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Detaglio di fotografia © Andrea Castro
W W W . A I N A S M A G A ZISSUE I N Nº6 E ..C O M 06/2017
“AUX ARMES, CITOYENS!”
Inno nazionale di un Paese del Mediterraneo.
AINAS ISSUE Nº6 . 06/2017 INFO@AINASMAGAZINE.COM Direttore Roberto Cossu Direttore artistico Bianca Laura Petretto Grafica e fotografia Sofía Arango Echeverri Comunicazione Maria Victoria Gomez, Lucía Vaca Fotografie di copertina e capitoli © Andrea Castro Si ringrazia Maria Sciola e il Giardino Sonoro di Pinuccio Sciola - S.Sperate - Italia Copy 2017, Ainas Nº6 La traduzione, la riproduzione e l’adattamento totale o parziale, effettuati con qualsiasi mezzo, inclusi la fotocopiatura, i microfilm e la memorizzazione elettronica, anche a uso interno o didattico, sono consentiti solo previa autorizzazione dell’Editore. Gli abusi saranno perseguiti a termini di legge.
Is ainas faint is fainas . gli strumenti fanno le opere AINAS reg. n° 31/01 Tribunale di Cagliari del 19 09 2001, periodico di informazione bimestrale, cartaceo e telematico Iscizione n° 372004 al Registro della stampa periodica Regione Sardegna, L.R. 3 luglio 1998, n° 22, ART. 21. Editore Bianca Laura Petretto Direttore responsabile Roberto Cossu
www.bbartcontemporanea.it info@bbartcontemporanea.com
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ISSUE Nº6 EDITORIALE 6 hirst, un trumpista a venezia 16 CHAPTER 1 . NEWS 18 camille, una vita assente 30 mujeres sin tiempo
36 CHAPTER 2 . SPECIAL 38 rinascere in Viola
44 eliasson o l’arte dell’essenziale 52 la linea della luce
53 lucemente, un dialogo tra serena mormino e federica marangoni
64 CHAPTER 3 . INTERVIEW 66 la macchina volante di anilore banon
76 CHAPTER 4 . CROSSING 78 banksy, il muro del nulla 86 promenade provenzale 92 an ode to washington d.c.
96 CHAPTER 5 . PATAATAP 98 il giardino sonoro di sciola 99 il canto della pietra 124 sciolandot
132 CHAPTER 6 . SWALLOW 134 le tentazioni della nudità 135 l’acqua del buddha
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EDITORIAL
aínas ISSUE Nº6 HIRST, UN TRUMPISTA A VENEZIA
Fra le tante sintesi subito esplose, questa è la più esplosiva: “Damien Hirst è il Trump dell’arte contemporanea”. Si tratta di capire il senso della definizione. L’artista è ricco quanto il magnate presidente? Probabile. È ugualmente creativo? Beh, sì. È altrettanto spericolato? Non si discute. Così si mormora. Anche per lui la logica è un optional? Lo dichiara. Pure Hirst ha un alto gusto della finzione? Ecco, a questo punto si impone una banalissima riflessione preliminare: se l’artista inglese finge, in fondo poco importa. Se finge Trump non è il caso di dilungarci sulle conseguenze. E meno che mai se non finge. Comunque sia, sul piano dell’immagine per ora i due viaggiano di pari passo. E dimostrano di essere figli gemelli di un unico tempo. Trump ha inviato le navi sul mare dell’Asia, per quanto la destinazione fosse incerta, mentre Hirst ha trovato un relitto al largo dell’Africa. O meglio, ha “saccheggiato” il relitto di una nave affondata tanto tempo fa. Poi Trump ha lanciato una bomba portentosa in Afghanistan e Hirst ne ha lanciato una, di pari portata, a Venezia. L’effetto? In un caso e nell’altro, planetario. I significati pratici della politica trumpiana sono ancora incalcolabili, ma lo stesso discorso si può fare, nell’universo artistico, per la strategia di Hirst. Unica differenza, vale la pena ripeterlo: ciò che fa Donald si ripercuote ovunque. Quel che fa Damien vale soprattutto per le sue altalenanti quotazioni d’artista, che al momento sono in forte ribasso. L’uno e l’altro condividono dunque una teoria: la realtà è un campo da gioco. O un luna park, un supermercato, un ring, un palco teatrale, un blockbuster hollywoodiano, una sala scommesse (così di moda). Il punto è: come impossessarsene. “Tutti vogliono possedere la fine del mondo” si legge in cima a “Zero K”, l’ultimo libro di Don DeLillo. Più prosaicamente, come diventare protagonisti, per l’oro e per l’ego. Dei progetti di Trump abbiamo notizie ogni giorno. Di quelle del maturo young britannico abbiamo un esempio fino al 3 dicembre, ultimo giorno (salvo proroghe) della mostra che ha messo su in laguna, tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Cosa c’è dentro? Quello che ha trovato nella nave affondata. Chi segue le cronache d’arte sa già tutto. In 55 stanze è stato depositato il tesoro trasportato duemila anni fa da tal Cif Amotan II di Antiochia. Nome dal suono vagamente sindacalese per uno schiavo liberato. La cartolina di presentazione è un immane demone nell’atrio di Palazzo Grassi. Poi è un racconto, per oggetti, dell’umanità. Dal mito alla storia. Grecia, Egitto, Maya, India, Cina. Qualunque cosa vogliate immaginare, dalla terra al mare. Statue, vasi, armi, conchiglie. Insieme ad animali e robot. E naturalmente Pippo e Topolino. Piccolo e grande, fine o kitsch, potrebbe essere il regno mirabolante del Prete Gianni. Noi immaginiamo, come Hirst immagina: il viaggio, il tesoro, la scoperta. Il concetto di base è un vecchio gioco di carte: c’è e non c’è. Tant’è che alla –6–
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presentazione dell’evento il patron, Hirst, non si è presentato. Ovvio: sarebbe stato un eccesso di realtà, un affronto al gioco. Alla finzione. <Non è importante ciò che è vero, ma ciò che si vuole reputare vero>, parole di Damien. Ciò che piace o conviene ai nostri sogni o alle nostre frustrazioni. Perché chiedersi se c’è una patente di autenticità? Quella è merce in saldi. Il campo dell’arte è infinito, la macchina su cui viaggia è l’immaginazione, che può tranquillamente maltrattare la storia. La falsificazione è arte. Il punto è: come sollevare l’asticella? Le visioni di un bambino possono confondersi con quelle di un adulto, l‘importante è frugare dove c’è il meraviglioso. Ma ancora più importante è l’urto, lo scossone. A Venezia Hirst mira al bersaglio grosso: qual è il faro più abbagliante? L’obiettivo non è far pensare, far toccare un ipotetico nervo della bellezza, ma sorprendere. E magari far arricciare i peli. Persino stancare, come un film della Marvel. La sezione di donna incinta in fondo è solo una stazione, lo squalo in formaldeide è già preistoria. Perché non inventare la storia? Non è originale, ma ciò che conta è la confezione. “La vita è sogno” e talvolta è bellissimo pensare che sia vero, se il truccatore è bravo. Per questa strada si capisce la civiltà contemporanea. Damien Hirst è lo stato delle cose. E l’arte, fenomeno immortale di percezione della realtà, deve fare i conti con Damien Hirst, che a sua volta fa i conti vendendo all’asta i lotti dell’ultima creatura. Bisogna stimare chi capisce il mondo. Chi ne afferra lucidamente i modi, i tempi, l’attualità. Oggi l’arte può essere letta come artificio, moda, truffa di significati, vaghezza spacciata per profondità. Non solo, ma anche. La liberissima creatività contemporanea può essere persino un ottimo pretesto per raccontare il lussureggiante disordine etico del nostro tempo, la fragilità della correttezza, la porosità dei principi, come suggerisce il film “The Square” di Ruben Ostlund che ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes. In una dimensione tanto fantastica quanto imprecisabile il genio è Hirst. O meglio, la mostra in laguna può ridargli questa etichetta, strappatagli temporaneamente da Jeff Koons. Resta da valutare il valore di questa genialità. Enorme, in dollari guadagnati (e guadagnabili) dall’artista. Discutibile in tutti gli altri sensi. L’effimero, una certa specie di effimero, è la sua quotazione. Ma effimero significa che “per ora” si è in cima. Il mercato ride. E ride anche Venezia. C’è chi dice che il colossale pastiche di Hirst fa ombra alla Biennale: una sciocchezza. Hirst serve alla Biennale come la Biennale serve a Hirst. La vera, e forse ultima, arte è l’organizzazione. Chirurgica, adeguata ai tempi, militare. Persino più seria di quella di Trump. Roberto Cossu –7–
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TREASURES FROM THE WRECK OF THE UNBELIVABLE DAMIEN HIRST
Palazzo Grassi Punta della Dogana, Venezia Fotografie di Sofía Arango Mostra con opere di Damien Hirst
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CHAPTER 1 NEWS
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camille, una vita assente – 18 –
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«Il y a toujours quelque chose d’absent qui me tourmente» Camille Claudel. La storia di Camille Claudel è quella di qualunque altra donna che abbia vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Costantemente alle prese con la questione dell’assenza e con quella, correlata e inevitabile, dello spazio. L’ossessione del trovare «une place», un posto da poter legittimamente occupare, nella vita pubblica e in quella privata. In Camille Claudel pubblico e privato si confondono. Difficile distinguere la scultrice dalla donna. Impossibile separare i due universi. Allieva, musa e compagna di Auguste Rodin nel corso di dieci anni (1883-1893), Camille Claudel non smise mai di cercare e di cercarsi; e, a dispetto della riconoscenza del valore della sua opera, si affrancò dal suo mentore e maestro, e tentò, con tormentata abnegazione, di trovare un luogo fisico che fosse anche e soprattutto un luogo dello spirito. Insomma, un po’ quella «stanza tutta per sé» che Virginia Woolf auspicava per ogni donna, e attraverso la quale pervenire al riconoscimento di sé, al lavoro e alla realizzazione personale. Per tutte queste ragioni, e per molte altre che si colgono solo soffermandosi sulla sua vita e passeggiando intorno alle sue sculture, il museo che la cittadina di Nogent-sur-Seine ha dedicato a Camille Claudel presenta un forte valore simbolico, ancor prima che celebrativo e logistico. Fu a Nogent-sur-Seine che, all’età di 12 anni, Camille Claudel scoprì il suo interesse per la scultura. Sostenuta dal padre, creò le sue prime opere nell’atelier di Alfred Boucher, il quale la incoraggiò e la indirizzò rapidamente verso il lavoro di Auguste Rodin. Il museo va letto pertanto come una sorta di «ritorno alle origini»; e non a caso è stato realizzato a ridosso della «Maison Claudel», dove la famiglia di Camille visse fra il 1876 e il 1879. Lo spazio, nel cuore della cittadina, è stato pensato dall’architetto Adelfo Sacranello come un «riparo», un luogo in cui poter trovare rifugio. Immaginato come un «faro visibile di giorno come di notte», – 19 –
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MUSÉE CAMILLE CLAUDEL A Nogent-sur-Seine, Francia © Musée Camille Claudel Fotographies Marco Illuminati
________________________________ pg. 24 FLORENCE JEANS Fusain et craie blanche sur papier 57,3 x 41,5 cm, 1886. Achat à Reine-Marie Paris de La Chapelle, 2008
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pg. 25 PAUL CLAUDEL À 20 ANS Crayon de couleur sur papier 43 x 34 cm, 1888. Achat à Reine-Marie Paris de La Chapelle, 2008
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pg. 27 LA VALSE OU LES VALSEURS Grès 41,5 x 37 x 20,5 cm, 1889-avant 1895. Achat à Reine-Marie Paris de La Chapelle, 2008
________________________________ pg. 28 LES BAVARDES
OU LES CAUSEUSES OU LA CONFIDENCE
Plätre (avec paravent) 40 x 40 x 30 cm, vers 1896. Achat à Reine-Marie Paris de La Chapelle, 2008
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pg. 29 LA FORTUNE Bronze 47,4 x 35,5 x 24,7 cm, 1902-1905. Achat à Reine-Marie Paris de La Chapelle, 2008
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l’edificio, su tre livelli, si presenta come un’addizione di volumi differenti, arricchiti da ampie vetrate e finestre. La luce permette una sorta di compenetrazione fra l’interno e l’esterno, e gioca con le opere infondendo alle stesse una sorta di «mise en lumière», un riconoscimento definitivo del loro valore e della loro legittimità. Una definizione attraverso il «luogo» che ha deciso di ospitarle. Il mattone è il principale materiale con cui il museo è stato costruito. Non solo e non soltanto perché presenta un’analogia con le costruzioni circostanti, ma soprattutto perché la materia del mattone, la terra, è legata per il suo carattere plastico allo scultore, che trasforma i materiali con le sue mani. Quest’idea del «gesto dello scultore» ha condotto ad utilizzare un mattone particolare, fabbricato secondo metodi artigianali. Un’unica armonia di colori è stata ricercata e trovata fra il suolo, le mura e il mobilio. Una nuance sabbia che permette alle opere di esprimersi al meglio. C’è qualcosa di sacro e di mistico in questo spazio museale. Una sorta di genius loci pieno di grazia. Un’emotività che ha a che fare con la fatica, che fu quella di Camille Claudel, dell’essere riconosciuta e amata. Una sorta di sollievo, come di chi è riuscito finalmente a rientrare a casa dopo tanto girovagare. Ora, questa tematica dell’esilio dello spirito, e della necessità dell’affrancarsi in quanto donna da una influenza maschile, pare ritrovarsi nell’organizzazione del percorso museale. Tutta la prima parte dell’esposizione – 11 sale - è dedicata alla contestualizzazione del lavoro della scultrice, rispetto al XIX e al XX secolo, e rispetto agli scultori con i quali Camille Claudel ebbe dei legami professionali rilevanti. Dalla «filiation nogentaise», rappresentata da Marius Ramus, Paul Dubois e Alfred Boucher, a «l’âge d’or de la sculpture française», passando attraverso la rappresentazione del movimento nella scultura e, naturalmente, all’atelier di Rodin, è necessario far prova di pazienza prima di poter finalmente accedere, al primo piano del museo, all’opera della scultrice. Come se questa scelta logistica facesse eco alla vita tormentata della musa di Rodin. Una parte importante delle sculture esposte evoca la relazione – 22 –
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passionale fra i due scultori, confrontando direttamente le loro opere: si scoprono cosi le affinità fra le sensibilità dei due artisti, che spiegano la complessità della relazione che li ha coinvolti per anni. In tal senso, una delle prime sculture di Camille Claudel – Femme accroupie (1884-1885) – mostra come l’artista avesse tratto ispirazione dall’opera omonima (1881-1882) di Rodin. Con L’Eternel printemps e L’Eternelle idole da un lato (Rodin), Sakountala e L’Abandon dall’altro (Claudel), il tema della coppia allacciata mostra al contempo la loro comunità d’ispirazione e ciò che distingue le loro sensibilità: alla foga di un gesto imperioso e testosteronico che suggerisce la dominazione in Rodin, fa eco l’equilibrio del gesto sospeso, che esprime la tenerezza di Camille Claudel. Il museo dedica ampio spazio anche alle opere del periodo successivo a Rodin, sculture di piccola taglia, e tuttavia opere di gran valore, che insistono sui temi della vita quotidiana, intimisti, femminili, e che Camille definì croquis d’après nature. Profonde pensée si presenta come una personificazione della solitudine, mentre Les causeuses, al contrario, esprime un senso di coralità, percepibile attraverso il movimento e l’espressività dei personaggi, particolarmente intense in quanto realizzate in dimensioni estremamente ridotte. Senza essere aneddotiche, né didascaliche, queste sculture segnano l’emancipazione dell’artista dall’estetica di Auguste Rodin. Camille Claudel si separò dallo scultore per poter organizzare la sua vita e la sua carriera lontana dall’imbarazzante imponenza del maître, e cessare di essere definita un’epigone del maestro. Rifiutando l’aiuto che Rodin le propose, nel 1899 si trasferì al 19 Quai Bourbon, sull’Île Saint Louis. Questo spazio divenne dimora e atelier, e permise finalmente all’artista di essere nel pieno possesso della propria opera. Tuttavia, il sentimento di assenza e di abbandono resterà una costante della vita della scultrice. Persée et la Gorgone chiude il percorso espositivo. L’opera costituisce l’unico marmo monumentale realizzato dall’artista. Il – 23 –
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tema trattato è apparentemente un tema mitologico e classico, ma la dimensione autobiografica è più che mai presente, in quanto la scultrice ha dato i propri tratti e la propria fisionomia alla testa tagliata della Gorgona. A partire dal 1906 Camille Claudel mise fine alla propria attività di creazione e intraprese la distruzione di tutte le sue opere. A poco a poco cominciò a vivere come una reclusa, uscendo raramente e perturbata dal terrore della persecuzione della «bande à Rodin». Nel 1911 venne internata in un manicomio del Val-de-Marne, vicino a Parigi, e nel settembre del 1914, a causa della guerra, fu trasferita nel manicomio di Montdevergues, vicino ad Avignone. La storia, si sa, è scritta dai vincitori e non dai vinti. Il museo Camille Claudel è inaugurato nel 2017, nell’ambito dei numerosi omaggi organizzati in Francia per il centenario della morte di Auguste Rodin, fra i quali va ricordata la sontuosa esposizione che il Grand Palais di Parigi dedica allo scultore. Al maestro i fasti della centralità parigina; alla donna disturbata psicologicamente l’onore di un museo relegato a un centinaio di chilometri dalla capitale francese. Malgrado questo esilio logistico, che risponde all’esilio dello spirito già evocato, e benché l’ombra di Auguste Rodin aleggi in maniera insistente attorno al personaggio di Camille Claudel, e anzi, proprio per tutte queste ragioni, la visita a Nogent-surSeine lascia una sensazione consolatoria e di estrema serenità. La presenza della scultrice è palpabile. Quella della donna pure. L’artista trascorse in manicomio gli ultimi 30 anni della sua vita, in uno stato di semi-lucidità che probabilmente oggi non avrebbe giustificato una segregazione così dura. Morì all’età di 79 anni, il 19 ottobre 1943. Fu seppellita in una fossa comune e il suo corpo non venne mai ritrovato. Il sentimento di assenza e di abbandono, ancora e sempre. Oggi, a Nogent-sur-Seine, Camille Claudel può finalmente riposare in pace. Carla Boi – 26 –
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mujeres sin tiempo – 30 –
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La moglie di Putifarre e di Tobia, la madre dei Maccabei e di Samuele. Ruth, Rachele, Giuditta, Dalila, Susanna, Rebecca. Sfilano le figure femminili della Bibbia, più esattamente del Vecchio Testamento, con la personale di Andrea Castro (aperta fino al 20 giugno) nel Museo diocesano di Oristano, in Sardegna. Sfilano sensibilità, modelli, emblemi del mito religioso più ancora di una storia imprecisabile. La forza invincibile della carità, la fierezza della rivolta, l’indistruttibile amore materno, l’estasi del martirio, la pienezza della verginità. Virtù e perfidie, fede e vergogna, slanci e stratagemmi. Tutto raccolto, sedimentato in figure ieratiche, nobili e mai chiassose. In questa galleria non c’è violenza, nemmeno intuita, quella lacerazione del corpo e della giustizia è il sale del vecchio Libro. È come se tutto sia già compiuto, sancito, elaborato: i volti sono malinconici, gli occhi rivolti spesso verso il cielo, in domande mute. Le mani delicatamente aperte, posate su un fiore o sull’aria, quasi timorose di afferrare, di offendere una realtà a noi invisibile e chiara alle donne. Tutte trasportano dottrine vissute. Moti dell’anima che vengono dall’alto ma sono tremendamente umani. Ieri come oggi. E per questo l’artista colombiana li ha racchiusi in immagini fotografiche. Fissati in volti, vestiti, dettagli incisivi, movimenti esemplari. Ciò che è stato e ciò che è. “Historia de mujeres”, il titolo non casuale. Intendendo cronache di vita, grandi per la Bibbia e grandi per ogni tempo. Andrea Castro ha scelto di “dipingere” in bianco e nero, ovvero i non colori, essenziali, mai minacciati dagli orpelli, attraverso il teatro, la scenografia. Le modelle sono altre artiste, le loro pose sono performance, nate dai ritratti di Gustave Staal a cui si è ispirato un lavoro di Lucia Arango Lievano, storica dell’arte all’università parigina. La mostra, curata da Bianca Laura Petretto, presenta 17 opere fotografiche, una immagine video e tre installazioni. Per sé Andrea Castro ha riservato il personaggio di Eva, con tutte ha costruito tableaux vivants che divengono statue attraversate da echi classicheggianti. Ha vestito i personaggi con tagli e stoffe che raccontano le loro epoche ma frugano nell’universalità. Dicono di – 31 –
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se stessi ma non sono esuli del tempo. Marcano il simbolo ma vogliono vivere una realtà che si ripete. E sottolineare il loro essere donne, nelle forme della storia, della cultura, di una libertà ancora da costruire interamente. Figure che nella loro fissità sono in un perenne fluire. Ciò che del resto è nella radice del movimento artistico di cui Andrea Castro fa parte, gli Erranti. Naturale quindi che il viaggio di Andrea prosegua. Soprattutto nel mito contemporaneo. Una volta Artemide, oggi magari Patti Smith. Nuove figure vivono di performance, colori e luce. Il progetto Mujeres cammina, tocca altre stazioni. Si inoltra nell’eterno femminino. R.C.
HISTORIA DE MUJERES, ANA B&BArt Museo di Arte Contemporanea Movimento degli Erranti Artista performer Chía Devis Fotografia di © Andrea Castro
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PERFORMANCE HISTORIA DE MUJERES
B&BArt Museo di Arte Contemporanea Movimento degli Erranti Artista performer Isella Orchis Fotografia di © Andrea Castro
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CHAPTER 2 SPECIAL
SPECIAL
rinascere in viola – 38 –
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Nell’arte contemporanea sempre più spesso si usa il termine Rinascimento. Non si è ben capito se vi sia una necessità, neanche tanto velata, di trovare un modo per creare distanza con la realtà, se attraverso la memoria si voglia manifestare il disagio, se sperimentare sguardi nuovi permetta di osservare il fenomeno dell’esistenza da prospettive differenti. Sicuramente Bill Viola studia i grandi maestri del Rinascimento con l’incanto e i suoi dubbi divengono esclamazioni di stupore e silenzi rispettosi per gli spazi dell’ umanità. Firenze ospita il suo Rinascimento elettronico. Una straordinaria mostra del maestro della video arte, newyorkese di nascita e fiorentino di adozione. Negli anni ‘70 in questa città ha lavorato come direttore tecnico di “Art tapes 22” e ha sempre tenuto un legame profondo e di ispirazione con questo luogo. Un ritorno, insomma: a Palazzo Strozzi (fino al 23 luglio 2017 con la Fondazione Palazzo Strozzi), al Battistero di San Giovanni e al Museo dell’Opera del Duomo, dove i suoi video “Observance” e “Acceptance” sono accanto alla “Maddalena” di Donatello e alla “Pietà Bandini” di Michelangelo. Bill Viola parla di dolore, di umanità, di spiritualità, e utilizza la tecnologia per esaltare il rapporto dell’uomo con la natura, per evidenziare la fragilità, per ascoltare la sacralità dell’esistenza. Accanto ai dipinti dei maestri dialogano e dilagano le opere di videoarte, le architetture virtuali, le pitture led, simboliche e mistiche, per un nuovo Rinascimento, elettronico. A Firenze Viola “scopre la funzione dell’arte – scrive il curatore Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione – e scopre che la storia è parte del presente, che le opere sono nella comunità, nei luoghi pubblici, o nei luoghi dove erano state create nel ‘500, che i musei sono creati per l’arte e non viceversa come accadeva a New York”. E l’artista racconta che ha scoperto una nuova idea di apprezzamento dell’arte nel vedere ogni mattina una vecchietta che metteva l’acqua fresca o i fiori nuovi sotto il quadro della Madonna in una piccola edicola del suo palazzo. Kira Perov, direttore esecutivo di Bill Viola Studio, curatrice dell’artista dal 1978, scrive: “Eclipse”, sottotitolata “The Moon – 39 –
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Setting Through an Open Window”, fu registrata a Firenze durante il solstizio d’inverno del 1974. Per venti minuti guardiamo la luna intersecare lentamente la fiamma di una candela posta sul davanzale di una finestra, in un video girato con una rudimentale telecamera in bianco e nero. Le due fonti di luce si fondono in tempo reale, lentamente e brevemente, diventando una cosa sola. L’opera è avvincente ancora oggi, forse perché fu creata con e nella forma video più semplice, pur dando corpo a un concetto profondo”. Con questo esempio la curatrice vuole evidenziare la capacità poetica di Bill Viola. E la poesia la incontriamo nel percorso espositivo. “Emergence” nasce da due realtà: l’opera rinascimentale “Il Cristo in pietà” di Masolino da Panicale e una foto di cronaca con due donne che estraggono da un pozzo il cadavere di un uomo. Bill Viola costruisce la sua opera con una messa in scena. Un attore trapezista deve essere sepolto dall’acqua e sotto resistenza emergere con il corpo rigido. Apparentemente è un annegamento, in realtà si tratta di una tumulazione ieratica dove il dolore sgorga rarefatto nel gesto al contrario. Della serie “Going Forth By Day” è l’installazione architettonica imponente che si ispira agli affreschi di Giotto e al “Giudizio Universale” di Luca Signorelli. Cinque video sono proiettati su quattro pareti. “The Deluge” è un’esplosione di acqua che travolge come un uragano pezzi di architettura, persone, gesti quotidiani: irrompe in primo piano la catastrofe, consueta nella tradizione pittorica italiana e metafisica nei riferimenti espliciti dei personaggi iracondi avvolti dalle acque nella pittura quattrocentesca del “Diluvio Universale” di Paolo Uccello. Nel 1984 Bill Viola visita il Prado e per trent’anni lavora sulla sensualità rappresentata da Adamo ed Eva nell’opera di Albrecht Durer. Il risultato è “Man Searching for Immortality/Woman Searching For Eternity”: due figure di uomo e donna anziani emergono dal buio, sono in posizione frontale, esplorano i loro corpi con una torcia in mano e la luce illumina le rughe, la pelle segnata dal tempo. Nella mostra di Palazzo Strozzi i protagonisti guardano “Adamo ed Eva” di Lukas Cranach e il dialogo impietoso, – 42 –
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la presenza fisica e umorale dei due personaggi, la costruzione simbolica e scultorea dell’opera, la caducità, fanno scomparire i secoli che separano le opere. Rinascere per Bill Viola è in qualche modo usare un linguaggio universale che si esercita con l’arte, con il rigore, la conoscenza, la sperimentazione tecnica. In 40 anni di carriera per lui gli antichi maestri sono stati fonte di ispirazione e la sua tenace necessità di esplorare, di sperimentare e di conoscere ha segnato l’evoluzione di un linguaggio nuovo. Le opere in mostra rappresentano i cambiamenti delle tecnologie video e dei media utilizzati dall’artista nella sua lunga esperienza. Dalla bobina, al laser, ai dvd, ai supporti in alta definizione sino agli hard disk digitali, sono stati i passaggi storici per creare le immagini. L’uso degli strumenti, l’invenzione e i mutamenti tecnici hanno permesso di esprimere visioni nuove, hanno partecipato a una rinascita emotiva e artistica dove si esplora e accoglie l’umanità. Viola prende per mano il visitatore e accompagna la coscienza di ciascuno verso un viaggio iniziatico attraverso l’acqua, il fuoco, l’aria e il suono, per toccare la pulsazione della vita, per assaporare la forza di un’idea, per odorare l’umore di una passione. Fa sgorgare dalla sua immagine in movimento il comune sentire della fragilità. La stessa che accompagna il gesto quotidiano della vecchia signora mentre cambia l’acqua o i fiori sotto il dipinto della Madonna, nella piccola teca sotto casa, all’angolo della strada. BLP
◀ Pg. 40 ALAS VIOLA Opera di Bianca Laura Petretto
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eliasson o l’arte dell’essenziale
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Se dovessimo immaginare la figura del piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry da adulto, potremmo vederlo riflesso nei modi, nello sguardo, nella voce di Olafur Eliasson. Come il bambino catapultato sulla terra da un altro mondo, l’artista vuole rendere consapevoli noi terresti che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, ma che possiamo cambiare prospettive per vedere la realtà. Rispecchiare è il suo motto, attraverso la tecnologia, la scienza, la natura, la filosofia e l’arte. Le sue opere sono installazioni che stimolano la vista, l’udito e l’olfatto per interagire con le persone. Semplicità e conoscenza sono i tratti caratteristici e il pubblico rimane affascinato, coinvolto e accolto dalle sue architetture, si identifica con lo spazio e il tempo che riesce a rendere tangibili, e la sua arte diviene sociale. Luogo dove nascono le relazioni, dove si scoprono le persone. Alchimista, scienziato, architetto, politico, per Olafur Eliasson arte e cultura sono i motori del processo democratico. Life space è il suo studio dove sperimenta. La creazione è collettiva. Con lui lavorano architetti, ingegneri, filosofi, esperti d’arte; costruiscono, inventano, producono forme e spazi con la luce, con le ombre, con i suoni, con gli elementi naturali attraverso le tecnologie. Esperimenti post immagine, figure geometriche che si susseguono: circolo giallo, quadrato rosso, triangolo verde. L’obiettivo è: spostare il confine. Nel buio fluttuano poliedri verdi da cui spuntano lucciole vibranti, sonorità di mondi altri evocano idiomi extraterrestri. Sono oggetti che si muovono, sono forme vaganti impaurite e giocose, architetture e alchimie che rimandano a qualcosa di conosciuto, di umano. “Luce verde” al Moody Center for the Arts di Houston e alla 57 Biennale di Venezia fa parte della mostra Viva Arte Viva. Il creatore, danese, nato in Islanda, sperimenta, lavora e crea ispirandosi alla semplicità della natura. La sua arte è la scienza dell’ovvietà come riscoperta autentica del valore. Da vent’anni espone nei musei di tutto il mondo e le sue opere fanno parte delle città, sono installazioni che dialogano con la gente. Eliasson è considerato uno dei creatori più accessibili al mondo dell’arte. Gioca con la – 45 –
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tempesta e le dimensione meteorologiche e naturali per restituire l’opera d’arte non solamente come atto individuale, ma collettivo. “Ice Watch project” è effimera: tonnellate di ghiaccio sistemate nella piazza di Copenhagen, trasportate dalla Groenlandia, sciogliendosi hanno reso l’opera fluida perché si trasformasse in evanescenza. L’esperienza materiale e visiva ha messo lo spettatore di fronte alla natura che muta con il tempo e a seconda della situazione si percepisce potente o fragile. La creazione diviene un veicolo, uno strumento per comunicare valori e intervenire nel mutamento, diviene parte della società. Nelle opere di Olafur Eliasson l’ambiente è protagonista: a Londra ha ricreato il sole, a Berlino la nebbia, a Parigi la luce per rappresentare l’orizzonte, per osservare e ammirare da una prospettiva sempre diversa uno spazio sconosciuto. Michael Joseph Gross afferma che “molti dei suoi lavori esplorano l’architettura e la meccanica della percezione, come se le fantasie mirabolanti di Buckminster Fuller fossero reinterpretate da uno scienziato cognitivo.” Olafur enfatizza i giochi di luce, la rifrazione e attraverso questi rimandi coinvolge lo spettatore rendendo l’esperienza unica. Si tratta di un’operazione che passa attraverso la bellezza: la luce penetra un muro di nebbia per produrre l’arcobaleno, se viene guardato da punti differenti nello spazio. Ricrea nel museo, nella galleria, la forma naturale e soprattutto l’emozione, l’esperienza reale. Le megasculture e le grandi installazioni coinvolgono i passanti negli ambienti urbani. “Eye See You”, per esempio, è un progetto realizzato per Louis Vuitton dove gli spettatori sono catturati, mentre camminano per strada, da un fascio di luce che nasce attraverso una finestra, creato da una lampada a forma di occhio. Alla Fondation Vuitton di Parigi l’artista ha realizzato una coreografia di rifrazioni, luci e ombre che modellano forme geometriche in movimento e offrono soluzioni e viste differenti mentre gli spettatori fanno parte dell’opera, sono attivi, coinvolti. Al Tate Museum di Londra ha fatto splendere un sole enorme. Uno specchio sul soffitto e l’inserimento di elementi naturali, per esempio la nebbia, ha reso lo spazio tangibile. In diverse conferenze pubbliche Olafur Eliasson spiega che è – 46 –
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interessato al perché più che al come. Quali sono le conseguenze se ci muoviamo in uno spazio? Cosa conta? Importa che io sia nel mondo? Importano l’azione che compio e il senso di responsabilità? L’arte riguarda tutto questo? La sua risposta è si. Ama raccontare che a Los Angeles, Stoccolma, Tokio, ha versato la tinta verde nei fiumi che attraversano la città. “L’acqua verde non è nociva, è bella, affascinante, in qualche modo mostra la turbolenza di queste aree centrali e fa paura”. In questa opera dinamica, specifica l’artista, il fiume verde cerca di trasmettere l’idea che lo spazio ha delle dimensioni, uno spazio ha tempo. L’acqua ha la capacità di rendere tangibile la città e l’arte fa la differenza tra pensare e fare, tra mostrare una fotografia della città e trasmettere realmente la città. Nell’estate del 2008 ha realizzato una scultura gigantesca, massiccia e spettacolare: “Waterfalls”, quattro cascate nel porto di New York, tra cui una sotto il ponte di Brooklyn. L’artista dice che in questo progetto l’acqua che precipita ha a che fare con il tempo che impiega l’acqua a sgorgare. Quando si cammina in montagna - spiega - e si arriva in una nuova valle hai una vista differente; se stai fermo il paesaggio non ti dice quanto sia grande, non ti dice cosa stai guardando. Nel momento in cui inizi a muoverti le montagne si muovono. Le grandi sullo sfondo di meno, le piccole in primo piano di più. Se ti fermi non comprendi il tempo che occorre per attraversarle. Se c’è una cascata all’orizzonte si ha la percezione che l’acqua fluisca piano tanto e la cascata appare lontana e grande. Se precipita più velocemente si tratta di una cascata più piccola e più vicina perché la velocità con cui l’acqua scorre è più o meno costante dappertutto e il corpo lo sa istintivamente. La cascata è un modo di misurare lo spazio. A New York si può giocare con lo spazio. Per l’artista si è trattato non solamente di portare la natura nella città, ma di dare alla città un senso dimensionale. Quando il corpo si sente parte di uno spazio ha delle conseguenze oltre la sensazione di trovarsi di fronte ad una immagine. Se ho il senso dello spazio, se sento che lo spazio è tangibile, se sento che c’è tempo, se esiste una – 47 –
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dimensione che posso chiamare tempo - afferma Olafur Eliasson sento anche che posso cambiare lo spazio. Questo fa la differenza e rende lo spazio accessibile. Diviene collettivo, è il senso di stare insieme. La cultura e l’arte dimostrano che si può creare un tipo di spazio sensibile sia verso l’individuo che verso la collettività. Con questa casualità e con le conseguenze che ne derivano, con il modo in cui connettiamo pensiero e azione troviamo l’esperienza che ha a che fare con la responsabilità. Fare un’esperienza vuol dire prendere parte nel mondo, partecipare e condividere responsabilità e in questo l’arte diviene protagonista. Ma come direbbe le petit prince: “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami”. E Olafur Eliasson sperimenta la conoscenza dove l’arte è capace di far vedere l’essenziale. Blanca Saibante
CLOUD, MOON AND SUNSET Fotografie di © Sofía Arango Echeverri
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la linea della luce – 52 –
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LUCEMENTE, UN DIALOGO TRA SERENA MORMINO E FEDERICA MARANGONI Dal vetro alla luce, dall’Italia all’America. E al mondo. Federica Marangoni è artista e designer, performer e sperimentatrice. E altro ancora. Un’eccellenza, riconosciuta ovunque, del nostro Paese. Quale è stato il suo percorso? Cosa significa per lei fare arte? Cosa accade in questi anni nel campo della creatività? Lo racconta, e si racconta, in questa conversazione-intervista con la curatrice e critica d’arte Serena Mormino. Anni ’70: ancora giovanissima, approdi in America. L’impatto, i grandi nomi internazionali… <Era il 1977, lavoravo già da molto tempo per la New York University a Venezia, avevamo fatto delle grandi mostre a Palazzo Grassi tra cui “Venerezia-Revenice” con Pierre Restany, momenti storici, epici, con pochi fondi e grandi idee. Poi la direttrice della NYU mi ha proposto di lavorare anche nella sede a New York per periodi infra-annuali (Federica era già madre, ndr). Ho capito che era un cavallo da cavalcare subito, ho accettato e da allora, ogni anno per 40 anni, ho sempre fatto avanti e indietro almeno due volte: mostre, lectio magistralis all’Università. Negli anni ’80 ho disegnato i vetri per Tiffany, che allora non concepiva il colore, si può dire che sia stato il mio primo lavoro internazionale anche come designer. Tante gallerie, molti amici e nuovi stimoli: mi sono subito ambientata, come se fossi nata lì, anche perché l’America è diversa, ci sono sempre dei miracoli che si compiono. Venivo dal nulla, senza particolari protezioni. Un giorno nel 1979 creai una mostra tutta di vetro sul tema della natura; vetri con geometrie e forme armoniche, nuvole, pioggia ed arcobaleni. Eravamo nella 57sima Strada alla galleria Theo Portnoy Gallery; quella raccolta fu comprata da un grande collezionista americano che la volle fortemente presentare a New York per la mostra “Thinking in Glass”, esposizione di sculture e piccoli gioielli d’artista che avevo appena realizzato. Era il periodo di Natale e, una volta arrivate in – 53 –
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porto, le opere sparirono; tutto rubato, perché avevo ingenuamente indicato “Vetro di Murano e Tiffany”. Mi ritrovai con 5.000 invitati, la galleria e pochi gioielli, una tragedia, ma ho fatto mia la filosofia del grande amico e artista Vincenzo Agnetti. Vincenzo mi sgrida, spronandomi come un fratello a reagire: “Questo non lo accetto, tu sei un’artista, non sei una che fa oggetti, quindi fai qualcosa d’altro, crea, inventa”. Aveva ragione, ho avuto anche il coraggio di proporre una performance che mi sono inventata sul momento, in una galleria classica, con clienti tradizionali che cercavano vetro. Ma non potevo chiudere la porta e andarmene! “Life is Time” sulla vita, il tempo, la morte… così posai su delle pietre tante rose in cera che si scioglievano, come una via crucis, nella performance ritualistica “The Ritual of Life”. Tra il pubblico c’era il giovane curatore per la sezione video e performance del MoMA (vedi i miracoli di NYC), stava progettando di invitare tre personaggi europei che operassero già nella capitale. Mi coinvolge e nel febbraio nel 1980 mi trasferisco a NY per un mese con una delle mie due figlie e presento il film “The Box of Life” e la performance “The Interrogation” al MoMA. Erano anni in cui anche la mia coetanea Marina Abramovic era a New York, faceva performance, ma arrivare a farla per prima al MoMA è un’altra cosa. L’opera si scioglieva e diventava una nuova opera, nuova luce, nuova vita (installazione performance e proiezione del film in 16mm “The Box of Life” acquisito dall’Archivio d’arte mediale del MoMA). Dopo le performance mi sentivo anche io consumata, e decisi di fare attivare le mie opere. Arrivai in una piccola galleria di Soho (Inroads-Multimedia Art Center) e feci un lavoro molto underground, “Straphangers”, un lungo corridoio di tubi, stretti con la plastica. C’erano delle mani pendenti di cera attaccate alle maniglie della subway e il filo di elettricità, tutto fatto in modo molto artigianale, con pochi soldi ma grande spirito e anima. E poi Washington, New York al Metropolitan, San Francisco, Milano a Palazzo Reale e a La Triennale, Spagna, Parigi, Tokio…>. In tempi ancora più difficili per una donna che vuole essere artista. – 54 –
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Hai creato video quando ancora quasi nessuno lo faceva nel mondo dell’arte. <Femminista sì, ma non politicizzata e aggressiva e, forse per questo, spesso non coinvolta. La donna è sempre divisa almeno in due, se non più pezzetti, e per tutta la vita cerca di ricomporli per trovare il suo spazio. In questa carambola che è la vita io ho creduto molto, forse da incosciente, a quello che facevo; nessuno immaginava che i video sarebbero diventati davvero forma d’arte, oggi spesso addirittura abusata. Ma noi abbiamo creduto molto nella sperimentazione, nella ricerca dei nuovi materiali. E questa forza è stata fondamentale. Ci siamo inventati il passaggio dell’immagine da un video all’altro a catena, qualcosa che allora non esisteva, perché non esisteva certo il digitale. È stata un’impresa da visionari. Alla Biennale del 1997 presentai in Arsenale il grande “Arcobaleno elettronico” in vetro policromo, installato con una torre di quindici monitor della Sony che facevano colare i colori dell’arcobaleno spezzato e trasformavano la materia in nuova materia, la tecnologia. Una centralina dava i comandi ai vhs per generare il concetto di colata. Siamo stati visionari nell’arte ma anche nella tecnologia. Vetro che esplode e, in tempo reale, la video camera riprende 4.000 fotogrammi al secondo. Allora fare ricerca era poesia>. Veniamo alla luce, elemento fondamentale della vita di flora e fauna, che diventa punto focale della tua arte. <La luce è nata per me quando non si usava dire che la materia è luce. Lavorando il vetro non potevo fare a meno della luce; le mie opere in vetro senza luce sono morte, così come quelle in plexi inciso, tipiche del mio percorso degli anni ’60, le scatole con luce. Lo schermo tv è luce. Se lo fai vivere all’interno di un’installazione diventa la terza dimensione che noi artisti abbiamo sempre cercato perché genera movimento>. Lo schermo è luce, ma va modificato, controllato, perché non prenda il sopravvento… – 55 –
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◀ THE BOX OF LIFE A Palazzo Grassi, Venezia, 1979. © Federica Marangoni
________________________________ IL FILO CONDUTTORE
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In cracked neon rosso di 22 metri a doppio filo di neon poggiante su tubo in rete metallica, 2015. © Federica Marangoni
________________________________ ON THE ROAD
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Autoritratto tagliato in perfepx, 1970. © Federica Marangoni
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<Certamente, infatti i miei video sono colpi di immagine, era già un modo diverso di fare video>. Ma la luce cosa rappresenta davvero per te? <La luce è la mente, perché se non c’è luce è tutto piatto, non c’è energia. Non è la dimensione a fare l’arte, ma la luce in senso proprio e nel senso di genialità, di poesia, di emozione. È quello spirito vitale che fa vivere e illumina le opere, se queste hanno lo spirito dell’arte. Spesso prevale la luce del denaro nei grandi nomi commerciali e mediatici, ma non c’è la luce vera dell’arte>. La luce è elemento essenziale di vita, è natura; però l’arte, come nel tuo caso e in pochi altri, riesce a generare nuova luce. <Le opere devono vibrare e se riescono generano nuova luce. La scala, ad esempio, quella alta 15 metri a Basilea (così come le mie altre), o ancor più la grande bobina de “Il Filo Conduttore” di Ca’ Pesaro della Biennale 2015 che illumina senza offendere, esaltano ma non coprono. È la luce dell’arte che illumina il contenitore dell’arte. Illuminante e che genera un pensiero, perché il filo che si arrotola sulla bobina è e diventa energia per l’umanità>. Si può vedere anche il sangue che scorre nelle vene. <Vero!>. Come trasformare la luce nell’essere umano… <I tubi riempiti di sfere di vetro massiccio fanno sì che il gas del neon che entra, per uscire dall’altra parte, deve cercare la sua strada, creando il moto perpetuo. La luce non si espande fuori, non presenta aloni, si concentra e si rinforza dentro quasi come un led e crea il sangue che scorre nelle vene>. Come il pensiero delle generazioni degli esseri umani che continua a vivere si riallaccia a quello che è il passato e quello che sarà il futuro. <Il segno della matita che si anima d’arte, il foglio in bianco e nero – 60 –
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con il disegno preparatorio per me ha acquisito luce nel momento stesso in cui ho tracciato il segno rosso>. E la tua bobina potrebbe essere un simbolo, un filo conduttore che genera arte e crea nuove energie. <La bobina è un grande simbolo, perché è sempre energia. Come le farfalle, le mie farfalle di vetro. Ricordo che le prime le comprò tutte Krizia per il suo bestiario - 1980. O come la scala, tutti simboli di come la vita sia luce e la luce sia vita; senza la luce non c’è vita e non c’è arte. O ancora come l’“Albero della Vita” che ho fatto a New York con la luce che corre tra due lastre. Un albero tecnologico, metropolitano”. Il ribaltamento, l’artificio; l’arte che riesce a generare natura. <Noi artisti siamo giocolieri, facciamo artificio. Ho usato la natura per stimolare l’uomo a salvaguardarla, ma la metto sotto vetro; come la definiva Pierre Restany, la mia è una “natura congelata”>. La tua luce è spesso anche monito di presa di coscienza dell’essere donna e di difesa nei confronti di abusi e violenze? <È importante ricordarlo. Ho vissuto con il mondo sempre in guerra e sono nata durante la guerra. Quando ho fatto il primo quadro meditativo - perché c’è sempre una prima opera di un ciclo, che è il momento della meditazione - nel ’76 i giornali parlavano delle stesse guerre, degli stessi bambini morti di fame, delle stesse tragedie nel mondo: Corea, Indocina, Vietnam. Fino ad oggi. Non è mai finita la guerra e ora sono loro a fare la performance e a gettarcela in faccia ogni giorno. Il mio film “Tollerance - Intollerance” ora è “Endless movie”, perché non saremo mai capaci di contenere la violenza, l’uomo ne inventerà sempre un’altra più terribile. Per fortuna però l’uomo mantiene la speranza, senza la quale non ci sarebbe vita>. L’arte come vitamina essenziale. <Una bella immagine. Spero di dare un po’ di vitamine alla gente>. Due caratteristiche: luce e vetro generato da energia e forme di – 61 –
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luce, un binomio perfetto, insomma. <Lavoravo i materiali come ricerca, noi siamo i dopo Duchamp, per cui tutto andava bene. Facevo molti lavori con il plexi, ma un giorno ho fatto una riflessione: “Io sono veneziana, ho i piedi sulle mie radici ed il vetro è il più bel materiale del mondo”. All’epoca non esistevano le “stanze del vetro” o spazi d’arte dedicati; uno che faceva vetro faceva oggetti decorativi, non era voluto nel mondo dell’arte. Ho fatto vetro portandolo in gallerie importanti tra cui la Holly Solomon Gallery di New York con una mostra tutta di vetri e video – “Fragments” nel 1995 – e con pezzi giganti tra cui una sfera di due metri di diametro. Però era arte, non era più vetro, non bisogna confondere con il bel vaso; bisogna riuscire a capire che esiste un’altra forma e io ho combattuto tanto per questo e con la materia vetro che, però, è ancora qui con i miei lavori>. Come scegli i colori delle tue luci? <Dipende dal pensiero del momento, da ciò che voglio esprimere. Uso molto il rosso, la forza, la determinazione e la violenza; il blu colore più spirituale e della natura; il bianco e il verde solo per l’albero della vita e per la bobina bianca, rossa e verde che ho intitolato “Italy–Italy” perché si rimane sempre allo stesso punto, un Paese che non va avanti. L’azzurro per la Scala di Giacobbe del 2001; doveva essere azzurra per essere più ieratica possibile, non doveva fare schiamazzo. L’arte non deve schiamazzare, l’arte lascia qualcosa dentro. Quell’anno feci una scala alta 10 metri ai piedi della Chiesa della Salute e gli angeli di Giacobbe erano lì, stavano seduti, non avevo bisogno di farne altri, dialogavano benissimo con la scala azzurra, sotto cui c’erano schegge di vetro blu che si riflettevano con la luce del Canal Grande alla sera, una magia. Il rosso l’ho utilizzato per la “Go UP” di Basilea>. Al Museo del Parco a Portofino abbiamo la scala bianca che sembra incidere il monte. <Sì, bianca, molto severa, forte, determinata, la scala del lavoro. Il mio neon è importante, perché lo leggo come l’energia dell’uomo, – 62 –
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la poesia della natura, la mescolanza dei pensieri>. Il confine tra arte e design? Il design può essere considerato forma d’arte? <Ti pare che Ettore Sottsass non sia una forma d’arte? Anche perché se il design arriva a un certo livello di purezza ed eccellenza ha diritto di essere definito arte>. La tua prossima luce? <Ora sono molto impegnata a portare in giro quelle che ho>. Ma se chiudi gli occhi? <Ho appena fatto un lavoro tutto sulle mani di vetro - “Totem of Hope” - alto 2,5 metri per l’America. Non ha luce viva, ha la luce dell’anima, della speranza. Sono tante mani bianche e nere dell’umanità. E poi continuerò su progetti per l’umanità, producendo nuove opere in varie dimensioni. Le mie prossime luci saranno quelle del mondo che mi vuole, perché se mi dici che questa piazza è mia, io immediatamente creo l’idea, perché l’idea nasce dal rapporto con lo spazio che ti circonda, che ti viene dato e con la sua storia. Quando mi invitarono alla Piazza Grande di Arezzo, quel palazzo del Trecento spaventosamente bello con la stratificazione della storia - la Fraternita dei Laici - e alla sue spalle la torre del 500 con l’orologio meccanico che batte ancora e la piazza che sembra un salotto, io ho capito subito quello che dovevo fare. La Clessidra di filo giallo alta tre metri, dorata perché quella è la luce dorata della grande arte, è come accendere una candela davanti ad un tempio votivo>. La tua antologica di che colore sarà? <Multicolore, perché la vita è multicolore, un arcobaleno. Parlerà da sola: partirà da quella ragazzina che cammina sulle strisce pedonali - On the Road – e andrà avanti con tutte le idee…>.
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CHAPTER 3 INTERVIEW
INTERVIEW
la macchina volante di anilore banon – 66 –
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Vi sono aspetti sconosciuti ai più che fanno parte del nostro mondo e che aprono una finestra sulla speranza. Si chiamano conoscenza, coraggio, intuizione, dedizione, ricerca. Astrofisici, ingegneri, fisici, intellettuali, artisti si sono ritrovati in questi mesi per far conoscere alcuni progetti in atto che riguardano l’esplorazione dell’uomo e il ritorno dei cosmonauti sulla luna. Un viaggio di circa 400.000 km e un volo con un equipaggio verso Marte, passando per la luna, previsto quando il pianeta sarà più vicino alla Terra a 55 milioni di km. L’ambizione è stabilire sul nostro satellite diverse basi temporanee e permanenti lasciando traccia della vita. In questi intenti si inserisce “Vitae” di Anilore Banon. È stata creata una scultura portatrice di messaggi che affronterà il viaggio nello spazio. Si tratta di un testimone dell’incontro tra scienza e arte, di un trasmettitore di registrazioni universali dell’umanità o è la realizzazione di un sogno? C’est cette rencontre magique de l’Art et la Sciences qui m’a permis de créer VITAE. Il m’a fallu rassembler des énergies différentes, évoluant dans leurs sphères propres. Des scientifiques, des ingenieurs, des entreprises, de Dassault systèmes à Space X et à la Nasa - tout ce qu’il y a de rationnel - que j’ai invité à entrer dans mon rêve artistique. Comment installer une sculpture sur la Lune? Comment associer le plus grand nombre de personnes à cette aventure? Comment permettre à chacun sur Terre de s’approprier ce rêve et de participer au voyage vers la Lune? En fait, VITAE s’est imposée à moi comme une véritable Odyssée artistique et scientifique qui prouve chaque jour que “Ensemble” tout est possible. Oui, nous pouvons crée, construire, rêver, Ensemble. La sua scultura è un grande fiore che contiene i pistilli stilizzati di figure umane e apre e chiude i suoi petali attraverso il calore. I materiali di cui è composta permettono di espandere la struttura con la temperatura calda e di comprimerla verso l’interno con il freddo. In che modo si realizza tecnicamente e realisticamente questo fiore dell’umanità che sboccia, si chiude e rinasce? Come è calcolato, creato, finanziato e perfezionato il viaggio romantico di pace affidato all’arte e alla scienza con un elegante fiore nato sulla terra e domiciliato sulla luna? – 67 –
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J’ai imaginé dès mes premiers dessins une sculture vivante “respirante”. Le jour, comme dans un cocon, les voyageurs sont serrés les uns contre les autres, des personnages dessinés dans leur élan. La nuit venue, le cocon s’ouvre pour les laisser se deployer. Des milliers de mains enregistrées sur Terre et retranscrites sur la sculpture apparaissent alors et semblent faire signe à la Terre. Une signe d’espoir d’une humanité rassemblée autour d’un rêve inscrit depuis des dizaines de millénaires sur les paroies des cavernes préhistoriques. Techniquement ma sculture “respire” grâce à des matériaux à mémoire de forme utilisés pour les personnages et la structure de VITAE. Il s’agit de Nitinol, un alliage de Nickel et Titane qui mémorise les differentes formes de la sculture ouverte et fermée et qui s’animera en fonction de la temperature sur la Lune. Les amplitudes entre le jour et la nuit sont tres importantes puisque l’on passe de +150 degrés à –150 degrés. Il n’y aura aucun mécanisme pour animer VITAE, uniquement la chaleur du soleil. Les empreintes de mains seront retranscrites sur du Kapton utilisé pour la “peau”, la corolle de VITAE. Le Kapton a la particularité de rester inerte quand il est exposé à de fortes temperatures. Les matériaux ont aussi choisis pour leur legereté, loin des tonnes habituelles de mes sculptures monumentales, j’ai du changer d’échelle pour integrer les contraintes du monde spatial où on pense en grammes. Symboliquement aussi c’est extremement interessant de penser une sculpture sans fondation, sans besoin de la retenir, qui se tient debout, seule mais ancrée dans l’espace. Plusieurs itérations de la sculptures ont été réalisées et le 19 fevrier dernier VITAE III est parti à bord la fusée SPACE X 10 en direction de la station orbitale internatioale (ISS) ou elle est testée en microgravité. Assiter au décollage de la fusée à Cap Canaveral, a été pour moi un moment extraordinaire, une expérience inouïe et une étape symbolique tres émouvante, la dernière étape avant l’envoi de VITAE vers la Lune. Dalle sue origini l’umanità ha lasciato testimonianza della quotidianità attraverso le espressioni artistiche. Si pensi ai siti di Lascaux o ai graffiti di arte preistorica nella grotta Chauvet. Le future basi lunari divengono fonte di ispirazione per gli artisti che vogliono partecipare a questo grande sforzo esplorativo. – 70 –
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La scultura “Vitae” possiamo immaginarla come una sorta di graffiti contemporanei o un contenitore/trasmettitore di codici verso esseri ignoti o ancora l’arte è con la scienza depositaria della bellezza della terra? Mon travail s’ancre entre un passé commun à tous et un dialogue contemporain, effaçant les distances temporelles et géographiques, pour un “zero-distance” et “no frontier”. J’ai voulu créer une oeuvre “extra terrestre” dans ce sens qu’elle depasse toutes frontières en quittant la Terre tout en gardant une hyperconnection avec elle et ses habitants. Il est tres important pour moi que nous puissions rester connectés à VITAE apres son installation sur la Lune”. La sua scultura lunare viaggerà in uno dei razzi insieme ai cosmonauti per poi fermarsi nel luogo prescelto dall’artista. Quando lei ha illustrato il suo progetto all’astrofisico francese Jean Audouze lui le ha rivolto una sola domanda: “In quale luogo, dove desidera installare la scultura sulla luna?”. Come è nata l’idea e quale visione umanista l’ha spinta a realizzare l’opera? Après tous les chocs, et les tragédies qui percutent notre planete, les tsunamis, les attentats, les tremblements de terre que nous avonstous vécu en live, il me parait évident que collectivement nous développons une réelle anxiéte, une peur partagée, un doute pour l’avenir. En même temps, j’ai été frappée par ces puissants élans de fraternité à ces tristes occasions, nous avons tous été japonais pour les Tsunamis, americains quand les tours se sont écroulées, nous avons été “charlie” ou encore “Bataclan” pour soutenir les français dans l’épreuve du terrorisme. Et si nous pouvions exprimer cette fraternité pour partager un même rêve d’avenir et célebrer la Vie? C’est là l’âme de VITAE, une sculpture avant tout, participative. Certes, il me fallait trouver un lieu universel et magique à même d’inspirer chacun où qu’il se trouve sur la planète. Un lieu qui parle à tous depuis toujours, maintenant et demain. Un lieu qui parle aux plus jeunes comme aux anciens. Il fallait en effet que ce lieu s’inscrive hors du temps. La Lune s’est imposée à moi comme une évidence lors d’une conversation avec des ingenieurs de la Nasa. J’ai ensuite procéder à une série de rencontres – 71 –
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avec des ingenieurs de l’espace et des astrophisyciens afin de me faire raconter la Lune – il m’était difficile d’aller en repérage sur les lieux! – et de mesurer à la fois la faisabilité de mon projet et la complexité des étapes à franchir. C’est ainsi que j’ai rencontré Jean Audouze. Cette rencontre fut essentielle. Sa première question a été pour moi une véritable inspiration. Jean Audouze m’a simplement demandé après que je lui ai décrit mon projet lunaire: “et où souhaitez vous poser VITAE sur la Lune?”. La question n’etait plus COMMENT mais OÛ. Alors, tout devint pour moi possible. Jean Audouze est resté depuis un des plus présents soutiens de Vitae Project, nous nous rendons souvent dans des écoles pour parler ensemble d’art et de sciences et enregistrer l’empreinte des mains des élèves pour VITAE. Intorno al suo progetto lavora un’équipe scientifica illustre: l’astrofisico Jean Audouze, direttore di ricerca emerito del CNRS, Presidente onorario per la Francia dell’UNESCO, Dassault Systemes, il team scientifico guidato da Richard Breitner, Shaun Whitehead, Chris Welch dell’Università Spaziale Internazionale di Strasburgo, Alain Hautecoeur di NIMESIS, intellettuali, scienziati, ingegneri, tecnici e creativi che insieme studiano, sperimentano e realizzano l’opera passando attraverso le simulazioni termiche, ottiche e meccaniche. Un progetto contemporaneo che evoca inevitabilmente le macchine volanti di Leonardo da Vinci. Vi è nell’artista una intuizione velata di un nuovo rinascimento per il tempo e il luogo in cui vive, la terra che guarda la luna? J’ai été depuis toujours impressionnée par la phrase d’Einstein “la Science et l’Art sont les seuls messagers efficaces pour la Paix, ils sont de bien meilleures assurances d’entente internationale que les traités”. A ce moment très exhaltant ou le temps et les distances se retrécissent de façon exponentielle sur la planete, l’art se pense désormais hors du temps terrestre pour entrer dans un espace en expansion. La Lune regarde la Terre, la Terre regarde la Lune. L’art ne se limite plus à montrer mais à démontrer. Oui, l’espace, c’est Nous! Nous tous, rassemblés autour d’un même rêve, libérés de nos peurs ancestrales. La phrase d’Albert Einstein donne ici à l’art une dimension cosmique. Comment ne pas l’écouter. – 72 –
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Inox et Or © Anilore Banon
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◀ pg. 56 VITAE 3D Image Gael Perrin © Anilore Banon
pg. 74 ANILORE BANON Portrait © Anilore Banon
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La navicella spaziale che presenta un volto umano della luna in “Le Voyage dans la lune” di Georges Méliès con “Vitae” prende voce e diviene un viaggio attraverso il possibile. La sua opera è una provocazione e la fantascienza lascia il posto all’arte e alla scienza. Manifesta l’animo di Michel Ardan che non vuole creare la sua scultura da inviare sulla luna vuota, priva di contenuti, ma, come l’esploratore di Jules Verne, la sua è una missione dove oltre all’innovazione c’è l’equipaggio. E il suo equipaggio è composto da milioni di impronte di mani raccolte in tutto il mondo e trascritte sulla scultura, dalle registrazioni internet, dalle stampe a mano dei visitatori dei musei dove sarà esposto “Vitae”. Quindi il suo è un progetto per la terra, una sfida che restituisca un’umanità migliore, ma anche la dimostrazione che l’arte paga e può essere pagata, che le buone idee trovano spazio per esprimersi? Bien sûr, c’est un pari! Un pari sur notre capacité à tous à nous réinventer. Une odyssée, c’est un parcours d’épreuves, une succession de défis à surmonter, un véritable parcours initatique. Le courage des uns permet à ceux qui sont tombés de se relever. Les rêves de chacun viennent conforter ceux qui doutent. Notre pari, c’est que la Lumiere peut battre les Ténèbres. VITAE sera un phare dans l’espace. “L’Espace, c’est nous” è la sintesi di un’artista che sa fare del tecnologico quotidiano la poetica di una comunicazione contemporanea. Le opere d’arte di Anilore Banon sono segni, istanti, ma anche memorie, hard disk, geroglifici aPad, sono utensili dell’oggi e significati trasmissibili. Le sue opere hanno la forza di chi vive e la fragilità di chi esplora. Sono dna antichi e mutevoli.
Bianca Laura Petretto
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CHAPTER 4 CROSSING
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banksy, il muro del nulla – 78 –
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La maratona ha sollevato polvere davanti al Walled off Hotel. La periferia di Betlemme in un lungo viale sterrato, i cassonetti del pattume alla deriva, il cemento affiorante e l’edificio angolare che suggerisce la svolta, costringe i podisti fra gli scheletri irrisolti delle case e il lungo muro dell’apartheid. In livrea e cilindro il portiere osserva sfilare la voglia repressa di movimento, incorniciato a sua volta dai fotografi arrivati a consacrare l’ultimo sgarbo di Banksy. Accoglierà negli anni i turisti dell’oppressione coloniale in compagnia della fedele scimmia di plastica in catene, facchino oberato di valigie, nobilitato da doppiopetto di porpora e bottoni d’oro. Ai soldati bastano pochi minuti per occupare i posti di blocco e stritolare a piacimento la città. Così il resto del West Bank, arcipelago Palestinese nel mare dell’occupazione Israeliana. L’Hotel “murato” allestito dall’artista inglese e inaugurato nel marzo di quest’anno ha la sua origine filologica in una cartolina composta nel Natale 2015, “Giuseppe e Maria non raggiungono Betlemme”: i genitori del pargolo divino si fermano perplessi a contemplare il muro calato sulle antiche colline palestinesi, immortalati in un’epifania capovolta. Nel paradosso delle epoche sovrapposte la restituzione dell’essenziale, i fatti ripuliti dalle narrazioni, l’ingiustizia restituita alla percezione. Pura grammatica banksyana, la potenza del messaggio nasce nella semplificazione della forma, istinto rupestre e fanciullo seminato nei grigiori metropolitani e fiorito in denuncia politica. Il ribelle non scaglia una molotov ma un mazzo di fiori, i refusi di scritte e insegne vengono corretti nella notte di Bristol, la corolla dell’unità europea perde la stella britannica davanti al porto di Dover, l’hotel a Betlemme regala la peggiore vista del mondo. La hall è un ritorno alla Palestina del mandato britannico. È sufficiente sostituire la disinvoltura affettata della reporter in missione per la grande testata internazionale con i fantasmi della burocrazia imperiale londinese. Si esprimono nello stesso idioma fra i piccoli tavoli di legno scuro e rotondo, le candele rosse sulle sobrie tovaglie bianche e verdi, i palmizi e i divani di spessa pelle – 79 –
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trapuntata. Due mani invisibili premono i tasti del pianoforte a coda per una ballata di Chopin. Una ruspa irrompe in un’idilliaca campagna di Constable. Se fosse una notte di cento anni fa il ventilatore spazzerebbe le nubi dei sigari e i candelabri di ferro ritorto renderebbero ancor più vivo l’inchiostro dei brandy. Edwin Samuel, figlio dell’Alto Commissario Herbert, descriverebbe la sua buona natura nei confronti degli indigeni: “Sono un uomo del ventesimo secolo arrivato nell’undicesimo con il potere di un barone feudale…i contadini possono essere poveri e illetterati, ma sono miei. Li proteggo dalla mia stessa tirannia ed esigo che paghino di conseguenza”. Continuità e distopia della storia sono nei dettagli. Nelle placche di legno sul muro le telecamere di sicurezza sostituiscono teste imbalsamate d’alce e di leone. Due mazze incrociate trasfigurano uno stemma araldico e due amorini pendono dal soffitto grazie a fili di flebo. Un terzo è in caduta libera, abbattuto. Del quarto rimane solo la maschera per la respirazione. Su un piedistallo il busto di un eroe greco si difende con un bavaglio dai lacrimogeni. Poco oltre la piccola libreria (Chomsky, Pappè, Said, Kanafani) porta al museo, dove il manichino di Sir Balfour si anima con un pulsante e scrive le poche righe che segnarono un secolo fa il destino di sangue della Terra Santa: “Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”. “Questo museo è resistenza” annuncia Beatrice, giovane cristiana che introduce i visitatori alla galleria dell’occupazione. Le piccole stanze che si susseguono sono un elenco addensato della microfisica del potere Israeliano, un breve tunnel dell’orrore diluito ogni giorno per le strade. La semiotica è rovesciata, Banksy non riassume nella provocazione del gioco tragico, ricompone con gli oggetti quotidiani la totalità sfuggente del sionismo coloniale. – 80 –
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Così l’apartheid negato è nelle carte d’identità e nelle targhe che possono o non possono accedere a strade e città, nei serbatoi di plastica poggiati su ogni terrazza palestinese per raccogliere la poca acqua concessa, dirottata per “far fiorire” il deserto biblico. Cemento, ferro, cartelli e filo spinato piegano l’essere economico e sociale, penetrano la persona e ne consumano la tensione libertaria, spengono la fiammella della dignità o innescano la rabbia che giustifica l’ennesimo affondo repressivo. Diverse teche raccolgono l’archeologia dell’arsenale poliziesco, manette, lacrimogeni, proiettili canonici per uccidere e proiettili di gomma per invalidare, acquistati a venticinque dollari a colpo dalla Defense Technology Group americana. Nel 2014 ne sono stati sparati 57.450. C’è tutto il Novecento nelle museruole dei pastori tedeschi che accompagnano pattuglie e incursioni dell’esercito Israeliano. Gaza assediata è riassunta in una finestra che si affaccia sulle macerie e le incenerite sculture di sabbia di Ijad Sabbah, in una valigia da bambole: “cosa porteresti con te se avessi trenta minuti per abbandonare casa tua prima che venga distrutta?”, chiede una didascalia. Passato e presente della contro-narrazione vengono raccontati in due cubicoli. Nel primo la parodia di una stentorea voce churchilliana riassume la progressione coloniale, dalle prime migrazioni sioniste del 1880 alla disastrosa pace di Oslo. Nel secondo scorre una sintesi di “Cinque camere distrutte”, documentario del duo Israelo-Palestinese Emad Burnat e Guy Davidi. Il percorso conduce poi all’ultima stanza, dove a un filo cronologico sul muro sono legati tutti gli episodi, gli oggetti e i gesti più rilevanti della resistenza: fionde e sassi, i prodotti presi di mira dalla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), Papa Francesco costernato sul muro e una scala usata per scavalcarlo, un salvagente della nave Mavi Marmara diretta a Gaza, dove morirono nove attivisti freddati dalle forze speciali Israeliane, le latte dei lacrimogeni trasformate in vasi per la coltivazione di fiori e piante. Manifesti e cartelli delle – 81 –
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associazioni pacifiste Israeliane. “L’arte deve essere apolitica”, afferma Marco. “No, l’arte deve prendere posizione”, risponde Valentina. La coppia milanese si è avventata sulla prenotazione lo stesso giorno in cui l’apertura del Walled off Hotel ha conquistato la stampa internazionale. Una suite da oltre mille dollari e nove stanze allestite da altrettanti artisti che partono da duecento dollari a notte. Una camerata dove si dorme sulle brande militari israeliane concede l’esperienza anche a sensibilità meno mondane. Ogni oggetto nelle stanze è creazione, raccontano Marco e Valentina, e da quasi tutte si può vedere un tratto di quel muro alto sette metri e lungo settecento chilometri che dal 2002, in risposta alle guerriglia della Seconda Intifada, ha chiuso, non senza cogliere l’occasione di includere nuova terra, il West Bank in una prigione a cielo aperto. Marco si dice trasformato dalla permanenza, entusiasta della galleria che al primo piano ospita i lavori di artisti Palestinesi impegnati come Samar Ghattas, Suleiman Mansour e lo stesso Sabbah. Chiede una scala per affrescare sul muro il suo messaggio di solidarietà, occasione offerta dal “Wall Mart”, un piccolo laboratorio di graffiti incastonato fra l’albergo e il negozio dei souvenir e ninnoli firmati Banksy. Ma lui e Valentina, impegnati nel mondo dell’arte, ripetono più volte la richiesta che il cognome non appaia nel racconto, confermando il pudore che da decenni impedisce all’Europa di sganciarsi dai tradizionali schemi geopolitici statunitensi, per i quali Israele è un’avanguardia economica e militare da proteggere a ogni costo, anche dalle tre risoluzioni ONU che dal 1968 condannano l’occupazione imposta alla Palestina. Sono riusciti a visitare uno dei campi profughi di Betlemme? No, non ne hanno avuto il tempo. Troppa arte da assorbire. Eppure la musica degli spari arriva fino alla scimmia in catene del Walled off. Basta seguire il muro fin quando non piega a destra e attraversare il labirinto di un vecchio cimitero per toccare la quotidianità palestinese, fingersi turisti sperduti e assistere a uno dei momenti dell’apartheid. I blindati avanzano fra le strade – 82 –
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derelitte del campo di Aida, mentre i poliziotti rispondono ai sassi dei bambini con bombe sonore e spari al cielo. Sono una decina, nascosti dietro lo spigolo di una costruzione. Quando i soldati svaniscono e i turisti gli vanno incontro si dileguano sacramentando, potrebbero essere agenti in borghese e un sasso vale anni di galera. Solo per strada si ha accesso alla solitudine di un popolo. “La disoccupazione interessa la metà degli abitanti, e l’UNRWA ha recentemente ceduto parte delle responsabilità amministrative all’autorità di Ramallah. Gli aiuti finanziari sono crollati”, spiega Mohammad, padre di otto, ex-miliziano di Fatah che ha conosciuto la prigione al tempo della Prima Intifada. Domina il silenzio fra le strade del campo profughi di Dheisheh, il più grande fra quelli di Betlemme e a pochi chilometri da Aida. Diciottomila persone in un dedalo di abitazioni spoglie e sovraffollate, concrezioni di cemento che si affastellano dal 1948 e ora crescono solo in verticale. Sui muri i volti serializzati in vernice dei giovani “martiri”. “È inevitabile che i ragazzi attacchino i soldati israeliani. Non è normale che questi rispondano sparando alle ginocchia. Ormai è sistematico, abbiamo almeno 50 casi. Vogliono creare una generazione d’invalidi. Non permetto ai miei figli di partecipare alla guerriglia. Credo che i giovani palestinesi abbiano il compito di trovare altre forme di resistenza, la diplomazia, la cultura, l’arte”, conclude Mohammad. La stessa strategia adottata da Banksy e vissuta in vacanza dai suoi ospiti, ai quali la Palestina non chiede di distruggere o saltare il muro, ma certo di aggirarlo. Luca Foschi WALLED OFF HOTEL Fotografia di © Luca Foschi
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promenade provenzale
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“…mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce” Francesco Petrarca Provenza, eterna primavera. Una perla fin troppo vicina a casa nostra, per questo forse trascurata dagli itinerari di viaggio. Eppure basta partire da Marsiglia per immergersi subito nelle suggestioni di una terra ricca di storia. Paul Cézanne, Vincent Van Gogh, Nostradamus, Francesco Petrarca hanno vissuto qui. Marsiglia, il porto più importante del Mediterraneo, città ricca di sole, abbacinante e arrampicata sul suo golfo. Il porto vecchio è fitto di barche a vela. Nòtre Dame de la Garde, la cattedrale, domina con la statua dorata della Madonna e i suoi 162 metri su livello del mare, nessun altro edificio può superarne l’altezza. Di notte, la Madonna dorata è una presenza che diventa subito consueta e rassicurante. Per il resto, Marsiglia è un misto di kasbah ed eleganza transalpina, creatività mediterranea e romanticismo provenzale; i viali ampi ed eleganti in stile haussmaniano ed i capricci architettonici di Norman Foster, Jean Nouvel, Zaha Hadid e Rudy Ricciotti, a cui si deve il Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo di Marsiglia. Il capolavoro di Norman Foster, invece, è l’Ombrière, sulla passeggiata del porto, punto di incontro per le chiacchiere del tramonto e gli aperitivi nei bistrot che si affacciano sul mare. Collocata in occasione della nomina di Marsiglia a capitale europea della cultura, nel 2013, è una lastra di acciaio inox specchiante retta da sottili colonne circolari. L’impatto ambientale è minimo, da lontano è come vedere uno specchio sottilissimo poggiato sul dorso e rivolto verso il cielo. Un volta arrivati sotto, però, il passante si ritrova riflesso a testa in giù. Risultato: quando ci si cammina sotto, bisogna fare attenzione a non sbattere contro passanti che fissano in alto, incantati o intenti all’immancabile selfie, qui del tutto comprensibile. – 87 –
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È il porto il cuore suggestivo di Marsiglia, dove sotto il sole del mezzogiorno è normale mangiare ricche corbeilles di frutti di mare crudi. Davanti alla città, l’isoletta su cui sorge il Castello d’If, dove Alexandre Dumas ha immaginato che fosse tenuto prigioniero il Conte di Montecristo. Un aneddoto racconta che Dumas, mescolato in incognito a un gruppo di visitatori del castello, ascoltasse il custode che, con aria vagamente cospirativa, mostrava la “vera cella di Edmond Dantès”. La Marsiglia notturna si rivela una delusione: è tutto spento (esigenze di risparmio energetico, spiega la gente del posto); è condannato all’oscurità anche l’imponente Palais Longchamps, capolavoro tardo ottocentesco dell’architetto Henry-Jacques Esperandieu (lo stesso della Cattedrale): due ali colonnate e, al centro, una cascata. Lontano dal centro, strade su tornanti che scavalcano vecchi borghi di pescatori, dove si cucinano ancora ottime bouillabaisses. Avignone: sede del sontuoso e imponente Palazzo dei Papi. Pareti di un blu intenso ottenuto macinando preziosi lapislazzuli, affreschi di una minuzia geometrica da stordimento, scene di caccia o trompel’oeil. Restauro calibrato. Stanze spoglie alternate ad ambienti sontuosi, riccamente decorati. I pavimenti di piccole piastrelle quadrate policrome. Come le preziose finestre. Un flashback sull’opulenza dell’epoca. Il castello, di dimensioni ragguardevoli, rende degnamente l’idea della potenza mondiale detenuta all’epoca dalla corte papale. Oggi, nel cortile interno, ogni estate dal 1947 si svolge il festival di Avignone, raro caso in cui la cornice fa una seria concorrenza al quadro. Arles è romantica, colorata, avvolgente. Qui sorge un edificio dall’ampio porticato e un lussurreggiante giardino interno su cui si affacciano due piani di stanzette. È stato l’ultimo manicomio che ha ospitato Van Gogh, raffigurato anche in una sua opera. Sapere che neanche questa natura rigogliosa riuscì a sedare il suo tormento (si suicidò poco dopo essere stato dimesso) stringe il cuore. Oggi, Arles tributa omaggi all’artista che qui conobbe i suoi – 88 –
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ultimi giorni di follia geniale. Riproduzioni dei suoi quadri sono strategicamente piazzate negli angoli che il tempo non ha quasi mutato. Piazze ariose, deliziosi locali in cui è piacevole sorseggiare una bibita o assaggiare un gelato alla lavanda magari guarnito con i calissons, sottili biscottini di pasta di mandorle. Negozi e vetrine che raccontano un benessere diffuso. Ma la Provenza è anche vestigia romane come la Maison Carrée, un tempio romano in ottime condizioni, nel centro di Nimes, e soprattutto le Pont du Gard. A sentirlo nominare per la prima volta, con toni entusiatici dalla guida locale, uno pensa al solito rudere trionfalmente spacciato per galattico dalla fame turistica transalpina. Poi ci arrivi davanti e no. Non lo è. Tre ordini di archi per 42 metri di altezza, intatto nonostante i suoi duemila anni di storia, è il ponte antico più alto del mondo, nonché l’unico a tre piani ancora esistente. Faceva parte dell’acquedotto che portava l’acqua a Nimes, oggi è un bello schiaffone per l’orgoglio nostrano. Ebbene sì: le testimonianze romane meglio conservate non sono in Italia, ma in Provenza. Anfiteatri dall’acustica perfetta a Nimes, ad Avignone, ad Arles (dove si svolgono – sì, è vero – anche le corride). Ma il Pont Du Gard, più di ogni altra vestigia del tempo antico, merita a buon diritto la categoria di icona pop: più o meno come la statua della Libertà o la Tour Eiffel, è il colosso che facilmente si trasforma in brand (e infatti abbondano pudiche botteghe di souvenir, non eccessive però). I suoi tre ordini di archi vegliano su un fiume affollato di canoe e nuotatori, orlato da sponde di rocce levigate ed erbetta bassa, dove stravaccarsi a prendere il sole o, semplicemente, respirare l’aria tersa in perfetta simbiosi con la natura. Ultima tappa, la Camargue. Bufali che brucano in riva alla palude, seguiti da figure equestri simili ai nostri butteri. Ma, soprattutto, l’anima gitana. Il paesino di Saintes Maries de la Mer, infatti, è il paese degli zingari. È consacrato alle due Marie e a Santa Sara, protettrice dei gitani che la festeggiano a fine maggio. Casette bianche, luce abbacinante e vento salmastro. Nella cattedrale, – 89 –
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parete coperta da ex voto. Nella cripta, Santa Sara, raffigurata di carnagione scura: secondo i vangeli apocrifi, Assar era una schiava egizia convertita al cristianesimo. Liberandosi con una certa fatica dall’invadenza degli zingari – sarà pure la loro patria, ma anche qui devono sbarcare il lunario chiedendo l’elemosina in strada – si osserva l’incredibile kitsch che trasuda dalle gioiellerie della Camargue. Oro zingaro e rame. Resta nella memoria l’inebriante sensazione di respirare aria pura in ogni angolo; la sagoma rassicurante del “Mont Ventoux” la cui ascesa Petrarca descrive, nel 1336, in una famosa lettera al frate Dionigi di Borgo San Sepolcro; le piantagioni di lavanda, gli ulivi dipinti dall’irrequieto Van Gogh e quella luce che ha ispirato artisti, viaggiatori, marinai. Anna Paola Ricci
Fotografia di © Bianca Laura Petretto
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an ode to washington d.c. – 92 –
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Washington, D.C. is a city under siege. It’s under constant attack by politicians, the media, and everyone who wants to complain about national or global politics. For every problem, the culprit is always the same: Washington. How unfair to reduce a city of such immense beauty, rich history, and complex social reality to a scapegoat. D.C. is a lot more than the White House and the Capitol, neither of which is run by locals. It’s a city where civic engagement is the norm, where knowledge is revered, and where dinner conversations become passionate debates. It’s flawed and full of problems, but indifference is forbidden. It’s also a place where people dance, sing, run, and chase dreams. But it’s not New York, nor does it want to be. The District is its own delicious monster with its never-ending drum circle at Meridian Hill, mouth-watering Ethiopian food, and treasure trove of Latin grocery stores in Mount Pleasant. D.C. is special because it doesn’t quite make sense. The Black Cat and its tattooed, green-haired regulars revel in their collective cigarette-soaked 90s aura right next to Masa 14 and its pastelclad, boatshoe-sporting clientele. They don’t hold hands and sing kumbaya but, then again, they don’t have to. But some people do hold hands, even when they shouldn’t. There are stories of square-jawed defense officials falling for dark-haired, green-eyed South American diplomats only to have Uncle Sam kill their romance in the name of national security. What strange bedfellows love and state secrets make. From Georgetown to Anacostia, contrasts give birth to unexpected beauty. Mysterious hidden alleys intersect majestic Haussmanian avenues, while African diplomats in fancy German cars seek their place within the city’s African-American soul. Construction workers who make 13 dollars per hour eat pupusas at Judy’s restaurant next to congressional staffers who make 10, all on the same street where low-income housing complexes share a sidewalk with sparkling condominium developments. Race and class relations are strange in this town. Love is even weirder. Tension and harmony dance carelessly into the night as the sun sets behind the National Cathedral. Pablo Echeverri Montoya – 93 –
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A SUBWAY SCENE
Fotografia di © Elin Jakobsson
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© gigirigamonti
CHAPTER 5 PATAATAP
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il giardino sonoro di sciola – 98 –
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IL CANTO DELLA PIETRA La pietra parla. E canta. Victor Hugo fa cantare i muri di Notre Dame: un suono sinistro, profondo come una segreta, angelico e demoniaco. Egon Schiele fa cantare i tetti delle case: un lamento, un dolore, la disperazione. Le rocce dei fiamminghi hanno urlato nella tempesta. William Turner ha cercato la voce del mare. Sulle montagne si sono issate generazioni di pittori. Non c’è nulla di inanimato nel mondo inorganico. Semplicemente, il suono è nascosto. Custodito. Servono mani abili per strapparlo alla terra. La scultura è un tramite, il tesoro esiste già. C’è chi ha dedicato un’intera vita a questo compito: estrarre una divinità che dorme. Pinuccio Sciola in fondo non ha pensato all’arte. Si considerava una levatrice. La terra è madre e partorisce senza sosta. I figli nascono da matasse informi, apparentemente dure, ma perfette. È un lavoro estremo districare i fili sotterranei, ma quando, e se, ci riesci, quei rami rigidi portati alla luce sono corde che vibrano. Suonano. Cantano. E non per sé: solo per chi ascolta. Ogni concerto è diverso, personale. Le sinfonie sono infinite, inimitabili. Ma hanno una stessa matrice. Quanto di più fecondo per esprimere la maternità, non ci sono primogeniture. Nessuna concorrenza. Chi vuole, può chiamarla pace. Il giardino sonoro di San Sperate, paese della Sardegna, dove Sciola è nato e vissuto, è un esperimento che l’arte regala alla speranza. Ma questa è un’idea che sorge alla fine del viaggio. Prima bisogna passeggiare sul verde, tra le margherite, scoprendo una per una quelle creature che non hanno sangue ma covano ugualmente la vita. Un esercito di pietra. Tagliata, intaccata, segata, ma sempre rispettata. Piccolo o grande, blocco o cattedrale, ogni pezzo è un canto, il giardino è sinfonia. Se tutti i visitatori, nello stesso istante, lasciassero scivolare le dita su quelle pietre si comporrebbe un concerto che nessun uomo potrebbe inventare. E in un altro istante, con un’altra moltitudine, sarebbe un secondo incomparabile concerto. Il museo di San Sperate, a sua volta paese museo, è tutto questo. E non va raccontato, ma vissuto. Pinuccio – 99 –
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Sciola non c’è più, ma la sua opera non finisce. Destino dell’arte, certo, ma poiché la pietra era il materiale di Sciola, e la pietra è prima e dopo, non ci sarà mai una data di chiusura. Il museo di pietra, seppure venisse sconvolto, resterebbe attaccato alla pietra, magari disseminato nel mondo, terra su terra, a dispetto di tutto. Il basalto col suo suono profondo, il calcare con l’armonia che arriva dall’acqua, il granito con i suoi diversi minerali, la trachite con la sua “memoria” storica, tanto più in quest’isola, possono essere elastici e trasparenti. Strumenti musicali con piccoli tocchi. Fessure, pertugi, squarci calcolati, la mano di Sciola ha aperto la pietra, ha messo a nudo le sue viscere, ha sezionato, ma non ha offeso. C’era una voce che voleva uscire. Si pensava fosse solo rumore. Invece è suono. E cioè emozione, e alla fine pensiero. Ognuno è suonatore, strumentista, compositore. Questo è il lascito. Eredità d’arte, eredità sociale. Di pace, appunto. Le pietre sono strumenti ma prima ancora semi. E di semi Pinuccio ne ha estratti tanti, aprendoli come si apre un guscio. Li ha portati dovunque, li ha sempre mostrati ai visitatori nella sua casa. Le sue pietre hanno viaggiato e non a caso, ad Assisi e a Roma, dove si possono trovare assieme spiritualità e politica. Il messaggio era sempre lo stesso. Resta sempre lo stesso. Oggi più che mai, in un globo di terra che resta a guardare imprese assurde. Terra attonita, pietra avvilita, direbbe il poeta. R.C.
IL GIARDINO SONORO DI PINUCCIO SCIOLA Fotografie di © Bianca Laura Petretto
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SCIOLANDOT Anticlassica. Intimamente barocca, primordiale, derivante da trippe esistenziali, e non da modelli costituiti. Così Philippe Daverio descrisse l’arte dell’amico Pinuccio Sciola, quando tre anni fa, giugno 2014, venne al Teatro Lirico di Cagliari a parlare davanti a milleduecento spettatori della Turandot messa in scena dallo scultore. «Sono un impiegato statale con una cattedra universitaria di design», si presentò, papillon, giacca a quadri, pantaloni, gilè e scarpe di un improbabile celeste. Assiso sul trono di finto basalto costruito per l’imperatore Altoum, parlò a lungo dell’artista di San Sperate, prima di fargli un posticino accanto a sé. Sciola, che era seduto in prima fila, salì sul palcoscenico: camicia azzurra, jeans, e l’aria impacciata che spesso lo accompagnava. L’avrebbe persa pochi giorni più tardi, dopo la trionfale accoglienza del debutto, quando il Lirico divenne la sua casa. Quattordici recite, e lui sempre presente, e pronto a salire sul palco, a prendersi gli applausi che accolsero il memorabile allestimento, riproposto quest’anno in suo omaggio, e ancora emozionante. Con quei bianchi monoliti di una Pechino nebbiosa e fuori dal tempo che nel terzo atto restituiscono livide atmosfere alla Blade Runner, e ci dicono, così aerei, così diversi dalle antiche mura degli atti precedenti, che il cuore della principessa di gelo si sta sciogliendo. E dire che erano in molti a dubitare della riuscita dell’accoppiamento Sciola-Turandot. Non Mauro Meli, sovrintendente del Lirico, che ebbe l’idea di affidare allo scultore la scenografia. Non lui, che si buttò subito nell’impresa. Era la prima volta che si cimentava con un lavoro teatrale di queste proporzioni, anche se amava dire che in qualche modo era sempre stato scenografo delle sue installazioni. Citava con orgoglio un lontano lavoro al Goldoni di Venezia, per la Biennale Teatro, le sue frequentazioni con il mondo della musica, da Luigi Pestalozza a Gastone Mariani, a Moni Ovadia. Ma lavorare a Cagliari, al Lirico, era per lui un sogno realizzato. Invitò il regista – 124 –
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Pier Francesco Maestrini a casa sua, a San Sperate, e trovarono subito un’intesa straordinaria. «Faremo cose che non vi aspettate», diceva agli amici in quelle settimane precedenti al debutto. E pochi giorni prima, mentre si aggirava nei laboratori scenici del Lirico: «Vorrei abbracciare il pubblico con le mie pietre, avvolgerlo sin dall’ingresso in teatro». «Questo è il luogo in cui le idee si concretizzano», diceva in una sorta di esaltazione febbrile, mentre percorreva gli immensi spazi dei laboratori. «Qualsiasi scenografia fa parte del contesto urbano, della produzione culturale di una città. La gente deve sentire l’emozione di questo lavoro. Il compito dell’artista è questo, creare emozioni, mica raccontare storielle. Questa Turandot è una meravigliosa opera corale, monumentale». Citava spesso Simon Corder, autore delle luci, mentre si aggirava da una sala all’altra, mostrando le sue pietre di finto basalto, di finto calcare. «Gli ho detto che trent’anni fa qui venne Svoboda con la sua Traviata». Sorrideva Sciola, mentre esibiva le picche di Gaudì, le maschere di polistirolo alte un metro e cinquanta che dovevano scendere dall’alto, a indicare le vittime dell’algida principessa, le mura color sabbia della città proibita e poi quei monoliti accecanti della scena finale. «L’arte deve turbare, questo bianco è il colore del lutto e della perfidia. Io voglio che il pubblico lo senta». Mostrava il trono in polistirolo, garzato, indurito e sfiammato per ottenere l’effetto brunito del basalto. E pensava a come far debordare dal palcoscenico quelle pietre. Avrebbe voluto invadere il teatro, per abbracciare tutto e tutti, «ma i vigili del fuoco non lo permettono». Così si accontentò di quel grattacielo che ancora oggi domina il foyer del Lirico. La persistenza della memoria ha avuto vita più breve nell’altro grattacielo, quello che annunciava l’ingresso nel teatro di via San’Alenixedda. Troppo pericoloso, e troppo pesante, nonostante fosse finto, è stato eliminato. Come troppo rischioso sarebbe stato realizzare il sogno di Sciola, la sorpresa di cui parlava sottovoce: lui che entrava in scena, alla fine di tutto, e accarezzava una pietra sonora, stavolta vera, per la piccola Liù. Non fu possibile. Si consolò seguendo tutte le recite, – 125 –
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per raccogliere gli applausi del pubblico, e suonare idealmente le sue pietre. Protagonista assoluto, onnipresente, e insieme pronto a riconoscere l’importanza del lavoro di squadra, Pinuccio Sciola era innamorato di tutti gli artisti dei laboratori che avevano lavorato con lui, a quella straordinaria impresa, e li citava uno a uno. «Bisognerebbe parlare più di loro». Lo fece anche quella sera, nel presentare l’allestimento insieme con l’amico critico. L’impiegato statale più charmant d’Italia lo guardò ammirato, e poi continuò nella sua lode. «Pinuccio va a cercare energia nella terra. Ha un legame con il magma, un dialogo costante. Lui non lo sa, ma è un pitagorico. Pitagora è stato il primo pensatore a reputare che l’equilibrio degli astri, della materia e dei numeri abbiano una corrispondenza, un’armonia. Ecco, Sciola ha trovato a suo modo l’armonia, cercando la capacità che ha la pietra di trovare la memoria della musica». Parlò della fusione armonica delle arti, del Seicento, della sorpresa come chiave di ogni forma di comunicazione. «Siamo il paese del Barocco perenne, a volte ci va bene, altre no». E proseguì nella sua trascinante galoppata, fino ad arrivare alla nascita della modernità, che racchiuse in un anno, 1913, e in un incontro, quello tra Jean Cocteau e il grande coreografo-ballerino Nijinsky. «Un provinciale che incontra il ragazzo più famoso del mondo. “Come faccio ad avere successo?”, gli chiede. E il russo: “Etonne moi. Sorprendimi”. Qui sta la modernità. Tutto nasce da questo grande bisogno della sorpresa». E allora, che cosa c’è di più sorprendente del binomio SciolaTurandot? «Essere riusciti a combinare un percorso come quello dello scultore anticlassico con l’ultima opera dell’avanguardia realista del Novecento è un miracolo. Le scene di Sciola e la musica di Puccini ci insegnano che la modernità si inventa ogni giorno». Lo scultore lo ascoltava, orgoglioso e felice. «Il Teatro Lirico mi ha dato un trono su cui sedermi», disse compiaciuto al termine della presentazione. Di quella mirabile avventura e delle altre che già – 128 –
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immaginava, riempì i mesi successivi. Lo scultore che si vantava di essere nato col mondo, e non parlava mai di morte, sognava, dopo la sua Sciolandot, di mettere in scena un’altra opera: pensava, ancora timidamente, a un’Aida, nella quale far convivere piramidi e nuraghi, trippe esistenziali e maraviglie. Maria Paola Masala
SCIOLANDOT
Fotografie di © Daniela Zedda
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CHAPTER 6 SWALLOW
SWALLOW
le tentazioni della nudità – 134 –
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L’ACQUA DEL BUDDHA Nella cucina, l’unica vera nudità è la purezza. Quella che nella nostra mente non esiste, quella che tentiamo di creare nell’arte. Quella visione della materia che, prima di tutto, ci liberi dai nostri peccati. Che non c’induca in tentazione. Ma il problema, tra i fornelli, non risiede mai nel cuore o nella mente. Sta nella lingua e nel palato. Gli occidentali distinguono quattro gusti, gli orientali (dicono) cinque: al dolce, al salato, all’amaro e all’aspro s’aggiungerebbe l’umami. Qualunque cosa sia, lasciamolo a loro, almeno per ora. Mi sono occupato soltanto di quattro tentazioni. Il salato è forse il primo gusto a nascere nella coscienza, perché l’uomo non può vivere senza sodio. Il dolce ci salva dalla morte per inedia milioni di volte, indicandoci che, in natura, dove c’è zucchero c’è anche buon cibo per noi. L’amaro ci avverte dei pericoli e, se non lo temiamo, c’indica la medicina che guarisce. L’aspro c’insegna che la vita è fatta di dolori e dispiaceri, dischiudendoci il cuore alla malinconia dopo la scossa della disillusione. Ecco, sono questi i veli che mi separano dalla nudità più vera. Ho combattuto il salato annientando la vita, che sta nelle cellule che affrontano gli anni. L’ho rinnegato cancellando ricordi, sogni, passioni, fluidificandomi nel corso incontrollato dell’età. Quanto dimostro, dentro? Come tengo il conto dei giorni, se mi vanifico? Quando il sale dell’esistenza scompare, i numeri perdono d’efficacia e le forme si annebbiano in una quotidianità insistente e monotona, privandomi anche di questa tentazione. La tentazione di percepire un senso. Ho annientato il dolce osservandomi pensare e pensare e pensare a ogni azione, a ogni passo, a ogni sospiro, a ogni peccato che mi si poneva davanti, martoriandomi con il cilicio della colpa ogni volta che potevo, ogni volta che godevo anche di un respiro o di una dimenticanza. Così il mondo ha infine cominciato a perdere stupore. Mentre l’universo dimenticava le sue dimensioni e si squadernava uguale e insistente come un sipario inutile di pioggia, ho tagliato il capo anche a questa tentazione. La tentazione del – 135 –
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piacere. Ho raggirato l’amaro impedendomi di guarire. Ho coltivato la malattia mia e degli altri attraverso pudori e giustificazioni. Ho ammassato aggettivi, sostantivi, predicati e interiezioni per perdermi nel labirinto dell’affanno, della disattenzione. Ho bloccato il cuore, i reni, ogni organo vitale dentro di me, in attesa di un farmaco che non sarebbe arrivato mai, mai sarebbe arrivato per tempo. Ma il tempo dell’attesa sarebbe stato infinito, E così, con la scusa di attendere il domani, ho disgregato anche la mia terza tentazione, quella dell’azione. L’aspro è stata la battaglia più dura, perché è il sapore del disinganno. E di disinganni, la vita, ne offre tanti, tutti utili per distruggere le precedenti tentazioni. Così l’ho aggirato, nutrendomi di sogni e fantasie a cui per primo non credevo. Fermandomi davanti a ciascuno di essi e cristallizzandolo nel tempo, illudendomi di volta in volta di percepire un senso, di provare un piacere, di agire finalmente per salvarmi e salvarci tutti. Ma non era vero nulla. Ho spezzato l’asprezza della vita sognando, vanificando anche l’ultima tentazione, quella della disillusione. Ora sono nudo davanti al mondo e la mia purezza è pari a quella di un’acqua tersa e insapore che esiste e non esiste, tra la consistenza e l’immaterialità, in bilico fra due mondi. Poiché la purezza dal peccato di vivere è l’unica nudità concepibile. Pura come l’acqua scaturita da una sorgente mistica e insensibile. Privata di ogni gusto, la nudità che voleva l’arte è qui: mai tentazione, né presenza, né assenza, ma unica umana scelta possibile. E davanti al suo bivio finalmente mi presento, per capire se è meglio il nulla o il desiderio del tutto. Giorgio Giorgetti
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