DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE
Anno XVII - n. 96 - € 3,50 Novembre / Dicembre 2010
DCOOS5458 GIPA/LO/CONV/028/2010
PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it
Editoriale
Lavoriamo per un’
Ais
sempre più forte
di Antonello Maietta a pochi giorni si è concluso l’iter che ogni quattro anni conduce l’Ais al rinnovo dei vertici associativi, iniziato in primavera con l’elezione dei Presidenti regionali. Grazie al voto unanime del Consiglio Nazionale, espressione delle singole realtà territoriali, avrò il compito di guidare un gruppo di colleghi di provata affidabilità e competenza, con cui da tempo condivido sentimenti di stima e amicizia. Ma il vero privilegio, di cui tutti ci sentiamo onorati, sarà quello di rappresentare, in Italia e all’estero, una Associazione dinamica e professionale, a cui l’intero mondo del vino guarda con simpatia e attenzione. Ci aspettano sfide significative in un momento difficile per il settore. Abbiamo bisogno del consolidamento e dell’affermazione generalizzata delle nostre eccellenze. Quindi, cari amici, serriamo le fila per presentarci come un interlocutore forte e coeso, recuperiamo tutti assieme quell’orgoglio di appartenenza a una comunità estesa ben oltre i confini nazionali, che in 45 anni di vita ha fatto sempre il proprio dovere per promuovere il vino di qualità, facendo crescere generazioni di professionisti e di appassionati. Saremo impegnati in una campagna di fidelizzazione del
D
L Renato Paglia, Terenzio Medri, Antonello Maietta e Roberto Bellini
socio attraverso una “tessera pesante”, da esibire con ambizione, che consentirà di beneficiare di agevolazioni esclusive. Azioneremo con efficacia le leve della comunicazione, per dare risalto ai grandi eventi che periodicamente prendono vita nei nostri territori. Un occhio attento sarà rivolto alla formazione e alla didattica, vero fiore all’occhiello dell’Ais, per mettere a disposizione di tutti il nostro innegabile patrimonio di conoscenza. Non nascondo la nostra emozione per le numerosissime attestazioni di stima e di incitamento che da più parti stiamo ricevendo; siamo lusingati nel constatare tangibilmente l’attaccamento a questa nostra Associazione. La percezione del vostro affetto ci accompagnerà quotidianamente e sarà determinante nell’infondere forza, energia ed entusiasmo alle nostre azioni. Vi chiediamo di rimanere al nostro fianco nei prossimi quattro anni e di non farci mai mancare il vostro sostegno e una critica costruttiva; da parte nostra ci impegniamo a onorare il mandato ricevuto con serietà, dedizione e spirito associativo. A voi tutti dedichiamo il nostro brindisi più speciale per le imminenti festività, con l’augurio di poterlo condividere con le persone che più vi sono care. 3
AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Antonello Maietta Vicepresidenti | Renato Paglia, Roberto Bellini Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Antonello Maietta, Renato Paglia, Cristiano Cini, Luca Panunzio, Gabriele Ricci Alunni, Marco Starace, Roberto Bellini, Mauro Carosso, Giorgio Rinaldi
La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVII novembre-dicembre 2010 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, terenzio.medri@sommeliersonline.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Top Communication Sas topcommunicationsas@live.it Tel. +39 392/8289316 Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Ennio Baccianella, Fabio Brioschi, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo Castaldi, Pinuccio Del Menico, Elisa della Barba, Piermaurizio Di Rienzo, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Paolo Giarrusso, Maddalena Giuffrida, Emanuele Lavizzari, Michela Lugli, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Fulvio Piccinino, Paolo Pirovano, Annalisa Raduano, Gabriele Ricci Alunni, Luigi Salvo, Ludovica Schiaroli, Gianluigi Zanovello, Paolo Zatta, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais Per l’articolo a firma di Alessandro Franceschini foto gentilmente concesse dal Consorzio di Tutela Vini Oltrepò Pavese Per l’articolo a firma di Annalisa Raduano foto di Nevio Diaz e Francesco Galifi Per l’articolo a firma di Ludovica Schiaroli foto di Beppe Cumbo Per l’articolo a firma di Riccardo Castaldi foto dello stesso autore Per l’articolo alle pagine 90-91 su Piero Lugano foto di Giuliano Cavallino Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 45,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 09-11-2010 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000
AIS 2011
Rinnovo quota associativa 2011 È possibile rinnovare l’iscrizione nei seguenti modi: Internet basta collegarsi al sito www.sommelier.it, cliccare su “Rinnovi Online” e seguire le istruzioni per effettuare il pagamento tramite Carta di Credito (escluso Diners Card).
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c/c postale n. 58623208 intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9, 20125 Milano”, indicare nella causale “Quota associativa 2011”. Bonifico presso Banco Posta intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX).
Bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano” intestato ad “Associazione Italiana Sommeliers” codice IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) La quota associativa è di 80 euro e comprende l’abbonamento annuo alla rivista ufficiale AIS e alla Guida Duemilavini edizione 2012.
Il saluto
Grazie
a tutti voi
di Terenzio Medri per me doveroso iniziare con un “grazie” a voi tutti, alla grande famiglia dell’Ais che ho avuto l’onore di guidare per otto anni, dal 2002 fino all’inizio di novembre. Otto anni che mi hanno arricchito professionalmente e umanamente. Uno straordinario viaggio attraverso i territori italiani del vino, a stretto contatto con i sommelier, i dirigenti, i produttori. A servizio dell’associazione, della sua unità e del suo sviluppo. Lascio un’Ais unita e forte. Unita grazie a una organizzazione che ha imparato a valorizzare le realtà regionali con la riforma statutaria del 2003 sull’autonomia (un federalismo “ante litteram”) e, al tempo stesso, a integrarle in un progetto comune di respiro nazionale. Forte, cioè autorevole, ascoltata, accreditata presso i produttori vitivinicoli, presso gli attori della filiera commerciale che da essi ha origine – enoteche, ristoranti, alberghi – e presso le istituzioni pubbliche. Forte perché solida economicamente, con un bilancio sano, in attivo, che consente, grazie a un strategia bene impostata, di programmare gli investimenti futuri in idee e progetti. E con la nuova sede, di cui abbiamo completato l’acquisto. Molto c’è ancora da fare, ma la strada è tracciata. Si può procedere spediti. In buona compagnia, con le altre associazioni del settore enogastronomico, con i centri di alta formazione e le università. La meta è certa: la
È
L Terenzio Medri insieme ai suoi familiari e a Luca Gardini, Miglior Sommelier del Mondo
presenza diffusa dell’Ais a livello mondiale. Desidero qui ringraziare i responsabili della formazione Ais che hanno saputo preparare professionisti che tutti ci invidiano con una didattica di alto profilo, moderna e aggiornata, della quale sono chiaro esempio i tre livelli corsuali e la nuova manualistica, già tradotta in diverse lingue. Abbiamo realizzato insieme una grande operazione culturale che ha radicalmente trasformato la figura del sommelier, posizionandolo come comunicatore esperto del mondo del vino e, oltre, delle eccellenze enogastronomiche italiane, del “made in Italy” agroalimentare. Continuerò come sommelier asso-
ciato a seguirvi e a sostenervi. Mi attendono nuovi e importanti impegni nel turismo e nell’associazionismo imprenditoriale della mia regione, nei quali porterò il patrimonio umano e professionale di questi otto anni che mi rimarranno nel cuore indimenticabili come gli otto minuti di applausi dopo la mia relazione al Congresso nazionale di Perugia. Per concludere, oltre ad augurare a tutti voi buon Natale e felice 2011, voglio rivolgere un grazie anche a mia moglie Luciana, a mia figlia Barbara e al suo compagno Mario che aiutandomi nell’attività di albergatore, mi hanno consentito di dedicare il tempo all’associazione. Senza di loro non ce l’avrei fatta. 5
Sommario
Novembre / Dicembre 2010
La nostra squadra
8 I
NUOVI ORGANI DIRETTIVI DELL’AIS
Il cuore dell’Umbria
12 SI
È SVOLTO A
PERUGIA
PERCHÉ L’ITALIA
Sul tetto del mondo
LUCA GARDINI
DEGUSTAZIONE
VOCAZIONE SPUMANTISTICA DELL’OTREPÒ
VIGNETI
IN LAGUNA A
VENEZIA
Le radici della Sicilia
42 FARO,
PAVESE
L’uva della Serenissima
38
UNA
46 ADAGIO POPOLARE!
DELLE BOLLICINE ALTOATESINE
Effervescenza con sfumature rosé
30 LA
VINCE IL TITOLO IRIDATO
I tesori del Südtirol
26
RECITA UN ANTICO
NON RIESCE A FARE SISTEMA?
VINI UMBRI DA RICORDARE
20
LA NEVE C’È IL PANE”,
NAZIONALE
Sorsi di storia
16
“SOTTO
44.MO CONGRESSO
Produttori e strategie comuni
14
I
IL
RISORSE
DOC
DA RISCOPRIRE
La forza delle cooperative E QUALITÀ PER VALORIZZARE IL TERRITORIO
La salute in un bicchiere
52 IL
VINO, RIMEDIO CURATIVO FIN DALL’ANTICHITÀ
Viticoltura nel rispetto dell’ambiente
56 IL
SUCCESSO DELLA
Herzlich willkommen!
62
PAESAGGI
All’interno
48 60 68 70 72 84 88 97 98
GERMANIA
TRADIZIONE DELLA LIQUORISTICA PIEMONTESE
Miti e culture del passato
78 IL
E SAPORI DELLA
Profumi di erbe antiche
74 LA
NUOVA ZELANDA
VINO NELL’ANTICA
Musei
GLI
GRECIA
AROMI E LA STORIA DEL CAFFÈ
Mappamondo Olio
SI
Birra
IN SVIZZERA
ALLA SCOPERTA DEL
VALLESE
CONSUMA MA SENZA CONOSCERLO
UN
ARTIGIANO DEL
Distillati
LE
Viticoltura Curiosità
SALENTO
SUPERBE GRAPPE DEL
I
VINI DELL’ABBAZIA DI
BRINDISI
Sullo scaffale Io non ci sto!
AI
LE
50
TRENTINO NOVACELLA
ANNI DELLE
FRECCE TRICOLORI
NOVITÀ EDITORIALI
IN ITALIA C’È
ANCORA BISOGNO DI VITIGNI
“MIGLIORATIVI”?
Elezioni Ais
I nuovi organi direttivi
CONSIGLIO NAZIONALE eletto il 27 Ottobre 2010
GIUNTA ESECUTIVA NAZIONALE eletta l’8 novembre 2010
Sommelier Professionisti Luca Castelletti Cristiano Cini Antonello Maietta Renato Paglia Luca Panunzio Gabriele Ricci Alunni Marco Starace Leonardo Taddei
Sommelier Professionisti Presidente: Antonello Maietta Vice Presidente: Renato Paglia Cristiano Cini Luca Panunzio Gabriele Ricci Alunni Marco Starace
Sommelier Roberto Bellini Mauro Carosso Aldo Corrado Giorgio Rinaldi
8
Sommelier Vice Presidente: Roberto Bellini Mauro Carosso Giorgio Rinaldi
COLLEGIO REVISORI DEI CONTI Roberto Armelisasso (Presidente) Guido Guetta Giovanni Luchetti
IL CONSIGLIO NAZIONALE
Antonello Maietta - Presidente
Renato Paglia - Vice Presidente
Roberto Bellini - Vicepresidente
Luca Castelletti
Cristiano Cini
Luca Panunzio
Gabriele Ricci Alunni
Marco Starace
Leonardo Taddei
Mauro Carosso
Aldo Corrado
Giorgio Rinaldi 9
Elezioni Ais
Presidenti Associazioni Regionali Consiglieri di diritto
VALLE D’AOSTA Moreno Rossin
PIEMONTE Fabio Gallo
LOMBARDIA Fiorenzo Detti
VENETO Dino Marchi
TRENTINO Mariano Francesconi
ALTO ADIGE Christine Mayr
FRIULI VENEZIA GIULIA Renzo Zorzi
LIGURIA Alex Molinari
EMILIA Quirino Raffaele Piccirilli
ROMAGNA Gian Carlo Mondini
TOSCANA Osvaldo Baroncelli
UMBRIA Sandro Camilli
MARCHE Domenico Balducci
LAZIO Franco Ricci
ABRUZZO Gaudenzio D’Angelo
MOLISE Giovanna Di Pietro
CAMPANIA Nicoletta Gargiulo
PUGLIA Vito Sante Cecere
CALABRIA Gennaro Convertini
BASILICATA Vito Giuseppe D’Angelo
10
SICILIA Camillo Privitera
SARDEGNA Giuseppina Pilloni
GRAN BRETAGNA Andrea Rinaldi
Collegio dei Revisori dei Conti
Roberto Armelisasso
Giovanni Luchetti
Guido Guetta
Congresso Ais
Il
cuore nobile
Umbria
dell’ conquista i
sommelier
di Ennio Baccianella
IL 44° CONGRESSO NAZIONALE DELL’AIS A PERUGIA È STATO L’OCCASIONE PER APPREZZARE I VINI LOCALI E PRESENTARE NUOVE INIZIATIVE PER IL RILANCIO SUI MERCATI NAZIONALI ED ESTERI DELLE ECCELLENZE UMBRE
12
i è concluso con una standing ovation il 44° Congresso dell’Ais tenutosi all’Hotel Brufani di Perugia. Il presidente dell’Ais Umbria, Gabriele Ricci Alunni, presentando l’evento, ha sottolineato come il lavoro dei sommelier abbia favorito la conoscenza e la valorizzazione delle eccellenze enologiche e del territorio. Per la prima volta sono arrivati importatori provenienti dalla Germania e dal Regno Unito che hanno visitato l’Umbria e, guidati dalla delegata dell’Ais della Germania del Nord, Sofia Biancolin, hanno potuto apprezzare le produzioni di alcune aziende regionali e partecipare alle degustazioni in programma. Cuore della manifestazione è stato il concorso “Miglior Sommelier d’Italia-Premio Franciacorta”, che
S
si è svolto al Teatro Pavone. Quindici i sommelier professionisti in gara. A vincere il titolo è stato Nicola Bonera, classe 1979, bresciano, miglior sommelier di Lombardia nel 2002 e master del Sangiovese nel 2006, che lavora come wine consultant per diversi ristoranti ed enoteche. «Questa vittoria significa il coronamento di un sogno, contatti, autostima, maggiore convinzione ma soprattutto soddisfazione personale. Ero contento anche le due volte in cui sono arrivato secondo ma questo è qualcosa in più» ha dichiarato Bonera a fine concorso. Bonera ha preceduto gli altri due finalisti, il toscano Gabriele Del Carlo, sommelier del Four Seasons Hotel George V di Parigi e Niccolò Baù, campione veneto lo scorso anno. L’Happy Hour 61, aperitivo di benvenuto offerto ai congressisti e alla città di Perugia dall’Azienda Guido Berlucchi, ha riscosso il previsto successo, coinvolgendo il centro della città in un evento unico, sulle note della musica degli anni Settanta. Il gran galà di benvenuto all’Egizia Dancing di Deruta è stata invece l’occasione per apprezzare i vini della Strada del Cantico e i cioccolatini preparati dal mastro cioccolatiere Alberto Farinelli della scuola del cioccolato Perugina, ma anche per applaudire i vincitori del Premio “Bonaventura Maschio – La ricerca dell’eccellenza”. Palazzo dei Priori e la splendida Sala
dei Notari hanno accolto l’apertura ufficiale del 44° Congresso nazionale e la tavola rotonda sul tema “Perché l’Italia del vino non riesce a fare sistema?”. Renzo Cotarella, Gianni Zonin, Vinzia Novara, Maurizio Zanella, Franco Maria Ricci, Marco Caprai e Pompeo Farchioni stimolati e provocati dal giornalista Rai (umbro Doc) Lamberto Sposini hanno affrontato l’argomento, analizzandolo sotto vari punti di vista. Franco Zonin ha affermato che con l’entrata in vigore del nuovo codice della strada, che a suo parere demonizza il gusto del bere, il consumo procapite è sceso di 3,4 litri. «Bisogna unire le forze ma soprattutto la politica deve assumere un ruolo centrale, da mediatrice, deve mettere ordine e farsi carico di un progetto comune» ha affermato Pompeo Farchioni. Marco Caprai ha sottolineato come manchi un “progetto vino” e Vinzia Novara (Cantine Firriato), raccontando l’esperienza siciliana, ha suggerito di partire dal territorio per unire i diversi interessi dei produttori e fare parte di un’unica squadra. Renzo Cotarella si è dimostrato più pessimista: «Fare squadra è un bel progetto ma è difficile da realizzare a causa delle numerose divergenze di interessi». Franco Maria Ricci ha ribadito invece il ruolo di educatore del sommelier contro la cultura dell’assaggio, poiché a suo dire è una forma di spreco che non porta nulla di positivo alle cantine. * A conclusione è stato presentato un nuovo progetto: il MOT, acronimo che sta per Montefalco - Orvieto Torgiano. I sindaci di questi tre importanti comuni umbri hanno firmano un protocollo d’intenti per rilanciare un progetto unitario sul vino, iniziando con il “MOT Day”, prima tappa a Torgiano. Ancora un momento suggestivo al complesso monumentale di Santa Giuliana, in compagnia de “La Notte delle Stelle”. Gli chef stellati umbri Marco Bistarelli del ristorante Il Postale e Marco Gubbiotti del ristorante La Bastiglia hanno interpretato un menù stellato unitamente ai vini del Consorzio di Montefalco. Durante la serata la vicepresiden-
te regionale Margherita Pierini ha consegnato a Gabriele Ricci Alunni, giunto al termine del suo mandato da presidente dell’Ais dell’Umbria, una targa per ringraziarlo dell’attività svolta in otto anni, dedicati alla crescita culturale e professionale dell’associazione e alla valorizzazione dei vini umbri. Vini che sono stati giustamente al centro della degustazione “I vini che hanno fatto la storia dell’Umbria”. Nella sala allestita per l’occasione all’Hotel Brufani Palace nel centro della città sono state presentate annate storiche di alcuni vini, che hanno portato la propria qualità a rimanere per sempre scritta nella storia enologica d’Italia e mondiale. Un successo oltre ogni previsione con oltre un centinaio di presenze. I vini in degustazione sono stati: Orvieto Classico Superiore “Campo del Guardiano” anno 1998 Cantina Palazzone, “Cervaro della Sala” anno 1991 Castello della Sala Cantina Antinori, “Campoleone” anno 1999 Cantina Lamborghini, “Rubino” anno 1997 Cantina La Palazzola, “Rosso d’Arquata” anno 1994 Azienda Agricola Adanti, Torgiano Rosso Riserva “Vigna Monticchio” anno 1982 Cantina Lungarotti, “Sagrantino di Montefalco 25 anni” anno 1995 Cantina Arnaldo Caprai e “Calcaia” anno 1994 Cantine Barberani.
L I vincitori del Premio Bonaventura Maschio, Pietro Caravello, Sabrina Somigli e Marco Catapano con Andrea Maschio
L Gabriele Ricci Alunni, presidente uscente di Ais Umbria M Gabriele Del Carlo, Nicola Bonera e Niccolò Baù, i tre finalisti del Premio Franciacorta
* I contenuti della tavola rotonda sono approfonditi nell’articolo successivo
L Gli importatori esteri presenti al Congresso
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Congresso Ais
I
pro ei
contro
del fare
squadra
di Pinuccio Del Menico
NEL
CORSO DELLA
TAVOLA ROTONDA I RELATORI HANNO DISCUSSO
SULL’IMPORTANZA DI CREARE UN
“SISTEMA
VINO” CHE POSSA
RILANCIARE IL MADE IN
ITALY
ENOLOGICO NEL MONDO
14
siste un problema atavico che deriva da una non voglia di stare insieme. E così l’Ais si propone come testimone di un patto ideale per creare una squadra del vino con i produttori». Franco Maria Ricci ha così aperto il convegno tenutosi nella fantastica Sala dei Notari di Perugia. Sotto gli otto archi trasversali e immersi negli affreschi duecenteschi con cicli allegorici e biblici, poltroncine e antiche tribune lignee esaurite in ogni ordine di posti per discutere un tema che si può riassumere in una domanda fondamentale: «Che cosa fare per andare verso un futuro più roseo?». E con la chiarezza che lo contraddistingue ancora Franco M. Ricci: «Il nostro lavoro è insegnare il vino. In questo senso diventa fondamentale investire in cultura per spiegare il vino. Ma attenzione: non servono a nulla esposizioni con stand da un milione che poi finiscono in tasca ad architetti e falegnami e al nostro mondo non rimane nulla. Un esempio dei risultati ottenibili con una seria promozione viene dai dati ufficiali sul turismo negli Stati Uniti: al primo posto tra i siti visitati c’è Disneyland. Al secondo posto la California, ma non le sue spiagge, bensì Napavalley, la terra del vino. Senza dimenticare che il vino è rimasto l’ultimo, vero, made in Italy». D’accordo anche Antonello Maietta: «Oggi il made in Italy agricolo è l’unico che può garantire ai consumatori italiani e internazionali qualità e tracciabilità. Basti pensare al settore abbigliamento e accessori moda: hanno un marchio italiano ma chissà dove sono stati fatti». Dopo la provocazione del moderatore dell’incontro, il giornalista Lamberto Sposini («Ma siamo sicuri che non fare sistema sia un limite?»), i pareri di produttori ed enologi. Vinzia Novara: «Fare squadra è un bene da un lato, soprattutto per la nostra creatività. In Italia ci sono molte differenze tra nord e sud, di storia e di distanza tra le zone. Noi, per esempio, parliamo prima di marchio e poi di territorio. In effetti in Italia c’è separazione tra i produttori, al contrario di ciò che succede all’estero dove si lavora per raggiungere gli stessi obiettivi, ma senza cedere nell’omologazione». Pompeo Farchioni: «Credo sia una follia massificare la promozione perché in Italia ci sono vini di altissima qualità e prodotti da pochi euro. Quindi mai fare progetti in generale. Inoltre se federalismo deve essere ci sia in tutto, visto che ogni regione anche nel nostro settore ha esigenze e caratteristiche diverse. Io penso che sia giusto cominciare a lavorare sul punto che ci unisce anziché sui novantanove sui quali non siamo d’accordo.
«E
L I relatori della tavola rotonda ''Perché l'Italia non riesce a fare sistema?''
Potrebbe essere questo il punto di partenza per fare squadra». Marco Caprai: «Come paradosso potrei fare l’esempio dei soldi: forse in Italia ce ne sono addirittura troppi. Tutti si lamentano, poi ci sono delegazioni numerosissime che partono da Perugia alla volta di Riga per promuovere una specialità gastronomica. E spesso a danno degli agricoltori. Manca probabilmente una programmazione seria e dovremmo obbligare le rappresentanze di cui facciamo parte ad approcciate il “tema vino” in maniera diversa. L’Ais, in questo senso, ha un ruolo fondamentale nello spiegare il nostro prodotto, visto che abbiamo oltre cinquecento Doc contro i sette-otto vini dell’Australia, per esempio. Quindi per noi tutto è più difficile. Inoltre l’Ais potrebbe formare 10mila sommelier in Cina, il mercato del futuro». Maurizio Zanella: «Credo che la Franciacorta sia un esempio di zona che ha saputo mettere d’accordo i singoli e le esigenze del territorio. Certo è stato più facile perché non ci sono industriali del settore e cantine sociali. Ma fare sistema è comunque indispensabile anche per evitare sprechi come è capitato per lo stesso vino promosso a New York da persone diverse. Altro esempio l’assenza quando si parlava di tasso alcolemico e guida dell’auto. Nessuno ha mai scritto neppure una lettera al ministro». Renzo Cotarella: «Difficile fare squadra. Ci sono diversi interessi tra troppe categorie e una visione del vino generazionale. Un vino di qualità non può essere un vino di moda. Un vigneto dura per sempre, settanta, ottant’anni. Quindi un prodotto di moda non può essere una espressione di un territorio. Ripeto, ci sono troppi interessi diversi e per questo non so quanto fare squadra sia una cosa positiva». Gianni Zonin: «In troppi non capiscono nulla del nostro mondo. In Italia si stanno rimuovendo vigneti a 50-80 mila euro l’ettaro. Si parla di venti miliardi di euro per rimuovere il vigneto Italia. E poi ogni cinque anni cambia la moda. Prima il Pinot Grigio, poi il Nero d’Avola, adesso il Prosecco. Andrà a finire che finiremo in sovraproduzione. C’è poi una burocrazia che immobilizza. Negli Stati Uniti in novanta minuti si sono decisi i confini della Doc Monticello, il giorno dopo è stata spedita la lettera e dopo una settimana è arrivata l’autorizzazione. Anni fa visitai Australia e Usa. Avevano tecnologie che non valevano nulla: adesso ci hanno superato. Ecco, la funzione dei sommelier potrebbe essere quella di mettere tutti d’accordo: quale è la gradazione migliore? Quale quella giusta? Ecco questo potrebbe essere il compito dell’Ais: aiutare il nostro mondo a fare squadra».
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Congresso Ais
I vini che fanno la storia
Umbria
dell’ QUESTO
CUORE VERDE D’ITALIA HA I REQUISITI GIUSTI PER ESSERE CONSIDERATO
UN TERROIR ECCELLENTE DEL PANORAMA ENOLOGICO NAZIONALE
di Gabriele Ricci Alunni rotagonisti di questa batteria unica e irripetibile sono i vini che si sono contraddistinti per aver suscitato, magari in tempi diversi, l’interesse della stampa e degli appassionati accendendo i riflettori, per la prima volta, su un territorio fino a questo momento sconosciuto ai più. Analizzando bene la provenienza la prima cosa che si evidenzia è che c’è una copertura di tutte le zone viticole più importanti dell’Umbria a dimostrazione che questo territorio denominato “il cuore verde d’Italia” ha tutti i requisiti per essere considerato un terroir eccellente del panorama enologico nazionale. Oltre a grandi rossi che rappresentano la maggioranza, ci sono due grandi vini bianchi, che guardando l’annata presentano una venerabile età, sfatando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, il luogo comune che i vini bianchi e soprattutto gli umbri non possano invecchiare. Conclude la batteria un muffato, una grande tipologia di vino dolce tipica della nostra zona di Orvieto e di poche altre al mondo. Vini impregnati di una storia autentica, forniti con slancio e cortesia da produttori che hanno attinto dalla loro cantina privata e che testimoniano la tenacia e la passione dei loro creatori. «Vi presentiamo questa degustazione come ultima iniziativa, sperando vivamente che contribuisca a trasmettere un’emozione “intensa, persistente e complessa” come suggello definitivo dei momenti di condivisione della vita associativa di questi giorni, diventando magari un ricordo indelebile della vostra gentile presenza nella nostra straordinaria terra». Con questa frase terminava nel book la presentazione che accompagnava la degustazione, con le descrizioni organolettiche e le emozioni soprattutto, dei quattro degustatori d’eccellenza che le hanno guidate dopo una presentazione storica fatta dai produttori. Luca Martini, miglior sommelier d’Italia 2009, Nicola Bonera, miglior sommelier d’Italia 2010, Gabriele Del Carlo, vice campione italiano 2010, Roberto Anesi, vincitore del quarto Gran Premio Sagrantino, con le loro descrizioni, precise, professionali ed emozionanti hanno accompagnato alla scoperta dei gioielli che hanno fatto la storia dell’Umbria.
P
L Uve di Sagrantino in appassimento
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LA DEGUSTAZIONE Orvieto Classico Superiore Doc “Campo del Guardiano” 1998, Palazzone Vino che si presenta subito di un colore oro compatto, vivo e vegeto, danza lento nel bicchiere, denotando struttura e corpo. Naso estremamente pulito, franco e fruttato arricchiscono il bouquet, ginestra, tiglio e miele d’acacia. Sul finale delicata percezione di frutta a polpa gialla, agrumi canditi e stella d’anice che chiude il suo intrigante olfatto. Il gusto è sicuramente secco, bella l’avvolgenza dell’alcol e delle morbidezze. La chiave di lettura di questo Orvieto è sicuramente l’acidità, che scorre e lascia spazio alla beva con un finale sapido di media percettibilità. Intenso e gradevole con un corpo atletico, stupisce con la sua corrispondenza tra naso e bocca che ricorda ancora l’agrume e esili note di spezie dolci ed erbe aromatiche. Semplicemente una grande espressione di Orvieto che esprime pienamente il carattere del territorio e conferma la buona longevità dei suoi prodotti migliori. Cervaro della Sala Umbria bianco Igt 1991, Castello della Sala Vino dalla grande luminosità, quasi brillante, di un bellissimo color oro verde, dalla consistenza notevole, ruota lentamente aggrappandosi al bevante. Impatto olfattivo disarmante, la nuova lettura dell’anno di vendemmia riporta alla realtà, increduli si assiste a un esplodere di toni fruttati e floreali, in alcuni passaggi addirittura freschi. Seguono le spezie, la vaniglia, il cardamomo e il coriandolo. Anche al gusto spiazza, ma ormai si è entrati in un’altra dimensione, di nuovo si perde il concetto del tempo, l’acidità è ancora importante, la sapidità decisa lascia una scia indelebile, aumentando notevolmente la presenza, quanto mai gradita, delle componenti dure. Vino con una intensità avvolgente, caldo, di buona morbidezza. Il corpo pieno, inusuale per dei vini bianchi, si fonde al meglio con il ventaglio di sensazioni che si alternano giocando con gli organi del senso.Vino che può ulteriormente “crescere” nonostante la maggiore età. Il ritorno di burro e di frutta secca chiude un esame gusto-olfattivo dalla lunga persistenza. Campoleone Umbria rosso Igt 1999, Lamborghini Il vino si presenta nel bicchiere con aspetto limpido, privo di particelle in sospensione e di buona luminosità. Colore rosso granato che al passaggio nel bicchiere disegna archetti con lacrimazione mediamente veloce, indice di buon corpo ed estratto. Al naso è intenso, apre con note speziate di radici amare, anice stellato, caffè d’orzo, fave di cacao, frutta sotto spirito, prugna secca e pot pourri di fiori. È complesso e va a chiudere il naso con note terrose di foglie bagnate, funghi porcini, scatola di sigari e foglie di te. Molto fine. In bocca entra ricco, dotato di medio calore alcolico e di buona morbidezza, sorretto da equilibrata freschezza, tannino sottile e ben polimerizzato ma sempre presente; sapido nel finale. È un vino di corpo con buon equilibrio, intenso e persistente che chiude con scie di spezie e frutta secca. Fine. È un vino maturo con margini di ulteriore sviluppo verso l’armonia. Rubino Umbria rosso Igt 1997, La Palazzola Vino dall’aspetto limpido con colore rosso rubino intenso profondo e dalla consistenza marcata e di buon spessore con archetti di lenta lacrimazione. Un tocco di ridotto all’apertura ma poi il naso si offre subito con frutti neri sotto spirito e note speziate che volgono al terziario, intenso e di bella finezza. Apre un ventaglio di profumi con ribes rosso, prugna secca e mora candita per poi passare a sensazioni balsamiche, anice, cardamomo e tabacco dolce. Un naso che per alcuni tratti ricorda molto un vino del Médoc. In bocca entra avvolgente, caldo e con morbidezza in crescita, freschezza su toni alti e un tannino presente, con qualche leggera spigolatura ma ben fuso nella massa del vino. Un corpo robusto dove le durezze sono ancora protagoniste ma con delle morbidezze che cominciano a levigare le spigolature tanniche. Intenso e con lunga persistenza avvolge la bocca con ricordi di frutta in confettura, spezie dolci e note balsamiche. La chiusura gustativa è con leggera nota amarognola e sapidità piacevole.
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Congresso Ais
Arquata Umbria rosso Igt 1994, Adanti Limpido, granato con belle e vive tonalità e sfumature aranciate. Al naso si presenta fine e raffinato. L’intensità è marcata, mentre la complessità, inizialmente timida, esplode poi con frutti rossi e neri che volgono alla confettura, ben presente il ventaglio di spezie mentre si denotano, nel finale, toni erbacei e di sottobosco. È un vino di estrema delicatezza olfattiva ma di grande eleganza dove la prugna, la ciliegia di Vignola e il ribes in versione confettura sono ideali compagni di viaggio per note di caffè, cioccolato, cuoio e macis. In bocca è complesso, avvolgente e setoso, con un equilibrio da circense e con corpo facile e immediato da beva facile ed emozionante. I tannini sono di trama fitta e ben smussati. La freschezza, di buona percezione, è supportata da una sapidità presente e protagonista nella chiusura di bocca. Finale dove la persistenza, molto lunga, riporta alle sensazioni olfattive di cacao, prugna secca e caffè con un’aggiunta di tartufo e sottobosco. Vino maturo di bella e facile bevibilità. Un commento a caldo di uno dei partecipanti alla degustazione: «Ne berrei una damigiana». Torgiano rosso Riserva “Rubesco” Doc 1982, Lungarotti Limpido, granato di media intensità, aranciato appena accennato, stupisce la freschezza del colore in rapporto al millesimo. Generalmente questa colorazione si trova in vini con molti meno anni sulle spalle. Vino dall’impatto fine, per certi versi delicato, come la sua naturale attitudine. È un campione del mondo di resistenza all’ossigeno, a bottiglia aperta da molto tempo e versato da almeno un paio d’ore, nel calice si apre con una lentezza incredibile. La frutta è ben presente insieme alle spezie mentre sono netti i toni terrosi e tartufati. È un vino sussurrato e mai urlato, tocchi di cuoio e foglia di alloro secco si presentano di tanto in tanto, alternandosi a prugna secca. Vino complesso che ha alterato i dati sulla sua carta d’identità, riuscendoci! Al gusto è avvolgente e setoso, ma leggiadro, per certi tratti dal corpo facile e immediato. I tannini sono di trama fittissima ma lontano dall’essere completamente polimerizzati. La sapidità aiuta la freschezza, ancora capace di dare ritmo alla degustazione. In chiusura la persistenza, molto lunga, lascia ricordi di cacao, prugna secca e rabarbaro. Vino maturo ma che può riservare qualche guizzo e qualche istante di ritrovata, estrema, vitalità. Sagrantino di Montefalco “25 anni” Docg 1995, Arnaldo Caprai Vino dall’aspetto limpido con colore rosso granato e riflessi aranciati di buon spessore. Nel bicchiere si muove in modo uniforme lasciando al suo passaggio archetti di buona lacrimazione, continua, che fa presagire a un corpo importante, a un estratto secco e un tenore alcolico non comuni. Al naso si offre subito su note terziarie, intenso, apre con sensazioni di tostatura e torrefazione, caffè, tabacco, rabarbaro, confettura di mirtilli e more. È complesso-ampio e all’ossigenazione offre note di spezie nere, terra e di sottobosco. Fine. In bocca entra secco, dotato di pseudo calore importante e morbidezza in crescita, freschezza calibrata, tannino presente, fuso nella massa del vino. Buona la sapidità finale che accompagna un corpo robusto con durezze e morbidezze che iniziano a trovare un punto d’incontro. Intenso e persistente chiude in bocca con ricordi di cicoria, frutta in confettura e di erbe balsamiche. Vino maturo con potenziale evolutivo ampio e armonico. Orvieto Classico Superiore Doc Dolce “Calcaia”1994, Barberani Il campione, e che campione, è di veste color giallo dorato, vivo, con lieve accenno ambra pieno. Nel bicchiere si muove così lento che fa subito presagire al suo contenuto zuccherino e glicerico, archetti fitti con caduta inesorabilmente lenta verso una massa compatta e invitante. Naso pulito ed espressivo di ottima intensità, ampio e complesso, con pennellate di zafferano, smalto, miele di acacia, albicocca e una nota di iodio che va a chiudere il finale ricordandoci la presenza della muffa nobile. Il gusto dolce e morbido si presenta con una vena acida che snellisce il gusto e lascia spazio nuovamente alla presenza di iodio e zafferano che gioca un ruolo fondamentale nella beva. Intenso, con una persistenza da manuale, chiude con sensazioni di frutti canditi e confetture gialle di media dolcezza. Interessante la nota sapida che aiuta il palato a prepararsi per un’altra serie di emozioni. Maturo e pronto da bere dimostra una bella armonia e grande impatto gustativo degno di un grande Sauternes. Da dedicare a momenti di conversazione con le migliori amicizie o a letture meditative.
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Mondiale Wsa
Luca Gardini corona il sogno di una vita di Emanuele Lavizzari
IL
SOMMELIER ITALIANO VINCE IL
MONDIALE
WSA CHE SI È SVOLTO A SANTO DOMINGO. LA
CRONACA DI UNA ESPERIENZA UNICA VISSUTA CON INTENSITÀ DA TUTTI I CONCORRENTI
il 5 dicembre 1492. Dopo aver toccato per la prima volta il continente americano sull’isola di San Salvador quasi due mesi prima e aver esplorato parte della costa di Cuba, Cristoforo Colombo sbarca su una spiaggia di sabbia bianca. «Es la isla mas hermosa que ojos humanos hayan visto» («È l’isola più bella che occhi umani abbiano visto»), scrive nel suo diario di bordo e senza esitare la battezza La Española. E a distanza di cinque
È
L Luca Gardini insieme a Gian Carlo Mondini, Terenzio Medri e il padre Roberto 20
secoli Hispaniola resta il nome geografico di questa terra circondata dall’Oceano Atlantico e dal Mar dei Carabi, divisa tra i territori di Haiti e della Repubblica Dominicana. Chissà cosa ha pensato Luca Gardini quando ha messo piede sullo stesso suolo al quale si erano accostate all’attracco la Pinta, la Niña e la Santa Maria. Di certo, similmente all’ammiraglio genovese, nutriva grandi aspettative e desideri di conquista. Di certo, come per Colombo, ha dovuto faticare anche lui parecchi anni prima raggiungere il suo obiettivo. Di certo, come è stato per il più grande esploratore di tutti i tempi, questo luogo ora ha un significato davvero particolare per lui. E come Cristoforo tornando alla corte di Spagna offre oro, tabacco e alcuni pappagalli ai sovrani di Castiglia e Aragona come segno tangibile della scoperta di un “Nuovo Mondo”, così ora Luca mostra alla sommellerie italiana un trofeo che ha un valore incalcolabile perché racchiude l’esperienza di una vita. Ma andiamo con ordine, perché il viaggio in terra dominicana non rappresenta solo il successo mondiale di un professionista di casa nostra, ma l’incontro da parte di un gruppo di sommelier “occidentali” con un Paese in cui c’è ancora tanto da scoprire e da capire. Thomas Sartori, responsabile della
didattica di Ais Caribe e principale organizzatore in loco del concorso, fa subito presente ai ragazzi, un po’ spaesati nel traffico impazzito di Santo Domingo, che «dove finisce la logica, inizia la Repubblica Dominicana». È questo il primo insegnamento che ha ricevuto da queste parti. Buono a sapersi. Dopo l’arrivo all’aeroporto Las Américas, il gruppo conosce subito uno dei quartieri più affascinanti della capitale, la zona chiamata Ciudad Colonial (Città Coloniale), dove sorge quella che era la residenza di Nicolás De Ovando, governatore spagnolo dell’isola agli inizi del 1500, e che ora è un hotel che porta il nome del suo antico proprietario. Qui si possono riposare dopo il lungo viaggio perché l’indomani li attende una dura giornata con le prove della semifinale del concorso. Il giorno seguente al mattino presto sono tutti pronti per recarsi presso El Catador, la più prestigiosa enoteca e wine bar del Caribe, dove avrà inizio la competizione vera e propria. La temperatura supera i 30°, l’umidità già risponde «presente!», anzi, a dirla tutta non se n’è mai andata nemmeno durante la notte. Ma da queste parti ci dicono che da marzo a ottobre è così. Qui il termine frío (freddo) si usa solo per la birra perché in inverno (si fa per dire!) le temperature notturne più basse non
sono mai troppo distanti dai 20°! I due minibus che conduco i sommelier all’enoteca attraversano mezza città ed esibiscono orgogliosi sugli sportelli laterali il logo del concorso Mejor Sommelier del Mundo. Qualcuno a bordo è preoccupato per le prove di selezione, qualcuno lo è perché la maggior parte dei veicoli dominicani non sembra accorgersi dei cartelli con scritto Pare (Stop) né tanto meno dei semafori: la precedenza qui è di chi se la prende per
L Rudina Arapi, rappresentante dell'Albania, insieme a Luca Gardini
L Ivano Antonini durate la semifinale
L Il gruppo dei sommelier e dei loro accompagnatori al ristorante dominicano Sixteencuts 21
Mondiale Wsa
Alla scoperta dell’isola I giorni successivi al concorso hanno permesso ai sommelier di conoscere da vicino la Repubblica Dominicana e in particolare quelle tipicità enogastronomiche strettamente legate al territorio. Il rum, o meglio, il ron rappresenta senza dubbio il distillato caraibico per antonomasia. La grande varietà prodotta in questo Paese deriva dal fatto che molto elevata è la coltivazione di canna da zucchero. Non poteva mancare quindi la visita a una distilleria locale. Una delle aziende più antiche cha ha fatto la storia del ron dominicano è senza dubbio la Barceló, fondata nel 1930 da Julián Barceló, uno spagnolo originario di Mallorca sbarcato nel “Nuovo Mondo” in cerca di fortuna. Il ron Barceló si impone sul mercato nel corso dei decenni, fino a diventare negli anni Ottanta il più popolare della Repubblica Dominicana. Attualmente è esportato in più di 50 Paesi. I sommelier hanno visitato la distilleria e hanno potuto constatare come in ogni fase della produzione, dalla preparazione e fermentazione fino alla distillazione e all’invecchiamento, venga ricercato un prefetto equilibrio tra alta tecnologia e rispetto delle affascinanti tradizioni del passato. La birra, in un’isola in cui la temperatura media è tra i 25 e i 30°C, costituisce una delle bevande più diffuse. Così è stato inevitabile un tour in quella Cervecería (birreria) che produce la birra nazionale Presidente, un prodotto a cui è legata la storia del Paese. Nel 1880 nasce la prima birreria a Santo Domingo, la Cervecería Dominicana,
primo e le ammaccature su numerosi veicoli in circolazione fanno capire che non sempre in mezzo agli incroci si riesce a giungere a un accordo. Arrivati a El Catador i sommelier capiscono subito che non si tratta di una semplice enoteca, bensì di una vera e propria azienda che ha rappresentato e che continua a essere il principale veicolo di diffusione del vino in un’area geograficamente e culturalmente molto distante dal frutto della vite. Solo il tempo per una rapida occhiata alle bottiglie ordinate sui lunghi scaffali ed è già ora del compito scritto. Il test è veramente impegnativo e mette a dura prova anche i sommelier di lungo corso. Cinquanta domande che partono da quesiti generali di cultura enologica, passano dalla vinificazione, dall’enografia e dalla legislazione del vino, arri22
ed è lì che nel 1935 si crea questa famosa Pilsner in onore del dittatore Rafael Leónidas Trujillo, che concede il permesso di chiamarla Presidente. Nella visita all’azienda, che per le vaste dimensioni rappresenta una vera e propria città nella città, si è scoperto un prodotto che esprime il comune sentire dominicano, accompagnando le manifestazioni folkloristiche, artistiche, culturali e la gastronomia criolla (creola). Una birra talmente diffusa in questo territorio da diventare ormai un’icona nazionale, oltre che l’orgoglio e l’espressione di un popolo che sorride sempre. Un’altra prodotto tipico di questa terra è il cacao e ogni bravo sommelier non può non conoscerlo. L’azienda Rizek, nata agli inizi del secolo scorso, ha ideato un vero e proprio itinerario alla scoperta di questo frutto, di cui la Repubblica Dominicana è tra i principali produttori ed esportatori mondiali. Così i nostri esperti si sono incamminati sul Sendero del Cacao all’interno delle piantagioni della Hacienda La Esmeralda a San Francisco de Macorís, nel nord dell’isola. Sono qui le origini di gran parte del cioccolato che arriva sulle tavole europee, come dimostrano le 47.000 tonnellate di cacao dominicano prodotte annualmente di cui l’80% è destinato all’esportazione. Questa esperienza ha condotto i sommelier dalla semina della pianta alla raccolta, passando poi dalla fermentazione e dall’essiccazione del frutto, fino a concludersi con una degustazione guidata di squisito cioccolato Valrhona.
vano ai vitigni e agli abbinamenti e si concludono con birre, liquori, distillati, caffè, sigari, acqua, tè e saké. Insomma, tutto lo scibile o quasi richiesto in una manciata di fogli. Al ritiro del questionario, la prova prosegue con l’analisi sensoriale di un vino da stendere per iscritto nella lingua straniera scelta dal candidato. Dopo questa prima fase i sommelier possono finalmente riprendere fiato, rifocillarsi e prepararsi alla prova pratica di servizio. A questo punto inizia il lavoro frenetico della commissione giudicante che corregge il test e la degustazione e comincia ad annotare sulla prima scheda di valutazione i punteggi ottenuti dai singoli. Per tutto il pomeriggio, quindi, i sommelier passano in rassegna uno a uno innanzi alla giuria per la stappatura, la decantazione e il servizio di un vino rosso e solo al tramonto
tutti i quattordici partecipanti concludono le proprie fatiche. Una giornata impegnativa, ma non ancora terminata. Previsto infatti in serata un appuntamento importante presso il Museo di Arte Moderna della capitale per la presentazione del concorso alla stampa dominicana e internazionale. Thomas Sartori dà il benvenuto ufficiale ai sommelier e presenta ai giornalisti e al pubblico accorso il programma dell’evento. A questo intervento segue il saluto del presidente della Worldwide Sommelier Association Terenzio Medri, il suo ringraziamento per gli sforzi profusi dagli organizzatori di Santo Domingo e il suo auspicio che l’azione di divulgazione della sommellerie internazionale possa diffondersi sempre più in tutti i Paesi caraibici. Nella stessa occasione sono consegnati i diplomi ai neosommelier Ais di Santo Domingo che
L Giuseppe Bonarelli riceve il titolo di Sommelier Onorario
hanno recentemente superato l’esame di terzo livello. L’indomani, finalmente, è il gran giorno. I sommelier si sono appena svegliati, quando dall’Italia ci chiedono già chi siano i finalisti. Troppo presto per saperlo. Sarà solo nella noche di Santo Domingo che si conosceranno i tre migliori degustatori del pianeta che daranno poi il via alla sfida per ottenere l’ambita fascia iridata. E quando la gara sarà conclusa in Europa appariranno già all’orizzonte le prime luci dell’alba. Il tempo passa per i concorrenti tra appunti, libri e manuali. Uno spuntino rapido a mezzogiorno e poi l’ultimo ripasso in camera o sotto i portici in cui amava discorrere con i suoi ospiti Nicolás De Ovando. Qualcuno sembra celare la tensione, ma in realtà tutti non vedono l’ora che arrivi il momento della finale per capire chi dovrà battagliare fino all’ultimo respiro, anzi, all’ultimo sorso. Rieccoci in marcia. I nostri minibus ci riconducono verso il centro della capitale, ma questa volta ci portano proprio nel cuore di Santo Domingo, al Palacio de Bellas Artes, nel cui teatro si svolge l’atto conclusivo del concorso. L’imponente edificio neoclassico è pronto a ospitare i migliori sommelier del pianeta e, attendendo un pubblico soprattutto di lingua spagnola, all’ingresso della sala si distribuiscono gli auricolari per seguire la traduzione degli interpreti. I ragazzi sono chiamati uno a uno sul palco ed ha così inizio il momento più atteso. Passano in rassegna le nazioni rappresentate e quando sono tutti schierati, come avviene in queste circostanze, ecco arrivare la busta contenente i tre nomi.
L Il presidente Wsa Terenzio Medri insieme ai tre finalisti nel momento dell'Inno di Mameli
O meglio, i tre numeri abbinati all’inizio della semifinale ai rispettivi sommelier. Così quando vengono lette le tre cifre nessuno sa subito chi siano i finalisti, ma loro, i protagonisti, l’hanno ben capito. Si alza subito Milan Krejc ˘í della Repubblica Ceca e quindi uno dopo l’altro Luca Gardini ed Héctor García, il concorrente dominicano. C’è un sospiro di sollievo quando si capisce che la bandiera italiana colorerà la finale. A questo punto si sorteggia l’ordine di apparizione secondo cui i tre finalisti dovranno alternarsi sul palco. Gardini pesca il numero due, García è il primo mentre Krejc ˘í chiude il terzetto. Il sommelier di Santo Domingo apre le danze. Dalla sua ha il sostegno della maggior parte del pubblico e inizia bene con la degustazione di tre vini e relativa analisi sensoriale. Poi segue il riconoscimento di cinque campioni di liquori e distillati e quindi la correzione di una carta dei vini. Tutto liscio fino alla prova di servizio in lingua straniera. È qui che a causa di un inglese non brillantissimo il veliero della Repubblica Dominicana ammaina la bandiera della vittoria. Resta, comunque, la grande soddisfazione per un Paese in cui la cultura del vino è relativa-
L Gustavo De Hostos, Terenzio Medri e Thomas Sartori
mente giovane di aver portato il proprio rappresentante sul podio di una competizione mondiale. È quindi la volta di Luca Gardini che sale sul palco determinato come non mai. Le degustazioni e il riconoscimento di liquori e distillati sono ineccepibili e la spigliatezza, la rapidità e la padronanza lessicale nelle descrizioni mettono a dura prova gli interpreti che fanno fatica a stargli dietro con la traduzione. Il servizio al tavolo dei commensali è a dir poco perfetto e l’ammirazione raggiunge il culmine quando, alla richiesta di abbinamenti per un’ospite ipoteticamente astemia, suggerisce quattro tipi di tè diversi in sequenza motivando la scelta. «Questa sera portiamo a casa la coppa!» esclama sottovoce suo padre Roberto al termine delle prove, mentre segue a distanza il figlio che sta uscendo dal teatro. Ottimista? No, semplicemente realista. Entra per ultimo in sala Milan Krejc ˘í, esperto sommelier di Praga, professionista con un stile del tutto personale, ma estremamente raffinato ed elegante. La prova del ceco è di altissimo livello, ma con un Gardini così non si può fare a meno di lasciarsi scappare un “non ce n’è per nessuno!” Ed infatti dopo oltre due ore di competizione i tre sommelier sono richiamati sul palco per scoprire le etichette delle bottiglie e gli errori nella carta dei vini. La sensibilità di Luca Gardini è andata a segno: tre su tre sono i vini individuati, quattro su cinque i distillati e liquori riconosciuti. A questi si aggiungo una correzione eccellente, il servizio dello spumante da dieci e lode, i consigli, le risposte alle richieste dei commensali e la decantazione finale di un 23
Mondiale Wsa
vino rosso in cui ci ha messo il cuore. È tutto pronto per il verdetto finale, ma prima di annunciare il vincitore si crea una certa suspense prendendo qualche minuto di pausa con il conferimento del titolo di sommelier onorario dell’Ais a Giuseppe Bonarelli, imprenditore di origine campana da decenni sull’isola. Don Pepe, questo il nome con cui è noto a Santo Domingo, è stato in assoluto il primo tra i pionieri del vino in terra dominicana ad aver creduto nella diffusione del nettare di Bacco. E così ha dimostrato con i suoi risto-
ranti e la sua enoteca, El Catador, che si può diffondere la cultura enologica anche dove crescono solo caffè, banane, cacao e canna da zucchero. Dopo questa parentesi, rieccoci al concorso. Il pubblico non sta più nella pelle, gli interpreti sono nelle loro cabine quasi esanimi e i tre finalisti fremono già sul palco. «The winner is…», ma non viene pronunciato il nome vincitore: il volto di Luca Gardini e la bandiera italiana compaiono sul maxi-schermo centrale e parte subito l’inno di Mameli. Foto,
complimenti, baci, abbracci. Luca non sa più in quale obiettivo guardare tanto è abbagliato dai flash. Mentre i sommelier iniziano a festeggiare il campione del mondo, è fondamentale far sapere anche all’Italia e all’Europa cosa ha combinato Luca Gardini dall’altra parte dell’Atlantico. Così verso la mezzanotte, le sei in Italia, parte dalle linee adsl dominicane un comunicato stampa che raggiunge l’Ansa e le principali testate giornalistiche. Poche ore dopo decine di siti Internet riportano già la notizia e non appena Gardini
I sommelier in gara a Santo Domingo Il concorso Mejor Sommelier del Mundo si è realizzato grazie a un lungo e impegnativo lavoro da parte di tante persone. Vogliamo ringraziare Thomas Sartori, Gustavo De Hostos, Giselle Alonzo e tutti i sommelier dominicani che non hanno avuto un attimo di pausa prima e durante le giornate della manifestazione. Un ringraziamento a Giuseppe Bonarelli, meglio conosciuto a Santo Domingo come don Pepe, che ha messo a disposizione numerose risorse e i locali del suo El Catador per le semifinali. Una citazione particolare a Gian Carlo Mondini che ha preparato le prove del concorso e ha poi ricoperto il ruolo di presidente della giuria. Un grazie a Sofia Biancolin e Andrea Rinaldi, delegati rispettivamente del Nord Germania e dell’Inghilterra, che con il loro intervento hanno dato testimonianza nella capitale dominicana della consolidata internazionalizzazione dell’Ais. Un saluto con viva riconoscenza, non da ultimo, a Terenzio Medri, che ha condotto la Wsa dalla sua fondazione sino a questa finale mondiale. Di certo dobbiamo ricordare anche tutti i professionisti che insieme a Luca Gardini, in gara come campione europeo in carica, hanno preso parte alla competizione.
Rudina Arapi Ristorante Paolo Teverini, Bagno di Romagna (FC), Italia
Leandro Emanuel Orona Escuela Argentina de Sommeliers, Buenos Aires, Argentina
Sebastien Giraldin Selfridges Wine Shop, Londra, Regno Unito
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Albania
Argentina
Francia
Connor McClay Irlanda James Nicholson Wine Merchant, Downpatrick, Regno Unito
Ivano Antonini Relais & Chateaux Il Sole di Ranco, Ranco (VA), Italia
Italia
Luca Gardini - Campione Europeo 2009 Ristorante Cracco, Milano, Italia
Italia
accende il cellulare nella mattinata successiva, già pomeriggio in Italia, è preso d’assalto da giornalisti radiofonici, televisivi e della carta stampata. Non c’è altro da aggiungere se non un “missione compiuta!” Come terminare il racconto di questa trasferta? Ci sarebbero troppi aneddoti, ma uno rende al meglio l’idea di ciò che trasmette l’atmosfera dominicana. «Nelle mia città – ci rivela Milan Krejc˘ í, originario di Praga – in questo momento ci sono zero gradi!» E lo ripete con una birra in mano a bordo vasca, pronto per
un tuffo in piscina. Il concorso si è concluso da poche ore. È quasi l’una e mezza di notte. Nel cielo dei Caraibi non c’è una nuvola, solo le stelle. Le stesse che qualche secolo fa brillavano nell’oscurità e servivano ai conquistadores per trovare la rotta notturna. Dopo la tensione della gara si possono anche dimenticare per qualche istante le degustazioni alla cieca e le annate più importanti dei Grands Crus di Borgogna. E intanto ci ripensiamo: «Zero gradi…» Lasciamoli per qualche giorno ad altre latitudini. Buenas noches…
L Il guéridon utilizzato durante la finale
Maksims Merkulovs Lettonia Galvin at Windows Restaurant Hilton on Park Lane, Londra, Regno Unito
Milan Krejčí Merlot d’Or, Praga, Repubblica Ceca
Sara Da Val Franco Ristorante Davide, Verden, Germania
Héctor García Repubblica Dominicana El Catador, Santo Domingo, Repubblica Dominicana
Marcin Andrzej Schilling Selfridges Wines&Spirits, Londra, Regno Unito
Christopher Cooper The Wolseley Restaurant, Londra, Regno Unito
Paesi Bassi
Polonia
Regno Unito
Repubblica Ceca
Igor Sotric China Tang, Dorchester Hotel, Londra, Regno Unito
Slovenia
Angelo De Raimondo Grand Hotel du Golf et Palace, Valais, Svizzera
Svizzera
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Degustazioni
Le
nobili Bollicine
dall’Alto
Adige
di Franco Ziliani
NEL SUD TIROLO LA VOCAZIONE SPUMANTISTICA NASCE A FINE OTTOCENTO
E OGGI IMPREZIOSISCE L’OFFERTA SEMPRE PIÙ ARTICOLATA DI QUESTA MAGNIFICA TERRA DA VINO
è anche l’Alto Adige, o Süd Tirol, come preferiscono chiamarlo in provincia di Bolzano, da tenere in considerazione quando si desidera tracciare una mappa completa delle zone di produzione di metodo classico in Italia. Certo, la produzione, attestata intorno alle 220-230 mila bottiglie complessive, è una produzione quasi confidenziale, molto lontana dai 5 milioni di bottiglie totalizzate dal Trentino e dai 10 della Franciacorta, però nell’ambito di quel 45% della produzione altoatesina destinata ai vini bianchi (il 55% è ancora appannaggio delle uve rosse, con un predominio della Schiava o Vernatsch) le bollicine nobili riescono con notevole efficacia a completare ed impreziosire l’offerta, sempre più articolata, di questa magnifica terra da vino. Otto in totale – vedere qui l’elenco http://www.vinialtoadige.it/it-6-330.aspx – le aziende produttrici, sei delle quali fanno parte della Associazione dei produttori altoatesini di spumante o, per dirla in tedesco, Vereinigung Südtiroler Sekterzeuger nach dem klassischen Verfahren, creata nel 1990 da nove membri fondatori, tra cui Josef Reiterer, Lorenz Martini e Alois Ochsenreiter, che si posero come obiettivo la comune difesa dei proprio inte-
C’
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ressi nonché l’efficace promozione degli spumanti metodo classico e della produzione di qualità. Sono produzioni artigianali, l’azienda più “grande”, la Arunda Vivaldi di Meltina, incantevole località di montagna posta a 1200 metri, distante una quindicina di chilometri da Terlano, non arriva a centomila bottiglie, fermandosi a novantamila, che propongono bottiglie destinate ad un mercato di nicchia, ad appassionati esigenti alla ricerca di produzioni particolari, che uniscono il pregio di uno spiccato carattere e goût de terroir, dato dalla collocazione in una situazione alto collinare o quasi “di montagna” dei vigneti, a un savoir faire collaudato nel tempo a una lunga presenza nel territorio di produzione delle uve. Come in altre zone di produzione sono lo Chardonnay e il Pinot nero le due varietà maggiormente utilizzate, ma a conferire particolarità, e una certa quale eleganza, alle basi “spumante” e quindi ai vini, è la presenza di una terza varietà, molto diffusa in Alto Adige, come il Pinot bianco, che nel delicato equilibrio della composizione delle cuvée conferisce il sapore fruttato, ma anche il “sale” e il nerbo ai vini, mentre lo Chardonnay assicura finezza e soavità e il Pinot Nero la pienezza e la struttura. Con il Pinot bianco, che in alcune cuvée è presente con quantità varianti dal 20 al 30 per cento, occorre fare molta attenzione, perché l’uso di uve provenienti da terreni con cospicuo contenuto di porfido può regalare, se le uve non sono mature al punto giusto e se le vinificazioni non vengono condotte con estremo rigore, note leggermente amare, ma il suo uso ben calibrato è un’arma in più, in termini di eleganza, di profondità, di ricchezza di sapore, di cui i produttori di bollicine metodo classico possono avvalersi. Le condizioni per la produzione di vini di alta qualità sono pressoché ideali,
perché soprattutto nelle aree al di sopra dei 500 metri di altitudine le uve sviluppano un’acidità tale da garantire, anche dopo la seconda fermentazione in bottiglia, quella vibrante freschezza che ci si aspetta. E dopo la seconda fermentazione in bottiglia i vini riposano sui lieviti per un periodo minimo di 15 mesi, che normalmente si protrae sino a due o tre anni o più per alcune cuvée “de prestige”. In questo modo i vini assumono la loro elegante struttura e un mix accattivante di freschezza e cremosità. Una vocazione spumantistica, quella dell’Alto Adige, che viene da lontano, da fine Ottocento, dall’epoca dell’Impero austro-ungarico, quando con il nome di Tiroler Gold, una cantina denominata Uberetscher Champagnerkellerei, con sede nel Castello Wickenburg di Appiano Monte, produsse dal 1896 al 1902, ma con uve Riesling, uno Champagne oro dell’Oltradige. Un vino, che all’epoca veniva ancora presentato come “Champagne”, e che veniva venduto anche a produttori di “Champagne” in Trentino, che risulta nell’elenco dei vini presentati all’edizione del 1911 del Mercato vinicolo dell’Alto Adige a Bolzano. E poco prima dello scoppio della Guerra Mondiale, la prima, anche un altro produttore, un certo H.M. Matha, produceva un “Kron Champagner” cioé Champagne della Corona. Queste cantine chiusero i battenti dopo la prima Guerra mondiale e oggi non si trovano etichette né bottiglie in quanto durante il fascismo tutti i vini etichettati con etichette in lingua tedesca dovevano essere distrutte. Nella storia, più vicina a noi, della produzione di metodo classico in provincia di Bolzano un ruolo importante va assegnato anche a un personaggio la cui piccola azienda oggi non fa parte dell’associazione, ma che già nei primi anni Sessanta, quando era già kellermei-
ster (cantiniere ovviamente, ma anche direttore commerciale, responsabile dei rapporti con i soci viticoltori, ecc.) della Cantina Produttori di Terlano, ruolo che manterrà per oltre quarant’anni, pensò di produrre bollicine di qualità in Alto Adige. Parlo di Sebastian Stocker, che ancora oggi, con l’aiuto del figlio Sigmar, produce, considerando questa tipologia di prodotto “un’esaltazione della finezza del vino”, un Brut, un Nature e una riserva. Un grandissimo tecnico delle cui intuizioni sul modo di produrre metodo classico in provincia di Bolzano fanno ancora tesoro tutti gli spumantisti odierni. In occasione del ventesimo anniversario dell‘Associazione si sono tenute le elezioni per il rinnovo delle cariche associative, e sarà il più noto dei produttori del gruppo, Josef Reiterer, proprietario della cantina Arunda Vivaldi (www.arundavivaldi.it), a guidare per altri tre anni, in qualità di presidente, l’Associazione. Lorenz Martini, enologo presso la tenuta J. Niedermayr nonché produttore di spumante nella propria cantina di Cornaiano http://www.lorenz-martini.com affiancherà Reiterer in qualità di vicepresidente. Del consiglio di amministrazione farà parte inoltre Wolfgang Tratter, enologo della Cantina Produttori San Paolo http://www.kellereistpauls.com, Luis Ochsenreiter della Tenuta Haderburg http://www.haderburg.de, Josef Romen della Kettmeir http://www.kettmeir.com e Hannes Kleon della Cantina Von Braunbach http://www.braunbach.it/ ricopriranno la carica di revisori dei conti. Dell’associazione, guidata dall’ufficio delle Tenute dell’Alto Adige, fanno parte le seguenti sei aziende: Arunda-Vivaldi di Meltina, Von Braunbach di Settequerce - Terlano, la Cantina San Paolo Praeclarus di San Paolo, Lorenz Martini Comitissa di Cornaiano, Kettmeir di Caldaro e la tenuta Haderburg di Salorno. 27
Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE Alto Adige Brut Von Braunbach Cuvée di Chardonnay (70%) e Pinot bianco (30%), da vigneti in Appiano, con 36 mesi di affinamento sui lieviti. Sboccatura aprile 2010. Colore paglierino di bella intensità e vivacità naso con notevole espressione fruttata (mela), molto aperto vivo con una notevole dolcezza e maturità del frutto, con accenni di crosta di pane e lieviti e bella fragranza floreale. Bocca molto rotonda, succosa, sul frutto, con un notevole equilibrio: piacevole, immediato, diretto, beverino, non ha una grande complessità e profondità ma si fa bere molto bene. Alto Adige Brut Athesis Kettmeir Cuvée di Pinot bianco (50%), Chardonnay (30%), Pinot nero (20%). Colore paglierino oro, naso molto secco, compatto con una bella espressione floreale (fiori secchi e fieno) accenni fruttati di mela, ananas, agrumi, a comporre un insieme molto sapido lineare incisivo quasi nervoso. Notevole vinosità in bocca e spiccato gusto di mela verde e ricordo di frutta secca, acidità molto presente, ben secco, verticale profondo, ha buon nerbo ed equilibrio e una certa rotondità. Alto Adige Brut Praeclarus Cantina Produttori San Paolo Cuvée di Chardonnay (60%), Pinot bianco (30%) e Pinot nero (10%) , affinamento di 36 mesi sui lieviti. Colore giallo paglierino verdognolo, naso molto secco salato con una buona articolazione aromatica: note di frutta secca, nocciola e mandorla non tostata, mela, fiori bianchi, crosta di pane e lieviti di fermentazione un lieve accenno verde. Bocca incisiva salata con un'acidità che spinge e dà al vino slancio e verticalità, non largo ma vivo pieno di energia con grande freschezza. Alto Adige Brut Haderburg Cuvée di Chardonnay (90%) e Pinot nero (10%) da vigneti a 350-500 metri di altezza posti nella zona di Salorno. 30 mesi di maturazione sui lieviti. Bella intensità di colore, paglierino intenso, e vivace presa di spuma. Naso molto secco compatto di interessante complessità, con note di frutta secca, frutta esotica, accenni agrumati, di alloro, cioccolato bianco, una leggera speziatura, crosta di pane e lieviti in sottofondo. Bocca larga, piena, succosa, molto matura e sul frutto con una bella dolcezza e ampiezza e un notevole equilibrio, emerge in secondo piano un'acidità viva e calibrata, nervosa il giusto, buona persistenza e lunghezza, molto beverino. Alto Adige Extra Brut Arunda Cuvée di Chardonnay (80%) e Pinot nero (20%), affinamento di 36 mesi sui lieviti. Colore di notevole intensità e brillantezza, naso molto secco, sapido, incisivo con accenni minerali petrosi, note di fiori secchi, alloro, agrumi e in secondo piano una mela succosa. Bouquet molto fragrante, aperto, pulito, di notevole freschezza con belle note di nocciola e mandorla in evidenza. Bocca viva nervosa, incisiva di grande energia e spinta, apre ricco di nerbo e asciutto e si sviluppa con bella verticalità, sapidità e mineralità petrosa, molto fresco, vivo, ancora giovane con buona possibilità evoluzione. Alto Adige Extra Brut Blanc de Blancs Arunda Chardonnay 100% e affinamento di almeno 36 mesi sui lieviti. Colore paglierino verdognolo brillante, naso variegato e complesso piuttosto maturo con lievi accenni di tostatura e una vena leggermente dolce vanigliata, frutto in secondo piano su note agrumate e di ananas. Bocca morbida, cremosa, ancora un po' contratta con una presenza di legno ancora non totalmente assorbito che dà spalla e ampiezza, sostegno e struttura al vino, ma blocca un po' l'equilibrio e la piacevolezza e dà una nota leggermente secca al finale Alto Adige Brut riserva Comitissa 2005 Lorenz Martini Cuvée di uve Chardonnay e Pinot bianco provenienti da un vigneto su terreno con elevato contenuto di porfido e calcio piantato nel 2003 agli 800 metri di altezza di San Genesio, con 36 mesi di affinamento sui lieviti. Colore paglierino verdognolo brillante, naso ben secco, incisivo, salato, molto minerale, con note di pietra focaia in evidenza, molto fresco pieno di energia. Bocca molto viva, nervosa, salatissima, di grande tensione ed espressività, vino lungo, nervoso, appuntito, con una vena minerale molto evidente che dà nerbo e sale, grande pulizia e piacevolezza.
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Alto Adige Pas Dosé 2006 Haderburg 90% Chardonnay e 10% Pinot nero, 40 mesi di affinamento sui lieviti Colore paglierino verdognolo, naso molto secco, nervoso, incisivo, con buona fragranza, note agrumate in evidenza, di fieno e fiori secchi, con accenni minerali, sentori di frutta secca e leggera speziatura. Bocca larga, piena, succosa, con una bella maturità del frutto e una spalla solida, pieno persistente con una notevole vinosità e una bella piacevolezza. Alto Adige Praeclarus Noblesse 2005 Cantina Produttori San Paolo Cuvée di Chardonnay (80%) e Pinot nero (20%), una parte del vino si affina in legno. Colore molto intenso, paglierino oro di notevole vivacità e brillantezza, naso su note di frutta matura mela e pesca e accenni dolci di miele, cioccolato bianco, poi leggera vena agrumata e frutta secca, molto largo pieno succoso e dolce. In bocca è largo, pieno, ben strutturato, vinoso, ma manca un po' di tensione ed energia, di freschezza con una nota dolce di vaniglia che tende a prevalere. Alto Adige Extra Brut Cuvée Marianna Arunda Cuveé di Chardonnay (80% affinato in barrique per 12 mesi) e Pinot nero (20%), 48 mesi di affinamento sui lieviti. Paglierino oro di bella vivacità e brillantezza, naso molto compatto, complesso, di notevole ricchezza, con accenni di agrumi, frutta esotica, fieno di montagna, fiori secchi, accenni di frutta secca leggermente tostata. Bocca ampia, ricca cremosa, di grande delicatezza ed eleganza, gusto largo pieno, ben strutturato, ma con una notevole freschezza e incisività ha spalla e carattere, grande equilibrio saldo corredo acido che dà verticalità, freschezza, sale e finezza. Alto Adige Extra Brut riserva 2006 Arunda Cuvée di Chardonnay, 60% e Pinot nero, 40%, vinificato in bianco, affinamento di almeno 50 mesi sui lieviti. Colore paglierino oro brillante e luminoso, naso di grande complessità e ricchezza, note di frutta esotica, bella vena sapida minerale, accenni di fiori bianchi, miele d'acacia, alloro, cioccolato bianco, che aprono su una presenza agrumata molto evidente e poi su note di mela e pesca bianca. Bocca larga, piena, succosa, ben strutturata, ha una spalla molto salda, una notevole vinosità, gusto piuttosto largo ben strutturato e persistente, prodotto impegnativo ma di grande piacevolezza. Alto Adige Brut riserva Comitissa 2000 Lorenz Martini Cuvée di Pinot bianco (60%), Chardonnay e Pinot nero (20% ognuno) con 36 mesi di affinamento sui lieviti. Sorprendente cuvée d’annata, con bellissima vivacità e brillantezza cromatica, un paglierino oro pieno di riflessi, naso vivo, complesso ben strutturato, pieno di energia, con note di agrumi, fiori bianchi, notevole componente minerale petrosa salata. Al gusto grande equilibrio e piacevolezza, ben strutturato ancora con una bella polpa fruttata succosa, e poi incisivo ben articolato, ben secco asciutto con grande equilibrio e piacevolezza, ancora in splendida forma. Alto Adige Brut Rosé Arunda Cuvée paritaria di Pinot bianco e Pinot nero affinamento di 15 mesi sui lieviti. Colore buccia di cipolla, sangue di piccione, naso molto varietale con note di fragola e piccoli frutti di bosco, mirtillo più che lampone, fiori bianchi e una buona sapidità data da una vena agrumata. Bocca leggermente dolce, succosa, rotonda (8 gr. Zucchero), molto immediata e piacevole, ha succosità, bell'equilibrio, buona cremosità. Alto Adige Brut Rosé Excellor Arunda Pinot nero in purezza da un vigneto posto ad 800 metri, 20 mesi di affinamento sui lieviti. Colore bellissimo, brillante cerasuolo scarico, buccia di cipolla, di bella brillantezza e vivacità. Naso elegante cremoso, di grande fragranza, con sviluppo di delicate note di lampone, ribes, mirtilli maturi al punto giusto e succosi, e di nitida definizione. Bocca con una magnifica vivacità e nerbo, perfetto equilibrio tra la giusta dolcezza del frutto, con freschezza e succosità fruttata, largo pieno rotondo, e una calibrata dolcezza sapida e nervosa croccante. Bel mix dolce salato, un vino che bevi e t'invoglia a bere, ottimo in abbinamento a salmone affumicato e piatti impegnativi a base di pesce di mare.
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Degustazioni
Oltrepò Pavese, L’
la culla
della spumantistica
italiana
di Alessandro Franceschini
Q
uando si pensa allo storico connubio esistente tra l’Oltrepò Pavese e la coltivazione della vite, possono fissarsi nell’immaginario di ognuno di noi molte istantanee. Alcune squisitamente soggettive e magari più familiari a chi abita nelle vicinanze della provincia pavese, altre, invece, comuni a chiunque ami il vino e sia spinto da curiosità. Parole come “rusticità”, “vino sfuso”, vino che “buscia”, Bonarda, Gianni Brera possono essere accostate ai vini di questa terra con facilità. Tutto indubbiamente corretto, ma è solo una parte. Se è vero che un territorio deve portare in sé il marchio della propria tradizione per poter progettare il proprio futuro, allora il pinot nero non può non entrare di diritto nella storia di questa propaggine meridionale della Lombardia. Le vie di lettura che questa splendida area collinare donano a chi gli si accosta senza pregiudizi, sono tante, quasi sterminate, ma spesso irrisolte o comunque 30
mai sbocciate in tutta la loro maturità. Se la parte occidentale, quella che gravita intorno al piccolo comune di Rovescala è storicamente legata alla croatina e quindi a uno dei vini portabandiera di questa terra, vale a dire la Bonarda, quella occidentale, ha nella sua vicinanza con il Piemonte e quindi nella barbera, uno dei suoi emblemi più significativi. Non dimenticando aree storicamente vocate all’allevamento di uve a bacca bianca come Volpara per il moscato o ancora, nella parte centrale, Oliva Gessi, Montalto Pavese e Calvignano per il riesling, ma non solo, quando si affronta l’“affaire il pinot nero”, invece, ci si inerpica su una montagna da scalare ricca di insidie e contraddizioni. In Oltrepò Pavese il pinot nero è presente praticamente ovunque, ma non dappertutto riesce a trovare l’habitat ideale per dare il meglio di sé. Grandi vini, leggendari, così come bottiglie anonime o semplicemente banali: tutto e il suo contrario ci si può attendere quando ci
to alla statua della Libertà a New York, primo punto di approdo per molti italiani che in quegli anni emigravano inseguendo il sogno americano. La produzione di metodo champenois vede emergere aziende come quella di Angelo Ballabio a Casteggio o la Cantina Sociale La Versa che si impongono come le realtà italiane più importanti nella produzione di spumanti a rifermentazione in bottiglia. Il pinot nero rappresenta l’ossatura di questa cavalcata che non sembrava fermarsi più. Nomi piemontesi e oltrepadani cominciano a intrecciarsi all’interno di un percorso comune che vede questa terra diventare il grande serbatoio per le produzioni industriali della spumantistica italiana. I 150 anni di storia del pinot nero in Oltrepò Pavese sono segnati dall’incredibile incremento della sua produzione per le cosiddette “sette grandi sorelle Piemontesi”: Martini e Rossi, Cinzano, Gancia, Riccadonna, Contratto, Bosca e Fontanafredda. Realtà che acquistarono tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ingenti quantità di uva proprio in questo lembo di terra lombarda. Diminuito, ma non interrotto, l’interesse del vicino Piemonte per il pinot nero, tocca all’emergente Franciacorta attingere da quest’area: nel 2003 l’azienda Guido Berlucchi di Cortefranca affitta una cantina di trasformazione a Casteggio e vinifica direttamente in Oltrepò Pavese le uve di pinot nero per le sue basi spumantistiche: circa 20.000 quintali acquistate dai viticoltori della zona. (Il volume Storia di un territorio rurale. Vigne e vini dell’Oltrepò Pavese di Luciano Maffi, edito da Franco Angeli nel 2010, è un’utilissima lettura per chi volesse approfondire dinamiche e storia della viticoltura in Oltrepò Pavese).
troviamo di fronte a un bottiglia di pinot nero, sia esso vinificato in bianco o rosso. Questa nervosa scontrosità che lo ha portato ad adattarsi con fatica fuori dai suoi confini storici, trova conferma anche in Oltrepò Pavese. Attraversare, seppur sommariamente, le vicende storiche che hanno legato questo nobile vitigno ad una parte consistente dell’imprenditoria locale, significa leggere un pezzo di storia del vino italiano, oggi in parte cambiata. L’OLTREPÒ PAVESE È TERRA DI PINOT NERO? Partiamo da un dato che spesso ai più sfugge: circa 3.000 ettari vitati dicono che ci troviamo di fronte al giardino vitato a pinot nero più esteso della penisola (secondo al mondo dopo la Borgogna). Un mare di pinot nero che ha cominciato a insidiarsi intorno alla seconda metà del XIX secolo e che ha visto i primi impianti significativi a Rocca de’ Giorgi nel 1865 ad opera del Conte Carlo Giorgi di Vistarino. Qui è nato quello che un tempo veniva chiamato lo “Champagne Italiano”. “Gran Spumante SVIC”, dove l’acronimo sta per Società Vinicola Italiana di Casteggio, è la scritta che troneggia nel 1912 su un cartello pubblicitario posto accan-
CLONI, ZONAZIONE E… Se il pinot nero, dunque, storicamente, ha trovato in Oltrepò l’habitat ideale per la produzione di basi spumantistiche utilizzate qui come in Piemonte (circa il 90% della produzione di pinot oltrepadano è finalizzato per la realizzazione di spumanti), è altresì vero che la vinificazione in rosso si è ritagliata in un periodo più recente un suo spazio ricco di spunti, ma al tempo stesso contraddizioni ed equivoci. L’errore principale che chiunque può commettere accostandosi sia alle versioni metodo classico, che ancor più a quelle rosse, è il confronto con pinot neri allevati altrove, sia in Italia che, soprattutto, in Francia. È un confronto che spesso si rivela al più didattico, quanto in realtà fuorviante. Errori ne sono stati fatti, specie in epoche dove non era certo la qualità, quanto la quantità, da vendere il più delle volte a terzi, a essere l’obiettivo principale. Non è difficile ascoltare dalla voce di molti produttori oltrepadani, particolarmente legati a questo vitigno, quasi un grido di lamento nei confronti del trattamento che in passato gli è stato riservato. Errori di valutazione commerciale piuttosto che di scelte clonali o culturali non idonee al raggiungimento dell’obiettivo che si voleva perseguire sono aspetti da tenere in considerazione quando si affronta la storia del rapporto tra questa nobile uva e l’Oltrepò Pavese. Oggi è presente, a disposizione di tutti i produttori locali, un fitto lavoro di zonazione e un elenco dettagliato dei cloni più 31
Degustazioni
adatti alla vinificazione in bianco per il metodo classico piuttosto che a quella in rosso. Sono state individuate sei unità territoriali dopo un lavoro durato 10 anni, partito nel 1999, ad opera delle Università di Milano e Piacenza (il volume Guida all’utilizzo della Denominazione di origine Pinot nero in Oltrepò Pavese edito dal Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese a fine 2008 riporta in dettaglio tutto il lavoro svolto a questo riguardo). Eppure, scavando, non sembra solo una questione squisitamente tecnica: quando ci si imbatte, per esempio, in una bottiglia di Pinot nero vinificato in rosso del 1996 di Travaglino ottenuta da una semplice selezione di ciò che di meglio di poteva trovare in vigna in quel periodo, indipendentemente dalla varietà di cloni presenti, e si rimane completamente stupiti, non solo per l’integrità, quanto per l’elegante finezza espressiva che porta la mente altrove, una riflessione, probabilmente ovvia e banale, sul ruolo fondante dell’uomo viene spontanea. Il mix tra scelta delle altitudini, dei terreni e dei cloni ha la sua importanza, ma la capacità, nonché volontà, di chi opera sia in vigna sia in cantina ha la stessa, se non realmente decisiva, incidenza.
Carlo Alberto Panont, direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese
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LA SFIDA DEL CRUASÉ Il Cruasé: un azzardo? Una sfida? C’è il tentativo di alzare finalmente la testa attraverso la valorizzazione di un vitigno storico. C’è la voglia, probabilmente, di abbandonare definitivamente la fama di “incompiuta”, di “realtà dalle potenzialità enormi, ma mai realmente espresse appieno” che da sempre viene associata all’Oltrepò Pavese. Il pinot nero, nonostante l’intima fusione con questa terra, ha sempre navigato in un limbo mai ben chiaro. Ripartire da questo nobile vitigno è stato dunque uno dei leitmotiv che sin dall’inizio ha contraddistinto l’azione del mandato del direttore del Consorzio, Carlo Alberto Panont, non senza polemiche e mugugni, tipici dell’enomondo e particolarmente di casa da queste parti. La successiva nascita del “Cruasé”, una scelta di campo precisa: valorizzare un vitigno “locale” dalle radici storiche, una metodologia, quella del metodo classico, che qui è di casa dagli inizi del secolo passato e infine una tipologia, il rosé, che quando ben eseguita, ha l’indubbio merito di affascinare e incuriosire fasce di mercato abbastanza eterogenee. La prima annata a essere etichettata e commercializzata con il nome “Cruasé” (per l’approfondimento della genesi del nome si veda il box) è datata 2007. Dodici aziende in tutto. «Già dal prossimo millesimo il numero di aziende crescerà e non nascondiamo l’obiettivo di voler raggiungere una quota di etichette ben superiore alle cinquanta» ci fa sapere dal Consorzio Emanuele Bottiroli. Ora bisogna crescere, sia in quantità sia in qualità, cercando di avere una visione comune, non necessariamente interpretativa, quanto di forma e stile.
IL CRUASÉ, UNA SCELTA OBBLIGATA Fabrizio Maria Marzi, oltre ad essere dal 1996 l’enologo della storica azienda Travaglino in quel di Calvignano in Oltrepò Pavese, è anche una figura nota a molti sommelier italiani. Commissario agli esami di terzo livello, formatore di lunga esperienza ai plurididattici, in passato ha ricoperto ruoli dirigenziali in seno all’Associazione. Oltrepò Pavese e pinot nero. Un’eredità importante. Sì. Se vogliamo l’Oltrepò Pavese si è ritrovato questa fortuna non completamente per meriti propri. In che senso? L’Oltrepò è stato il bacino di utenza principale per storiche aziende piemontesi che fornivano barbatelle di pinot nero. Ancora adesso? Certo. Però ad un certo punto quei produttori hanno deciso di puntare molto sull’Asti e questo ha fatto sì che gli equilibri cambiassero. A favore dell’Oltrepò Pavese? Non completamente in realtà. A quel punto è cominciata ad emergere la Franciacorta. Berlucchi comprava qui il suo pinot nero. È stata questa azienda, nella figura dell’enologo Franco Ziliani, a preparare il terreno per gli industriali che poi hanno deciso di investire i loro capitali nel settore della spumantistica. L’Oltrepò non è stato al passo, perché il comparto è rimasto legato all’idea di essere soprattutto il substrato per una produzione altrui.
Il Classese è stato un primo tentativo per rilanciare questo comparto? Sì, ma è rimasta una piccola realtà con pochi produttori e piccoli numeri. C’è però da sottolineare un aspetto: nonostante il pinot nero non sia decollato, qui si è mantenuto il vigneto. Ed è un valore importantissimo. Oggi abbiamo quasi 3000 ettari di vigneto a pinot nero ed a partire dagli anni Ottanta sono stati impiantati anche cloni per la vinificazione in rosso. Ci fu confusione, ad un certo punto, tra cloni adatti a vinificazioni diverse? Un po’ di confusione c’era, ma le difficoltà non dipendevano solo da questo aspetto. L’incapacità e la cattiva conoscenza nell’allevamento del pinot nero, specie per la vinificazione in rosso, sono stati il vero handicap. Arriviamo quindi al Cruasé Il Cruasé è stata una scelta obbligata. Se vuoi testimoniare qualcosa di diverso devi puntare sul rosé. Il Cruasé non è corretto chiamarlo semplicemente uno spumante rosé: è un pinot nero spumantizzato con il metodo classico. Perché questa sottolineatura? Perché il concetto che deve passare è che con il Cruasé porti a tavola prima di tutto un pinot nero, non solo un metodo classico. Credi quindi che con il Cruasé sia possibile anche un tentativo di destagionalizzazione di questa
tipologia? Col Cruasé posso togliere questa tipologia dalle sole vendite natalizie. Che percezione c’è tra i produttori di questo nuovo progetto? Oggi in molti hanno preso coscienza che avere un pinot nero metodo classico ha senso, anche economicamente. Il lavoro di zonazione è stato un primo passo importante di presa di coscienza collettiva. Tutto l’Oltrepò Pavese può produrre ottime basi da spumante a base pinot nero. Ovvio che ci sono delle diversità tra la prima fascia collinare e le parti più elevate. Ma sono assolutamente convinto che le nostri basi da spumante non hanno nulla da invidiare alle altre. C’è o ci sarà competizione con la Franciacorta? No. Io credo molto nella Lombardia come polo del Metodo classico italiano. Insieme ci possiamo presentare con circa 12 milioni di bottiglie sul mercato. Non credo che invece sia possibile cercare di identificare tutto il comparto spumantistico italiano in modo univoco, magari con un nome solo. Ti riferisci al tentativo di far rinascere il “Talento”? Certo. Se ce la fanno compiono un’impresa. Ma, personalmente, pur rispettando il loro tentativo, io non ci credo.
IL CRUASÉ IN PILLOLE Il nome “Cruasé” deriva dalla fusione di “Cru” e “Rosé” unite da una “a” che fa da congiunzione. In questa scelta è presente anche il tentativo di recuperare il nome di un antico vitigno dell’Oltrepò Pavese, il “Cruà”, considerato un’eccellenza intorno al 1700. Cruasé è un marchio collettivo di proprietà del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese ad esclusivo utilizzo delle aziende che rivendicano DOCG Oltrepò Metodo Classico Rosè. Le bottiglie devono
essere “vestite” seguendo determinati parametri, dall’etichetta alla capsula, in modo da rendere distinguibile questa particolare tipologia. Il Cruasé fa riferimento al disciplinare della DOCG Oltrepò Pavese Metodo Classico approvato nel 2007. Il vitigno Pinot Nero dovrà essere utilizzato per un minimo dell’85%, con la specifica di vitigno appartenente alla DOCG. Affinamento sui lieviti di almeno 24 mesi e due tipologie consentite: Brut e Brut Nature.
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Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE Abbiamo degustato alla cieca 36 campioni grazie al supporto logistico e organizzativo del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese. 12 Cruasé Docg 2007, 5 Metodo Classico Rosé Pinot Nero Doc, 5 Pinot Nero Metodo Classico Docg e 14 Pinot Nero Metodo Classico Doc delle annate 2006, 2005, 2004, 2003 e senza annata. Abbiamo selezionato gli otto, attingendo da tutte le tipologie degustate, che ci sono sembrati più significativi per qualità e carattere. Travaglino – Oltrepò Pavese Docg Montécerèsino Cruasé Brut 2007 Calvignano (Pv) 24 mesi sui lieviti, ottenuto dalla criomacerazione e successiva spremitura soffice delle bucce di pinot nero provenienti dall’appezzamento Monteceresino, situato a circa 350 metri di altitudine. È un cru aziendale e incarna in modo deciso l’idea di fondo che anima l’dea del Cruasé: vigna ben definita, solo pinot nero, macerazione sulle bucce e rifermentazione in bottiglia. Il colore è un rosa acceso, vivo: l’attacco olfattivo colpisce per intensità e un mix di piccoli frutti rossi, dal ribes ai lamponi e un tocco di mineralità che segna anche il palato. Struttura e carattere, succosità e un bell’allungo nel finale con note di pompelmo rosa. Piccolo Bacco dei Quaroni – Oltrepò Pavese Docg Cruasé Brut 2007 Montù Beccaria (Pv) Arancio nel bicchiere e una personalità di bella suadenza: gioca sulle ossidazione senza mai perdere di vista la freschezza del frutto e delle note agrumate di bella vivacità. In bocca c’è tensione, apportata dalla piacevole vena fresca ed una persistenza che ricorda ancora le note agrumate. Tenuta il Bosco – Oltrepò Pavese Docg Cruasé Brut 2007 Oltrenero Zenevredo (Pv) Colore rosa acceso nel bicchiere e un’aromaticità che gioca già al naso sulle morbidezze e la dolcezza, senza mai scadere però nella stucchevolezza. Il frutto maturo e qualche nota di chinotto segnano un incedere olfattivo rassicurante e a tratti piacione. In bocca struttura e una fresca vivacità non mancano, anche se sono l’avvolgenza e la morbidezza a segnare il passo. Cantine Francesco Montagna – Berté Cordini Oltrepò Pavese Doc Cuvée Rosé S.A. Broni (Pv) Rosa pallido e una pulizia di bella precisione e sottigliezza. Le note di piccoli frutti, di ribes e lampone, ma soprattutto una beva incisiva, di grande freschezza con una vena sapida di grande potenza, donano a questo rosé metodo classico un tocco sferzante e di carattere. 8 mesi sui lieviti da vigneti posti a circa 250 metri di altitudine. Azienda Agricola Anteo – Oltrepò Pavese Doc Rosé 2005 Rocca De’ Giorni (Pv) Colore tra l’arancio e il rosa, al naso offre un buon mix tra note fruttate più delicate di ribes e più mature e dense di ciliegia e fragola. Succoso, di buona persistenza con un finale fruttato e fresco. Lungamente affinato sui lieviti, viene prodotto eventualmente con l’aggiunta del “salasso” del pinot nero vinificato in rosso. F.lli Giorgi – Oltrepò Pavese Docg Extra Brut “Gianfranco Giorgi” 2007 Canneto Pavese (Pv) Intensità e fragranza, complessità e finezza: all’interno della numerosa produzione, anche di vini spumanti, dei Fratelli Giorgi, questa selezione che risposa sui lieviti per 36 mesi si conquista sicuramente un ruolo di primo piano. Frutti di mela e pera maturi e note di pompelmo di bella trama. In bocca gioca su toni minerali, sapidi, con una bella e succosa persistenza agrumata di sottofondo. Ca’ del Gè – Oltrepò Pavese Doc Brut 2006 Montalto Pavese (Pv) Una mineralità rocciosa, delicati frutti bianchi e una sferzata agrumata di bell’impatto insieme a note di lievito e pane. In bocca segue la linea interpretativa del naso, con un finale ancora agrumato e sapido e una persistenza di bell’impatto. Riposa tra i 36 ed i 48 mesi sui lieviti a seconda delle annate. Monterucco – Oltrepò Pavese Doc Classese 2005 Cigognola (Pv) Note floreali e frutti bianchi di buona maturità insieme a quelle agrumate, incisive segnano il quadro olfattivo di questo metodo classico di bella finezza. Bocca di spessore, struttura, freschezza con una scioltezza gustativa di ottima fattura. Insieme al pinot nero, si unisce un 15% di chardonnay. 48 mesi sui lieviti. 34
Vino e territorio
Freisa,
il vino di Torino di Piermaurizio Di Rienzo
LE
ORIGINI RISALGONO AL XVI SECOLO E GIÀ
NELL’OTTOCENTO ERA CONSIDERATO UNO DEI
MIGLIORI VINI D’ITALIA.
PERSINO ERNEST HEMINGWAY NE ERA INCURIOSITO. OGGI IL FREISA È PRODOTTO SOLO DA CINQUE AZIENDE, RIUNITE IN UN CONSORZIO, PER UN MILIONE DI BOTTIGLIE COMPLESSIVE
il vino rosso di Torino, quello prodotto dalle uve coltivate sulle colline intorno alla città e che da sempre si accompagna ai piatti tipici della tradizione piemontese. È il Freisa di Chieri, un vitigno ricco di storia, snobbato per anni dai critici, ma che ora sta pian piano guadagnando nuove fette di mercato. Le origini di questo vino risalgono al XVI secolo: una tariffa doganale del comune di Pancalieri del 1517 indica tra le uve più pregiate “carrate e somate Fresearum” senza specificare esattamente il luogo di provenienza che, data la vicinanza, si presume fosse sulla collina torinese. Poi c’è un celebre trattato di un orafo milanese, Giovanni Battista Croce, che nel 1606 parla «della eccellenza e diversità dei vini che sulla montagna torinese si fanno e del modo di farli». Parla di Freisa anche il conte Nuvolone in occasione dell’adunanza della Reale Società agraria di Torino, nel 1798, dichiarando: «Freisa produce un vino acerbo, secco e robusto». Arriviamo quindi a Goffredo Casalis, cronista locale del XIX secolo, che descrive una “merenda sui prati della collina di Superga”, in occasione dei festeggiamenti per l’anniversario della liberazione dall’assedio francese del 1706. In quel caso i produttori di Freisa si improvvisavano osti itineranti che dalla vendita del loro vino ricavavano ottimi guadagni. Altri cenni arrivano dalla gran-
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de Esposizione Ampelografica del 1881, dove il Freisa di Chieri era inserito nell’elenco dei migliori vini d’Italia. E ancora. Ernest Hemingway nel suo Addio alle armi ne parla come di un vino del quale era “molto incuriosito”. La Seconda Guerra Mondiale e il successivo abbandono delle campagne rappresentò una causa della riduzione della viticoltura nella zona. Il ritorno alla coltivazione del vitigno si colloca dopo il 1973, anno dell’istituzione della Doc Freisa di Chieri. Attualmente a questo vino sono dedicati novantacinque ettari della provincia di Torino, sulla catena collinare a sud del Po che si estende da Moncalieri a Verrua Savoia, con un’altimetria variabile tra i 300 e gli oltre 550 metri. La zona di produzione è limitata a pochissimi comuni: Chieri, Pecetto Torinese, Pino Torinese, Pavarolo, Baldissero Torinese, Montaldo Torinese, Mombello Torinese, Andezeno, Arignano, Moriondo Torinese, Marentino e Riva presso Chieri. È un vino tipicamente rosso rubino, poco intenso dalla gradazione alcolica minima di undici gradi, prodotto solo da cinque aziende, riunite in un consorzio, per un milione di bottiglie complessive. «È un vitigno che si adatta bene per la consistenza della buccia, difficilmente attaccabile dalle muffe» racconta Stefano Rossotto, presidente del consorzio. «Nei terreni argillosi-sabbiosi, come le colline intorno a Chieri, sviluppa un’ottima vigoria, producendo acini di buone dimensioni, con elevato grado zuccherino, che danno vita a vini uniformi». Sono proprio i terreni, tra l’altro, a fare la differenza tra il Freisa di Chieri e quello di Asti (prodotto su una scala ben più vasta): nella prima zona si ha una predominanza di argilla e sabbia, nella seconda di calcare e limo. Il Freisa di Chieri viene tradizionalmente vinificato secco, nelle tipologie fermo e vivace. Quest’ultimo è il vino che più viene ricordato nel tempo, tipico della zona e che, come spiega Rossotto «si adatta perfettamente alla bagna caûda (tipico piatto a base di verdure e crema di acciughe e aglio)». C’è poi il Freisa Superiore, originato da uve verso la sovrammaturazione e immesso sul mercato circa un anno dopo la vendemmia. Infine, alcune realtà hanno cominciato a produrre Freisa Rosato e Freisa Spumante, come consentito dall’ultima modifica apportata al disciplinare della denominazione. L’omonima azienda del presidente Rossotto, a Cinzano, produce 30-35mila bottiglie all’anno. «Le principali guide ci hanno trascurato per anni a causa della fama pregressa di un prodotto onestamente problematico» osserva il titolare. «C’è stata un’evoluzione dal punto di vista qualitativo, anche grazie a corsi di formazione, prove di vinificazione e sperimentazioni in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino». «È da sempre una produzione di nicchia» aggiunge Luca Balbiano dell’azienda vitivinicola Balbiano di Andezeno. «Anche se il calo dei consumi rappresenta un dato assodato, abbiamo la consapevolezza di produrre un vino di eccellenza». L’azienda, fondata nel 1941 da Melchiorre Balbiano, produce 130mila bottiglie all’anno, di cui 100mila solo di Freisa di Chieri vivace. Un’altra delle cinque realtà presenti è La Borgarella di Chieri, piccola azienda agri-
cola produttrice di circa 20mila bottiglie annue, ma che vanta una tradizione secolare nella coltivazione dei vigneti. «È un vitigno appartenente alla famiglia del Nebbiolo, non sopporta grandi invecchiamenti, ma è ottimo da bere nell’annata» fa notare la titolare Enrica Gastaldi. «È un vino che può dare molto di più di quello che offre ora» dice Enrico Rubatto, giovane produttore di Baldissero Torinese. «Il Freisa di Chieri ha grandi potenzialità non ancora sfruttate, ma si sta lavorando bene». La sua azienda è la più piccola in termini di volumi: 6-7mila bottiglie all’anno, molte delle quali esportate all’estero. La restante quota di produzione è gestita dalla Cantina sociale del Freisa, che ha sede a Castelnuovo Don Bosco, comune della provincia di Asti, proprio a ridosso del Chierese. Per la promozione dei loro vini queste aziende possono contare su poche occasioni. A fianco al consolidato appuntamento del Vinitaly di Verona e del vicino Salone internazione del gusto di Torino, è nata la manifestazione Di Freisa in Freisa. La prima edizione, promossa dal comune di Chieri, si è svolta lo scorso aprile. Da segnalare anche La Corriera del Freisa che tra gennaio e febbraio parte ogni sabato da piazza Carlo Felice, a Torino, con fermate intermedie a Sassi e Chieri per portare enofili e buongustai alla Bottega del Vino di Moncucco, dove la Trattoria del Freisa propone menu tradizionali piemontesi. I partecipanti possono gustare i piatti della cucina tipica del territorio, abbinati ai vini delle aziende che aderiscono all’iniziativa.
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Vitigni autoctoni
Splende l’uva d’oro della Serenissima di Annalisa Raduano
NELLA LAGUNA DI VENEZIA SI È RECUPERATO UN ANTICO
VITIGNO AUTOCTONO, LA
DORONA.
IL VINO SARÀ
2012 E SI CHIAMERÀ VENISSA. UN’OPERAZIONE DI
PRONTO NEL
TUTELA DEL TERRITORIO E CONSERVAZIONE DELLE TRADIZIONI REALIZZATE GRAZIE A UN PROGETTO PUBBLICO E PRIVATO
L Uno scorcio insolito della Serenissima con i vigneti di Dorona all'interno della tenuta di Venissa nell'isola di Mazzorbo 38
ell’isola veneziana di Mazzorbo c’è una tenuta che si chiama Venissa. Si tratta di un’area murata, oggi integrata con una struttura ricettiva, un ristorante (gestito da Paola Budel, chef bellunese formatasi alla scuola di Gualtiero Marchesi e di Michel Roux) e un centro di formazione e di ricerca agro-ambientale. La tenuta custodisce l’antico vigneto recuperato da Bisol. Qui infatti è stata piantata la Dorona, il vitigno autoctono a bacca bianca tipicamente veneziano, presente in Laguna fin dal XV secolo. «Entro il 2012, verranno prodotte poche migliaia di bottiglie di questo antico vino, che si chiamerà Venissa ed è già oggetto di prenotazioni» ha spiegato Gianluca Bisol, durante la presentazione del progetto nella tenuta veneziana. «Grazie al coordinamento di mio fratello Desiderio, direttore tecnico, e alla consulenza di Roberto Cipresso, winemaker, produrremo uno fra i migliori dieci vini bianchi al mondo. Un vino che vuole essere anche un omaggio alla storia e alla cultura della laguna di Venezia, da sempre legata a Valdobbiadene». Il recupero della tenuta dove ha dimora la Dorona comprende un polo funzionale e di conservazione delle ricchezze della natura della laguna. Un progetto questo, premiato dal Comune di Venezia, giudicato il migliore (tra dodici progetti presentati) per la concreta azione di recupero e valorizzazione dell’area, che nasce grazie alla collaborazione fra Bisol e Vento di Venezia, Polo Nautico guidato da Alberto Sonino. Con il sostegno di Veneto Agricoltura è stato infatti possibile classificare e recuperare un antico vitigno lagunare di uva a bacca bianca, la Dorona, meglio conosciuta come Uva d’Oro, coltivata fin dal XV secolo e che era andato quasi perduto nei tempi moderni. Il recupero di questo vitigno si è celebrato proprio in occasione della prima vendemmia di quest’uva, cui hanno partecipato il presidente della Regione Luca Zaia, il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, il presidente della Biennale, Paolo Baratta, la scrittrice Camilla Baresani, lo scrittore e winemaker Roberto Cipresso, l’autore televisivo Alessandro Ippolito, lo scrittore e opionion leader Gelasio Gaetani D’Aragona Lovatelli. La tenuta di proprietà del comune di Venezia è stata ribattezzata con il nome Venissa, a seguito del progetto di recupero che la presenta oggi, come un parco che custodisce le ricchezze di questa terra. Accanto al vigneto di Dorona, vi sono anche orti coltivati dai pensionati con verdure tutte veneziane e una peschiera con pesci lagunari (cefali, anguille, granchi di laguna). La tenuta ripropone la fisionomia agraria dell’isola: coltivazioni di vigne, orti e frutteti sono stati realizzati grazie alle monache benedettine che curavano queste terre. La Dorona era un’uva prodotta nei secoli scorsi in tutta la laguna di Venezia e della quale sopravvivevano fino a pochi anni fa solo residue coltivazioni. Il dizionario dei vitigni antichi minori italiani, a cura del professor Attilio Scienza e di altri autori, pubblicato nel 2004 dice: «Quest’uva a bacca bianca viene chiamata anche Dorona o D’oro di Venezia ed è riconoscibile per il colore giallo dorato-ambrato dei suoi acini maturi che gli valgo-
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no il nome. Poco sensibile alle crittogame, specialmente alla botrite, si può conservare a lungo sulla pianta o in fruttaio, qualità che ne suggerisce l’impiego per la realizzazione di vini passiti. È una varietà a doppia attitudine, utilizzata sia come uva da mensa che da vino, nel qual caso dà origine a bianchi di colore giallo paglierino, con tenue odore vinoso e un sapore asciutto con retrogusto leggermente amarognolo». La storia la vede florida ai tempi della Serenissima come la varietà che produceva il vino di Venezia anche se, in tempi più recenti, viene descritta come uva da consumo fresco nell’entroterra veneto. In effetti la coltivazione dei vigneti nella laguna di Venezia è antica quanto i suoi insediamenti e ampiamente documentata in scritti custoditi nell’Archivio di Stato di Venezia, come dimostra la ricerca effettuata dalla scrittrice Carla Coco. Grazie al catastico del 1341 degli ufficiali del Piovego si scopre che al Lido c’erano complessivamente cinquantasette vigne. Ricchissime tracce di vigneto si trovano a Mazzorbo, la casa della Dorona, dove le vigne erano di proprietà del monastero di Santa Eufemia. La vite viene impiantata dai frati certosini subito dopo il loro insediamento (1421), tant’è che il monastero aveva una cantina con diverse linee di produzione, come si direbbe oggi: vino puro per la messa e vino allungato con l’acqua (in proporzioni rigorose e non casuali) per un prodotto leggero che veniva dato ai poveri come elemosina insieme al cibo. Un luogo quindi da sempre destinato alla coltivazione dell’uva, dove oggi la Dorona torna a splendere. Il taglio del primo grappolo lo ha fatto, con molta soddisfazione, Luca Zaia
L Una veduta dall'alto della tenuta di Venissa
L La degustazione dei vini veneti
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Vitigni autoctoni L La tenuta di Venissa
che non ha mancato di sottolineare quanto grande sia il suo Veneto e i suoi vini: «Il Veneto è la prima regione per produzione di vini e di vini Doc e Docg, dei quali quasi l’85 per cento sono ottenuti da uve autoctone. Qui nella tenuta di Venissa abbiamo voluto riportare la produzione vinicola, dove era scomparsa». Alla cerimonia erano presenti anche i ragazzi con sindrome di Down dell’Associazione Italiana Persone Down – Sezione della Marca Trevigiana, che da anni si dedicano al vino, proponendo bottiglie vendemmiate con uve da loro raccolte e imbottigliate con creatività: etichette personalizzate che poi vestono bottiglie vendute a un’asta di beneficenza che ogni anno si svolge a Verona, in occasione del Vinitaly. C’erano al taglio Gianluca Bisol e Giorgio Cecchetto delle omonime aziende e Raffaele Boscaini per Masi Agricola a testimoniare che la vite e il vino sono parte integrante delle tradizioni gastronomiche e dell’economia di questa regione. E la centralità dell’enologia per l’economia veneta è confermata anche dai numeri: in Veneto si producono circa otto milioni di ettolitri l’anno, dei quali quasi 3,2 milioni a denominazione. Gli esportatori della regione vendono all’estero una quantità di vini e mosti equivalenti a circa il 60 per cento della produzione regionale, per una quantità e un valore (attorno al miliardo di euro) equivalente al 28 per cento del totale dell’export italiano di vino. Il vino veneto Doc proviene per la gran
L Da sinistra Luca Zaia, governatore del Veneto, Gianluca Bisol e altri ospiti e protagonisti del Progetto Venissa, inaugurato lo scorso 3 settembre 40
L Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, e Luca Zaia alla vendemmia nella tenuta di Venissa
L Alcuni ambienti all'interno della tenuta di Venissa
L Una vite di uva Dorona
parte da vitigni autoctoni e originari (oltre l’80 per cento del totale) e anche da tecniche autoctone, come ad esempio, l’appassimento delle uve su graticci, per ottenere un vino maestoso come l’Amarone. Del resto, Prosecco, Valpolicella, Soave, Amarone, Recioto, Conegliano Valdobbiadene con il Cru Cartizze, Bardolino, Durello, Asolo, Lugana, Malanotte, Schiava, Casetta, Refrontolo, Torcolato, Pinello, Fior d’Arancio, Friularo, Enantio, Refosco, Colli di Conegliano, Casetta contraddistinguono vini Doc e Docg ottenuti da uve che da secoli vestono il Veneto e che da qui sono state portate altrove dai tanti veneti emigrati. Una curiosità: nel Veneto ci sono alcuni dei vigneti più preziosi al mondo. Nel territorio della Valpolicella classica sono 104 gli ettari a vite del Cartizze: per il terreno di queste colline c’è una valutazione di massima (si parla di due milioni e mezzo di euro ad ettaro) ma non un vero e proprio “prezzo”, perché solo un pazzo venderebbe anche un solo appezzamento. Questi vini si ottengono da antichi vitigni come Corvina, Molinara, Rondinella, Garganega, Glera, Durella, Raboso, Negrara, Vespaiola, Oseleta, Marzemino, Verdiso, Bianchetta o da moderni incroci qui realizzati come Manzoni Bianco e Manzoni Rosso. Sebastiano Carron che dagli uffici della regione descrive e racconta della cultura enogastronomia del territorio e delle sue valenze paesaggistiche spiega con orgoglio: «I nostri vini si bevono perché buoni. E anche con un conveniente rapporto prezzo-qualità. E poi chi li degusta sorseggia la storia, respira il territorio. Perché nel Veneto il vino è presente almeno da quando c’è l’uomo. E anche da prima, se si guarda l’impronta fossile di una foglia di ampelidea, vecchia di 50 milioni di anni, ritrovata in Lessinia, a Bolca». Carron prosegue illustrando l’evolversi del consumo di uva da parte degli antichi abitatori degli insediamenti palafitticoli del Garda e del Lago di Fimòn, delle prime coltivazioni di vite vinifera attribuibili alla civiltà paleoveneta ed etrusca, mentre spiega che le prime citazioni documentate dei vini locali sono quelle del Vino Retico, il vino dolce prodotto con uve appassite nella Retia, la regione collinare che agli albori di Roma si estendeva a settentrione della parte centrale della Pianura Padana. Testimonianze di vino si trovano da Cassiodoro al re longobardo Teodorico, che nel suo editto prevede pene per chi danneggi le viti o ne rubi i grappoli, passando per i Comuni e la Repubblica di Venezia. Tornando ai giorni nostri e alla Dorona, dopo la prima produzione, numerata, data la poca capacità produttiva, è in via di definizione il recupero di altre aeree lagunari da destinarsi alla vite, al vino e alla Dorona. Così la storia del vino e la tutela degli autoctoni lagunari nelle Serenissima e in Veneto proseguono guardando al futuro ma ben radicate nel passato. 41
Degustazioni
Faro
Il per riscoprire le radici della
Sicilia
di Luigi Salvo INIZIALMENTE
LA
DOC FARO
ESISTEVA
SOLO SULLA CARTA.
AGLI INIZI DEGLI ANNI
NOVANTA
IL MERITO
DI AVER LOTTATO PER MANTENERLA IN VITA E RILANCIARLA SI DEVE A UN PRODUTTORE ILLUMINATO, SALVATORE GERACI
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ulle colline che si affacciano sullo Stretto di Messina in una lingua di terra chiusa tra il Mar Tirreno e il Mar Ionio nasce la denominazione d’origine controllata Faro. Il suo nome pare derivi dall’antica popolazione greca dei Pharii, che colonizzarono gran parte delle colline messinesi, svolgendo attività agricola e in particolare dedicandosi alla coltivazione delle vigne, o verosimilmente da Punta Faro o Capo Peloro, posta all’estremità dello stretto. La sua zona di produzione si sviluppa nel solo comune di Messina, proprio dal faro di Capo Peloro ai piedi del Monte Poverello, verso sud-est. Quest’area della Sicilia vanta un’antichissima vocazione vitivinicola, il vino Faro, infatti, era prodotto già in età Micenea (XIV secolo a.C.). Numerose testimonianze sono riconducibili a un’importante attività vitivinicola già dall’epoca greca, per arrivare fino al XIX secolo in cui furono davvero notevoli il commercio e l’esportazione di vino Faro in molte regioni della Francia, allora utilizzato come vino da taglio dei vini di Borgogna e di Bordeaux, in concomitanza con gli attacchi di fillossera che interessarono il Nord Europa e la Francia in particolare. Nell’intera provincia di Messina nel 1848 in totale gli ettari coltivati a vite erano 18mila, nell’ultimo decennio dell’Ottocento raggiunsero i 40mila e la produzione annua di vino arrivò a 500mila ettolitri. Oggi gli ettari vitati a uva da vino nella provincia sono 900, ma proprio questo basso picco ha contribuito alla svolta della viticoltura messinese verso la qualità. Il Faro ha ottenuto il riconoscimento Doc nel 1976. Il disciplinare prevede l’utilizzo di Nerello Mascalese dal 45 per cento al 60 per cento, Nerello Cappuccio dal 15 al 30 per cento, Nocera dal 5 al 10 per cento ed eventuale aggiunta di Nero d’Avola e/o Gaglioppo e/o Sangiovese e/o altre uve a bacca rossa autoctone (massimo 15 per cento). La biodiversità dei vitigni autoctoni siciliani è un grandissimo patrimonio, alcuni di questi però non hanno grande plasticità e allevati al di fuori delle aree d’elezione non danno gli stessi risultati. Il Nerello Mascalese e il Cappuccio si esprimono al meglio nel particolare terroir vulcanico dell’Etna e riescono anche a offrire interessanti vini nella zona messinese del Faro, ove i terreni di coltivazione sono bruni, leggermente acidi e tendenzialmente compatti alle quote maggiori dei Nebrodi e dei Peloritani meridionali, alluvionali e generalmente molto fertili lungo la fascia costiera del litorale di Milazzo. In realtà la Doc Faro, dopo qualche anno dalla sua nascita, negli anni Ottanta era prodotta in esigua quantità, esisteva in pratica solo sulla carta. Agli inizi degli anni Novanta il gran merito di aver lungamente lottato per
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La degustazione di Luigi Salvo, a sinistra, con Francesco Giostra Reitano, presidente del Consorzio di Tutela
mantenerla in vita e rilanciarla in quantità e qualità va dato a un produttore illuminato, l’architetto Salvatore Geraci. Spinto da Gino Veronelli a produrre un grande vino dalle sue vigne, cercò di comprendere al meglio il suo materiale esistente, alberelli con oltre settant’anni di vita. In quel fazzoletto di terra collinare che si affaccia sullo Stretto di Messina, dove la viticoltura andava scomparendo, vi erano terreni con paesaggi mozzafiato, dove la pendenza che supera il 70 per cento ha imposto la costruzione di numerosi terrazzamenti, strie di muretti a secco che definiscono le colline. Nel 1990 Salvatore Geraci per il suo Faro Palari sceglie l’enologo Donato Lanati. Il vino va in bottiglia senza chiarifiche e filtrazioni, la malolattica è svolta in barrique dove il vino permane dai 12 ai 18 mesi. Per quattro anni il vino prodotto non viene commercializzato, la prima vera annata è il 1995. Dal successo del suo vino parte la rinascita dell’intera denominazione. Grazie a questo impulso negli ultimi anni diverse aziende hanno scommesso sul valore di questa Doc che oggi può vantare anche un Consorzio di tutela, nato sette anni fa e che raggruppa quindici associati. Il presidente Francesco Giostra Reitano, anch’egli produttore, unisce e coordina le aziende facendo squadra allo scopo di valorizzare, promuovere e tutelare gli interessi relativi al piccolo comparto della Doc Faro. È una delle denominazioni siciliane più piccole. Oggi gli ettari vitati iscritti all’albo dei vigneti a Doc sono venticinque, ma è un’ottima espressione dell’autoctonia siciliana e proprio per questo ha un gran valore aggiunto. I produttori che oggi s’impegnano nella sua valorizzazione, alcuni anni fa hanno scelto di non estirpare gli antichi vitigni locali per fare posto agli internazionali in grado di globalizzare la produzione e facilitarne la commercializzazione, ma di dare invece una forte spinta a un’anima locale non del tutto espressa, attraverso il recupero di antichi vigneti e il reimpianto di nuovi. I vignaioli del Faro cercano di raccontare il loro territorio in maniera diretta, evitando il filtro della manipolazione enologica. La comune parola d’ordine in vigna e in cantina è rispetto della materia prima, facendo convivere in armonia tradizione e innovazioni tecnologiche. Sono orgogliosi di farlo proprio attraverso i vitigni siciliani Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera e alcuni altri dai nomi particolari: Core ‘e Palumba, Acitana, Galatena. «Nulla aggiungiamo e nulla togliamo a ciò che la natura ci dà, noi siamo semplicemente i traghettatori di un’essenza che partendo dalla terra e attraversando la vite si esprime nell’uva». 43
Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE Bonavita – Faro Doc 2008 – 13,5% vol. Faro Superiore (Me) – Nerello Macalese, Nerello Cappuccio, Nocera I vigneti della famiglia Scarfone, dai 6 ai 50 anni d’età, si trovano su ripidi terrazzamenti a 250 m s.l.m. su terreno di medio impasto con strati argillosi e tufi calcarei. Le uve sono allevate con agricoltura naturale, basse dosi di rame e zolfo per la difesa antiparassitaria, sovesci annuali di leguminose seminate in autunno per l’apporto di sostanza organica naturale. Il vino affina 16 mesi in botti di rovere non nuove. Dal colore rosso rubino trasparente con lievi riflessi granato, ha naso di vivo frutto, con note di macchia mediterranea, spezie, humus e grafite. Al gusto evidenzia la sua gioventù nel frutto vibrante e nella spiccata acidità, chiude in lunghezza su toni speziati. Abbinamento consigliato falsomagro al ragù. Prezzo consigliato in enoteca: 22 euro.
Tenuta Enza La Fauci – Faro Doc 2008 – 14,5% vol. Mezzana (Me) – Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera, Nero d’Avola Enza La Fauci ama la sua terra e il suo vino, alleva le uve in contrada Mezzana vicino Capo Peloro su terreni argillosi-calcarei. Le diverse varietà sono vinificate singolarmente con macerazione del mosto sulle bucce per 10 giorni, senza lieviti aggiunti e con impiego di solfiti ridotto al minimo, il vino affina 12 mesi in barrique nuove e usate. Nel bicchiere ha colore rosso rubino luminoso, ventaglio aromatico poliedrico, fruttato di marasca e ciliegia, note vegetali, di cioccolato e spezie balsamiche. Al sorso è di gran bevibilità, mostra vitalità dell’asse acido-tannico e piacevole ritorno nel finale persistente delle sensazioni gusto-olfattive di frutto e spezie. Ideale con bocconcini di capriolo in umido. Prezzo consigliato in enoteca: 30 euro.
Azienda Agricola Reitano – Faro Doc Rasocolmo 2008 – 13,5% vol. Rasocolmo (Me) – Nerello Macalese, Nerello Cappuccio, Nocera, Sangiovese Il vigneto di un ettaro dal quale deriva è in uno splendido scenario naturale, il promontorio di Rasocolmo che si affaccia sul mar Tirreno proprio di fronte l’isola di Stromboli. Il vino è frutto dell’unione dei tre classici vitigni del Faro e ha anche una piccola percentuale di Sangiovese. Fermentato in acciaio con controllo della temperatura è affinato esclusivamente in acciaio. Dal vivo colore rosso rubino, effonde particolari sentori floreali di rosa e viola, frutta rossa macerata e spezie. Elegante l’impatto gustativo caratterizzato da nerbo acido ben presente e tannino fitto, è piacevole nei ritorni frutto-sapidi retrolfattivi. Si sposa perfettamente con pesce spada alla ghiotta. Prezzo consigliato in enoteca: 18 euro.
Fondo dei Barbera – Faro Doc 2008 – 13,5% vol. Faro Superiore (Me) – Nerello Macalese, Nerello Cappuccio, Nocera Il fondo dell’ingegnere Claudio Barbera è esteso per meno di un ettaro a Faro Superiore a 160 m s.l.m. Sin dal 1961 i Barbera vinificano in loco le loro uve, nel 2004 la svolta con l’impianto delle nuove vigne e il rilancio qualitativo. Il vino fermenta in silos d’acciaio termocondizionato ed è maturato in botti di rovere per un anno. Dal bel colore rubino cupo con riflessi porpora, mostra un bel naso stratificato, sentori floreali di viola, fruttati freschi di mora e mirtilli, cioccolato, cannella percezioni speziate. All’assaggio esprime evidente freschezza di gioventù, tannino esuberante, le parti dure decisamente prevalenti hanno necessità di tempo per smussare gli angoli. In abbinamento con petto d’anatra al ginepro. Prezzo consigliato in enoteca: 25 euro. 44
Vigna Sara – Faro Doc 2008 – 12,5% vol. Faro Superiore (Me) – Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera, Nero d’Avola, Montonico, Sangiovese Dai 2,5 ettari di vigna Sara che sorgono a 220 m. s.l.m. a Faro Superiore su un declivio naturale verso lo stretto di Messina, prende nome il vino Faro della famiglia Caruso. Nella piccola cantina annessa al vigneto le operazioni di vinificazione prevedono l’utilizzo dell’acciaio inox termocondizionato e la follatura manuale, il vino è successivamente maturato per 12 mesi in barrique di rovere francese. Nel bicchiere mostra colore rubino con riflessi granato, all’olfatto profumi di frutti rossi scuri, quali ribes e mora, note speziate e boisé. Al palato dal corpo snello, evidenzia freschezza, tannino integrato, finale di frutto leggermente amaricante. Ottimo compagno del capretto alla messinese. Prezzo consigliato in enoteca: 22 euro.
Mimmo Paone – Faro Rosso Doc 2008 – 13,5% vol. Condrò (Me) – Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera, Nero D’Avola Quella dell’enologo Mimmo Paone è un’azienda che ama definirsi artigianale, da tempo valorizza le tre Doc della provincia di Messina ed in particolare i vitigni autoctoni che le compongono. La vigna dal quale deriva il Faro si estende per 2 ettari a Castanea delle Furie a 400 m. s.l.m. Le uve sono vinificate con metodo Ganimede. Dal luminoso colore rosso rubino trasparente, offre intense sensazioni di marasche e frutti di bosco, tabacco, pepe nero, e pregevoli note di cannella. L’entrata in bocca è succosa e gradevole, il nerbo acido è ben presente, il tannino integrato, il finale è di lunghezza ed è corrispondente per aromi al gusto. Da provare in abbinamento allo stinco di maiale al forno. Prezzo consigliato in enoteca: 30 euro.
Azienda Agricola Bonfiglio – Vigna Beatrice faro Doc 2008 – 14% vol. Briga Marina (Me) – Nerello Macalese, Nerello Cappuccio, Nocera Nel territorio ionico di Contrada Greco a Briga Marina sorge il vigneto di Biagio Bonfiglio esteso per 1,5 ettari. Il giovane impianto è a cordone speronato, alla vinificazione a temperatura controllata in acciaio inox segue l’affinamento in barriques di rovere per tre mesi. L’etichetta del Faro Vigna Beatrice raffigura un quadro realizzato da un amico di famiglia, il pittore messinese Togo. Nel bicchiere dona concentrato colore rubino cupo, ha olfatto tratteggiato da timbri scuri, frutto sottobosco, macchia mediterranea e speziatura. Al sorso misurato e ben espresso ha morbide note gliceriche che fanno da contraltare all’acidità. In abbinamento con maialino dei Nebrodi alla brace. Prezzo consigliato in enoteca: 18 euro
Azienda Agricola Palari – Faro Doc 2007 – 13,5% vol. S. Stefano Briga (Me) – Nerello Macalese, Nerello Cappuccio, Nocera , Nero d’Avola, Acitana, Tignolino, Galatena Nella contrada Palari a S. Stefano Briga di Messina, si estendono i vigneti che in un microclima particolare producono le eccellenti uve che compongono il Faro di Salvatore Geraci. La fermentazione è svolta a temperatura controllata, il vino matura in barrique per non meno di 18 mesi. Nel bicchiere è luminoso rosso rubino con riflessi granato, l'impatto olfattivo è un insieme di mora, cassis e prugna sotto spirito, pepe nero, liquirizia, caffè e suadente vaniglia. Al palato di complessità ha il frutto sorretto da eleganti tannini, il nerbo acido e le note minerali bilanciano la piacevole morbidezza. Vino di struttura, di gran longevità, chiude con una Pai di valore tra frutto e spezie. Da accompagnare con filetto al cartoccio prosciutto e funghi. Prezzo consigliato in enoteca: 35 euro.
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Cooperative sociali
Le molteplici potenzialità delle
cooperative
di Ludovica Schiaroli
LEGAME
STRETTISSIMO CON IL TERRITORIO E ORGANIZZAZIONE
DEL LAVORO DEI SOCI. IL MONDO DELLE COOPERATIVE SI SVILUPPA
E COME LA SICILIANA SETTESOLI, CONIUGANDO RISORSE E QUALITÀ, PUNTA ALLA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO
assessore alle Risorse agricole e alimentari della Regione Sicilia, Giambattista Bufardeci, presentando il piano di riorganizzazione del sistema cooperativistico vitivinicolo regionale, auspica la creazione di maxi strutture capaci di gestire produttività sempre maggiori. In disaccordo con i programmi di Bufardeci è Salvatore Li Petri, direttore generale della Settesoli, che afferma: «Non ci vogliono strutture più grandi ma solo un’azione di coordinamento. Ammiro il lavoro fatto da una cooperativa come la Cavit, che è riuscita a coniugare qualità e mercato, il tutto valorizzando il territorio». Con duemila soci che gestiscono seimila ettari di vigneto, la Cooperativa Settesoli rappresenta il 5 per cento di tutti i terreni vitati della Sicilia. Prima per fatturato – nel 2009 ha superato i 40 milioni di euro – e numero di bottiglie vendute, esporta in quaranta Paesi nel mondo fra Canada, Nord America, Inghilterra, Svezia, Danimarca, Svizzera, Belgio, Giappone e Sud America. Vincitrice nel 2009 del premio Sodalitas “per la capacità avuta attraverso la sua attività di valorizzare e promuovere il territorio”, la Settesoli sembra essere l’interlocutore più adatto per affrontare il delicato tema della cooperazione. Fondata nel 1958 a Menfi, nella parte sud occidentale della Sicilia, da ottantotto soci tra i quali Vito Planeta, padre di Diego, quest’ultimo nel 1973 è stato nominato presidente, carica che ancora oggi mantiene. «Per
L’
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noi è un grande punto di forza avere una persona come Diego Planeta in azienda ed è stato anche l’unico modo per portare avanti un progetto di sviluppo così impegnativo e a lungo termine» racconta Salvatore Li Petri, che dirige la cooperativa dal 1998. Menfitano, classe 1964, è riuscito nella difficile impresa di coniugare gli studi in Economia alla passione per la terra e per la vigna, tramandatagli dal padre agricoltore. Ammette che le tante estati passate a lavorare nei campi sono un patrimonio di cultura e tradizione che l’hanno arricchito e che ogni giorno mette a frutto in azienda. Il legame strettissimo con il territorio, la cooperativa lo dichiara già nel nome. Settesoli è infatti uno dei due feudi che Tancredi ricevette in dote dal padre, il principe Fabrizio Salina, detto il Gattopardo. Ispirati al romanzo di Tomasi di Lampedusa sono anche alcuni nomi di vini della cantina. Ma le similitudini finiscono qui. Strutturalmente la cooperativa è formata da un consiglio di amministrazione di nove membri e da un presidente. C’è poi il reparto operativo con un direttore generale, cui rispondono la direzione tecnica e quella commerciale. Il passaggio più delicato è la comunicazione tra l’azienda e i suoi soci. «La nostra cooperativa ha due priorità: la qualità della materia prima, l’uva, e l’organizzazione e il coordinamento del lavoro di tutti i soci. Avere un obiettivo comune significa lavorare insieme come se fosse un unico grande vigneto di seimila ettari! Questo ci rende diversi dal resto del
Salvatore Li Petri, direttore generale della Cooperativa Settesoli
Vigneti a Melfi
mondo cooperativo siciliano» conclude Li Petri. Con un occhio sempre rivolto al mercato, il direttore generale della Settesoli ammette di non essersi mai fatto prendere dalla “moda dell’autoctono”, perché convinto dell’importanza dei vini internazionali quali ambasciatori dell’azienda in terra straniera. La cooperativa esporta, infatti, il 60 per cento del vino prodotto, mentre il restante 40 per cento è suddiviso in parti uguali tra la Sicilia e il resto d’Italia. Risulta perciò chiaro perché l’azienda utilizzi poco la Doc. Una scelta difficile ma meditata perché «oggi tutti i nostri vini potrebbero rivendicare la Doc Menfi, ma sia per il mercato italiano che per quello estero, Menfi non è direttamente riconducibile alla Sicilia, perciò preferiamo utilizzare la dicitura Igt Sicilia» spiega Li Petri. Al momento la cooperativa sta valutando l’utilizzo della dicitura Menfi Doc all’interno del marchio Settesoli. Ancora una volta accade che un’azienda faccia da traino per comunicare il territorio. Negli ultimi dieci anni sono stati investiti oltre 20 milioni di euro per ammodernare le tre cantine di vinificazione, mentre un unico centro di imbottigliamento altamente automatizzato permette di confezionare i 25 milioni di bottiglie prodotte all’anno. A fronte di tale produzione è fondamentale avere più linee che possano diversificare l’offerta. Se MandraRossa rappresenta la selezione delle uve migliori destinate ad enoteche e ristoranti, Settesoli è pensato per il mercato italiano, mentre Inycon prende la strada del mercato estero. Eccetto MandraRossa, i restanti marchi sono distribuiti anche nella grande distribuzione, scelta quasi obbligata per garantire una capacità di penetrazione di quote di mercato sempre maggiori e contemporaneamente riuscire a distribuire tutto il vino vendemmiato. Un giusto equilibrio fra quantità e qualità rimane quindi la grande sfida che la cooperativa deve affrontare ogni anno.
Oggi in azienda lavorano duecento persone ma l’indotto che gravita intorno alla struttura è ben più ampio, se si pensa che circa il 70 per cento delle famiglie che vivono in zona traggono reddito dalla sua presenza. In una regione che da sempre soffre di un’endemica mancanza di lavoro, con un tasso di disoccupazione che è fra i più alti d’Italia, la Settesoli è l’esempio che la cooperazione può ancora fare la differenza. Salvatore Li Petri sottolinea l’importanza di una gestione meno “assistenziale” e più attenta al mercato, quando afferma: «In Sicilia il 75 per cento della produzione vitivinicola è ancora in mano alla cooperazione e oggi rappresenta un handicap perché commercializzando per lo più vino sfuso, non riusciranno a garantire ancora a lungo un futuro ai loro soci, che inevitabilmente dovranno confrontarsi con un mercato estero che vende a prezzi sempre più competitivi». Il direttore della Settesoli individua nel carattere dei siciliani “spesso autoreferenziali e poco inclini al confronto” le cause di una crescita non ancora compiuta. «Paradossalmente» continua Li Petri, «sono state le piccole aziende famigliari come Planeta, Donna Fugata e poche altre a dare nuovo appeal al vino siciliano». In effetti per molti anni la Sicilia è stata la più grande produttrice ed esportatrice di vino da taglio e solo a partire dalla fine degli anni Ottanta è iniziato un processo di rinascita vitivinicola che ha visto diminuire la produzione, mentre un terzo del suo vigneto veniva riconvertito con vini di qualità, dando vita a una rivoluzione culturale tanto inaspettata quanto redditizia. Gestire al meglio questo patrimonio è una sfida impegnativa ma con ottime potenzialità, come osserva Li Petri: «Se guardo al futuro vedo ottime possibilità di crescita ma soprattutto vorrei incrementare la produzione di vino in bottiglia perché è quello che dà più margine. L’auspicio è di realizzarlo nei prossimi sette, otto anni».
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Musei
Nella tazzina
aromi d’Oriente di Letizia Magnani
I
SEGRETI DEL CAFFÈ CI SONO STATI TRASMESSI
DAGLI ARABI E ANCHE IL NOME, IMPORTATO DAI
NAVIGATORI VENEZIANI, VIENE DALL’ARABO
“QUAHWAH”
CHE
SIGNIFICA BEVANDA ECCITANTE
a Santo Domingo a Palermo, passando per Praga, Parigi e Forlimpopoli, è questo l’itinerario per andare alla scoperta di tutti i segreti del caffè, vitamina dello spirito e bevanda che ha stregato il mondo. «Nero come il diavolo, caldo come l’inferno, puro come un angelo, dolce come l’amore» ecco le parole con le quali è stato definito da Talleyrand, vescovo, politico e diplomatico parigino di inizio Ottocento. Il caffè è da sempre la bevanda degli intellettuali, ma anche dei politici. Napoleone sostituì il caffè all’alcool tra le sue truppe, certo che questo liquido desse maggior vigore ai soldati, senza le controindicazioni dell’ubriachezza. Gli italiani hanno fatto del caffè un’abitudine e dell’espresso all’italiana un mito, anche se sono gli unici del mondo a berlo fuggevolmente in piedi, al bar la mattina presto. Per gli altri popoli il caffè è una bevanda da riposo, da qui la tradizione del caffè turco, che si beve in grandi tazze dal tardo pomeriggio in poi, ma anche quella del caffè americano. Starbucks è diventato luogo di ritrovo negli States, come in mezza Europa. D’altra parte, senza dover per forza citare Sex and the City, è nei caffè parigini che da sempre si sono consumate le storie del mondo. Dal cinema (celebri alcune scene come quella di Casablanca, del Rick’s Café, ma anche quella del film Amici miei, solo per citarne un paio) alla vita, diverse sono le storie che si possono scoprire andando in giro per il mondo a ricostruire il percorso del caffè, dal chicco alla tazzina.
D
IIIIQUELL’AROMA UNICO RACCHIUSO IN UN CHICCO Il viaggio non può che partire da Santo Domingo, paradiso naturale, nel quale all’azzurro del mare si mescolano i colori accesi del caffè, dal verde del seme, al marrone dei chicchi, fino al nero della polvere tostata. È nel cuore del Paese, il cui clima tropicale è perfetto per le piantagioni di caffè, che si sviluppa la Ruta del Café, un progetto di Ucodep, Ong italiana che da oltre dieci anni lavora nella Repubblica Dominicana con progetti volti a migliorare le condizioni di vita della popolazione locale. Sono sei i percorsi possibili, tre lungo la Ruta 48
del Café Atabey, nella provincia di Monseñor Nouel, a un’altitudine media di 950 metri e tre lungo la Ruta del Café Jamao, nella provincia di Salcedo. La Ruta del Café Atabey è situata sulle montagne della provincia di Monseñor Nouel. I tre sentieri sono El Higo, El Cafetal de Kakelo e El Candongo. La Ruta del Café Jamao si trova invece nella provincia di Salcedo, a un’altitudine di circa 900 metri e propone altri percorsi. El Cafetal è la passeggiata che porta al museo del caffè, dove è possibile degustare la qualità Jamao, ma anche scoprire come si coltiva, raccoglie, tosta e assaggia. IIIIDA SANTO DOMINGO A PALERMO Lasciando l’America Latina il caffè ci porta in Sicilia, dove, a Palermo, sorge il museo del caffè Morettino. La famiglia, da sempre produttrice di caffè, ha raccolto negli anni un vero e proprio patrimonio di oggetti legati alla bevanda più famosa al mondo. Nel museo ci sono tosta-caffè con un manico lungo, altri che hanno una curiosa forma sferica. Tra i macinini ci sono quello classico delle nonne, ma anche altri assolutamente insoliti, come macchine con doppie ruote dentate che sembrano marchingegni leonardeschi. Nel museo sono custoditi alcuni dei cimeli di Procopio Coltelli, il palermitano che nel Seicento fondò il celebre caffè Le Procope a Parigi e contribuì a diffondere la cultura del caffè d’Oltralpe. Infine c’è la stanza dedicata alle macchine per l’espresso, prodigi di ingegneria meccanica tutta italiana.
L Una serie di macchine da caffè storiche della collezione Enrico Maltoni
L Un macinacaffè conservato al Museo del Caffè Morettino di Palermo
IIIIIL MUSEO DELL’ESPRESSO Proprio all’espresso è dedicato un terzo museo assolutamente da conoscere. Si trova a Forlimpopoli ed è un vero atto d’amore all’espresso italiano. «La storia della macchina per caffè da bar in Italia – si legge nel sito del museo, che raccoglie centinaia di oggetti della collezione Enrico Maltoni – ha inizio nel novembre del 1901 con il deposito del brevetto del primo modello, studiato dall’ingegnere Luigi Bezzera di Milano». Si tratta di una versione a colonna, monumentale, destinata a diventare per molto tempo un modello di riferimento obbligato da parte delle case costruttrici. Anche in precedenza c’era l’usanza di consumare tale bevanda nei locali pubblici, ma ciò che distingueva una caffettiera domestica da una per bar era sostanzialmente il solo fattore dimensionale. L’idea di progettare un meccanismo a vapore per preparare caffè non poteva che venire nel periodo della rivoluzione industriale, durante il quale ogni azione viene di fatto meccanizzata. Da qui la progettazione degli elettrodomestici che si diffonderanno a metà del Novecento, come la lavatrice e l’asciuga capelli, ma anche la macchina per ottenere l’espresso. La collezione più grande e completa al mondo si trova in Italia ed è da visitare, anche solo virtualmente, www.espressomadeinitaly.com IIIIIN TOUR NELLA VECCHIA EUROPA È il cuore della vecchia Europa che raccoglie il testimone della storia centenaria del caffè. Per questo motivo, per un viaggiatore attento non solo ai luoghi e alle storie ma anche ai sapori, è interessante ripercorrere un cammino tutto moderno del caffè, che collega Praga ad Amsterdam, Vienna a Londra, la Svizzera all’Italia. Ebel Museum fa da raccordo fra le varie culture europee. Si trova infatti a Praga, ad Amsterdam, a Vienna e a Londra. Per chi è curioso e ama il caffè è possibile vedere raccontata la storia, dal chicco alla tazzina, passando per i macinini e per le macchine del caffè. Largo spazio è lasciato al caffè nella comunicazione e nella pubblicità.
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Musei
Basta dare uno sguardo alla televisione italiana per rendersi conto che proprio la pubblicità ha esaltato e messo in scena forme diverse del caffè. Così, se hanno fatto il giro del mondo, in tempi recentissimi, i fotogrammi di George Clooney che baratta una moderna macchina per espresso per la propria vita, non si possono dimenticare altri interpreti della tazzina made in Italy, come Gigi Proietti e la coppia Paolo Bonolis e Luca Laurenti. Sorge in Svizzera poi il museo Chicco d’Oro, nel quale si può ripercorrere la storia di questa bevanda in tutte le sue fasi. La collezione è ricca di macchine, di oggetti curiosi ma anche di tante storie. Il museo, visitabile solo su appuntamento, vuole offrire una panoramica della produzione artigianale e industriale. Fra le cose da vedere ci sono i “robot” per fare il caffè, insoliti e unici nel loro genere. È forse il luogo nel quale la storia del caffè viene raccontata con più cura, dalla scoperta delle bacche, in Etiopia, alla loro diffusione, dopo essere state tostate, macinate e lasciate in infusione, in tutta l’Arabia e da lì nell’area del vicino Oriente e del Mediterraneo, dove nascono i primi utensili per la preparazione del caffè. È a Costantinopoli che viene aperta alla fine del XVI secolo la prima “bottega del caffè”, mentre a Vienna nel 1683, a seguito della fine dell’assedio turco, sorge una vera e propria “casa del caffè”. Occorre però attendere gli anni posteriori al blocco continentale di Napoleone, per avere con successo la diffusione del caffè nell’Ovest dell’Europa e naturalmente anche in Italia. www.chicchidoro.ch
L Una macchina da caffè ''La Pavoni'' della collezione Enrico Maltoni
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IIIILE CAPRE FESTAIOLE E IL MONTEFELTRO Il viaggio termina però in Italia e precisamente ad Urbino. È insolito ma da non perdere il museo del caffè che sorge all’interno della Rocca feltresca. Nel cuore dell’Italia è raccontata la leggenda del vino d’Arabia. Nello Yemen un prete mussulmano, avendo osservato lo strano comportamento di alcune capre che mangiavano delle bacche a lui sconosciute, si incuriosisce. Le capre, infatti, erano più attive e “festaiole” dopo aver mangiato quelle bacche. L’uomo allora ne raccoglie alcune e prova ad abbrustolirle. Poi, non contento, le macina e fattane un’infusione scopre il caffè tale e quale noi lo beviamo. In una data imprecisata, forse attorno alla metà del XVI secolo, dall’Africa giunge in Europa questa nuova bevanda. È color della notte, ha il profumo esotico dell’harem e il sapore intenso dei frutti del deserto: si chiama caffè. Lo strano nome che i navigatori veneziani hanno udito pronunciare nelle contrade di Turchia, viene dall’arabo “quahwah” e significa “bevanda eccitante”. Kafà è pure il nome della regione a sud dell’Abissinia dove la pianta del caffè nasce spontaneamente a 1300 metri di altitudine. Dalla leggenda si passa alla storia e tutto diventa abitudine, tanto che il caffè si trasforma, a fine del Settecento, in quasi tutta Europa, in un vero rito. Nascono i primi caffè letterari e attorno all’aromatica infusione, tra rivoluzioni e fervori politici, sorgono le correnti artistiche e culturali che hanno cambiato il mondo. Dall’Europa il vino d’Arabia giunge anche all’Italia. Nella vallata del Montefeltro è Antonio Pascucci, capostipite della famiglia, che oggi produce caffè, ad appassionarsi a questo liquido scuro e aromatico. Nasce quindi in pieno Montefeltro una delle prime torrefazioni italiane. Siamo a metà degli anni Cinquanta. Da allora ad oggi molte cose sono cambiate ma non il desiderio e il bisogno di perdersi nell’aroma di quel “cafà” che tanto ha eccitato le anime e i corpi.
Vino e salute
La
natura
ci ha regalato un prezioso alleato della IL
salute
VINO COME BEVANDA COMPLESSA ESERCITA UN EFFETTO BENEFICO SULLA
NOSTRA SALUTE.
I
POLIFENOLI DA UN PUNTO DI VISTA FISIOLOGICO AIUTANO A
VIVERE MEGLIO E A COMBATTERE L’ECCESSIVA PRODUZIONE DI RADICALI LIBERI
di Paolo Zatta l vino, nella sua plurimillenaria storia, oltre a donare momenti di colta piacevolezza come ad esempio nei convivi e nei simposi del mondo greco-romano, ha costituito assieme all’olio d’oliva una delle basi terapeutiche nella pratica medica. San Paolo nella prima lettera al diletto amico Timoteo così lo consigliava: «Smetti di bere soltanto acqua, ma fa uso di un po' di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni». Oggi sappiamo che il consiglio era quanto mai appropriato in quanto il vino esercita un’azione protettiva sulla mucosa gastrica oltre a possedere delle proprietà antibatteriche nei confronti dell’Helicobacter pylori, il più importante agente causale della gastrite cronica. Nel poema omerico, l’Iliade, l’uso del vino mescolato a formaggio di capra viene citato come pratica per lenire i postumi di un combattimento. E ancora, Ippocrate, medico greco del 460 a.C., padre della medicina e autore del giuramento che ogni medico pronuncia, usò per primo il vino talvolta in infusione con l’assenzio o con altre erbe medicamentose ad uso corroborante o digestivo. Forse un antesignano del vermouth? I primi esperimenti dell’età contemporanea sulle azioni antisettiche del vino risalgono al 1892 quando Arnold Pick, famoso patologo della Moravia, dimostrò che, aggiungendo del vino a dell’acqua contaminata da vibrioni del colera, l’acqua tornava ad essere potabile. Da allora le sperimentazioni con il vino contro virus e batteri continuarono coinvolgendo i microrganismi del tifo, della dissenteria e altri ancora. Nel 1977, curiosamente, alcuni medici canadesi riscontrarono che in quattro ore il virus della poliomielite veniva inattivato dal vin brûlé. Un tempo, specie tra le classi meno abbienti, il vino svolgeva un ruolo molto importante come fonte di energia alimentare con le sue circa 750 kcal/litro. Va quindi ricordato in questo contesto che la Regola di San Benedetto consentiva un consumo quotidiano di un’emina di vino, pari a 0,275 l, come integrazione al parco pasto dei monaci, quantità che poteva essere aumentata per chi doveva svolgere il duro lavoro dei campi. Con
I
L Fu il medico greco Ippocrate, padre della medicina, a ottenere per primo un vino corroborante e digestivo con l'aggiunta di fiori d'assenzio e foglie di dittamo. Quando, infatti, sorseggiamo il vermouth come aperitivo, o il Martini dry, la maggior parte di noi è del tutto inconsapevole di essere l'ultimo anello di una storia incredibile, lunga almeno 2.500 anni, che partendo dal Vicino Oriente e dalla Grecia Antica arriverà in tutto il mondo
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RAMANDOLO D. O. C. G.
prossimi appuntamenti Serate Ramandolo Udine, 18 novembre 2010 ore 20.00 Casa della contadinanza al Castello, p.zza della Libertà, 10 A cura dell’ONAV, Delegazione Provinciale di Udine Como, 6 dicembre 2010 ore 21.00 Grand Hotel di Como, via per Cernobbio A cura dell’Associazione Italiana Sommeliers della Lombardia, Delegazione di Como Zerman di Mogliano Veneto, 13 dicembre 2010 ore 20.30 Hotel Villa Braida, via Bonisiolo, 16/b A cura dell’Associazione Italiana Sommeliers del Veneto, Delegazione di Treviso Morbegno (SO), 14 gennaio 2011 ore 20.00 Hotel Margna, via Margna, 36 A cura dell’Associazione Italiana Sommeliers della Lombardia, Delegazione di Sondrio
enoteche e wine bar selezionati
L La Regola di San Benedetto consentiva ai monaci il consumo quotidiano di una piccola quantità di vino
l’evolversi delle condizioni socioeconomiche, soprattutto in quest’ultimo dopoguerra, il vino da necessità alimentare, è diventato sempre più occasione di piacevolezza conviviale; contemporaneamente ne sono diminuiti significativamente i consumi, mentre è andato aumentando l’apprezzamento per la qualità della preziosa bevanda e la saggezza del bere poco, ma bene. Occorre comunque non dimenticare mai che, se assunto in maniera sconsiderata, l’alcol etilico può essere la causa di varie patologie. Su scala mondiale le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte e in particolare in Italia ogni anno i decessi per queste patologie sono circa 243mila. Alla base di questi eventi ci sono spesso degli errati stili di vita quali il fumo, diete ipercaloriche e troppo ricche di grassi animali, poca attività fisica e, non ultimo, l’esagerato consumo di alcolici. Il costo europeo annuo per la spesa sanitaria legata alle patologie cardiovascolari è stato stimato prossimo ai 169 miliardi di euro. Nelle ultime tre decadi, numerosi studi hanno consistentemente dimostrato una correlazione inversa tra un consumo moderato di vino e il manifestarsi di infarti al miocardio. Tutto ha avuto inizio nei primi anni ’80 quando tre epidemiologi francesi, J. L. Richard, F. Cambien e P. Ducimetière, sulle pagine della rivista «Nouvelle Press Medicale», coniarono il termine “paradosso francese”, a signi-
Emilia Romagna Cantina Tumedei V. Ortolani 32 Bologna Tel. 051-540239 Friuli Venezia Giulia Acer V. Manin 16 Udine Tel. 0432-504186 Ai Bintars V. Trento Trieste 67 S. Daniele UD Tel. 0432-957322 Carnia Sapori Sauris di Sopra UD Tel. 0433-866378 Costantini Rist. V. Pontebbana 12 Collalto UD Tel. 0432-792004 Da Benito Largo Diaz 4 Nimis UD Tel. 0432-790019 Enoteca Bischoff V. Mazzini 21 Trieste Tel. 040-380333 Enot. Dawit V. Alpi Giulie 30 Camporosso UD Tel. 0428-63012 Enot. di Buttrio V. Cividale 38 Buttrio UD Tel. 0432-683072 Enot. La Serenissima V.Battisti30Gradiscad’I.GOTel.0481-954539 Gelateria Montereale V.Montereale23PordenoneTel.0434-365107 Rist. Al Monastero V. Ristori 9 Cividale del F. UD Tel. 0432-700808 Rist. Cial de Brent V. Pordenone 1 Polcenigo PN Tel. 0434-748777 Santanna srl V. Maniago 27 S. Quirino PN Tel. 0434-91122 G. Scognamiglio V. Conti 34 Trieste Tel. 040-639582 Trattoria al Grop V. Matteotti 7 Tavagnacco UD Tel. 0432-660240 Lazio Enot. dei Desideri P.le Gregorio VII 17/18 Roma Tel. 06-6381507 Enoteca Trimani V. Goito 20 Roma Tel. 06-4469661 Lombardia Bottega del Vino Peck srl V. Hugo 4 Milano Tel. 02-861040 Cantina la Frasca V. Ticino 15 S. Fruttuoso MB Tel. 039-2726243 Enoteca ai Ronchi V. Galilei 89 Brescia Tel. 030-305354 Enoteca Cotti V. Solferino 42 Milano Tel. 02-29001096 Ottimo Rist. e Gastr. V. S. Marco 29 Milano Tel. 02-62694634 Sarfati V.le Sabotino 38 Milano Tel. 02-58310687 Winner Wines srl V. Roma 27 Leno BS Tel. 030-906374 Toscana Enoteca Bonatti srl V. Gioberti 66/R Firenze Tel. 055-660050 Selez. Fattorie V. Artigianato 50 Montespertoli FI Tel. 0571-670584 Trentino Alto Adige Club Moritzino Piz La Ila Alta Badia BZ Tel. 0471-847407 Enoteca Gandolfi V.le Druso 349 Bolzano Tel. 0471-920335 Veneto Enoteca Centrale V.IVNovembre59MestrinoPDTel.049-9004947 Enoteca Cortina V. Mercato 5 Cortina d’A. BL Tel. 0436-862040 Enot. La Mia Cantina P.le S. Croce 21 Padova Tel. 049-8801330 Quadri Gran Caffè P.zza S. Marco 120 Venezia Tel. 041-5222105
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Vino e salute ficare come, almeno in apparenza, una dieta ricca di grassi animali, possa essere contrastata, nei suoi effetti deleteri sulla salute, con un moderato consumo quotidiano di vino. In questo contesto, qualche tempo fa, la rivista medica «Circulation» ha pubblicato uno studio italiano che ha coinvolto oltre 200mila persone e che ha messo in evidenza come un consumo moderato di vino possa ridurre il rischio di patologie cardiovascolari. Alcuni studiosi ipotizzarono dapprima che la ragione fosse dovuta alla fluidificazione del sangue da parte dell’etanolo. Tale ipotesi venne tuttavia messa presto da parte in quanto fu dimostrato che era proprio il vino come bevanda complessa e non il solo etanolo che esercitava il riscontrato effetto benefico. Altri studiosi attribuirono invece gli effetti cardioprotettivi del vino ad alcuni composti presenti nell’uva, quali i polifenoli. Queste molecole sono dei metaboliti secondari di grande importanza biologica che agiscono in primis come fitoalessine, ossia contro l’invasione microbica delle piante. Da un punto di vista fisiologico, una dieta ricca di polifenoli aiuta a vivere meglio e a combattere l’eccessiva produzione di radicali liberi generata da eventi patogenici... e non solo! Fra i polifenoli più studiati c’è il resveratrolo che è presente in quantità importanti nei frutti di bosco, nelle more, nelle arachidi, nel rabarbaro e per quel che ci riguarda nell’uva, soprattutto in quella a bacca nera, dalla quale viene estratto con la macerazione durante i processi di vinificazione. La quantità di resveratrolo presente in una bottiglia di vino rosso varia in ragione a molteplici fattori come il tipo di vitigno, le condizioni pedo-microclimatiche, le tecniche di vinificazione, le pratiche in cantina e può raggiungere, e talvolta superare, i 20 mg/litro soprattutto per le tipologie di vini rossi come Merlot, Cabernet-Sauvignon, Cabernet Franc, Grenache, Amarone, Shiraz, Raboso-friularo, Nero d’Avola. La stessa fermentazione malolattica è in grado di aumentare la concentrazione di resveratrolo liberandone la frazione glicosilata. Le proprietà del resveratrolo sono molteplici essendo il polifenolo antiaggregante piastrinico, antiossidante, antitrombotico, antinfiammatorio, antiradicalico, vaso rilassante, modulatore del metabolismo lipidico, fitoestrogenico, antivirale e altro ancora. Baur e colleghi, in un articolo apparso nel 2006 nella prestigiosa rivista scientifica «Nature», hanno sottolineato come il resveratrolo possa agire da regolatore metabolico delle calorie alimentari in soggetti obesi aumentandone significativamente sia le aspettative di vita sia le performances fisiologiche compromesse dall’obesità, il tutto attivando processi biochimici legati al metabolismo dell’insulina. Ciò sembrerebbe far supporre che il resveratrolo possa aiutare a prevenire l’insorgere del diabete conseguente a una dieta ricca di grassi. Su questa linea di ricerca Joanne Ajmo e colleghi dell’università della Florida a Tampa hanno messo in evidenza la capacità del resveratrolo di ridurre la steatosi epatica. Ad ulteriore conforto, studi recenti dimostrano come il polifenolo in questione aiuti a prevenire l’accumulo nel fegato di grassi
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L Il Prosecco contiene una significativa concentrazione di tirosolo, un potente antiossidante “cugino” del resveratrolo
di origine non alcolica (Non-Alcoholic Fatty Liver Disease o NAFLD), una patologia non curabile che coinvolge circa 40 milioni di persone solo negli Stati Uniti. Studi svolti alla facoltà di Medicina di San Diego in California che hanno coinvolto circa 12mila persone, hanno recentemente sostenuto che il consumo di un paio di bicchieri di vino al giorno possa avere un acclarato effetto preventivo su tale accumulo di grassi. Questo dato diventa ancora più interessante quando si osserva che solo il vino, e non altre bevande alcoliche come la birra o liquori vari, è in grado di combattere la NAFLD. Ad ampliare lo spettro d’azione del resveratrolo, Charlotte Oomen e colleghi dell’università di Gröningen in Olanda hanno recentemente sostenuto come questo polifenolo influenzi il mantenimento delle funzioni cognitive nei processi dell’invecchiamento cerebrale. Già nell’antica medicina orientale, contro le malattie degenerative dell’invecchiamento, veniva utilizzato il Polygonum cuspidatum che oggi sappiamo contenere nelle radici quantità considerevoli di trans-resveratrolo. Per quanto riguarda invece l’effetto cardioprotettivo, il resveratrolo agisce da antiaggregante delle piastrine, similmente a quanto avviene in seguito all’assunzione di aspirina. Recentemente Andreas Markus e Brian Morris della facoltà di Medicina di Sidney in Australia hanno dimostrato come il resveratrolo, diversamente da altri polifenoli, sia particolarmente efficace nell’aumentare la sintesi dell’enzima NO-sintasi, direttamente coinvolto nei meccanismi vasodilatatori. Dall’università Zhejiang a Hangzhou in Cina giunge invece notizia che alcuni polifenoli come la procianidina B e la miricetina, ben presenti in alcune tipologie di vini come il Cabernet Sauvignon, hanno forti capacità inibitorie sulle aromatasi, una categoria di enzimi che giocano un ruolo importante nella carcinogenesi del
L Il Lambrusco Emiliano è caratterizzato da particolari cumarine, utilizzate sia come anticoagulanti sia per l’effetto che esercitano sui vasi sanguigni
tumore al seno. Va ancora sottolineato come polifenoli come le catechine e le quercitine riscontrate ad esempio nei vini Chianti, Cirò, Cabernet Sauvignon e altri ancora, possono aiutare – lo dicono alcuni studi condotti all’università di Montpellier in Francia – a prevenire forme di aterosclerosi con l’assunzione di uno-due bicchieri di vino al giorno. Gli stessi autori sostengono che oltre ai vini rossi anche alcuni vini bianchi possano avere effetti importanti sull’inibizione della perossidazione dei grassi presenti nel sangue. Occorre però sfatare un po’ il giudizio improprio sulla carenza di attività antiossidante dei vini bianchi. Il molto apprezzato Prosecco ad esempio contiene una significativa concentrazione di tirosolo, un potente antiossidante “cugino” del resveratrolo che agisce sia come antinfiammatorio sia come regolatore dell’eccitazione nervosa. La rivista medica «Artheriosclerosis» ha recentemente riportato che il tirosolo e l’acido caffeico, contenuti in vari vini bianchi, hanno forti proprietà antiossidanti e antinfiammatorie anche in dosi molto ridotte. In alcuni vini bianchi inoltre l’acido caffeico è talvolta presente in concentrazioni doppie rispetto al vino rosso. I vini bianchi peraltro possono contribuire all’inibizione dell’attività delle citochine presenti nel sangue, che sono in grado di favorire l’insorgere di fenomeni infiammatori responsabili di malattie debilitanti quali l’artrite reumatoide oltre a concorrere in modo significativo alla formazione del trombo, della placca arteriosclerotica e dell’osteoporosi. Non possiamo non citare quindi l’idrossitirosolo, presente nel vino Soave, con proprietà attivanti le sirtuine, delle proteine coinvolte nella regolazione bioenergetica cellulare e nella longevità. L’endotelina-1 è una proteina di grande importanza per
la regolazione di alcune funzioni cardiovascolari in grado di contrarre i vasi sanguigni intrappolando i grassi. Elevati livelli di endotelina-1 sono stati riscontrati nel sangue di pazienti affetti da ipertensione polmonare idiopatica e secondaria. Ricercatori dell’università di Leeds in Inghilterra hanno descritto come alcuni composti presenti nel vino rosso siano in grado di inibire la sintesi dell’endotelina-1. È infine di qualche anno fa la sorprendente osservazione sulla presenza di alcune particolari cumarine nel Lambrusco emiliano. Le cumarine sono note in farmacologia fin dai primi anni del ’900 e vengono utilizzate sia come anticoagulanti sia per l’effetto che esercitano sulla parete dei vasi sanguigni. Esse hanno una consolidata utilità in presenza di infarto miocardico acuto, nella protezione postinfartuale e in concomitanza con interventi di angioplastica coronarica. In una regione come l’Emilia dov’è noto il costume alimentare legato a un consumo di grassi, carni suine, latticini per un’abituale e consolidata dieta ipercalorica, si è osservato che le percentuali di mortalità e morbilità per patologie cerebro e cardiovascolari sono nettamente inferiori a quelle di regioni vicine quali Lombardia, Toscana e Veneto. Questo aspetto curioso, che andrà sicuramente approfondito, ha lanciato l’ipotesi di un nostrano paradosso emiliano. Ma i dati e le ipotesi sui potenziali effetti benefici dell’uva e del vino non finiscono qui. Oltre a produrre vino l’uva e i suoi numerosi derivati sono entrati da qualche anno da veri protagonisti nei centri wellness con la ampeloterapia: una pratica nata oltre un decennio fa a Bordeaux, da un’idea sviluppata da Mathilde Cathiard Thomas, figlia di vignaioli che, sfruttando le sue conoscenze sull’uva, ha “costruito” – assistita dal marito Bertrand – diversi prodotti salutistici e cosmetici con la collaborazione scientifica dell’università di Bordeaux. Quindi non solo mutuando il vecchio detto “un bicchiere di vino al giorno può togliere il medico di torno” ma molti altri prodotti derivati dalla vitis vinifera come foglie, tralci e vinaccioli, se opportunamente impiegati, possono agire beneficamente sulla pelle, sulla circolazione sanguigna, come antistressogeni, antinvecchiamento. La filosofia è quella descritta fino ad ora, ossia sfruttare le straordinarie proprietà dei polifenoli per un’avventura, come appunto quella dell’ampeloterapia, che sta dando ottimi risultati di mercato anche in Italia. L’ampeloterapia, oltre a essere impiegata in cosmetologia con l’uso di creme e oli può essere efficace a combattere patologie quali la nefrite, l’ipertensione, varie forme di dermatite, per la salute dei capillari venosi e molto altro ancora. Immergendosi in un bagno di succo d’uva o rilassandosi con massaggi con olio di vinaccioli si può godere nel corpo e nello spirito, aiutando contemporaneamente la salute della pelle e ritardandone l’invecchiamento. Sebbene l’ampeloterapia sia una pratica piuttosto recente, va ricordato che essa era già nota ai Greci e ai Romani, che in quanto a piaceri non si lasciavano sfuggire proprio nulla. Insomma, il binomio uva e benessere continua a stupirci senza sosta.
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Degustazioni
Nuova Zelanda, la forza dei vini
“sostenibili” di Riccardo Castaldi
UN
ECCEZIONALE AMBIENTE DI
COLTIVAZIONE, METICOLOSITÀ
ANGLOSASSONE, ASSENZA DI UNA TRADIZIONE DA RISPETTARE E GRANDE CAPACITÀ DI GUARDARE AVANTI SONO LE COMPONENTI DEL SUCCESSO CHE L’ENOLOGIA
NEOZELANDESE STA RISCUOTENDO A LIVELLO PLANETARIO
L Vigneti di Pinot Nero nel Central Otago
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a Nuova Zelanda è uno dei Paesi vitivinicoli del Nuovo Mondo che in questi ultimi anni hanno maggiormente suscitato l’attenzione a livello internazionale, sia per lo standard qualitativo raggiunto dalla produzione enologica sia per la grande capacità di penetrazione nei mercati esteri di riferimento. Il successo neozelandese trova conferma in un aumento della superficie vitata del 296 per cento e in un incremento del valore delle esportazioni del 910 per cento negli ultimi dieci anni. La qualità dei vini è frutto di condizioni pedoclimatiche particolari e di una scelta strategica ben precisa, dato che le caratteristiche del contesto produttivo e la lontananza dai mercati principali non consentono alle aziende neozelandesi di competere sulla quantità e tanto meno sul prezzo. Per questo motivo l’obiettivo dei produttori neozelandesi, coordinati e guidati dalla New Zealand Winegrowers (NZW), è dichiaratamente quello di diventare leader nella fascia dei vini di eccellenza dei mercati più importanti. Esplosa negli ultimi quindici anni, dal punto di vista viticolo la Nuova Zelanda ha trasformato lo svantaggio di essere partita per ultima in un vantaggio, evitando gli errori commessi da altri e facendo le scelte giuste, in funzione delle proprie potenzialità e delle richieste del mercato. La sostenibilità e il rispetto ambientale sono tra le priorità della
L
NZW, tanto che dal 2012 tutte le aziende neozelandesi saranno certificate come “sostenibili” secondo gli standard internazionali. In Nuova Zelanda esistono diverse aziende biologiche e biodinamiche e soprattutto la prima azienda al mondo certificata carbonzero, che segue un protocollo finalizzato alla riduzione delle emissioni di gas serra. Sotto il profilo organolettico i vini della Nuova Zelanda sono immediati e dotati di grande bevibilità e si distinguono in generale per l’elevato impatto olfattivo, intensamente fruttato, e per la ricchezza al palato. Approcciandoli ci si rende immediatamente conto che si tratta di vini differenti, con uno stile che si discosta nettamente dall’espressione che i vitigni forniscono nelle altre parti del mondo. IIIIIL PRIMATO DEL SAUVIGNON Il Sauvignon è il vitigno che in Nuova Zelanda ha trovato condizioni ideali di coltivazione e che è stato determinante per lo sviluppo del suo settore vitivinicolo. Con oltre 14.000 ettari, distribuiti da nord a sud, rappresenta infatti circa il 50 per cento della superficie vitata. Grazie alle condizioni particolari degli ambienti di coltivazione, caratterizzati da basse temperature medie, forte escursione termica e autunni lunghi e secchi, l’espressione organolettica di questo vitigno è molto interessante e varia sensibilmente a seconda della regione in cui viene coltivato.
NUOVA ZELANDA Lingue ufficiali Inglese, māori lingua dei segni neozelandese Capitale Wellington 386.000 ab. Superficie Totale 268.680 km² % delle acque 2,1 % Popolazione 4.396.000 ab. Densità 16,36 ab./km² Valuta Dollaro neozelandese
L La strada del vino a Martinborough
All’interno della Marlborough region, nella Wairau Valley, il Sauvignon produce vini con sentori olfattivi di frutti maturi, che rientrano nello spettro del frutto della passione, del guava e del pompelmo, talvolta con note minerali e di particolare lunghezza gustativa, mentre nella Awatere Valley questo vitigno si esprime all’olfatto con note erbacee dolci, di erba tagliata e di foglia di pomodoro e con note fruttate dolci al palato. Nell’ambito della Hawkes Bay, regione più calda della Nuova Zelanda, il Sauvignon si presenta ricco, con sentori di frutti maturi tra i quali prevalgono melone, nettarina e frutti tropicali, mentre nella Martinborough-Wairarapa si caratterizza per la particolare freschezza e per i marcati sentori di lime e di frutto della passione.
IIIICHARDONNAY E ALTRI BIANCHI Tra i vitigni bianchi di riferimento vi è anche lo Chardonnay che, conformemente allo stile “Nuovo Mondo” non di rado viene vinificato prevedendo un passaggio in legno, se non addirittura la seconda parte del processo fermentativo. La Gisborne region produce Chardonnay di buon corpo, che si caratterizzano per le note di ananas, di guava e di agrumi maturi, mentre nella Marlborough region il vitigno si esprime con sentori di limone, di lime e di pesca bianca, sorretti da una piacevole freschezza. Altri vitigni a bacca bianca, sui quali le aziende stanno puntando per ampliare la gamma dei vini prodotti, sono il Riesling, con il quale si ottengono vini profumati e fruttati, facili da bere, molto graditi ai giovani consumatori, il Gewürztraminer, che ha già portato a prodotti di elevato profilo qualitativo internazionalmente riconosciuti, e il Pinot grigio, al momento molto apprezzato soprattutto sul mercato interno ma che presto potrebbe farsi largo anche al di fuori dei confini nazionali. IIIIL’ECCELLENZA DEL PINOT NERO Tra i vitigni a bacca nera spicca il Pinot nero, secondo vitigno più coltivato dopo il Sauvignon blanc. Notoriamente ostico sia in vigneto che in cantina, in Nuova Zelanda riesce a esprimersi a livelli di eccellenza che gli consentono di non temere confronti. Il Pinot nero neozelandese, in genere molto differente da quelli prodotti nel Vecchio Continente, si contraddistingue per intensità di colorazione e struttura. I sentori di frutti rossi maturi, mora, amarena, ribes e prugna sono prevalenti e ben amalgamati con quelli speziati. Molto interessanti sono i Pinot nero della Central Otago region, che con 34° di latitudine sud è l’area viticola più meridionale del mondo. Nella Hawkes Bay, grazie al clima caldo, è conosciuta per la coltivazione di vitigni a bacca nera internazionali, quali Merlot, Cabernet Sauvignon, Syrah e Cabernet franc che, vinificati sia in purezza che in uvaggio, consentono di raggiungere livelli qualitativi sicuramente interessanti.
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Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE Vinoptima Ormond Reserve Gewürztraminer 2006 Gisborne – 13% vol. Questa cantina è stata fondata a Gisborne nel 2000 da Nick Nobilo col preciso intento di produrre un Gewürztraminer di altissimo livello. Considerato il miglior Gewürztraminer del “Nuovo Mondo”, colpisce per l’eleganza e la finezza che esprime all’olfatto, contraddistinto da note di zenzero e mandarino. Al palato è ricco, equilibrato e dotato di un’eccezionale persistenza, con sentori speziati prevalenti su uno sfondo di zenzero, ananas e albicocche essiccate. Prezzo consigliato in enoteca: 38 euro. Palliser Estate Martinborough Sauvignon blanc 2009 Martinborough – 13% vol. Fondata nel 1988 e da allora sapientemente diretta da Richard Riddiford, Palliser Estate è una cantina conosciuta ed apprezzata a livello internazionale. Questo elegante Sauvignon, uno dei fiori all’occhiello dell’enologo Allan Johnson, si presenta ampio ed intenso all’olfatto, con note di peperone, foglia di pomodoro e di frutta nel finale, mentre al palato risulta avvolgente, equilibrato e lungo, caratterizzato da sentori di pompelmo rosa e di lime. Prezzo consigliato in enoteca: 27 euro. Auntsfield Long Cow Sauvignon Blanc 2009 Marlborough – 13,5% vol. Fondata nel 1873 da David Herd, Auntsfield Estate è la più antica cantina commerciale della Marlborough region. Dotato di spiccata personalità, questo Sauvignon blanc si distingue per la finezza olfattiva e gli intensi sentori di peperone, asparago, limone e frutti tropicali nonché per la pienezza al gusto, sapido, che richiama frutto della passione e uva spina. Accattivante e con buon rapporto qualità/prezzo è lo Sliding Hill Sauvignon blanc 2009 proposto da questa azienda. Prezzo consigliato in enoteca: 25 euro. Craggy Range Otago Station Vineyard Waitaki Valley Riesling 2008 Havelock North, Hawkes Bay – 11% vol. Nata nel 1997 per volere dell’industriale australiano Terry Peabody e dell’agronomo/enologo Steve Smith, questa azienda possiede vigneti dislocati nelle aree viticole più vocate della Nuova Zelanda. Prodotto in North Otago, questo fine e piacevole Riesling stupisce per l’impatto olfattivo, in cui prevalgono intensi sentori di ananas, pompelmo e mela verde, in perfetta armonia con sensazioni gustative ampie e persistenti, con note fruttate, floreali e speziate. Prezzo consigliato in enoteca: 25 euro. Saint Clair Pioneer Block 4 Sawcut Pinot noir 2006 Marlborough – 13,5% vol. Situata nella porzione meridionale della Wairau Valley (Marlborough), questa azienda è stata fondata da Neal e Jude Ibbotson nel 1978, divenendo in pochi anni molto apprezzata per i suoi Sauvignon blanc. Questo Pinot nero, dal colore intenso, è molto fine all’olfatto, che richiama frutti rossi maturi, quali amarena e prugna, e sentori tostati lievi; al palato esprime un buon corpo, tannini morbidi e una buona persistenza, con note speziate e fruttate prevalenti. Prezzo consigliato in enoteca: 25,50 euro.
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Cloudy Bay Marlborough Chardonnay 2007 Blenheim – 14% vol. Tra le aziende neozelandesi più note in assoluto, Claudy Bay nasce nel 1985 col preciso intento di estrinsecare le potenzialità qualitative della Wairau Valley (Marlborough). Questo vino, affinato in barrique, si esprime all’olfatto con note tostate, burrose e di frutti maturi mentre al palato è strutturato, con buon equilibrio e sentori di agrumi e drupacee. Da non perdere il Sauvignon blanc di questa azienda, una delle icone dell’enologia neozelandese. Prezzo consigliato in enoteca: 30 euro. Clos Henri Marlborough Sauvignon blanc 2008 Renwick Hill, Marlborough – 13,5% vol. I vigneti di questa azienda, fondata dalla famiglia Bourgeois, produttori di vino a Sancerre (Valle della Loira) da dieci generazioni, sono stati realizzati su terreni vergini a partire dal 2001. Questo vino, che riunisce terroir neozelandese e tecnica francese, si contraddistingue per i sentori olfattivi erbacei, di agrumi e di frutti tropicali maturi, che si fondono armonicamente con un gusto complesso e rotondo, caratterizzato da buona freschezza e note minerali. Prezzo consigliato in enoteca: 29 euro. Babich Hawke’s Bay Merlot Cabernet 2004 Hawke’s Bay – 12,5% vol. Babich Wines è una delle aziende storiche della Nuova Zelanda, fondata nel 1895 da Josip Babich, uno dei tanti immigrati croati giunti in queste terre e dedicatisi con successo alla vitivinicoltura. Intenso ed elegante al naso, con sentori minerali ed evoluti, questo taglio si presenta in bocca equilibrato e rotondo, con note di piccoli frutti rossi e di prugna cotta nel finale. Molto interessante è anche il Babich Winemakers Reserve Sauvignon blanc 2007. Prezzo consigliato in enoteca: 15-20 euro. Clos Henri Bel Echo Marlborough Pinot noir 2007 Renwick Hill, Marlborough – 13,5% vol. Questo Pinot nero di medio corpo, caratterizzato da uno stile delicato che richiama quelli francesi, viene prodotto da Clos Henri prestando una particolare attenzione alla fruttuosità. Armonico e dotato di un buon equilibrio, questo vino si esprime con intensi sentori di frutti rossi, tra i quali spiccano prugna, ciliegia e piccoli frutti rossi, e con note speziate di pepe nero; in bocca prevalgono le note speziate e tostate su quelle fruttate percepite nel finale. Prezzo consigliato in enoteca: 25 euro. Bishop’s Leap, Marlborough Sauvignon blanc 2008 Marlborough Velley Wines Ltd. Blenheim – 12,5% vol. Bishop’s Leap è il nome di una rupe scoscesa situata lungo il corso del Wairau river, che la tradizione popolare vuole teatro del fatale balzo di uno dei primi vescovi del Marlborough inseguito dai guerrieri Maori. Ottimo per rapporto qualità/prezzo, è un vino dotato di elevata bevibilità e si esprime al naso per i lievi sentori floreali e fruttati, con sfumate note di pesca bianca e mela; al gusto è morbido, equilibrato, con sentori agrumati e di peperone nel finale. Prezzo consigliato in enoteca: 10 euro.
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Mappamondo
Nel
Valais il vigneto
e il
più alto
più piccolo del mondo
CONDIZIONI
CLIMATICHE E GEOLOGICHE FAVOREVOLI FANNO DEL
VALLESE
NON SOLO UNA META TURISTICA VARIA MA ANCHE UNA COSIDDETTA TERRA DA VINO.
ATTUALMENTE
UN TERZO DELLA PRODUZIONE ELVETICA HA ORIGINE
PROPRIO IN QUESTA REGIONE
di Davide Oltolini l Vallese (Valais), terzo cantone più vasto della Svizzera, si estende a sud ovest della Confederazione per una lunghezza di 150 chilometri, in uno stretto territorio che forma la Valle del Rodano, tra l’omonimo ghiacciaio e il Lago Lemano. Considerato da molti come il paradiso dello sci, vanta ben una cinquantina di vette che raggiungono i 4mila metri, tra le quali il famoso Cervino, oltre a 2.200 chilometri di piste da sci e snowboard e mille chilometri di piste di sci di fondo. Numerose le località rinomate per questo sport oltre i confini nazionali, quali Zermatt, Saas Fee, Verbier e Crans Montana. Verbier appartiene al comprensorio sciistico “4 Vallées” e offre, oltre ai fantastici panorami, novanta fra skilift e ferrovie che collegano ben 410 chilometri di piste e vette alpine come il Mont Fort, il punto panoramico più elevato della regione, posto a 3.330 metri sul livello del mare, o stazioni meno conosciute come l’incantevole Champex Lac. Da non dimenticare poi, posta su un soleggiato altopiano, a strapiombo sulla Valle del Rodano a 1.500 metri, Crans Montana (o meglio le vicine stazioni di Crans e di Montana) una località che presenta, al medesimo tempo, le caratteristiche di un villaggio di montagna e di una moderna città alpina. Un luogo rinomato, che scelto come “buen ritiro” da molti personaggi del jet set e che, durante la bella stagione, si trasforma nella capitale del golf, con l’European Golf Masters, e della musica con il famoso Caprices Festival. Condizioni climatiche e geologiche particolarmente favorevoli fanno, però, del Vallese non solo una meta turistica varia e interessante, ma anche una cosiddetta “terra da vino”. Attualmente un terzo della produzione elvetica ha, infat-
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ti, origine proprio in questa regione. Questo territorio trae beneficio da un singolare clima caratterizzato da estati calde e lunghi autunni miti. Le montagne, vero e proprio baluardo protettivo, favoriscono il clima secco che domina la regione, dove si registra la più scarsa densità di precipitazioni di tutta la Svizzera. Inoltre il Vallese presenta caratteristiche geologiche complesse (granito, calcare, scisto e gneis), che favoriscono la coltivazione di ben quarantasette differenti varietà di uve. Gli appezzamenti risultano estremamente frazionati con oltre 22mila diversi proprietari, a testimonianza dello stretto legame delle famiglie vallesane con le proprie vigne, spesso tramandate di padre in figlio da secoli. Tre i vitigni che da soli interessano l’85 per cento dell’intera superficie vitivinicola, ovvero Pinot Noir, Chasselas e Gamay. Tra i vini bianchi spicca il Fendant ottenuto, appunto dallo Chasselas, vino dalle tipiche note floreali e fruttate, dalla piacevole freschezza, apprezzato come aperitivo, ma abbinato con successo durante i pasti a numerose specialità vallesane, quali la Raclette, la fondue, la carne secca e i crauti. Lo Chasselas appare come un vitigno particolarmente sensibile al territorio che lo accoglie, variando lievemente la propria espressione, ovvero evidenziando note minerali, se coltivato nei terreni di Ardon e Vétroz, ricchezza e pienezza se coltivato a Sion e Saint Léonard e una gradevole, quanto lieve, nota amarognola a Sierre. L’invecchiamento gli permette di ottenere un’insospettabile complessità, mentre nelle grandi annate, se vinificato e affinato in condizioni ottimali, acquisisce sentori mielati con ricordi di noce e frutta secca, un’apprezzabile struttura e una spiccata personalità. Tra gli
altri vitigni a bacca bianca spiccano Johannisberg, Malvasia, Moscato, Chardonnay ed Ermitage, oltre a tipologie considerate autoctone dai coltivatori elvetici, quali Petite Arvine, Amigne, Païen/Heida e Humagne Blanche. Quest’ultimo, curiosamente considerato dalla tradizione come il vino ideale per dare conforto alle partorienti, esprime gradevoli sentori vinosi e delicatamente fruttati accanto a un’accattivante freschezza. Tra i vini rossi il più celebre è, certamente, il Dôle, ottenuto dall’85 per cento di Gamay e Pinot Noir, con prevalenza di quest’ultimo, che contribuisce a donargli il corpo e la cosiddetta “spina dorsale” e che all’assaggio si presenta rotondo e armonico grazie all’apporto, oltre del Gamay, di vitigni quali, ad esempio, l’Humagne Rouge o il Syrah. Tra i vitigni a bacca rossa anche il Cornalin, considerato al 100 per cento vallesano, capriccioso e dalla maturazione tardiva, che ha scoraggiato generazioni di viticoltori. Il Cornalin offre vini dal bouquet complesso, che l’invecchiamento smussa delle giovanili asperità, permettendogli di raggiungere una particolare finezza. Nella regione vengono prodotti anche vini rosati, tra i quali il particolare Oeil de Perdrix, ottenuto esclusivamente da uve Pinot noir. Il Vallese rappresenta anche uno dei micro territori che in Europa vantano le condizioni climatiche indispensabili per la produzione di vini botritizzati, per i quali si impiegano i vitigni di Petite Arvine, Ermitage, Johannisberg, Amigne o Malvasia. Da secoli, invece, in Val d’Anniviers viene prodotto un vino conservato in antichissime botti di rovere che non vengono mai svuotate, il cosiddetto “vino dei ghiacciai”, ottenuto dal vitigno Rèze che matura in prossimità dei ghiacciai della Val d’Anniviers. Il Vallese vanta anche il vigneto più alto d’Europa ovvero il vigneto di Visperterminen che, con le sue vigne situate tra i 650 ed i 1.150 metri sul livello del mare, ha ottenuto fama internazionale. Su piccole terrazze, delimitate da alti muri a secco, supera in uno spazio ristretto ben 500 metri di dislivello. L’esposizione a sud e le ampie superfici in pietra dei muri contribuiscono a mantenere le viti in una sorta di camera termica fino ad autunno inoltrato fornendo, con la complicità di qualche ventata di Föhn, il grado di maturazione necessario all’uva. Dalla varietà Savagnin (qui denominata Heida) si ottiene, pertanto, un vino bianco corposo e dall’acidità ben bilanciata chiamato anche “perla dei vini delle Alpi”. Nelle La Raclette du Valais
annate migliori l’Heida può raggiungere un titolo alcolico volumetrico del 14 per cento. In memoria di Farinet, generoso falsario, soprannominato il “Robin Hood delle Alpi”, a Saillon è stato impiantato anche il più piccolo vigneto del mondo. Padrino della vigna di appena 1,67 metri quadrati è il tibetano Dalai Lama. Al vigneto di Farinet si dedicano ogni anno celebrità internazionali, tra gli altri Carolina di Monaco, Gina Lollobrigida, Michael Schuhmacher. Assemblato con altre uve del Vallese, il prodotto della vendemmia viene travasato in mille bottiglie e messo all’asta. Il ricavato della vendita permette di finanziare un fondo annuo di 20mila franchi con il quale si sostengono attività culturali e sociali. Anche la ristorazione appare di altro livello (e non potrebbe essere diversamente visto che proprio questa terra ha dato i natali al grande Cäsar Ritz, l’inventore dell’hotellerie e della moderna ristorazione internazionale) con chef come Didier de Courten o come Pierre Crepaud del ristorante Le Mont Blanc dell’Hotel Le Crans, che la nota guida «GaultMillau» ha incoronato come chef rivelazione della Svizzera francese. Tra i prodotti del territorio spiccano il particolare zafferano di Mund, la purissima acqua minerale Sembrancher, dal nome dell’omonimo centro abitato, capoluogo del distretto d’Entremont, conosciuta e apprezzata dal lontano 1239 e, ovviamente, la Raclette vallesana. Si tratta di un formaggio Aoc (Appellation d’origine contrôlée) a pasta semidura, prodotto con latte vaccino crudo, sulle cui caratteristiche incidono la ricca flora delle regioni montane e alpine del Vallese. Il gusto è piacevolissimo, “lattoso” e deciso, caratterizzato da una leggera e accattivante nota acidula e dominato da aromi di piante e di frutti. Viene solitamente consumato dopo averlo posizionato in un apposito forno o accanto al fuoco, raschiandone lo strato fuso con un coltello, in accompagnamento a patate (alle quali è uso non togliere la buccia), cetrioli sott’aceto o cipolline.
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Turismo
Germania, terra tutta
da scoprire di Elisa della Barba
NONOSTANTE
LO
STEREOTIPO DELLA
BIRRA, LA
GERMANIA
È
IL PAESE CHE CONSUMA PIÙ SPUMANTI AL MONDO E IMPORTA PIÙ VINO.
GODE
SICURAMENTE DI
UNA SCELTA VINICOLA AMPIA MA CHE POCHI CONOSCONO
Alexanderplatz, Berlino
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ircondata a est dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca, a sud dall’Austria e dalla Svizzera, a ovest da Francia, Belgio, Lussemburgo e Olanda, la Germania occupa circa 360mila chilometri quadrati ed è lo stato più popolato di tutta l’Europa Unita. La numerosa popolazione tedesca detiene anche un altro record: è fra quelle più devote al turismo outbound e cioè al turismo effettuato al di fuori del proprio Paese. Con una popolazione di circa ottantaquattro milioni di abitanti e ben trentatré siti nominati patrimonio dell’umanità dall’Unesco, i tedeschi amano la loro terra ma anche esplorare nuove opzioni. Ma l’inbound (il processo inverso, che porta gli stranieri nel Paese in esame) come si comporta? La Germania è fra i primi dieci Paesi più visitati al mondo con più di ventiquattro milioni di visitatori internazionali contati nel 2008 (ma l’Italia la distacca comunque di molto). Olandesi, americani e svizzeri, in quest’ordine, i più affezionati alla Germania nel 2009, seguiti da Inghilterra, Italia e Austria. E chi si aspetta dati disastrosi in questi anni di crisi dovrà ricredersi. Con un Pil in crescita quest’anno del 3,7 per cento (l’Italia ha invece registrato solo un più 1,1 per cento) e un tasso di disoccupazione che sta scendendo sempre di più (a settembre 2010 è arrivato al 7,2 per cento mentre solo ad agosto si attestava al 7,6 per cento), la Germania esce relativamente illesa dalla crisi del 2009: Berlino è la grande star fra le capitali europee per quanto riguarda l’industria turistica. Il 2009 infatti è stato un anno record per il numero delle notti passate nella città dai turisti, aumentate del 6,2 per cento rispetto all’anno precedente. Gli hotel di Berlino hanno migliorato la redditività del 42,7 per cento nel giugno 2010, ed eventi come il Gay and Lesbian Festival di Berlino, il Gay Pride e la Capitale delle Culture hanno aumentato il tasso d’occupazione delle camere d’albergo. Va inoltre detto che se per le altre capitali una notte in un albergo di qualità può arrivare a costare dalle 150 ai 160 euro, per Berlino viene a costare in media 80 euro. Questo aiuta sicuramente il turismo e invoglia a passare una o più notti nella città. Se è vero infatti che la crisi economica ha visto una diminuzione del 5,6 per cento per quanto riguarda la media di arrivi stranieri in tutta Europa, la Germania ha avuto una diminuzione solo del 2,7 per cento (dati United Nations World Tourism Organization). E se la Spagna rimane leader del mercato in questo settore, la Germania ha dimostrato una
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La Porta di Brandeburgo, munumento simbolo di Berlino
L'Oktoberfest, uno dei principali eventi che attira turisti in Germania
Vigneti nella regione del Württemberg
tale capacità di recupero che la vede pareggiare con la Francia, seguita subito dall’Italia. Per la Germania, il più grande mercato sul quale investire resta l’Olanda: l’anno scorso il numero dei visitatori è cresciuto del 2,8 per cento per un ammontare di dieci milioni di turisti. Peggiora il conteggio invece per i turisti americani che fino ad ora rappresentavano il 10 per cento della fetta di turismo inbound, è diminuito del 3,4 per cento a 4,3 milioni. È la regione della Baviera ad attirare il maggior numero di turisti, la seconda in lista è il Baden-Württemberg, terza arriva la regione del Nord Reno-Westfalia che quest’anno ha un motivo in più per essere visitata, essendo stata nominata capitale europea della cultura 2010. Molte le attrattive turistiche, ma è doveroso segnalare Berlino come prima tappa obbligata per chi vuole conoscere meglio la Germania e in particolare la visita al Denkmal für die ermordeten Juden Europas, il monumento agli ebrei vittime dell’Olocausto in Europa, inaugurato nel 2005, 20mila metri quadrati cosparsi di 2.711 blocchi di cemento grigio situati nel centro della città, tra la porta di Brandeburgo e Potsdamer Platz, per ricordare. Sempre a Berlino, da visitare Alexanderplatz e piazza Gendarmenmarkt e i numerosi musei della città (stupefacente l’Altare di Pergamo al Pergamon Museum e il Museo del Muro). Ed è proprio a Berlino che il 5 settembre si sono festeggiati i cento anni dell’associazione che raccoglie le 195 aziende vinicole tedesche più rinomate del Paese, la Verband Deutscher Prädikatsweingüter, con degustazioni in gallerie d’arte distribuite in tutta la città. Da non perdere anche Monaco, con l’Oktoberfest e il Festival dell’Opera; Friburgo, rinomato centro vinicolo dominato dalla cattedrale; Colonia, con il suo carnevale; Postdam, la città dei castelli; Amburgo, con i negozi eleganti, i canali e la chiesa di S. Michele, oltre ai cinquanta musei della città;
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Turismo Il castello di Heidelberg. La città è il primo centro universitario della Germania
L’Hackepeter, carne di maiale macinata e condita
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Norimberga, città medievale con ottanta torri situate nel centro storico e il museo nazionale germanico con opere di Albrecht Dürer; Heidelberg, prima città universitaria della Germania; Trier, che ha origini romane (chiamata Augusta Trevirorum nel 16 a.C.); Dresda con i castelli sull’Elba e le storiche ferrovie di montagna. Dalle città alla campagna: sono alberi secolari quelli che si trovano sul sentiero che corre da Kap Arkona, sull’isola di Rügen, fino all’isola Reichenau, nel lago di Costanza e si può proseguire addirittura fino alla affascinante Foresta Nera, dividendo il percorso a seconda che si preferisca andare a piedi, in bici o in moto: 2.500 chilometri di strada per gli amanti della natura. Chi ama il verde deve assolutamente visitare la Turingia, costituita da piccoli principati. Terra di filosofi, poeti e pensatori, offre anche un’incredibile varietà gastronomica. E per gli amanti del pittoresco, la Romantische Strasse, 350 chilomentri fra antichi centri storici e castelli principeschi. Molte le occasioni anche per chi ama sciare, dalla regione di Allgäu alle Alpi Bavaresi, dalla Berchtesgadener Land (per tutti ma specialmente per chi ama lo snowboard) alla parte sud ovest della Baviera (per lo sci di fondo). Con l’avvicinarsi del Natale è bello farsi trasportare dalla magia dei mercatini presenti in moltissimi paesini della Germania oppure organizzare una vacanza con la famiglia magari al parco divertimenti dell’Europa-Park di Rust, ma basta anche solo passeggiare per godere delle tipiche luminarie che ci fanno sentire lo spirito natalizio. Tante le attrattive dunque e le possibilità per chi decide di andare in Germania, dagli amanti delle città, della cultura e della storia ai patiti della natura. Manca sicuramente però l’offerta di turismo marittimo, che il nostro Paese non fatica a soddisfare, offrendo diverse possibilità. Se è infatti difficile fare paragoni viste le caratteristiche geografiche, climatiche e culturali sicuramente piuttosto differenti, rimanendo al confronto con gli altri Paesi d’Europa, ovviamente, è innegabile che l’Italia la faccia da padrona, con un territorio molto più avvantaggiato vista la varietà dell’offerta e un clima molto più “facile”, senza contare l’aspetto artistico. Se noi riusciamo però così, o dovremmo riuscire, a diversificare maggiormente l’offerta, non riusciamo però a raggiungere la Germania in termini di organizzazione e di tempestività. Sicuramente fra le attrattive e tra i primi fattori a far pendere la bilancia verso l’Italia c’è sicuramente l’enogastronomia. Ma la Germania, che cosa ha da offrire?
La berlinese Potsdamer Platz
Gli Knödel, grossi gnocchi di un impasto di composizione variabile
L'Apfelstrudel, uno dei dolci tipici
Le prime cose che vengono in mente sono birra e wurstel, ma non bisogna fermarsi alla prima impressione. La cucina regionale ha tanto da offrire, anche se gli ingredienti base sono semplici. Tra i piatti di carne vanno forte l’oca e il maiale, spesso servito come stinco o come porchetta e rigorosamente accompagnato da patate (Kartoffeln) o da cavoli (Kohl), ma anche dai crauti. Una verdura molto tipica sono i Sauerkraut, cavoli rossi sottaceto, spesso usati come antipasto ma anche come contorno. Anche il Gulasch (zuppa di manzo con cipolle e paprika), di origine ungherese, è molto comune, così come gli Knödel, polpette di mollica o patate, ma vengono cucinati anche i pesci (nel Nord), spesso affumicati, oppure granchi e aragoste. Fondamentale anche lo speciale pane nero che accompagna tutti i pasti, ricco di fibre e sostituivo della nostra pasta. A differenza nostra, si usa anche molto il dolce-salato all’interno dello stesso piatto (vedi pasta e marmellata). Ma è sbagliato generalizzare: terzo Paese al mondo per numero di immigrati internazionali, la cucina tedesca è stata decisamente influenzata dalle diverse nazionalità: è possibile, se non facile, trovare ristoranti di qualità che propongono cucine internazionali. Inoltre la Germania, divisa in sedici distretti, è caratterizzata da un diverso utilizzo di ingredienti nei piatti tipici a seconda delle regioni. A Berlino e Brandeburgo sono tipici l’anguilla con salsa di cavolo (Aal grün) e la carne di maiale macinata e condita (Hackepeter). In Pomerania si cucina il petto d’oca con salsa dolce e patate (Gänseschwarzsauer). In RenaniaPalatinato si usa la zuppa di piselli con orecchie di maiale (Ähzezupp) mentre in Bassa Sassonia sono da provare le aringhe di Brema e la salsiccia in padella. I buonissimi Bretzel sono originari di Francoforte e dell’Assia, in Turingia si mangia il Meisser Kummel, un dolce che assomiglia alla sbrisolona mantovana. Da mangiare assolutamente anche il prosciutto della Foresta Nera, la salsiccia bianca di Monaco e il Schlachtplatte della Baviera, per stomaci forti: è un piatto misto con sanguinaccio nero, Knödel al fegato, salsicce di fegato, trippa e crauti. Per quanto riguarda i dolci, si trovano in tutta la Germania lo strudel di mele, la mela cotta con marmellata di albicocche e una torta di pasta frolla con ripieno al formaggio. La birra, invece, è uno stereotipo da superare: la Germania ha una storia secolare per quanto riguarda la viticoltura. Va però sottolineato che i metodi di produzione vinicola sono diversi da quelli dell’Italia o della Francia: qui è permesso lo zuccheraggio ed è proprio in base alla quantità di zuccheri 65
Turismo La valle della Mosella
I Bratwürste
Lo Schwarzbrot, il pane nero immancabile sulle tavole tedesche
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fermentescibili contenuti nel mosto che si esegue la classificazione qualitativa dei vini. Comprensibile, visto che vi è una problematica di base (anche e soprattutto climatica) per la maturazione delle uve. Con 102mila ettari di vigneti, la produzione è notevole: nel 2008 sono stati prodotti dieci milioni di ettolitri di vino. Va sottolineato che nel territorio prevalgono i vini ottenuti da uve a bacche bianche che rappresentano i 2-3 del totale (64 per cento per le uve a bacca bianca e il 36 per cento per le uve a bacca nera). Per quello che riguarda questa tipologia, il vitigno più coltivato in Germania è il Riesling (il più fruttato è quello prodotto lungo il pendio della Mosella), che detiene l’80 per cento dell’intera superficie vitata in Europa dedicata a questa tipologia, seguito dal Müller Thurgau e il Sylvaner. Per le bacche a uva nera vince lo Spätburgunder, seguito dal Dornfelder e il Portugieser. Dato lo stereotipo di grandi bevitori di birra stupirà forse sapere che la Germania è il Paese che consuma più spumanti (di ogni tipologia) al mondo, con quasi 450 milioni di bottiglie prodotte all’anno. Non mancano gli Champagne e i Cava (uno per tutti il Mumm). La Germania è anche il Paese che importa più vino al mondo (con 14,2 milioni di ettolitri nel 2007), mentre come esportatore si trova solo al nono posto. Riguardo al consumo, quello pro-capite arriva a 20,6 l/anno, una media ben lontana da quella di molti altri Paesi (inclusa l’Italia). Sono quattro le regioni che comprendono la maggior parte del territorio vitato, tutte concentrate su uve a bacca bianca: Rheinhessen, Pfalz, Baden e Württemberg. Fa eccezione la valle dell’Ahr, coltivata con uve provenienti dalla Francia fin dall’VIII secolo che producono Pinot nero, chiamato in Germania Spätburgunder o Laimberger. Qui la produzione di rossi raggiunge l’80 per cento della produzione totale del Paese. Tra i rosati ricordiamo lo Schillerwein, delicato, dal profumo di lampone e di frutti di bosco. Se quindi sicuramente c’è ancora da lavorare per quanto riguarda l’esportazione, che necessita decisamente di una spinta in più (anche se in ogni caso non si possono fare confronti con il territorio italiano), la Germania gode sicuramente di una scelta vinicola ampia ma che pochi conoscono nel dettaglio. Visitiamo dunque la Germania armati di un pizzico di curiosità enologica, che sicuramente il Paese merita. Ricordandoci, però, una volta all’estero, di (es)portare la nostra cultura con orgoglio, noi che, volendo cercarci un difetto, siamo un po’ troppo malati di esterofilia.
Oli d’Italia
olio
Si consuma l’ ma senza conoscerlo di Luigi Caricato i sono volte in cui è necessario far chiarezza. In Italia la centralità di cui gode un alimento simbolo come l’olio extra vergine di oliva è indiscutibile. Tuttavia, nello stesso Paese che mette al centro dei consumi l’olio ricavato dalle olive – da almeno due millenni e oltre – non esiste ancora una vera cultura collettiva dell’olio. A sostenerlo non soltanto gli esperti ma anche una serie di ricerche che offrono un quadro ancor più deludente, perché più circostanziato. In Italia, nel Paese delle 538 cultivar, in cui gli olivi vantano una biodiversità altrove non altrettanto significativa, né riproducibile, l’olio lo si consuma per pura abitudine, senza conoscerlo. È evidente che di fronte alla diffusa ignoranza dei consumatori vinca come al solito il prezzo e con tale limite di fondo si continueranno ad affermare, in maniera sempre più netta, fino a moltiplicarsi di continuo, i tanti luoghi comuni, così difficili da sradicare ogni qual volta entrano di fatto a far parte del corredo delle proprie convinzioni. A essere davvero onesti, possiamo anche dire che non soltanto i consumatori, non solo i commercianti, ma anche gli stessi produttori, a volte, pur producendo l’olio, non ne conoscono natura e dinamiche. È una materia prima che si produce da millenni, è vero, ma poi non sempre la si riesce a gestire. Una cosa alla quale in pochi stanno lavorando è l’applicazione pratica dell’olio in cucina, nelle sue varie formulazioni alimentari. Ed è ciò cui da qualche tempo chi scrive si sta dedicando, come ha fatto con il volume L’evoluzione dell’olio in cucina, attraverso l’impegno del Consorzio di tutela degli oli Dop Riviera Ligure e del Comune di Lucinasco. Nel libro vi è una guida ragionata agli abbinamenti oliocibo. Se non si conosce la complessità aromatica, la variabilità e l’intensità delle note olfattive e gustative di un olio extra vergine di oliva, qualsiasi utilizzo, a crudo o in cottura, può essere vanificato e risultare erroneamente inappropriato. Il fatto è che non si è in grado di scegliere tra le varie produzioni olearie, perché non si è mai approfondita la materia prima olio extra vergine di oliva. Di conseguenza, è inevitabile che alcuni sostengano che l’extra vergine sia troppo “carico” di gusto, al punto da coprire i sapori di altre materie prime. Ed è anche comprensibile che
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altri arrivino a sostenere che l’extra vergine risulti (infelicissima espressione) “pesante” e poco digeribile. Nonostante ciò, i consumi premiano l’extra vergine ma, per essere più esatti, a essere premiati sono gli extra vergini da primo prezzo, di cui è sempre opportuno diffidare, visto che si arriva in taluni casi a offerte assurde e offensive, l’ultima della quali sotto i due euro la bottiglia da litro. Tutto ciò è possibile perché non si è lavorato a sufficienza sulla leva culturale. Così, quando l’ignoranza vince sulla cultura, i risultati sono disastrosi e quasi irrimediabili. Bene ha fatto perciò Bayer CropScience, attraverso la rete dei saggi ad aver riunito, sotto il marchio di “Coltura & Cultura”, i massimi esperti sul fronte agroalimentare. Encomiabile l’impegno nell’organizzare un seminario rivolto al mondo distributivo e alla ristorazione. A Stresa, dove all’incontro di Bayer CropScience ho avuto modo di rappresentare il mondo dell’olio, chi scrive ha delineato lo scenario di riferimento e proposto alcune soluzioni concrete da cui partire per ridare valore all’olio extra vergine di oliva. Cosa può fare dunque la grande distribuzione organizzata a favore di tale alimento-condimento? Ecco alcuni punti da cui è bene partire per cercare una soluzione che possa dar luogo a una svolta: I non limitarsi più alla pura vendita, ma pensare a forme alternative di promozione che non si fermino alla sola scontistica; I distinguere gli oli extra vergini di oliva destinati al consumo di massa da quelli di alta gamma, espressione delle aziende agricole, attivando così due differenti forme di comunicazione; I formare gli addetti agli acquisti attraverso incontri specifici, in modo da renderli in grado di valutare la bontà degli oli e fissare un prezzo di vendita adeguato; I lavorare a un progetto comune che unisca i rappresentanti del mondo della produzione, aziende di marca e Gdo per fissare alcune regole-guida cui attenersi; I attivare forme di comunicazione che coinvolgano il consumatore tra gli scaffali, coinvolgendo altri settori affini, come ad esempio l’ortofrutta, ambito in cui l’olio extra vergine di oliva è condimento d’elezione; I vendere non solo un prodotto, ma anche un servizio.
GLI ASSAGGI
Nel bicchiere. È verde dai riflessi oro, limpido. Al naso ha profumi mediamente intensi, dalle connotazioni erbacee nette e dai richiami al carciofo. Al palato è sapido e armonico, con note amare e piccanti in ottimo equilibrio. Ha buona fluidità e gusto vegetale di carciofo e cardo, progressiva punta piccante in chiusura. L’abbinamento. Farinata di ceci, zuppa di fagioli, tagliata di manzo con salsa di capperi e acciughe.
TOSCANA
Agricola I Poggetti “I Poggetti” da olive Frantoio (40%), Leccino (40), Pendolino (10), Maurino e altre.
Agricola I Poggetti, loc. Ampio, 58043 Castiglione della Pescaia (Grosseto), tel. 0564.944113, info@ipoggetti.it, www.ipoggetti.it
Nel bicchiere. È giallo dorato dai riflessi verdi, limpido. Al naso ha profumi fruttati di media intensità, erbacei, con sentori di carciofo. Al palato ha buona fluidità e sensazione vellutata, gusto vegetale, amaro e piccante netti e armonici. In chiusura una punta piccante e sentori mandorlati. L’abbinamento. Minestra di cozze e verdure, insalate verdi e di mare, sella di coniglio ai porcini.
MARCHE
Oleificio Montenovo “Penelope” da olive Leccino, Frantoio, Raggia.
Oleificio Montenovo, via San Pietro 11, 60010 Ostra Vetere (Ancona), tel. 071.964471, oliomontenovo@libero.it, www.oleificiomontenovo.it
Nel bicchiere. Giallo oro dai riflessi verdi, limpido. Al naso ha profumi fruttati di media intensità, erbacei, con sentori di pomodoro e di mela. Al palato è morbido e avvolgente, armonico nelle note amare e piccanti. Dal gusto vegetale, è sapido, in chiusura il ritorno del pomodoro e note di frutta bianca. L’abbinamento. Risotto di cardi e acciughe, insalata di arance, sella di coniglio in salsa mediterranea.
SICILIA
Agrestis “Agrestis- Bell’omio” da agricoltura biologica, da olive Tonda Iblea in purezza.
Agrestis soc. coop. agricola, via Pappalardo 11, 96010 Buccheri (Siracusa), tel. 0931.873939, fax 0931.880256, info@agrestis.it, www.agrestis.it
Nel bicchiere. È giallo dai riflessi verdi, limpido. Ha sentori di mandorla freschi e vegetali al naso, con percezione mediamente intensa delle note fruttate. Al palato è morbido e armonico, di buona fluidità, con gusto vegetale e sensazione dolce al primo impatto e una lieve ed elegante punta amara e piccante. In chiusura i richiami alle erbe di campo.
LIGURIA
Azienda agricola olivicola Carlo Siffredi “Carlo Siffredi” Dop Riviera Ligure – Riviera dei Fiori, ottenuto da olive Taggiasca
L’abbinamento. Ravioli di tonno ai gianchetti, filetto di merluzzo al pomodoro e olive nere Taggiasca, frittelle di mele. Azienda agricola olivicola Carlo Siffredi, via Roma 1, 18027 Lucinasco (Imperia), tel. 0183.52662, carlo.siffredi@alice.it
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Birra di qualità
Il
Salento
profuma di
birra
di Maurizio Maestrelli
L’ESTREMO
LEMBO DELLA
PUGLIA
È UNA TERRA DI RARA BELLEZZA,
CONOSCIUTA ANCHE PER I VIGNETI E PER LA CUCINA.
MA
NON MANCANO
NEPPURE DELLE OTTIME BIRRE ARTIGIANALI, NATE DALLA PASSIONE DI UN RAGAZZO CHE HA CREDUTO NEL SUO SOGNO
affaele Longo è tanto affabile quanto determina- stavo entrando anch’io». Ed entrando a piedi pari, to. I modi sono cortesi e parlare con lui, maga- verrebbe da dire adesso. Perché, laurea in tasca, Raffaele ri con una birra in mano, è facile. Tuttavia a Longo passa tre anni circa a Bologna ma poi rientra ripercorrerne la storia, si capisce che è una di quelle nella sua Lecce e si licenzia. «Cambio lavoro ma restanpersone che, se si mette in testa una cosa, non molla. do sempre in ambito commerciale mi butto a capofitto È lui oggi l’alfiere della birra artigianale in terra salen- nella produzione casalinga. Passo all’all grain e faccio tina, quell’affascinante tacco d’Italia impreziosito ulte- una cotta alla settimana e ho proseguito a questo ritmo riormente da un mare che potrebbe competere con le fino al 2007, iniziando a partecipare anche a diversi Maldive. concorsi per homebrewer». A quel punto il destino era Ha iniziato in maniera strampalata, lavorando da sta- tracciato, si trattava solo di capire come si sarebbe reagionale in un locale che era un po’ di tutto: pizzeria, lizzato. La chiave di volta per Longo è un altro birraio bar, tabaccheria… «A fine stagione mi accorsi che erano pugliese, Donato Di Palma che alla fine del 2007 stava rimaste invendute alcune bottiglie di birra un po’ stra- aprendo il suo impianto, Birranova (www.birranova.it), ne”» ricorda, «ed è così che ho cominciato una sorta di nel barese, a circa 130 chilometri da dove stava Longo. collezione. Quello è stato il mio primo vero incontro con Tra i due nasce una collaborazione, nel senso che la birra». Raffaele inizia a produrre le sue birre, Un incontro casuale, come casuale è le sue ricette, in un impianto professioanche quello di qualche anno dopo, nale. «Per me era la prima volta, il vero debutto. Il primo anno, il 2008, riuscii quando in una libreria di Genova, Longo a produrre circa settanta ettolitri, l’anmette gli occhi su uno dei primi libri no scorso sono salito a centoquaranta birrari di Michael Jackson tradotti in e quest’anno conto di chiudere a dueitaliano e su un libricino su come fare cento». Due anni di duro lavoro e di quola birra in casa scritto da Luigi Odello. tidiane trasferte nel birrificio amico non «Era il 1994 e in quel momento mi è sono cose da niente ma Longo è deterscattata una molla. Ci ho provato facenminato. «Carico i sacchi di malto la matdo le prime birre da estratto, ma intantina o le bottiglie sul furgoncino e poi to dovevo studiare (Economia bancaria) parto, qualche volta mi fermo a dorper cui la birra restava un po’ un hobby. mire lì ma, ho famiglia, e di norma preNon conoscevo la comunità, già esistenferisco rientrare a casa la sera». Giorno te, dei birrai casalinghi, attivi sopratdopo giorno nascono così le birre che, tutto al Nord. Ero insomma un po’ isoadesso, costituiscono l’offerta del birrilato dal resto del movimento artigianaficio di Raffaele Longo, il B94. La prima, le che stava muovendo i primi passi Raffaele Longo, titolare del birrificio B94 ma solo per minore gradazione alcolima, senza rendermene forse conto, ci
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ca, si chiama November Ray ed è una pale ale inglese da 4,7 % vol. di facile approccio e molto godibile. Note fruttate e di malto al naso, un finale gradevolmente luppolato ma senza esagerare. La Dellacava è invece la blanche della casa ottenuta impiegando anche una piccola percentuale di frumento locale e aromatizzata con buccia d’arancia amara, coriandolo e ginepro. Fresca e leggera, con i suoi 5 % vol. ha note speziate e fruttate e una bevibilità estrema. Stessa gradazione, ma profumo e gusto diversi, per la Terrarossa, una extra special bitter ambrata con profumi caldi di caramello, mou e malto equilibrati tuttavia dall’apporto agrumato del luppolo. Si sale in struttura quindi con la Porteresa, una porter da 7% vol. Ovviamente scura come richiede la tipologia, la Porteresa offre un bel ventaglio di note tostate, che ricordano il caffè, la liquirizia e le carrube. Raffaele Longo ne sta studiando una versione dove le carrube appariranno anche tra gli ingredienti. Ma è la Malagrika la prima vera birra del territorio, come la definisce lo stesso birraio, perché di tratta di una personale interpretazione sullo stile “belgian fruit” impiegando, nella ricetta, confettura di mele cotogne coltivate nel territorio. La Malagrika è un po’ il fiore all’occhiello del B94, in attesa che Longo realizzi una futura birra, adesso in fase di studio, con sciroppo al melograno e soprattutto segna l’apertura di questo giovane birraio alle collaborazioni con altri artigiani del gusto salentini. «Questa è l’avventura che mi affascina oltremodo» conferma lui, «perché mi piace l’idea di dare vita a tutta una serie di birre legate all’area geografica dove vivo e lavoro e possibilmente vorrei farlo sviluppando sinergie con altri artigiani come me». Ecco, nel caso di Raffaele Longo e del suo Birrificio B94 (www.birrificiob94.it) di Lecce, la parola “artigiano”, quanto mai abusata di questi tempi, è calzante. Raffaele Longo è al lavoro da solo, aiutato in parte dal fratello Fernando, ma è lui a progettare le birre, lui a produrle, lui a imbottigliarle (circa 16mila pezzi quest’anno tra 0,75 e 0,37 cl). «So di avere una formazione commerciale» dice, «ma non riesco a fare a meno della parte produzione. Mi piace macinare il malto, adoro il profumo che si respira nel birrificio durante le cotte, non potrei rinunciarci». E non lo farà nemmeno nel prossimo futuro quando, a partire da gennaio 2011, il suo nuovo impianto sarà operativo, a Lecce, sulla via provinciale Lecce/Cavallino. Magari gli mancherà fare sempre su e giù da Bari, ma non gli mancheranno le buone idee che per ora sono cinque, ma in futuro chissà… E di buone idee ha oggi bisogno il mondo della birra artigianale italiana.
DEGUSTAZIONE TRASHY BLONDE Produttore: Brewdog – Fraserburgh (Scozia) Distributore: Ales & Co. (www.alesandco.it) Da un birrificio indipendente scozzese nato appena nel 2007, “peschiamo” tre birre “normali”. Normali nei parametri di un birrificio che, da quando è nato, continua a crescere e a stupire con prodotti spesso estremi e quasi provocatori, per gradazioni alcoliche e per ingredienti. Tuttavia i due giovani titolari sanno anche fare splendide birre beverine ma non prive di carattere. La Trashy Blonde è una Golden ale da 4,1% vol., caratterizzata negli aromi dal luppolo neozelandese (Motueka) e americano (Amarillo). Si presenta di colore dorato scarico nel bicchiere con intriganti profumi agrumati. Estremamente dissetante, è una soluzione ideale come aperitivo.
PUNK IPA Produttore: Brewdog – Fraserburgh (Scozia) Distributore: Ales & Co. (www.alesandco.it) La Punk Ipa è sicuramente la birra bestseller di Brewdog, capace di ottenere un successo di vendita nel Regno Unito che ha pochi precedenti nella storia. Profumi fruttati e luppolati, anche qui un mix di varietà neozelandesi e americane, corpo deciso e finale secco e pulito. Ha 6% vol., ma è senza dubbio una birra difficile da dimenticare. Da provare in abbinamento a piatti leggeri, magari a base di carni bianche grigliate o a primi piatti di pasta con sughi di verdure. Bene pure con formaggi di breve o media stagionatura come certi Raschera o alcune Caciotte toscane.
CHAOS THEORY Produttore: Brewdog – Fraserburgh (Scozia) Distributore: Ales & Co. (www.alesandco.it) Nome affascinante e facilmente comprensibile per una birra che si annuncia un po’ più alcolica delle precedenti: 7,1% vol. Come le altre due sue sorelle, anche questa è reperibile in Italia in bottiglia da 0,33. La Chaos Theory ha un gusto decisamente più maltato e dolce, sorretto dalla alcolicità, ma dopo il primo sorso si avverte con sicurezza anche il profilo aromatico dettato dal luppolo che rimane a lungo nel palato. Da provare con carni rosse arrosto, di manzo e di maiale ma anche con faraona e anatra, primi piatti con sughi di carne e formaggi stagionati, fino al Parmigiano Reggiano.
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Distillati
Le superbe grappe “made” in Trentino di Angelo Matteucci
LE DISTILLERIE TRENTINE SONO NELLA MAGGIOR PARTE ARTIGIANALI E PRODUCONO POCHE DECINE DI MIGLIAIA DI BOTTIGLIE.
INSOMMA
LA QUALITÀ VINCE RISPETTO ALLA QUANTITÀ
l Trentino è senza dubbio la regione di primissimo piano per quanto riguarda l’attenzione, la ricerca e il rispetto della tradizione. Le grappe trentine sono apprezzate dai consumatori per la loro indiscutibile qualità, grazie all’ottimo lavoro e ai controlli particolari effettuati sia sul territorio sia sul prodotto. Non a caso nacque qui, per volere dei produttori, nel 1960 l’Istituto di tutela della grappa del Trentino con la firma di un protocollo o codice di autodisciplina firmato con le autorità regionali. Oggi fanno parte di questo ente ventuno soci distillatori. Ciò obbliga gli operatori a utilizzare esclusivamente vinaccia da uve prodotte in Trentino e di sottoporre i propri distillati ai controlli e alle analisi da parte dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige. Solo dopo aver superato i vari esami le bottiglie possono fregiarsi del bollino di garanzia con il famoso tridente. Il Trentino, che vanta circa trenta distillerie attive sulle centotrenta nazionali, di fatto produce meno di un decimo della produzione totale di grappa. Ne consegue che le distillerie in questione, a parte un paio di media grandezza, sono nella maggior parte artigianali, spesso familiari, e producono poche decine di migliaia di bottiglie. Qui la qualità vince rispetto alla quantità, le piccole distillerie operano generalmente con alambicchi a vapore metodo Tulio Zadra, il grande ramiere che, nella seconda metà del secolo scorso, con una serie di modifiche agli alambicchi tradizionali, aggiungendo oblò, manometri e bacinelle di raccolta della testa e della coda, rese i suoi alambicchi più tecnici con un sensibile miglioramento della qualità. A Santa Massenza, una frazione nel comune di Vezzano, verso la metà dell’800 all’interno del Palazzo vescovile si registrò una prima distilleria utilizzata dai contadini del luogo che portavano le vinacce per ottenere il
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proprio fabbisogno di grappa ed eventualmente per essere utilizzata come merce di scambio. Dall’inizio del ’900 praticamente ogni famiglia acquistò un alambicco fino ad avere ben tredici distillerie operanti in un paese di soli cento abitanti. Oggi ne troviamo cinque che portano il nome Poli e operano in armonia ma separatamente. La distilleria Francesco Poli, lavorando secondo la strategia trentina di smaltire nel più breve tempo possibile le vinacce, ha acquisito nel 1996 due alambicchi a bagnomaria in sostituzione del vecchio apparecchio distillatore. Particolare importante è il fatto che il vapore viene iniettato in intercapedine ed è quindi separato dalla vasca che contiene le vinacce. Questo metodo permette di ottenere grappe eleganti, morbide con una particolare pulizia gustativa. L’attenzione alla freschezza delle vinacce è per nostra fortuna oggi divenuto un’esigenza di tutti i distillatori che vogliono ottenere un risultato finale di pregio, atto a essere apprezzato dall’esperto consumatore. La gamma di Francesco Poli comprende le grappe monovitigno di Cabernet, Moscato, Nosiola, Traminer, Marzemino, Muller e Schiava oltre alla Riserva invecchiata 24 mesi e a una speciale grappa di Vin Santo trentino derivante dall’uva Nosiola con vendemmia tardiva. Giovanni Poli nella propria distilleria si affida, a buona ragione, al suo naso e alle proprie mani di esperto distillatore trentino per produrre le sue grappe monovitigno di sette qualità, utilizzando vinacce fresche dalle tradizionali uve trentine. Offre alla propria clientela la sua grappa bianca Santa Massenza e la Vecchia Riserva oltre alla Grappa Amara e Grappa Asperula con infuso di erbe. Giulio e il figlio Mauro Poli conducono la distilleria omonima e producono anch’essi le grappe monovitigno da
Gli alambicchi della distilleria di Francesco Poli
Gli interni della distilleria Pilzer
uve trentine con alcune grappe aromatizzate definite Amara, Asperula e Liquirizia. Inoltre offrono ai propri clienti la grappa di Saros, il nome della propria vigna coltivata a Sauvignon Bianco. A Faver, in val di Cembria, troviamo la famiglia Pilzer. La distilleria fu fondata da Vincenzo nel 1957 ed è ora guidata dai figli Ivano e Bruno. Ancora una volta si riscontra la volontà di produrre una grappa artigianale rivolta ai più sofisticati consumatori. Le qualità ricavate dalle vinacce trentine ci sono praticamente tutte, dal Moscato giallo al Müller Thurgau e Chardonnay, dal Traminer alla Nosiola, dal Cabernet al Pinot Nero, Schiava e Teroldego. I Pilzer comunque acquisiscono anche vinacce fuori dal territorio (Toscana, Puglia, Campania) arricchendo così la loro gamma. Sempre in Val di Cembria a Segonzano accanto alle piramidi naturali vi è la distilleria Giacomozzi Renzo, fondata nel 1866. Qui si produce grappa secondo il metodo a vapore diretto (senza intercapedine) per conto proprio, con la grappa invecchiata e grappa Müller, e anche e per conto terzi. Nel 1949 a Brancolino di Nogaredo in Vallegarina alle porte di Rovereto Attilio e la sorella Sabina Marzadro aprirono i battenti della loro distilleria, che è oggi una delle più importanti del Trentino con una vasta gamma e una produzione di circa un milione di bottiglie, prevalentemente legate al territorio. Oggi operano i nipoti di Attilio a ritmo sostenuto, lavorando per cento giorni ininterrotti, 24 ore su 24, da settembre a dicembre. Questo permette di ricevere in varie fasi le vinacce fresche e di provvedere alla immediata lavorazione e distillazione in alambicchi discontinui a vapore. La gamma ha nella qualità “18 lune” il suo punto di forza. È composta da vinacce a bacca rossa (70%) e bacca bianca e la grappa è sapientemente invecchiata in piccoli barili di diverse tipologie di legno pregiato per almeno diciotto mesi. L’azienda, pur producendo alcune grappe monovitigno, non dimentica la tradizione delle grappe bianche e affinate, offrendo alla clientela anche grappe riserva e stravecchie.
La più antica distilleria trentina si trova a Mezzocorona, nella Piana Rotaliana, dove nel 1870 Edoardo Bertagnolli e la moglie Giulia de Kreutzenberg crearono quella che oggi è conosciuta come la premiata distilleria G. Bertagnolli, fornitori ufficiali della Casa imperiale asburgica dal 1886. Fu soprattutto la signora Giulia che dette impulso all’impresa che porta tuttora il suo nome. Oggi condotta ancora da una signora, Livia Bertagnolli e dal cugino Beppe, è stata la prima distilleria ad avere la produzione a larga scala con alambicchi tradizionali discontinui a bagnomaria (del sopranominato Tullio Zadra) con sistemi completamente automatici. Operano con sei alambicchi di rame della capacità di circa 1.500 chili. La distilleria Segnana di Trento, di proprietà della famiglia Lunelli, produttrice del Ferrari, uno dei vanti dell’enologia italiana, acquistò nel 1982 la distilleria, fondata da Paolo Segnana nel 1860, quando con il proprio alambicco montato su un carro girava le campagne per distillare le vinacce “entro 24 ore dalla pressatura” come richiedeva la legge austroungarica, legge molto restrittiva ma che indicava già allora la necessità di distillare vinacce fresche per ottenere la migliore grappa morbida senza gravi difetti (muffa e altro). La scelta dei Lunelli, che già conferivano alla distilleria le loro vinacce, è stata una logica conseguenza che ha portato a una ristrutturazione su ampia scala. È importante sottolineare che la distillazione avviene rigorosamente in alambicchi discontinui a bagnomaria con accorgimenti e brevetti speciali atti a produrre grappe di qualità. Nulla è lasciato al caso come, ad esempio, la riduzione di grado prima dell’imbottigliamento con acqua sorgiva. Le bottiglie si presentano con un packaging particolarmente attraente. La gamma spazia con nomi classici come le monovitigno delle varie uve “trentine” e altri come le grappe Gentine. Estrema, Solera di Solera, Solera Selezione, Sherry Cask, Cinquanta (dal grado alcolico) e Segnana Anniversario 150°, che ricorre quest’anno, indicano la lunga e straordinaria storia delle grappe trentine.
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Liquoristica
Liquori
che profumano
di
erbe antiche di Fulvio Piccinino
LA
PRODUZIONE
LIQUORISTICA PIEMONTESE HA UNA
STORIA CENTENARIA.
OGGI
ALCUNE AZIENDE A
CONDUZIONE FAMILIARE RINNOVANO LA TRADIZIONE CON PRODOTTI UNICI NEL LORO GENERE
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l Piemonte gode di una grandissima fama per i suoi vini e può vantare un riconosciuto prestigio dato da una ristretta cerchia qualificata di produttori di grappa, come diretta conseguenza della sua vocazione primaria. Ma pochi sanno che, grazie alla sua posizione strategica a ridosso delle Alpi, ha anche una grossa tradizione nella produzione di amari e liquori monoerbe. Questo sapere è in mano a un gruppo di artigiani che tramandano con amore e passione la conoscenza centenaria della farmacopea casalinga medioevale, presente dalle Alpi agli Appennini, rispettando le regole rigide dell’infusione a freddo, unita al rifiuto totale per l’utilizzo di aromi di sintesi. La produzione liquoristica ha una storia centenaria certificata. Le prime notizie risalgono ai primi del 1300, quando Arnaldo da Villanova detto il Catalano, un alchimista famoso dell’epoca, mise a punto un elisir in grado di curare papa Bonifacio VII, colpito da una colica renale. Questa notizia fece molto scalpore e diede risalto ai nuovi rimedi che facevano la comparsa, per la prima volta, nel mondo medioevale. Dobbiamo però arrivare al 1737, quando il padre putativo e nume tutelare di tutti i liquoristi, il frate certosino Jérôme Maubec mise a punto, dopo decenni di prove, una formula donatagli dal Maresciallo d’Estress, denominata Elisir di lunga vita, creando di fatto la Chartreuse Vert, un’infusione di oltre centotrenta erbe a 55 gradi alcolici, summa di tutto il sapere erboristico dell’epoca. Il monastero della Grande Chartreuse, situato a pochi chilometri da Grenoble, nei pressi di Voiron , dove si trova l’attuale liquorificio dei frati certosini, fu certamente il fulcro di tutta l’attività liquoristica-farmaceutica del Medioevo ed è stato dal suo opificio che il sapere sull’infusione ha
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Tini in acciaio per le infusioni
Il monastero della Grande Chartreuse vicino a Grenoble, centro dell'attività liquoristicofarmaceutica del Medioevo
Lo studio di Teodoro Negro
attraversato le Alpi, per arrivare fino a noi, grazie all’opera divulgativa dei confratelli. Come allora, anche i moderni adepti dell’arte liquoristica si trovano sulle pendici delle Alpi, con le uniche eccezioni del Laboratorio Origine a Cengio, sul confine fra Liguria e Piemonte, in Valle Bormida e dell’Opificio, lungo il corso di questo fiume. Il Laboratorio Origine è una realtà di recente formazione, ma la sua storia affonda le radici a fine Ottocento, quando i bisnonni degli attuali proprietari, Alessandro Pancini e Luca Graffo, avevano una trattoria, dove si era soliti chiudere il pasto con i liquorini preparati dall’oste. Con la creazione dell’azienda i due giovani hanno deciso di proseguire l’attività di famiglia legata alla produzione di liquori, che grazie al passaparola aveva guadagnato clienti ed estimatori nella zona. Tutti i prodotti appartengono alla tradizione locale e vedono un eccezionale Nocino, prodotto tipico dell’Appennino, dall’evocativo e inquietante nome Uomo Nero, di infantile memoria: un infuso di malli di noce, cui viene aggiunto dell’assenzio, per un finale gradevolmente amaro. Non da meno è un liquore al caffè, di italica tradizione, realizzato con la collaborazione di una torrefazione locale. Altri liquori monoerbe interessanti sono a base di semi di finocchio, di fiori di camomilla, fino ai classici digestivi con liquirizia e menta e a un innovativo liquore al ginepro, di fatto un gin italiano, prodotto secondo la scuola olandese, leggermente dolcificato. Risalendo idealmente il magnifico corso del fiume Negro, circondati da incontaminati boschi, ripide colline e falesie sabbiose che creano panorami mozzafiato, incontriamo a Cessole, in provincia di Asti, l’Antico Opificio Negro, fondato da Teodoro Negro. Nato settimino, come tutti i prematuri, secondo la tradizione contadina, era dotato di poteri soprannaturali: la rabdomanzia, che gli fece scoprire decine di pozzi d’acqua e l’empatia unita a un’innata passione per le erbe, che gli fruttò la fama di guaritore. A un certo punto aveva quasi una media di trenta appuntamenti al giorno, con persone ammalate che venivano curate con tisane preparate da lui stesso. Dimostrando lungimiranza e talento, Teodoro frequentò per un certo periodo un monastero dei Frati Scolopi, per apprendere l’arte dell’infusione e al suo ritorno mise a punto un amaro con trentasette erbe che curavano
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Liquoristica Il Liquorificio Bernard
La Spiritosa: Genepy, Ramasin, Serpol
Anche i mirtilli diventano protagonisti nei liquori
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L'esterno dell'erboristeria Artemy
le patologie più frequenti. Il suo amaro ebbe un immediato successo e fu battezzato dai suoi clienti "Toccasana", per le sue qualità molteplici che andavano dalla cattiva digestione, al mal di testa a cui si aggiungevano doti calmanti ed antipiretiche. L’attuale proprietario è Valter Porro, figlio della commessa dell’erboristeria che per mezzo secolo ha affiancato Teodoro Negro ed è lui che tramanda la ricetta originale, per la produzione del liquore che conta moltissimi affezionati sul territorio del Basso Piemonte. La gamma si è ampliata recentemente con la Riserva del Fondatore, un infuso di erbe invecchiato tre anni, il cui passaggio in legno conferisce profumi eleganti e sorprendenti per la tipologia amaro, più simili a un vino passito, mentre in bocca lascia una deliziosa e ben calibrata persistenza amarognola. Completano la gamma i classici liquori monoerbe tipici come la genziana, mentre spicca per originalità un liquore al basilico Dop di Andora, dalle spiccate note balsamiche mediterranee che risulta essere un ottimo digestivo. Spostiamoci sulle Alpi, in piena Occitania e arriviamo a Vinadio, dominata dallo splendido forte savoiardo, voluto da Carlo Alberto, dove ha sede l’Artemy, il cui laboratorio nasce negli anni Settanta, ma le cui ricette risalgono al bisnonno, erborista e farmacista che possedeva un negozio di coloniali, uno “spesiari”, vicino alle famose terme. La ricetta più famosa è l’Artemy, un amaro che dà anche il nome all’azienda, un’infusione di dodici erbe fra cui spicca l’Artemisia Mutellina, nata per le difficoltà digestive, e sempre a scopo curativo calmante l’Iva Alpina, ottenuta con Camomilla di montagna e erba Peverina, il cui termine dialettale indica l’Achillea e l’antica abitudine di scambiarla con il prezioso pepe. La gamma si completa con il Chais, nome dialettale del patuà occitano per indicare il ginepro che in quest’area cresce rigoglioso e profumato, per donare al prodotto il tipico profumo balsamico pungente e il Carvidor, prodotto di scuola tedesca fatto con il Carum Carvi al secolo il Cumino. Chiudono i classici Genepy e Genzianella, dalla forte e tipica chiusura amara, in linea con la tradizione di queste montagne. Sempre in piena zona occitana, regione da sempre a stretto contatto con la cultura francese, incontriamo la più recente realtà produttiva. In questo caso qui non ci sono storie antiche da narrare, ma la semplice passione unita a un pizzico di follia, per entrare in un mercato che si dice saturo e in fase calante. A Montegrosso Grana si incontra La Spiritosa di Dania Dutto, dimostrazione di come entusiasmo e idee innovative possano far bruciare le tappe e cancellare le valenze storiche tipiche di questo settore. La titolare gestisce un’azienda famigliare di vivaistica, ha un passato come navigatrice professionista di rally e al contempo coltiva una passione innata per la preparazione di liquorini artigianali che regala agli amici.
Con il basilico Dop di Andora si prepara un originale liquore
Il ginepro conferisce al liquore un tipico profumo balsamico pungente
Il Genepy, ingrediente per uno dei più classici dei liquori
Dalla genziana si ottiene uno dei liquori monoerbe
Dal tanaceto si ottiene un liquore antico, tipico della farmacopea casalinga e medioevale
L’apprezzamento per i suoi liquori spinge Didi (nome con cui è conosciuta fra gli amici) nel 1999 ad aprire un piccolo laboratorio per la produzione di liquori e per far ciò si affida a uno dei migliori professionisti del settore, l’enologo Cordero, mentre lo sviluppo delle originali etichette è affidato al pittore cuneese Berlia, che per lei realizza una serie di dipinti con bambole stilizzate. I prodotti sono invece improntati a una proposta classica di erbe tipiche di queste montagne, come il Genepy, il Timo Serpillo e il Tanaceto, meglio conosciuto come Arquebuse , liquore antico, tipico della farmacopea casalinga e medioevale, depositario di una storia affascinante che suscita ricordi e profumi familiari. Il Tanaceto è un’erba il cui nome deriva dal latino medioevale Tanazia, che a sua volta trae origine dal greco Athanasia, immortale, perché si credeva, che il prodotto della sua infusione potesse donare la vita eterna. Il nome attuale Arquebuse invece si deve ai francesi, i quali solevano curare con l’infuso, i feriti da pallettoni di archibugio. Infatti pare che il prodotto avesse doti cicatrizzanti importanti, unite a una gradazione alcolica corroborante in grado di dare sollievo al ferito. Tornando alla gamma della Spiritosa sono proposti nei liquori di frutta il proseguimento dei classica con mirtillo e prugna, vere specialità di queste montagne, preparati con infusioni delicate e rispettose dei profumi. Risalendo verso Nord a Pomaretto, in Val Germanasca, ha sede il liquorificio Bernard, fondato nel 1902, dall’omonima famiglia, in un’area a prevalenza di Valdesi, da sempre detentori del sapere dell’infusione e della distillazione. Il liquorificio inizialmente si focalizza sulla produzione di bevande gassate che ancora oggi sono rappresentate dall’ottima gassosa, per poi convertirsi alla produzione di amari e monoerbe con l’acquisizione della ditta Coucord, produttrice del dimenticato Amaro Cozio. L’amaro, leggermente addolcito rispetto ai canoni precedenti che vedevano prodotti secchi e poco gradevoli, viene proposto con il nome di Barathier, in onore di un generale francese di stanza in quel tempo in zona, mentre la proposta di monoerbe viene ampliata con il classico Genepy, Timo Serpillo e Genzianella. Il primo monoerbe vede anche una declinazione di eccellenza, la versione bianca, dove il Genepy non viene posto in infusione ma viene lasciato in ceste sollevate per un anno all’interno di una vasca, in modo che l’aromatizzazione dell’alcol avvenga lentamente e solo tramite i vapori che condensandosi ricadono. Altra chicca eccezionale è l’Apricot Brandy, ottenuto dalla lenta infusione di noccioli di albicocche biologiche coltivate nella pianura adiacente. Il prodotto, privo di aromi di sintesi, ha un’aromaticità leggera rispetto ai prodotti industriali comunemente proposti, ma in bocca ha un’eleganza superiore che sfuma in una persistenza suadente che lo fanno compagno ideale del fine pasto.
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Vino e mito
La carica rituale e simbolica del
vino
di Maddalena Giuffrida
PER
GLI ANTICHI
GRECI
BERE IL VINO AVEVA UN SENSO COLLETTIVO E DI COMUNICAZIONE CON IL MONDO DIVINO MA OCCORREVA NON ECCEDERE
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evanda d’elezione nei simposi, dono degli dei, spartiacque tra civiltà e barbarie: intorno al vino gli antichi Greci hanno sviluppato una mitologia difficilmente comparabile con le altre civiltà mediterranee dell’antichità. Anche se ormai oggi la consumazione del vino e del cibo sono fortemente secolarizzate e hanno irrimediabilmente perduto la sacralità del rito, la civiltà greca, e più in generale il mondo antico, rappresentano un territorio privilegiato per recuperare e ricostruire le radici sacrali, i modelli culturali che governano ancora le nostre abitudini alimentari. È analisi dei miti, dei riti e dei simboli di quel mondo sono al centro dell’interesse di Paolo Scarpi, docente rispettivamente di Storia delle Religioni e di Cultura e simbologia dei cibi a Padova e che alla mitologia e cultura enoica nella civiltà greca ha dedicato numerosi articoli, saggi, seminari e conferenze. Su questo ricco percorso intellettuale si inserisce il progetto Homo Edens, un’associazione internazionale fondata nel 1987 da Scarpi, insieme a Oddone Longo, attuale presidente dell’Accademia galileiana di Padova, e ad alcuni amici universitari, che, attraverso colloqui internazionali e pubblicazioni, si prefigge l’obiettivo di esplorare i regimi, i miti e le pratiche dell’alimentazione nella civiltà mediterranea come chiave preziosa per recuperare il sistema di valori che caratterizzano ancora oggi il rapporto cibo e società. In questa prospettiva la vite e il vino, insieme ai cereali e all’ulivo, giocarono per i Greci un ruolo fondamentale nella configurazione di un siste-
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Ulisse porge una coppa di vino a Polifemo nel mosaico di Villa del Casale a Piazza Armerina (EN)
La scena di un simposio su un cratere attico a figure rosso del V sec. a.C.
ma mitico-rituale che identificava con la civiltà il loro regime e confinava invece gli altri popoli nello spazio della brutalità e bestialità. Professor Scarpi, gli antichi Greci si consideravano uomini perché bevevano vino e mangiavano pane, doni divini rispettivamente di Dioniso e Demetra. In che misura il mito ha contribuito nell’immaginario dei Greci a fondare la loro superiore identità culturale rispetto agli altri popoli? «Il mito è uno strumento di comunicazione e ha un ruolo importante nel fondare modelli e forme di pensiero che hanno senso solo se condivisi. Il mito greco, come i racconti mitici di altre popolazioni, condiviso dunque dai Greci stessi che ne erano stati creatori, serviva a fondare la realtà, cioè il presente in cui essi vivevano. Nel mito riposavano le categorie interpretative del mondo, del rapporto tra gli uomini e gli dei, ma anche delle relazioni tra gli uomini. Se i Greci avevano chiamato se stessi uomini, perché avevano imparato a controllare gli effetti del vino, gli altri diventavano a loro volta barbari, selvaggi, cannibali, perché bevevano il vino puro ubriacandosi».
Simonide di Ceo
Un poeta greco, Simonide di Ceo, affermava che nulla doveva essere rifiutato dei doni di Dioniso, nemmeno un chicco d'uva. Bere vino, insomma, era in qualche modo una scelta obbligata, che non poteva essere rifiutata. «Non era una scelta forzata. Bere il vino aveva un senso collettivo e di comunicazione con il mondo divino, ma bisognava saperlo bere. Dioniso, il dio sotto la cui tutela stavano la viticultura, la vinificazione e il consumo del vino, aveva addirittura insegnato a mitigare la forza del vino, mescolandolo con l’acqua.
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Vino e mito
Il vino, tuttavia, essendo un dono divino, anzi il vino era lo stesso Dioniso, non poteva né doveva essere sprecato». Vino come dono divino, eppure mai i Greci hanno parlato di viti sacre o di luoghi sacri legati al vino. «In effetti è così. Solo nel caso della vite o vitigno (difficile a dirsi) da cui si ricavava il più antico dei vini greci, già noto all’autore dell’Iliade, che ne elogia le virtù nel canto XI e cioè il vino di Pramno, si incontra presso gli autori antichi l’epiteto “sacra”. Era una vite coltivata nell’isola Icaria, oggi Nicaria, nell’Egeo orientale, che veniva così chiamata davanti agli stranieri, mentre gli abitanti del luogo, non a caso aveva nome Oinoe (dal greco oinos=vino), la designavano semplicemente come “dionisia” e cioè di Dioniso».
Un ritratto di Omero. Il poeta greco nell'Iliade elogia le virtù del vino
Da dove ha origine la forte carica rituale e simbolica che ha accompagnato il vino lungo tutta la storia dell’Occidente e che ancora oggi perdura? «A questo è difficile rispondere. Di certo l’espansione della viticoltura e della vinificazione è da porre in relazione con l’espansione di quelle popolazioni che abitavano la regione transcaucasica, conosciute come indo-europee. A parte ciò possiamo solo supporre che il potere inebriante della bevanda fermentata avesse determinato un atteggiamento di reverenza e di sospetto nei confronti di questo succo, che bevuto in eccesso possedeva letteralmente gli individui, facendoli uscire di senno, non diversamente dal consumo di droghe. Per il resto non sappiamo quali siano state le tappe e i meccanismi che hanno condotto le popolazioni del Mediterraneo – il vino è essenzialmente un prodotto delle popolazioni mediterranee – a caricarlo di valori simbolici. Certo è che senza quei valori simbolici, il vino anche oggi rischia di chiudere la sua storia. Ed è una storia fortemente carica di simboli, il vino è Dioniso, così come per i cristiani è il sangue di Cristo».
Una statua di Dioniso del II secolo esposta al Museo del Louvre
Se il vino rappresentava da una parte una linea di confine tra essere uomini e non esserlo, dall’altra portava con sé una forte ambiguità dovuta agli effetti negativi del bere smodato. Quanto era lecito berne per evitare di sconfinare nel “non umano”? «Il vino era stato il dono migliore che gli dei avessero fatto agli uomini per liberarli dai loro affanni. Nondimeno, bisognava berlo con misura e, come ho accennato, il vino andava mescolato con l’acqua. Nell’Odissea Ulisse sconfigge il ciclope con il vino di Ismaro, che era talmente potente da richiedere di essere mescolato con venti misure d’acqua. Il rapporto normale invece sembra fosse di 2:3, cioè due parti di vino e tre di acqua. Di fatto l’acqua, diluendo il vino, permette al bevitore di percepire e controllare meglio gli effetti dell’alcol. Gli antichi poeti suggerivano di non berne più di due coppe, anche nei simposi, che erano, per così dire, dei momenti conviviali, separati dal banchetto vero e proprio. In queste occasioni, mentre si beveva si dialogava, si ascoltava la musica, si recitavano poesie e si cantava. Al cosiddetto simposiarca spettava il compito di determinare la misura di acqua e vino. La prima bevuta doveva essere in onore delle Cariti, delle Ore e di Dioniso; la seconda in onore di Afrodite e ancora di Dioniso, ma non ci si doveva avventurare a scolare la terza coppa, perché il brindisi sarebbe stato in onore di Hybris, la dismisura, e di Ate, l’accecamento della mente».
Dioniso, (in greco: Διόνυσος o anche Διώνυσος) è identificato a Roma con Bacco, con il Fufluns venerato dagli Etruschi, e la divinità italica Liber Pater. In senso più generale, Dioniso rappresentava quell'energia naturale che, per effetto del calore e dell'umidità, portava i frutti delle piante alla piena maturità.
Pare che Alessandro Magno fosse un gran bevitore di vino e dedito agli eccessi. Nonostante tutto c’era quindi anche chi lo beveva così com’era. «Indubbiamente accadeva anche questo. I Greci definivano questo costume o, se preferiamo, questo modo di bere il vino “alla scitica”, perché gli Sciti lo bevevano puro. Il re spartano Cleomene, che aveva imitato proprio gli Sciti nel bere il vino, perse la ragione, tanto che la frase bere il vino “alla moda scita” era un’espressione convenzionale per indicare che si voleva bere il vino puro».
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Alessandro Magno in una scultura di Lisippo conservata al Museo del Louvre. Il re di Macedonia era un gran bevitore ALESSANDRO MAGNO (greco: Μέγας Ἀλέξανδρος, Mégas Aléxandros) Ufficialmente Alessandro III (Pella, 356 a.C. – Babilonia, 323 a.C.) fu re di Macedonia a partire dal 336 a.C., succedendo al padre Filippo II. È conosciuto anche come Alessandro il Grande, Alessandro il Conquistatore o Alessandro il Macedone. Il termine "magno" deriva dal latino magnus che significa per l'appunto "grande", che in greco antico è mégas. È considerato uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia. In soli dodici anni conquistò l'intero Impero Persiano, dall'Asia Minore all'Egitto fino agli attuali Pakistan, Afghanistan e India settentrionale. Le sue vittorie sul campo di battaglia, accompagnate da una diffusione universale della cultura greca e dalla sua integrazione con elementi culturali dei popoli conquistati, diedero l'avvio al periodo ellenistico della storia greca. Morì a Babilonia il 30 del mese di daisios (targelione) del 323 a.C., forse avvelenato, oppure per una recidiva della malaria che aveva contratto in precedenza o, secondo congetture più recenti, per una cirrosi epatica provocata dall'abuso di vino.
Coppa a figure rosse, pittore di Epèleios, raffigurante un personaggio imberbe che si accosta ad un vaso per mischiare il vino con l'acqua recando in mano uno skyphos (una coppa), e con la mano sinistra protesa verso la bevanda. (Ca. 510 a.C.)
La kylix, una coppa da vino in ceramica, il cui uso è attestato a partire dal VI secolo
Il vino buono da bere e da pensare aveva un ruolo fondamentale anche nell’ambito delle feste? «Direi che lo spazio festivo è il luogo deputato al consumo del vino. Lo vediamo ancor oggi quando nelle occasioni più importanti non consumiamo vino comune o da tavola. Il vino entra in gioco fortemente nelle celebrazioni religiose e così pure era indispensabile nelle cerimonie sacrificali antiche. Anzi, come si può leggere nelle Baccanti di Euripide, il vino è lo stesso dio Dioniso che viene offerto come sacrificio agli dei. E la Grecia conosceva un grande numero di feste in cui il vino era, per così dire, il prodotto attorno al quale ruotava l’intera cerimonia. In queste occasioni il carattere eccezionale del vino sfociava nel prodigio, come nel caso di quello prodotto dalle viti effimere del Parnaso, in Eubea, che al mattino del giorno della festa mettevano le foglie, a mezzogiorno davano il grappolo e a sera il vino o come a Teo, dove il vino sgorgava spontaneamente dalle fonti, in alcuni giorni dell’anno fissati ritualmente». Si dice che il vino greco fosse il migliore al mondo tanto che gli scrittori antichi davano ricette per fare vino greco. Qual era la peculiarità di questi vini e quali erano i più ricercati? «Probabilmente le cose non stavano realmente in questi termini, se i Greci lo dovevano addirittura truccare, mescolandolo con ingredienti vari per addolcirlo, compresa l’acqua di mare. In realtà ogni vino aveva caratteristiche diverse, come possiamo desumere dalla “carta dei vini” di Ateneo di Naucrati, un autore oscuro, che ci ha lasciato un’opera di grandi dimensioni e fonte di ricche in formazioni, I filosofi a banchetto. Da Ateneo, ma non solo, sappiamo che in Grecia il vino ha ricevuto ben presto delle classificazioni e dei nomi, tali da circoscriverlo e riconoscerlo, nomi che coincidevano quasi sempre con il luogo fisico di produzione. Il buon Ateneo ci fornisce una prima classificazione per età e colore, distinguendo genericamente il vino nuovo, preferito dagli uomini, dal vino vecchio, gradito alle cortigiane. Per quanto riguarda il colore, venivano suddivisi in rossi e bianchi. Un po' oscura, nel testo di Ateneo, una terza classificazione cromatica che riguar-
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Vino e mito Il Partenone sull'Acropoli di Atene
Una giara dell'VIII secolo a.C.
da il vino bianco e che oggi potremmo, forse, rendere con il termine paglierino. Infine vi erano le maggiori differenze determinate dai luoghi di produzione. Così tra i vini di Fenicia, si segnalava il Biblo, così denominato dalla città di Biblo, definito naturalmente dolce, dunque privo di aggiunte dolcificanti. Uno dei migliori vini greci era considerato il rosso di Chio, l’isola dove, secondo la tradizione mitica, per la prima volta gli uomini appresero l’arte di piantare e coltivare le vigne e dove, in seguito, la viticultura fu fatta conoscere agli altri uomini. Il vino di Taso, isola situata nell’Egeo settentrionale, era capace di rinvigorire un uomo; il vino di Erea, in Arcadia, a sua volta aveva il potere di eccitare gli uomini e di rendere feconde le donne. Al contrario, un vigneto dell’Acaia produceva un vino che faceva abortire le donne gravide, mentre quello di Trezene rendeva addirittura sterili. Sempre a Taso si producevano due vini dagli effetti collaterali contrastanti: uno induceva il sonno e l’altro teneva svegli. Addirittura “pipì degli dei” era ritenuto il vino di Mende, città situata sulla lingua occidentale della penisola Calcidica, e nettare era definito quello di Lesbo da Archestrato di Gela. C’era da credergli, essendo Archestrato l’autore della prima Gastronomia. Vini per tutti i gusti e situazioni, insomma. E l’elenco potrebbe continuare a lungo». Professor Scarpi, grazie al suo ruolo di insegnante ha giornalmente modo di interagire con i giovani. A che punto sono, secondo lei, le istituzioni scolastiche e accademiche nel veicolare questo binomio vino-cultura di cui il mondo greco e antico era convinto sostenitore? «Credo che si stia facendo ancora poco. Non si coglie bene, da parte delle istituzioni, l’importanza culturale, proprio perché carica di valori simbolici, di questo prodotto di cui l’Italia può andare fiera. Nello stesso tempo, da parte di chi lo produce, si fa ancora fatica a cogliere che il destino del vino con i suoi mille nomi, come l’antico Dioniso, il dio dai molti nomi, è legato al sottilissimo filo del suo valore simbolico, cioè al valore del bagaglio culturale che esso porta con sé. Se infatti viene svuotato dei codici simbolici, il vino rischia di subire la sorte toccata al tabacco».
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Viticoltura
Tra canti e preghiere nasce il vino
dell’abbazia di Fabio Brioschi
ESPERIENZA PLURISECOLARE E TECNOLOGIE MODERNE FANNO DI
NOVACELLA
IL
CENTRO DI ALCUNI TRA I MIGLIORI VINI EUROPEI.
NUMERI
E
ORGANIZZAZIONE SONO QUELLI DI UNA GRANDE
AZIENDA, CON
650MILA
BOTTIGLIE PRODOTTE OGNI ANNO
L La cantina
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abbazia dei Canonici Agostiniani di Novacella, nelle immediate vicinanze di Bressanone, in provincia di Bolzano, è una delle più prestigiose abbazie del Nord Italia e uno di quei luoghi che trasudano storia da ogni angolo. Una visita affrettata a questo luogo di pace e di cultura non è consigliata. Chi viene a Novacella deve prendersi il tempo per immergersi fra queste mura secolari e condividere con esse la pace e la profondità di spirito delle innumerevoli generazioni di religiosi che l’hanno animata nel corso dei secoli. A Novacella si producono alcuni fra i migliori vini italiani ed europei e non è certo dall’altro ieri che questa grande fondazione religiosa si è guadagnata la meritata fama enologica. Meglio però andare per gradi, perché la Storia con la “s” maiuscola non ha mai avuto fretta. Se al principio di tutto si può inserire la figura di sant’Agostino di Ippona, considerato il fondatore dell’ordine canonicale cui appartiene Novacella e autore nel 397 d.C. di una regola di vita per i religiosi della sua comunità monastica, la vicenda vera e propria di Novacella iniziò nell’anno 1142. La peculiarità di questa fondazione religiosa è che i suoi ventisei canonici ancora oggi fanno vita comune, dividendo la mensa ed esercitando la cura delle anime, ossia facendo i parroci in ben venti parrocchie della zona. Il modello di vita comune di questa particolare congregazione di religiosi, che sono preti e non monaci, affonda le sue radici in pieno Medioevo. Inizialmente la vita comune dei sacerdoti era presente soprattutto presso le cattedrali, nelle quali viveva un numero elevato di religiosi, che avevano funzione di supporto all’attività del vescovo. A questa comunità dunque, già da tempi molto antichi si chiese di vivere in comune, dividendo la mensa e il dormitorio. Il nome “canonici” derivò loro dal fatto che i nomi erano inscritti nella lista (canone) dei coadiutori del vescovo. Con il passare del tempo il modello canonicale, quasi in antagonismo con quello monastico vero e proprio, cominciò a diffondersi anche ad abbazie indipendenti dalle cattedrali e assunse due forme principali: i canonici regolari che seguivano la regola di sant’Agostino (in cui si esercitava la vita comunitaria e si praticava la povertà personale) e i canonici secolari (che vivevano in abitazioni separate e ammettevano la proprietà privata). Novacella venne fondata dal vescovo di Bressanone Hartmann e già una quarantina di anni più tardi raggiunse sotto la guida dell’abate Konrad II di Rodank una prima fioritura culturale. Il momento di massimo splendore fu tra il XV e il XVI secolo, periodo al quale risalgono i sontuosi arazzi e l’imponente coro tardo-gotico della chiesa abbaziale. Novacella divenne in breve un luogo deputato alla trasmissione delle opere letterarie, con uno scriptorium fra i più affermati della Cristianità e una scuola di canto molto invidiata.
L’
I vini dell'Abbazia di Novacella Sant'Agostino di Ippona, fondatore dell’ordine canonicale a cui appartiene Novacella M
Con il secolo XVI iniziò per l’abbazia un periodo di grave crisi, legato alle profonde trasformazioni sociali ed economiche. Nel 1525, durante la rivolta dei contadini tirolesi, l’abbazia venne depredata in modo brutale e progressivamente il numero dei religiosi residenti scese fino a toccare, nel 1560, la soglia minima di sei unità. Fu solo grazie all’abate Jakob Fischer e al suo successore Markus Hauser che, a partire dalla fine del secolo, le cose cominciarono a volgere per il meglio. La fondazione di un istituto accademico portò nuova linfa alla vita della comunità agostiniana, che cominciò nuovamente a crescere di numero, parallelamente all’arrivo di sempre più numerosi studenti. Il peggio, però, doveva ancora venire. Nel 1805 la contea del Tirolo passò alla Baviera e nel 1807 il governo bavarese decretò la soppressione di tutte le abbazie tirolesi. Fu solo con la riannessione del Tirolo all’Austria nel 1816 che Novacella e le altre abbazie vennero ripristinate. La situazione era molto pesante, gran parte dei beni immobili era perduta e il complesso abbaziale era in condizioni precarie. La chiesa e il convento erano quasi privi di mobilio e il personale molto scarso. L’accademia che nel corso dei secoli aveva prodotto numerose leve di studenti era a terra. I canonici vennero obbligati a insegnare nell’Imperial regio collegio di Bressanone. Fu solo nel 1844 che il collegio di Bressanone venne assegnato interamente ai canonici di Novacella. Il Collegio agostiniano cominciò, allora, a guadagnarsi una nuova e meritata fama e fu attivo sino al 1926, quando venne chiuso dalle autorità fasciste perché scuola tedesca. La sua storia proseguì come scuola privata fino alla fine degli anni Sessanta, insieme alla scuola per giovani cantori, un istituto in cui i fanciulli ricevevano oltre a una buona formazione generale, anche l’insegnamento del canto e della musica strumentale. Nel corso della Prima Guerra Mondiale l’abbazia venne ripetutamente occupata dai soldati e tutte le campane dovettero essere cedute, con l’eccezione della campana da morto e di quella per
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Viticoltura L L'Abbazia con i suoi vigneti
gli incendi. Peggio ancora successe durante la Seconda Guerra Mondiale, quando Novacella fu bersagliata da un bombardamento alleato, che mirava a colpire i magazzini e la tipografia della Wehrmacht, installati negli edifici dell’abbazia. Vennero danneggiati soprattutto il lato nord della chiesa abbaziale, la sagrestia, il campanile e la cappella della Pietà. Oggi, a oltre 850 anni dalla sua fondazione, la comunità dei canonici è chiamata a un gran numero di compiti, che riguardano la cura pastorale nel senso più ampio del termine. Ancora oggi sono affidate ai canonici più di venti parrocchie. All’inizio degli anni Settanta il convitto di Novacella aprì i battenti a quasi cento bambini e allo stesso tempo con la fondazione del centro turistico vennero poste le basi per la fondazione dell’attuale centro convegni. Ogni anno, infatti, sono circa 60mila le persone che fanno visita a Novacella e che usufruiscono del tour guidato. Approssimativamente altre 40 mila persone visitano il complesso in piena libertà. Ancora oggi l’abbazia si sostiene economicamente con la coltivazione e la vendita di prodotti agricoli, come erbe aromatiche e frutta ma è soprattutto la cantina con i suoi rinomati vini che l’ha riportata negli ultimi anni alla ribalta internazionale. Qui si apre sostanzialmente un altro capitolo della storia di Novacella. Le attuali attività del monastero sono varie e ben diversificate, segno di un’attenzione alle proprie potenzialità economiche degna di una grande impresa internazionale: settecento ettari di boschi, quattrocento di malghe, due riserve di caccia, due aziende agricole (Marklhof nei pressi di Appiano, con venti ettari di vitigno e tredici di alberi da frutto e Novacella con cinque ettari di vitigno e tredici di alberi da frutto), la cantina dell’abbazia, il negozio dell’abbazia, la mescita (centosessan86
ta posti a sedere), una rete di distribuzione diretta in tutta Italia, le visite guidate; il collegio (novanta studenti che vivono in convento), il centro convegni (cinquanta posti letto), la cucina (serve il convento, il collegio, i collaboratori, per un totale di centotrenta pasti più, eventualmente, gli ospiti del centro convegni), una centrale elettrica in Val di Sacleres. A capo di tutto l’abate Georg Franz Untergassmair, che è il legale rappresentante dell’azienda, al cui fianco opera l’amministratore delegato Urban Von Klebelsberg, agronomo laureato in Scienze agrarie a Firenze. «Ogni attività del monastero» dichiara Von Klebelsberg, «ha il compito di creare prodotti-offerte con un ottimo rapporto qualità-prezzo, così che il nome della casa possa essere e rimanere garanzia di qualità e serietà. Ulteriore compito di ciascun ambito è di essere economicamente indipendente: la cantina, così come la mescita e il negozio devono realizzare regolari profitti, che vengono utilizzati soprattutto per la copertura delle spese di restauro e di risanamento del complesso monasteriale e per il mantenimento della comunità dei canonici stessi». Numeri e organizzazione sono quelli di una grande azienda. «Sono 650mila le bottiglie che produciamo ogni anno» aggiunge Von Klebelsberg. «Tre quarti sono bianchi e un quarto rossi. Le uve per i bianchi provengono dalla conca di Bressanone, mentre le uve rosse provengono da altri poderi: il Lagrein proviene dal podere bolzanino di Mariaheim, mentre il Lago di Caldaro, il Pinot Nero e il Moscato rosa vengono dal podere Marklhof di Appiano, dove abbiamo anche la cantina dedicata. Dopo la prima fase di produzione, il vino rosso viene portato qui a Novacella, dove viene imbottigliato e dove si esegue l’affinamento». Questa zona è la regione vitivinicola più settentriona-
L La Cantina Abbazia
le d’Italia e su questi pendii posti fra i 600 e i 900 metri si trovano i terreni ricchi di minerali ideali per produrre i bianchi dall’aromaticità e dalla sapidità tipiche. «Con la linea Praepositus» prosegue il direttore, «abbiamo raggiunto i risultati più importanti: non solo con il Kerner, che è uno dei nostri prodotti più famosi, ma anche con il Sylvaner e con il Riesling». La linea dei vini bianchi classici conta otto etichette, mentre sei ne ha la linea dei rossi, ma è soprattutto con la linea Praepositus che a Novacella cercano di stupire i palati di tutta Europa. Fra questi, sette bianchi e due rossi, è probabilmente il Kerner a essere il prodotto di punta dell’azienda: un vitigno autoctono coltivato esclusivamente nel territorio dei comuni di Bressanone e di Varna, su terreni che si trovano a circa 700 metri d’altitudine. La vinificazione viene effettuata in acciaio inox e dopo l’imbottigliamento viene affinato per ulteriori tre mesi. Risultati così importanti e numeri così alti sono davvero notevoli in una zona come questa, segno di un’imprenditorialità che non parla solo di attaccamento alla propria storia, ma che guarda alle tecnologie più innovative e moderne. «L’azienda conta oggi sessanta dipendenti fissi e una quarantina di stagionali» conclude Von Klebelsberg con il sorriso sulle labbra, «e quasi il 15 per cento delle nostre bottiglie (100mila circa) sono vendute direttamente al piccolo dettaglio dalla nostra enoteca, che si trova qui all’abbazia. I nostri canonici non si occupano della vigna e della cantina, perché il loro compito è quello della cura pastorale delle parrocchie loro affidate, ma il legame con l’azienda vitivinicola è saldo, non solo perché secolare».
Curiosità
Vino e volo, due passioni in perfetta simbiosi di Gianluigi Zanovello
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VINO È DA SEMPRE
PRESENTE NEL MONDO DELL’AVIAZIONE
ITALIANA, I CIRCOLI UFFICIALI O SOTTUFFICIALI ORGANIZZANO INCONTRI PER INSEGNARE LA CULTURA DELLA DEGUSTAZIONE
iciotto miglia nautiche corrispondono a trentatré chilometri. Una distanza che l’Aermacchi 339A, il velivolo delle Frecce Tricolori, percorre in tre minuti scarsi. È questo il tratto che separa il Collio, nell’estremo lembo orientale del Friuli Venezia Giulia, a ridosso del confine con la Slovenia e zona di produzione di vini pregiati, dall’aeroporto militare di Rivolto, sede della Pattuglia Acrobatica Nazionale (PAN). Una vicinanza simbolica che unisce la PAN e gli uomini che vestono la divisa azzurra con l’universo intenso e invitante di Bacco. Si tratta di un legame antico e genuino, costruito nel corso degli anni attraverso la condivisione di momenti festosi e di altri meno gioiosi, mantenutosi grazie alle qualità e all’autenticità degli uomini e delle donne che ne fanno parte. Il vino è sempre stato presente nel mondo aviatorio italiano. In aeronautica militare non esistono circoli ufficiali o sottufficiali che non organizzino incontri per insegnare la cultura del “saper degustare”. È un rapporto per certi versi bizzarro e complicato di entità che spesso si attraggono in perfetta simbiosi, ma che alle volte, forzatamente, si devono respingere. Sembra quasi il destino dei poli di uno stesso magnete, che pur risiedendo sul medesimo elemento, a seconda di come si dispongono nello spazio si allontanano oppure si uniscono in maniera perfetta. Amore per il volo e passione per il vino sono emozioni mai simultanee, ma senz’altro complementari, che si rincorrono gioiosamente con lo stesso obiettivo: assaporare appieno il gusto e il piacere della vita. In questo senso, piloti e sommelier sono senz’altro fratelli e vicini di casa. D’altra parte, essendo la base delle Frecce Tricolori in Friuli, una terra che a buona ragione fa della qualità dei propri vini un vanto, non poteva essere diversamente. Ingredienti base che sintetizzano il lavoro, la riuscita e il successo delle Frecce Tricolori sono l’operosità, il dinamismo, l’allegria, l’estro, la precisione e… un po’ di fortuna. E questi sono anche gli elementi che caratterizzano il prodotto vinicolo italiano e che lo hanno reso così ricercato e conosciuto nel mondo.
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Gli aviatori delle Frecce se ne accorsero nel 1986, quando la PAN varcò per la prima volta l’Atlantico per giungere nel territorio nordamericano. Alla fine dei due mesi e mezzo di manifestazioni aeree, venne organizza88
I sommelier in servizio per l'evento
ta una splendida cena, presso la Famee Furlane di Toronto, fondata nel 1932 da un gruppo di friulani allo scopo di creare e promuovere i legami di amicizia, di fratellanza, di comprensione reciproca e di assistenza tra la gente che proveniva da quella regione. Fu un successo strepitoso. Non poteva che essere così, con il supporto fondamentale di due amici storici delle Frecce: Aldo Morassutti, proprietario del ristorante Da Toni a Gradiscutta di Varmo e Piero Pittaro, proprietario dei Vigneti Pittaro, di fronte all’aeroporto di Rivolto. Un’atmosfera magica, con oltre mille ospiti e vivande e pietanze straordinarie. Si conversò sui successi e sull’accoglienza che la PAN aveva ricevuto, ma anche sull’Italia, sugli italiani, sulle difficoltà dei primi emigrati in Nord America. Si parlò di come erano riusciti a costruire una credibilità e un’onorabilità umana e professionale. E si riconobbe che se tutto questo era stato possibile, era anche per il lavoro di molti operatori che dall’Italia riuscivano a esportare prodotti di grande qualità, diversi e migliori degli altri. Prodotti unici e inconfondibili. Proprio come il vino italiano. Proprio come le Frecce Tricolori. Quando, a fine serata, solo pochi rimasero spuntò a sorpresa, quasi fosse un regalo, una piccola bottiglia di vero Picolit. In quel momento, tutto d’un tratto, la magia parve ricominciare.
GIANLUIGI ZANOVELLO Gianluigi Zanovello ha fatto parte delle Frecce Tricolori dal 1983 al 1987 e dal 1990 al 1994, ricoprendo varie posizioni all’interno della formazione, tra cui quella di leader in volo e di comandante di gruppo. Duca dei vini friulani e sommelier dal 1991, è stato nominato sommelier ad honorem nel 1994. Dal 2000 è comandante nella compagnia Air Dolomiti e vive a Verona con sua moglie Claudia. 89
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Abissi, il vino cullato dalle onde del mare Dopo oltre tredici mesi di riposo sul fondale di Cala degli Inglesi, nella riserva marina di Portofino, da settanta metri di profondità sono riemerse le tredici casse di Abissi, il primo spumante metodo Champenoise made in Liguria. Incontriamo Piero Lugano nella sua cantina di Chiavari, accompagnati da Alex Molinari, presidente dell’Ais Liguria e Marco Quaini, enologo e relatore dell’Ais, per assaggiare in anteprima lo spumante Abissi 2008. L’idea di produrre uno spumante in Liguria ha incuriosito molti e, visti i risultati ottenuti, non si comprende perché i produttori liguri ci si dedichino così poco. «Le ragioni sono diverse» spiega Molinari, «il nostro territorio è caratterizzato, per lo più, da aziende molto piccole con produzioni limitate, manca lo spazio e forse siamo ancora un po’ tradizionalisti». In effetti è stata la mancanza di un luogo adatto dove fare maturare il vino a spingere Lugano a immergere le sue bottiglie sottacqua ma anche la voglia di sperimentare, di tentare qualcosa di nuovo. «Ho pensato che l’assenza di ossigeno avrebbe garantito una minore ossidazione, poi la penombra e una temperatura costante di quindici gradi avrebbero fatto il resto». Decisamente interessante è l’utilizzo di un vitigno autoctono, poco conosciuto fuori dalla Liguria, come la Bianchetta genovese. «Credo molto in questo vitigno e mi sta dando ottimi risultati. Oggi ho più richiesta di Bianchetta che di Vermentino, anche se in Liguria quest’ultimo è sempre stato il vino più venduto» puntualizza Molinari. La Bianchetta non è un vitigno facile da coltivare, cresce bene in terreni magri e asciutti, ha la sua forza nella dimensione ridotta dei suoi acini, dove la buccia prevale sulla polpa, regalando un mosto di grande qualità. Marco Quaini condivide le scelte del produttore chiavarese e aggiunge: «Tra i vitigni della zona è il più indicato, quello con le potenzialità maggiori, perché patisce meno in fase di maturazione ed è più resistente alle muffe». Spesso messo in ombra dal più famoso Vermentino, la Bianchetta potrebbe avere una sorte diversa dopo il successo mediatico del vino degli Abissi. Seimilacinquecento bottiglie andate letteralmente a ruba, visto che a luglio mentre effettuava un’operazione di recupero e controllo Lugano si accorse che ne erano scomparse trenta. Come nella miglio90
re tradizione marinaresca, c’è sempre un tesoro in fondo al mare da rubare. Fonte d’ispirazione per tanti poeti, navigatori e adesso anche viticoltori, il mare è senza dubbio un elemento imprescindibile per questo vino: la sua sapidità e la sua maturazione sono infatti il frutto del lavorio lento e prezioso del vento e delle onde. Meno romantico e più pratico, Molinari coglie gli aspetti positivi del lavoro di Lugano che considera «un’occasione straordinaria per fare conoscere i vini liguri, un’operazione di marketing di successo che dimostra la vitalità e il fermento che c’è nella nostra regione». L’entusiasmo dei media ha stimolato un mercato assopito e in crisi che risvegliandosi ha decretato il suo interesse per le bollicine degli Abissi, comprando a scatola chiusa l’intera produzione. Se non fosse che Lugano è un viticoltore stimato e di grande esperienza, si potrebbe pensare che più del vino sia piaciuta l’idea di mettere il vino sottoacqua. Lugano non nasconde di temere qualche critica ma è anche certo della qualità del suo spumante. «Sono convinto che la sapidità e la mineralità del nostro terroir sarà riconoscibile nel bicchiere, ci credo talmente tanto che non ho aggiunto zuccheri». Uno spumante nature, dosage zéro, impegnativo, non per tutti i palati. Marco Quaini trova nel vino le caratteristiche di chi lo ha prodotto: schietto, sincero, non vuole piacere a tutti i costi, va compreso con attenzione come tutte le cose di valore. D’altronde non potrebbe che essere così. Con una produzione annua di seimilacinquecento bottiglie non si può certo rincorrere la quantità. Puntare sulla qualità sembra essere l’unica strada da percorrere. (L.S)
LA DEGUSTAZIONE Alex Molinari, presidente dell’Ais Liguria Abissi 2008, Spumante Metodo Classico, senza aggiunta di zuccheri o di solforosa. Sboccato da Piero Lugano a la volée. Campione in prova. Non in vendita. All’aspetto visivo il vino si presenta di colore giallo paglierino con tonalità vivace, il fine pérlage, numeroso e di notevole persistenza, colpisce subito favorevolmente. Al naso, come primo impatto, evidenzia note fruttate di agrumi, che lasciano poi spazio a un leggero e gradevole sentore di mandorla. In seconda battuta veniamo catturati da una sensazione di mineralità vagamente salmastra e da note riconducibili alle erbe aromatiche. In bocca il vino regala una sensazione di palato perfettamente asciutto, secco e tagliente. La chiara impronta sapida e la buona freschezza rendono l’Abissi decisamente invitante alla beva. Una persistenza di tutto rispetto richiama il gusto acre dell’ardesia e il salmastro della Liguria. Un blanc des blancs piacevole e di grande fascino. Marco Quaini, enologo Abissi 2008 Spumante Metodo Classico – Dosage Zéro Sboccatura sperimentale eseguita a metà settembre da Piero Lugano nelle Cantine Bisson. In vendita da dicembre 2010. Giallo paglierino con tonalità lievemente scariche, ha un colore luminoso e un pérlage vivace e persistente che ricorda i migliori Champagne della Côte des Blancs. Dal punto di L Alex Molinari, Piero Lugano e Marco Quaini vista olfattivo, dopo un’iniziale chiusura dovuta a una lieve riduzione, si manifesta la personalità di questo spumante, che si esprime con delle note che ricordano erbe aromatiche unite a sensazioni lievemente muschiate. Nella sincerità e nella purezza dei suoi profumi si riconosce il vitigno, la Bianchetta genovese. In bocca percepiamo un vino autentico e immediato che si contraddistingue per le sue gradevoli durezze. Sensazioni di freschezza e sapidità evidenziano una personalità decisa e intraprendente in termini di longevità. La sua struttura e la sua persistenza gusto-olfattiva fanno presagire un miglioramento dopo un affinamento in bottiglia. La totale assenza di zuccheri aggiunti, lo rende un prodotto unico, non per tutti, che va compreso, non un vino di tendenza, ma di territorio, di mare, degli abissi.
PIERO LUGANO: L’UOMO DEGLI ABISSI Ci pensava da dieci anni e alla fine l’ha fatto: 6500 bottiglie in fondo al mare in attesa della presa di spuma. L’idea di affinare il vino sottoacqua è di Piero Lugano, viticoltore e patron delle cantine Bisson o come si definisce lui «contadino appassionato di vino, storia e mare». Fondata nel 1978, con i suoi attuali dieci ettari di terreno vitato, l’azienda rappresenta la realtà agricola più estesa della provincia di Genova. I vigneti si trovano fra il Golfo del Tigullio e le Cinque Terre. La produzione annua si aggira intorno alle centomila bottiglie, di cui la metà vengono assorbite dal mercato locale, mentre le restanti sono distribuite equamente tra l’Italia e l’estero. Lugano ama sperimentare e oltre ai vitigni tipici del territorio (Bianchetta, Vermentino, Dolcetto e Barbera) da qualche anno ha impiantato Pigato e Granaccia che vinifica in purezza. Unico produttore a Levante a cimentarsi con i due vitigni ponentini, si dice molto soddisfatto dei risultati ottenuti soprattutto dalla Granaccia. La Bianchetta genovese rimane il vitigno più importante e rappresentativo per l’azienda, su cui puntare anche in futuro, soprattutto visti i risultati ottenuti dalla prima annata dello spumante Abissi. Ma le sorprese non sono ancora finite. Lugano ha già in mente il prossimo obiettivo: riportare la viticultura sul monte di Portofino. Le idee sono chiare e la macchina è già in moto. Dopo lo spumante degli Abissi aspettiamoci il Vermentino dal Paradiso!
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Un italiano promosso Oltralpe
Critique gastronomique :“À l’heure où le mond e se normalise, il est impor tant de préserver le bœuf bourguignon, le casso ulet…” Davide Oltolini est journaliste, critique gastronomique en Italie. Il a été nommé ambassadeur des fromages français pour une campagne de promotion . Enfant de Lombardie, Davide Oltolini est né et habite à Pavie, ville non loin de Milan connue dans les livres d’histoire pour sa bataille en 1525, là-même où fut fait prisonnier François Ier. Journaliste à Capital (édition italienne), au magazine La Cucina del Corriere della Sera et au guide transalpin Gambero rosso, Davide apprécie milanaise avec des champi- ? Davide Oltolini, “même si c’est banal, le rafun grand connaisseur de la finement du goût français” gnons ou fait ses fantastiques gastronomie . gâteaux, je retrouve française. le goût Ce critique gastronom ique, de l’enfance.” expert en analyse sensorielle pagne. , se souvient de ses premiers Il vient en France pour Mais la ce spécialiste insiste sur délices gourmands enfant première fois en 1982. le fait qu’il n’y a pas que Ly“des fruits du verger et le céen, il séjourne en des goût pour apprécier Francheun pro- Comté à Besançon légumes du potager, de la duit. “Il faut . “C’était prendre en la première charcuterie en particulie fois que j’allais à r le saucisson Varzi, une spécia- compte la forme, la couleur, l’étranger. La ville était très observées dès le premier lité de la région de Pavie reagréable et surtout , des c’est là petits plats de ma grand- gard, les sensations tactiles que mon amour pour la dans la bouche, bref mère Maria. Mon père faire France est né. Luigi jouer tous les sens.” J’étais imAvant de pressionné m’a appris à apprécier car les Français un déguster un vin, un spiri- pour se dire morceau de pain frais bonjour se faiavec tueux ou une eau, l’homme saient la bise. un peu d’huile d’olive. Et puis j’ai déEn- regarde, hume sans cérémo- couvert les core aujourd’hui, quand fromages français ma nial, juste dans le respect du qui avaient mère Piera cuisine un une gamme de minestrone (soupe de légumes produit. D’ailleurs l’esthète choix aussi important e qu’en et l’épicurien a été choisi avec du riz), un risotto Italie.” Depuis, le gourmet à la cette année pour a être mem- arpenté bien de nos régions, bre du jury en Italie de la finale du concours organisé “la Loire, la Champagne, la Côte d’Azur, la Provence, par le comité interprof la es- Corse, le Roussillo n et évisionnel des vins de Chamdemment Paris, qui à mes
yeux reste unique pour son atmosphère si française et en même temps internatio nale.” “En France comme en Italie, vous avez beaucoup de plats typiques régionaux. À l’heure où le monde se normalise et où chacun perd son identité culinaire, il est particuliè rement important de préserver la soupe à l’oignon, le bœuf bourguignon, le cassoulet, le confit de canard ou la tartiflette. Mes préférences : la bouillabaisse et les fromages.”
Grand connaisseur de notre gastronomie, il a été nommé cette année ambassadeur des fromages français (le seul Italien) pour la campagne E viva les fromages ! “Le grand professionnalisme des Français et leur grande capacité à promouvoir leurs terroirs, leurs produits, m’impressionnent.” Maestro des techniques de dégustation, Davide Oltolini a pour passion le vin, le fromage, l’eau, le chocolat, les glaces, le café et aussi la bière et la charcuterie. Pour Ulysse, il livre une de ses découvert es sur l’accord entre les fromages et les eaux : “Une pâte riche en matière grasse et une eau gazeuse s’associen t harmonieusement, à l’exemple d’un comté bien affiné et d’une eau à grosses bulles comme la San Pellegrino .” JEAN-LUC TOULA-BREYSSE
riguarda le tecniche di analisi sensoriale di formaggi, salumi, cioccolato, gelati e acque (oltre che di vini e di distillati), nonché nella valutazione di preparazioni gastronomiche. A tal proposito nell’intervista è stata richiesta all’esperto pavese una disamina critica sull’enogastronomia d’Oltralpe. Lo scorso anno Oltolini era stato nominato tramite il CNIEL (Centre National Interprofessionnel de l’Economie Laitière) ambasciatore dei formaggi di Francia in Italia. crédit
Secondo Jean-Luc Toula-Breysse esperto di cultura ed enogastronomia di «Le Monde», il noto quotidiano francese, considerato tra i più prestigiosi del mondo, è Davide Oltolini, critico enogastronomico pavese, il “maestro” italiano della difficile, quanto affascinante arte della degustazione. Il mensile «Ulysse» (Courrier International), rivista di cultura e turismo del gruppo «Le Monde» presente in tutte le edicole d’Oltralpe (ma distribuita anche in molti Paesi del mondo, fra i quali Canada, Lussemburgo, Portogallo e Belgio), ha parlato delle particolari competenze del critico enogastronomico italiano per quanto
la france vue par... Davide Oltolini
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Acquavite Italia: la vetrina del distillato A PERUGIA LA QUARTA EDIZIONE, CON NUMEROSE NOVITÀ IN PROGRAMMA E IL CAMPIONATO ITALIANO BARMAN UNDER 21 Migliaia di appassionati e tecnici attendono l’inizio della quarta edizione di Acquavite Italia - Mostra nazionale del distillato, che si svolgerà a Perugia dal 28 al 30 gennaio 2011. Alla manifestazione organizzata dall’ANAG Umbria, dall’Associazione A tavola con Bacco e dalla società Eventi DOP di Perugia, sono stati offerti i patrocini dell’assessorato allo Sviluppo economico e Turismo di Perugia, dell’Istituto Nazionale Grappa, dell’ANAG Federazione nazionale e, per il terzo anno consecutivo, dell’Ais Umbria. Tante le aspettative per un evento diventato un appuntamento da non perdere per i visitatori che affollano ogni anno la Rocca Paolina sede principale della manifestazione. Protagoniste più di 500 acquaviti tra grappe, rum, whisky e cognac provenienti da tutta Italia e dal mondo. Molte le novità in programma tra cui: la distribuzione gratuita di un alcooltest monouso a tutti i visitatori che acquisteranno il calice da degustazione all’ingresso; l’incontro dedicato ai giovani, durante il quale saranno spiegate le tabelle alcolo-
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metriche emanate dal ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, per informarli dei rischi; visite gratuite alla Galleria nazionale dell’Umbria di Perugia; tour guidati agli stand espositivi, in compagnia dei tecnici assaggiatori dell’ANAG Umbria, che insegneranno come bere in modo consapevole; la possibilità di acquistare la “special card” che permetterà di ricevere omaggi e ottenere sconti presso le società aderenti all’iniziativa; degustazioni a tema, abbinamenti cibo-acquaviti e cene di fuoco. Inoltre è previsto lo svolgimento del Premio Acquavite Italia, campionato italiano barman – categoria under 21, riservato agli studenti degli istituti alberghieri d’Italia, che frequentano le classi monoennio sala bar, IV e V ristorazione, di età compresa tra i 16 e i 21 anni. La competizione è tesa a valorizzare la grappa stimolando la fantasia professionale dei giovani alunni, inserendola tra gli elementi base della composizione di cocktail. «Tengo a sottolineare» afferma Ennio Baccianella, portavoce e organizzatore della manifestazione, «quanto sia cresciuta l’importanza di Acquavite Italia, in quanto è considerata nel settore dei distillati, dagli operatori del settore e dal pubblico, seconda solo a Vinitaly». Tutte le informazioni su www.acquaviteitalia.it
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Vola a Londra il premio Villa Sandi Alessandra Celio, senior assistant restaurant manager al Marcus Wareing Restaurant del Berkely Hotel di Londra; Carlo Ferrigno, food and beverage manager presso NH Hotel du Grand Sablon di Bruxelles; Filippo Lanciotti, responsabile della gestione della cantina dell’Hotel Ristorante Anita di Cupra Marittima, in provincia di Ascoli Piceno. Sono i tre giovani professionisti che hanno vinto la decima edizione del premio internazionale Innovazione nella professione, istituito da Villa Sandi di Crocetta del Montello nel Trevigiano, prestigiosa realtà enologica che prende il nome dall’edificio di scuola palladiana risalente al 1622, cuore dell’azienda, unitamente all’Associazione Italiana Sommeliers. Il prestigioso riconoscimento, un assegno da 1550 euro, è indirizzato ai sommelier under 29 che hanno lavorato o lavorano all’estero in strutture alberghiere e ristorative e che rappresentano quindi gli ambasciatori per eccellenza del vino italiano nel mondo. Il premio da un paio di stagioni ha varcato i confini nazionali ed è stato consegnato ai vincitori durante una cena di gala che si è tenuta per la prima volta a Londra all’Hotel Ritz e alla quale ha preso parte anche l’ambasciatore italiano a Londra, Alain Giorgio Maria Economides, segno del carattere sempre più internazionale dell’iniziativa e dell’importanza del mercato inglese per i vini italiani. Creatività, professionalità e spirito di iniziativa sono i tratti distintivi dei giovani sommelier vincitori, la cui selezione è stata effettuata da una giuria qualificata composta da giornalisti enogastronomici di fama internazionale, dal presidente di Villa Sandi, Giancarlo Moretti Polegato e dal presidente dell’Ais, Terenzio Medri. Questi giovani sommelier sono sempre più consapevoli del proprio ruolo, che non è solo quello di suggerire l’abbinamento migliore tra un vino e un piatto, ma anche di essere divulgatori della cultura del vino, comunicaL I tre sommelier premiati con Terenzio tori della storia e del territorio che ogni vino porta con sé e promotori Medri, Giancarlo Moretti Polegato e di un modo di bere responsabile e consapevole. Alberto Schieppati Un successo quindi per un concorso che continua nel tempo a valorizzare i giovani che stanno maturando la propria esperienza nel mondo della sommellerie internazionale e che si sono già distinti per professionalità e competenza e che prende il nome dalla storica cantina trevigiana che si trova ai piedi delle colline, tra le zone del Prosecco di Valdobbiadene e quelle del Montello e del Piave. Un felice esempio di come architettura e ambiente naturale possano coesistere e mettersi vicendevolmente in risalto in un binomio vincente che combina il piacere del vino e l’amore per l’arte e il territorio. (Paolo Giarrusso) 94
Pillole
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Magis: un progetto tutto da scoprire Dopo aver fatto capire di non essere un progetto qualsiasi in occasione della propria nascita, Magis torna a far parlare di sé. A soli sei mesi di vita è già sotto le luci della ribalta figurando tra i finalisti nella categoria Sistemi gestionali integrati del Premio innovazione ICT – Oltre la crisi: l’Italia che innova, alla cerimonia di apertura di Smau 2010. A ricevere gli onori del prestigioso riconoscimento, Angelo Maranzia, food chain specialist di Bayer Crop Science, tra i partner promotori. Nato lo scorso anno, il progetto Magis vede coinvolte oltre a Bayer anche l’Unione italiana vini, le università di Milano, di Torino e di Firenze, il CNR-ISPA di Bari, Assoenologi e Image Line per quanto concerne la piattaforma gestionale contenente i dati aziendali dal vigneto alla cantina. Puntando dritto all’obiettivo di creare una nuova mentalità nel mondo del vino, orientata a produzioni vitivinicole di qualità realmente sostenibili in tutti i loro aspetti, la piattaforma, facendo sistema e passando attraverso innovazione, formazione e comunicazione, fornisce al produttore contemporaneamente il servizio e il mezzo tecnico. Ciò che si sta creando nella fase di sperimentazione è un enorme sistema che raccoglie un’enorme quantità di dati che, grazie all’azione sinergica delle competenze messe a disposizione a titolo volontario dai partner, vengono elaborati per creare protocolli produttivi di sostenibilità. Anche l’importanza di un corretto impiego dei mezzi tecnici al fine di ottenere una vera eco-compatibilità delle produzioni trova concretezza in giornate di formazione rivolte agli operatori e incentrate, ad esempio, sulla corretta taratura degli ugelli delle macchine irroratrici. Gli appezzamenti sui quali viene svolta la sperimentazione, di minimo un ettaro, sono messi a disposizione dalle aziende (per ora set96
tantaquattro) coinvolte nel progetto. Le produzioni ottenute dagli “appezzamenti Magis” sono poi messe a confronto con quelle di appezzamenti standard assolutamente sovrapponibili per caratteristiche. Le aziende che in questo primo anno di sperimentazione hanno vendemmiato (circa il 45 per cento del totale) stanno inviando i primi dati sia dagli appezzamenti Magis che da quelli “confronto” e le elaborazioni, effettuate dall’Università di Piacenza, sapranno certamente essere eloquenti sulla grandezza del progetto. Per il momento, le anticipazioni evidenziano come una gestione Magis delle colture sia in grado di generare vantaggi economici e ambientali (riduzione del numero di trattamenti, della manodopera e degli ingressi in vigna) oltre che salutistici, derivanti dalla possibilità di effettuare, per la prima volta, una mappatura del rischio ocratossina (una micotossina ad attività principalmente nefrotossica) su uve, mosti e vini che arriva fino all’individuazione di misure per la sua prevenzione in campo. La presenza di una piattaforma informatica di condivisione dei dati (unica che consente di accedervi impiegando telefono, i-pod o pc) è poi in grado di generare un servizio di previsioni meteo specifiche per singola azienda (calcolate su una maglia di 2.5x2.5 chilometri rilevate due volte al giorno), comprensive anche di velocità del vento calcolata a due metri dal suolo: un vantaggio netto in fase di decisione su quando effettuare un trattamento. Forse in futuro avremo modo di parlare di Magis in veste di marchio a garanzia della sostenibilità sociale e ambientale di prodotto magari non solo sul vino ma anche su altre filiere. Per il momento, sappiamo che dall’anno prossimo Magis partirà anche per l’uva da tavola e per le orticole. (Michela Lugli)
Libri
SULLO SCAFFALE
di Natalia Franchi
SAPERE DI VINO BORDERWINE Autore: Martina Tommasi Editore: Luglioeditore Prezzo: 15,00 euro
Finiti i tempi della richiesta di un “bianco” o di un “rosso” qualsiasi, l’ormai incontrovertibile processo di “acculturazione” del gusto da parte di un pubblico molto ampio ha determinato una consapevolezza del consumatore che va di pari passo con la diversificazione e il raffinamento del prodotto vino. Un miglioramento coraggioso e progressivo che prende le mosse dal Settecento del Razionalismo e dell’Illuminismo: il periodo analizzato da Martina Tommasi – autrice del saggio – che del vino ha colto la squisita trasversalità tra epoche, estimatori e detrattori. Triestina doc, la Tommasi dedica l’analisi alla sua terra: quel Friuli terra di confine, di scambi commerciali e culturali. Terra generosa, le cui testimonianze documentarie sulla produzione del vino risalgono a ben prima del Settecento, collocandosi nel 180 a.C. con la fondazione di Aquileia. Ma è nel Settecento che l’autrice vede la scintilla da cui è nata la più recente tensione al costante miglioramento del vino. Uno spirito pionieristico che ha portato a sperimentazioni concrete con mente aperta e libera, seguendo sempre una logica di confronto e riscontro pratico, dapprima presso i nobili e i benestanti, per estendersi poi alle cosiddette persone comuni. Tanti i pionieri di cui vengono narrate le gesta. Tra questi colui che viene definito un vero e proprio guru del marketing ante litteram: Fabio Asquini, conte in Fagagna, creatore di un vino unico, il Picolit. Che la qualità del Picolit fosse notevole è fuori discussione, ma fu il “piano di marketing” di Asquini a decretare il successo travolgente di un vino che divenne un mito enologico. Correva l’anno 1761 e il nobile puntò sulla nicchia del vino da dessert in un momento in cui il maggior concorrente, la Francia, non trattava questo genere. Unica minaccia il Tokaj ungherese, il cui flusso di esportazioni era ostacolato dalla guerra dei Sette Anni (1756-1763). La collaborazione con l’agronomo veneto Antonio Zanon diede l’avvio a un attento marketing relazionale, basato su una fitta rete di conoscenze altolocate e fidelizzate che ben presto aprirono al Picolit le porte dell’estero, grazie al supporto di aristocratici che frequentavano le maggiori corti europee. Per non parlare della cura dei dettagli: dai migliori tappi fatti giungere da Londra, all’attenta scelta della bottiglia, per finire con l’etichetta (ai tempi applicata al turacciolo, quasi alla stregua di sigillo) dove il nome del casato Asquini non apparve mai, dal momento che all’epoca il lavoro nobiliare era visto come un’onta, anche nel caso di un’attività commerciale di lusso. Nobiltà illuminata.
Autore: Giacomo Tachis Editore: Mondadori Prezzo: 18,00 euro Diplomatosi alla Scuola di enologia di Alba, trasferitosi in Toscana, nel 1961 Giacomo Tachis approda alla casa vinicola Marchesi Antinori dove, per trentadue anni, ricoprirà il ruolo di indimenticato direttore tecnico. Membro dell’Accademia dei Georgofili, ritenuto il principe degli enologi per aver promosso il Rinascimento del vino italiano e scoperto i Supertuscans, a 77 anni Tachis lascia l’attività e ci regala questo saggio quale tributo alla passione di una vita. Un viaggio pieno di sorprese tra vigneti, tradizioni storiche e geografiche, cultura gastronomica e made in Italy, in cui svela tutti i segreti del vino, della selezione della terra, della viticoltura, delle tecniche di invecchiamento e della degustazione. Per Tachis il vino non conoscerà mai crisi, perché la gente lo beve e lo berrà sempre. Ma occorre un’ulteriore innovazione, nel pieno rispetto della natura e della semplicità del vino. Soprattutto grande attenzione dovrà essere riservata al ricorso alla chimica, alla biologia molecolare e all’ingegneria genetica. E sarà necessario indulgere meno alle lusinghe delle mode, a decretare successi – si pensi alla notorietà recente dei vitigni Cabernet e Syrah – piuttosto effimeri e creatori di falsi miti. Innumerevoli gli ingannevoli luoghi comuni citati nel saggio, a cominciare dall’impiego spinto della barrique, intesa come rimedio universale per dare carattere ai vini deboli, per finire con il ricorso a trattamenti chimici per accelerare i processi naturali. Mentre l’autentica natura del vino rifugge l’inganno, essendo ogni vino il risultato di una storia e di una cultura millenaria e della mano di un uomo, l’avanguardia scientifica deve aiutare ma mai snaturare o sovrastare. La qualità del vino è dovuta principalmente alla qualità dell’uva e della vigna; all’uomo il compito di influenzarne le caratteristiche organolettiche, operando comunque su una dote di valore oggettivo. Per questo Tachis ci accompagna in un viaggio nelle sue terre d’Italia: in Toscana, tra gli ulivi piantati dagli Etruschi, in Sardegna, dove da secoli sferzata dal vento cresce l’uva Nuragus, in Sicilia, dove si produce il Mamertino, che Giulio Cesare pretendeva ogni giorno sulla sua tavola, fino nelle isolette del Mediterraneo, luogo di felicità e di sogni. “Il futuro dell’enologia sarà quello di esaltare la bevanda di Bacco in uno dei contesti più cari alla vite per clima, tradizione e storia: il nostro Paese”. 97
Io non ci sto
Ma il vino italiano nel 2010 ha ancora bisogno di vitigni “migliorativi”? di Franco Ziliani on avrei mai pensato di vedere un Paese dalla antichissima tradizione enoica come l’Italia ricevere lezioni di realismo e l’invito a credere di più in quello che è e in quanto fa, senza indulgere ad assurdi provincialismi, da una terra dove produrre e consumare vino è storia molto ma molto più recente come gli Stati Uniti! Leggendo però una column, come al solito efficace, della corrispondente americana della rivista britannica Decanter, Linda Murphy, pubblicata sul numero di ottobre ho capito che ne abbiamo ancora di strada da fare, e di lezioni da prendere, prima di poter veramente affermare che crediamo davvero nei nostri mezzi senza alcun complesso di inferiorità e senza più tentazioni di scimmiottare quello che fanno gli altri. Cosa ha scritto la Murphy? Ha solo invitato i produttori americani, dopo 40 anni di successi e di affermazioni che hanno portato gli Stati Uniti (in particolare la California) a diventare uno dei protagonisti della scena vinicola internazionale, a fare affidamento solo su se stessi. E di smetterla, per darsi un tono, per apparire più importanti, di imitare la Francia. Smetterla di utilizzare termini francesi come Château, clos, domaine per dare un nome alle loro aziende (come hanno spesso fatto nei decenni precedenti), smetterla di scrivere che i loro Chardonnay e Pinot noir sono prodotti con uve piantate con cloni che arrivano direttamente dalla Borgogna. Questo perché è ormai un atteggiamento puramente provinciale, ostentare l’uso di “Dijon clones”, e perché non è assolutamente detto che questi cloni, che funzionano perfettamente nei terroir e nei microclimi borgognoni, si adattino, meglio di come facciano invece cloni locali delle stesse uve, nei climi, più caldi, e con epoche di maturazione diverse, di svariate aree californiane, dove “sviluppano più rapidamente alti tenori zuccherini, con il rischio di dare vita ad elevati tenori alcolici” che oggi i consumatori tendono a rifiutare. Per la wine writer californiana, «l’imitazione può anche essere una forma di adulazione e di lusinga, anche per il vino americano, ma è tempo che l’industria vinicola americana la finisca di rubacchiare dalla Francia (o dall’Italia o dalla Spagna) e inizi ad usare un proprio linguaggio per comunicare con i consumatori che non capiscono parole come ancien, saignée o tirage». Questo l’appello della giornalista americana ai produttori americani. In Italia invece, se si guarda a quanto sta succedendo in molte denominazioni, si è portati a concludere non solo che invece di guardare al futuro si guardi indietro, ma che il mondo del vino di un certo deteriore provincialismo non si sia ancora liberato. Anzi, che non ci pensi nemmeno. Ricordate gli anni Ottanta e buona parte dei Novanta caratterizzati dalla parola d’ordine “vitigni migliorativi”? In tutta Italia si era diffusa la convinzione che non si potesse produrre un vino di alta qualità e che non si potessi essere presi in seria considerazione dal mondo come Paese produttore di alto livello, se nei vigneti, fossero piemontesi o toscani, siciliani piuttosto che veneti o pugliesi, non fossero state piantate dosi sostanziose di uve ritenute in grado di riscattare e nobilitare la
N
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sorte di un Vigneto Italia schiavo di troppe varietà locali giudicate di scarso livello. E allora vai con gli Chardonnay e i Sauvignon (piantato anche in Puglia…), e via con i Cabernet, i Merlot, i Syrah (e in seguito il Petit Verdot) chiamati a “migliorare” con le loro doti miracolose i nostri “provincialissimi” vini… Estremismi, errori di gioventù, malattie d’infanzia di una viticoltura in via di trasformazione, incline a ingenuità ed esagerazioni anche comprensibili. Si pensava però che trascorsi vent’anni, studiate e riscoperte, com’è accaduto nel caso del Sangiovese, tutte le potenzialità (sinora inesplorate) di molte nostre uve di valore, e forti del successo incontrato, in Italia e all’estero, dai nostri vitigni autoctoni, non fosse rimasto più nessuno a pensare seriamente che per produrre grandi vini nei nostri terroir fosse indispensabile la “stampella”, l’aiuto, il miglioramento, di varietà indubbiamente grandi altrove, ma tutt’altro che indispensabili. Uve che quantomeno, nel migliore dei casi, hanno favorito un appiattimento del gusto mediante vini ben poco di terroir e molto varietali, spesso tutti uguali tra loro. Ragionamento errato. In Italia, anche se i consumatori hanno detto chiaramente che sono stanchi di vini omologati e sono invece alla ricerca di vini originali, evidentemente molti continuano a pensare che la salvezza e il successo potranno venire solo dopo l’assunzione di dosi abbondanti di vitigni bordolesi. Guardate, per credere, in quanti disciplinari di produzione, che si cerca di cambiare in tutta fretta, disciplinari di vini di sicura personalità, si vogliono introdurre dosi robuste dei soliti noti, Cabernet e Merlot in primis. Accade a Cirò, in Calabria, dove nella storica Doc Cirò hanno previsto un allargamento facoltativo della base ampelografica ad altri vitigni autorizzati e raccomandati per la regione Calabria per un massimo del 20%. E poi in Toscana, a Montepulciano, dove alla produzione del Vino Nobile potrebbero concorrere fino a un massimo del 30% di vitigni complementari idonei alla coltivazione nella Regione Toscana, e poi in Maremma, dove per il Morellino di Scansano si è chiesto il contributo del 15% di altre uve che non siano il Sangiovese. Ed in Piemonte per la Docg Barbera d’Asti, per la quale si richiede la possibilità di ricorrere ad un 10% di “altri vitigni a bacca nera, non aromatici”, oppure a Carema, per l’omonima Doc “di montagna” che potrebbe essere prodotta con “l’aiutino” di un 15% massimo di altre uve ben poco “montanare” tipo Merlot o Syrah. E mi limito a citare solo i casi più clamorosi. Ma perché mai oggi, se non per fini puramente commerciali e per una malintesa idea di quello che chiede il mercato, magari illudendosi di rispondere così alla crisi in atto, introdurre vitigni internazionali nelle denominazioni storiche? Come non capire che in questo modo si ottiene solo il risultato di conformare e standardizzare i vini e di renderli molto meno interessanti anche commercialmente? Dicano pure che non ci sono alternative, che è il mercato globale a costringere a simili scelte. La mia risposta, forse monotona, ma coerente, sarà sempre la stessa: mi spiace, ma io non ci sto!