, la crisi della finanza, grossi fenomeni di immigrazione, eccetera, sono molto importanti l’arte e il protagonismo. Ci ricorda che è fondamentale la responsabilità personale, di ognuno nella propria vita. L’arte è il frutto della produzione singolare dell’artista, e la critica è il frutto di un gesto di osservazione, di interpretazione solitaria, da cui dipendono gli esiti dell’arte contemporanea, dei musei, dei galleristi, dei collezionisti. Il protagonismo è fondamentale purché sia frutto di responsabilità morale, ovvero di un sano narcisismo e non di vanità, in quanto la vanità è il pret a porter del narcisismo. Il narcisismo è il motore ecologico della vita di tutta l’umanità”. Una volta esistevano le correnti. Oggi? La transavanguardia ha ancora un senso? “La transavanguardia è l’ultimo movimento, come ha ricordato anche Giulio Carlo Argan. L’ultimo movimento possibile del Novecento. Dopo, con la postmodernità, si è creata una situazione di solitudine creativa: in fila indiana, tutti procedono, ognuno col proprio bagaglio culturale. Con la transavanguardia si chiude il cerchio, il circolo delle avanguardie cominciato con quelle storiche all’inizio del Novecento, si chiude con questa teoria che ho realizzato, il recupero della memoria storica delle avanguardie ma anche sperimentazione, capacità di esprimere la propria identità, il genius loci. Nomadismo culturale ed eclettismo stilistico”. I musei si riempiono. Ma si va a guardare soprattutto Caravaggio, non Pistoletto. Cosa significa? “Pistoletto è un artista nostro contemporaneo. Su Caravaggio esiste un giudizio storico, consolidato, e quindi c’è per il pubblico la garanzia di una qualità storica, e dunque di un passato riconosciuto. Per quanto riguarda gli artisti contemporanei, è il – 70 –
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tempo che darà sempre più autorità, per esempio ad un artista, come Pistoletto, che io ritengo molto importante”. Che valore ha oggi la parola significato? Qualcosa che esiste o qualcosa che viene imposto? “Significato è una parola importante, di nuovo, in un momento di vuoto ideologico e di necessità morale di riprendere e di ridare una funzione all’arte. Anche per sviluppare una speranza di un futuro migliore”. I vizi e le virtù del mercato dell’arte. “L’economia è importante perché in realtà sta tutta nei fantasmi dell’artista, e moralmente dà l’affermazione che l’arte ha un valore concreto. La ricerca del bello non è un fatto di puro dopolavoro. La bellezza, diceva Baudelaire, è una speranza, una promessa di felicità, e dunque in questo senso è indispensabile. Naturalmente succede che questa speranza diffusa e riprodotta si sviluppa attraverso opere di moltissimi artisti. Giustamente viviamo l’epoca del multiculturalismo e questo produce un’offerta molto vasta, ma poi è il tempo che farà giustizia e selezionerà sempre più. Anche perché per una società di massa non è che esiste una massa di artisti. I veri artisti sono sempre pochi”. È lecito dire che gli appassionati d’arte (intendendo il pubblico) sono ostaggi del mercato? “No. In ogni caso il pubblico può essere sedotto dall’arte. Seduzione benefica. Il pubblico può visitare l‘arte anche senza comprarla, può entrare nella metropolitana di Napoli, nei grandi musei internazionali. Con lo sguardo può soddisfare il suo bisogno di conoscenza. Ritenere ostaggi gli appassionati significa considerarli prigionieri, in realtà è l’artista, l’intellettuale, che è sanamente ostaggio, prigioniero della propria ossessione. Nel caso mio di riflessione su quello che l’arte contemporanea produce”. – 71 –
© sofiaarangoe
CHAPTER 4 . CROSSING
CROSSING
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CROSSING
PIETRO MENDITTO AND THE ABRAMOVIC METHOD My visul style is analog. Il mio gusto visivo è analogico. I think shooting on film is right medium for interpreting contemporany art. Credo che la pellicola sia il giusto mezzo per interpretare l’arte contemporanea. Questi brevi annunci in rete accompagnano il lavoro di Pietro Menditto: the Abramovic Method, performance di Marina Abramovic al PAC Milano. Il mondo analogico, cosa è e perchè ti affascina tanto? Sono cresciuto professionalmente nel decennio ‘90, nell’era delle “supermodels” - Linda, Naomi, Cindy - ma anche della “heroin chic” di Kate Moss e Jamie King. Da loro due sono stato folgorato, assorbendo in pieno il lavoro di chi le fotografava: Corinne Day e Davide Sorrenti. L’estetica “snapshot” esplodeva nella fotografia di moda. Prima di loro c’era Nan Goldin, dopo Juergen Teller e poi tantissimi altri. Ho seguito questo filone. Sono il figlio dei magazine Face, ID, ELLE e Marie Claire. Il mio imprinting di fotografo di moda, pur nel continuo aggiornamento a un mondo che evolve, risente di questa matrice. Analogico e arte contemporanea, quale relazione? Nell’ultimo decennio ho fatto anche il videomaker. Passare dalla foto al video e viceversa oggi è pratica comune. La tecnologia digitale lo consente. Nel corso del tempo ho sviluppato una grande passione per i video d’arte e i reportage. Lavoro in digitale ma rimango fedele alla mia formazione analogica. Yes, i still shoot film. Sono un cultore dell’estetica analogica. Ogni volta in cui è possibile, per le mie foto uso la pellicola. Mi piace la sua imperfezione, la sua
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pasta, il suo romanticismo e la capacità di trasmettere emozioni. Analogico e digitale sono due tecnologie che convivono. Almeno nella produzione artistica, il gioco dei rimandi è continuo e il dialogo è sempre aperto. The Abramovic Method, come hai vissuto l’esperienza dietro la telecamera e cosa è rimasto oltre il suono e l’immagine? L’occasione di girare un filmato su Marina Abramovic la cerco da tempo e mi arriva nella primavera 2012. Indubbiamente è la performer artist più famosa al mondo. Quando decisi di raccontare “The Abramovic Method” scelsi di accendere la macchina da presa senza una preliminare preparazione sui contenuti e le modalità dell’evento. Non volevo avere filtri fra l’idea di Marina e la mia sensibilità. Sapevo solo che sarebbero stati coinvolti 21 partecipanti e che Marina aveva annunciato: “Se qualcuno mi affiderà il suo tempo, io lo trasformerò in esperienza”. La mia intuizione è stata di raccontare la percezione di uno spazio temporale alterato con un fuori fuoco, in un bianconero essenziale, attraverso un paesaggio sonoro di atmosfera che portasse lo spettatore ad una trance ipnotica, in un personale viaggio mentale. Consiglio di ascoltare in cuffia, a volume sostenuto. Buona visione.
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© pietromenditto
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© pietromenditto
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TESTSHOT
By Pietro Menditto
__________________________________________________________________ ◀ THE ABRAMOVIC METHOD By Pietro Menditto
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CHAPTER 5 . PATAATAP
© gigirigamonti
PATAATAP
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TA.
PATA
GREEN LINE, TRIPTYCH
Oil on canvas by Gigi Rigamonti
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TATA
PATAATAP
Si è detto che ogni opera d’arte ha un carattere autobiografico. In qualche modo – più o meno palese – l’opera riflette la personalità del suo creatore. Condivido tale opinione. Penso, anzi, che raramente mi sia trovato davanti a un lavoro, frutto di una autentica e quindi profonda pulsione artistica, che non confermi tale assioma. Può un dipinto essere il riflesso speculare – Duchamp l’avrebbe definito un renvoi miroirique – non solo della persona ma persino del cognome che porta? E quanto ingegno sia necessario, per trasformare un nome in un opera d’arte? Quali segrete virtù alchemiche sono concorse per riconoscere nel cognome Rigamonti un inseparabile coniunctio oppositorum di due realtà lontane e allo stesso momento inseparabilmente vicine? Quale geometria non euclidea per capire che la riga – solidamente assisa su una logica rigidamente terrena – necessita, per essere tale, del monte: suo riflesso celeste pregno d’una metamorfica aspirazione interiore? Due elementi, tanto conflittuali da generare mondi dove Alice avrebbe potuto vivere serena nella sapienza che la riga e il monte sono parte l’una dell’altro, anzi, sono fatti l’una per l’altro. La riga e il monte conquistano la loro pienezza solo insieme, non potendo verificarsi l’una senza l’altro. La riga – nella sua unidirezionalità ctonia – ha bisogno del monte per affermarsi; come il monte ha bisogno della riga per confermare la sua vocazione uranica. Un’ulteriore precisazione, proprio a proposito della polarità Principio femminile ctonio: la riga e del Principio maschile uranico: il monte. Nei lavori di Rigamonti si può discernere la conciliazione di questa dualità archetipica – aspirazione questa che caratterizza il processo d’individuazione junghiano: l’integrazione dell’aspetto duale della propria psiche – anche nel solo monte quando questo appare, come spesso è il caso qui, come una formazione nuvolosa. Infatti, la nuvola è un ammasso armonioso, di particelle acquose nell’aria. Il liquido rimanda al principio ctonio femminile mentre l’aria nella quale sono sospese al principio uranico maschile. L’esito della coniunctio oppositorum è il filius philosophorum: l’Androgino o l’Antropos primordiale che, nell’opera di Rigamonti, – 84 –
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trova la sua espressione metaforica in questo corpo celeste. In altre parole la nuvola diventa qui l’immagine dell’essere – rappresentato pure dalla terra – conscio della natura androgina della propria personalità. Nelle sue sculture vige la stessa duplice valenza. Esse si rifiutano di entrare nella logica cartesiana di una forma ben definita: non sono tributarie del cerchio o dell’angolo retto. Le sue opere tridimensionali sono poliedriche: espressione di una libera conciliazione del rigore geometrico e della libertà creativa. Gigi Rigamonti possiede la necessaria carica di humour per riconoscere, nel proprio cognome, la condizione esistenziale che lo definisce senza scampo – sempre preda del dialogo tra concretezza e aspirazione. Qui, come raramente altrove, egli dimostra che lo humour è di natura tragica, segna un momento d’indipendenza assoluta della poesia, è anzitutto una rivolta dello spirito e dell’inconscio contro i condizionamenti della società e della vita. Lo humour – e questi suoi lavori ne sono la magistrale verifica – possiede una valenza inesauribile di sfida e provocazione. Lo humour è un fattore di opposizione sovversivo in quanto consacra il trionfo del principio del piacere sul principio di realtà. Piacere che implica una libertà creativa e un rifiuto di ogni facile scorciatoia mimetica, di ogni condizionamento, per preferire la gioia di un’esigente estetica libertaria. Arturo Schwarz
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Oil on canvas by Gigi Rigamonti – 86 –
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Oil on canvas by Gigi Rigamonti – 87 –
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© gigirigamonti
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SANA
The city of Sana by Gigi Rigamonti
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