DEVinis LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ, LA CULTURA, IL PIACERE, I PROTAGONISTI DEL BERE BENE
Anno XVIII - n. 97 - € 3,50 Gennaio / Febbraio 2011
DCOOS5458 GIPA/LO/CONV/028/2010
PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - ais@sommeliersonline.it
Editoriale
Leviamogli
il
vino!
di Antonello Maietta a qualche giorno è in distribuzione la nuova tessera associativa per il 2011. Per un anno intero sarà la testimonianza, da esibire con orgoglio, di appartenere alla più grande organizzazione professionale del vino nel mondo. Un piccolo, ma significativo, particolare la differenzia da quelle degli anni passati: una bandierina tricolore. Questo simbolo di coesione sarà il nostro modo di rendere omaggio al 150° anniversario dell’Unità d’Italia. In questi due mesi trascorsi dal giorno della mia elezione ho partecipato a numerosi eventi organizzati in svariate regioni d’Italia. Ovunque ho potuto percepire il grande entusiasmo che accompagna l’attività delle nostre delegazioni sparse su tutto il territorio nazionale. Ho visto al lavoro colleghe e colleghi che, spesso con grandi sacrifici, sottraevano disinteressatamente tempo ed energie alla propria attività, alla famiglia, alle amicizie, e ho gioito con loro per il risultato che scaturisce dal paziente lavoro di squadra e dalla forza del gruppo. Tutto questo viene svolto quotidianamente per innalzare il livello di conoscenza di un prodotto strategico per l’economia italiana. Un messaggio che non passa di certo inosservato: ho incontrato amministratori pubblici e imprenditori privati, competenti e dinamici, che manifestavano apertamente e con sincerità il loro apprezzamento per l’opera svolta dall’Ais e ho potuto toccare con mano gli eccellenti risultati ottenuti laddove è più radicata la collaborazione tra i sommelier, le aziende e le istituzioni. Eppure questo entusiasmo è stato talvolta turbato dalla presenza di alcune nicchie residue di pressapochismo che sembrano ancora difficili da smantellare. Mi riferisco, ad esempio, allo spreco di risorse e all’utilizzo discutibile di denaro pubblico per promuovere manifestazioni inutili o addirittura dannose per il settore, in
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cui per giunta il servizio del vino è affidato alle mani di mediocri e improvvisati mescitori. Mi riferisco a campagne di comunicazione banali, costose e di dubbia efficacia. Mi riferisco alla continua, devastante e generica associazione fra i termini alcol e morte. Non sarà forse giunto il momento di dire a tutti, con la serenità che ci contraddistingue e i termini pacati del nostro lessico, ma con inconsueta fermezza che, almeno noi, ci siamo un po’ stancati?
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AIS Associazione Italiana Sommeliers Presidente | Antonello Maietta Vicepresidenti | Renato Paglia, Roberto Bellini Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Antonello Maietta, Renato Paglia, Cristiano Cini, Luca Panunzio, Gabriele Ricci Alunni, Marco Starace, Roberto Bellini, Mauro Carosso, Giorgio Rinaldi
La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene. Anno XVIII gennaio-febbraio 2011 Associazione Italiana Sommeliers Editore Direttore editoriale e responsabile | Antonello Maietta maietta.presidente@sommelier.it Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, francesca.cantiani@sommeliersonline.it Per la pubblicità | Top Communication Sas topcommunicationsas@live.it Tel. +39 392/8289316 Redazione | Associazione Italiana Sommeliers Viale Monza 9 - 20125 Milano Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - devinis@sommeliersonline.it Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, emanuele@sommeliersonline.it Hanno collaborato | Silvia Baratta, Roberto Bellini, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Antonio Carreca, Riccardo Castaldi, Alessia Cipolla, Elisa della Barba, Piermaurizio Di Rienzo, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Emanuele Lavizzari, Michela Lugli, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Angelo Matteucci, Davide Oltolini, Fulvio Piccinino, Cesare Pillon, Paolo Pirovano, Stefano Quagliere, Annalisa Raduano, Simone Savoia, Ludovica Schiaroli, Lorenzo Simoncelli, Franco Ziliani. Fotografie | Archivio Ais La foto di copertina è di Francesca Gasperi. Si ringrazia la Fattoria delle Ripalte (Capoliveri, Isola d’Elba) Per l’articolo a firma di Lorenzo Simoncelli la foto di José Rallo è di Pucci Scafidi Per l’articolo a firma di Alessia Cipolla foto di Corrado Bonomo e Paolo Da Re Per l’articolo a firma di Luigi Caricato foto di Giorgio Sporcinelli Per l’articolo di Enopolis a firma di Antonio Carreca foto di Gabriele Fasanaro La foto della presentazione delle Guide Bibenda è di Stefano Segati LA REDAZIONE DI DEVINIS SALUTA E RINGRAZIA VIVAMENTE: Francesca Cantiani, Terenzio Medri e Paolo Pirovano; Jesús Saiz, Roberto Stucchi e l’intero staff di Grafiche Parole Nuove; Stefano Gallizzi, Giandomenico Pozzi e il loro gruppo di grafici; Mauro Marangoni, Roberto Pizzi e Antonio Silvestre; Romano Michele Antonio; la squadra della Sede Centrale Ais; i giornalisti, i soci e tutti coloro che hanno arricchito di contenuti questa pubblicazione; voi lettori, che con commenti, critiche costruttive e apprezzamenti avete sempre sostenuto il nostro lavoro. Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001 Associato USPI Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 45,00 Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità: - pagamento tramite c/c postale 000058623208 - bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX) - bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano, IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001) Chiuso in redazione il 30-12-2010 Stampa | Grafiche Parole Nuove Srl - Brugherio Milano Copie di questo numero | 40.000
AIS 2011
Rinnovo quota associativa 2011 È possibile rinnovare l’iscrizione nei seguenti modi: Internet basta collegarsi al sito www.sommelier.it, cliccare su “Rinnovi Online” e seguire le istruzioni per effettuare il pagamento tramite Carta di Credito (escluso Diners Card).
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Sommario
Gennaio / Febbraio 2011
La riconquista del mercato
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BUYER STRANIERI SCELGONO IL VINO ITALIANO
Verso la ripresa?
10 I
FATTURATI E I MERCATI ESTERI FANNO BEN SPERARE
Discussioni a Bolgheri
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SOSTENITORI
Il Tirreno in un bicchiere
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E OPPOSITORI DELLE MODIFICHE DEL DISCIPLINARE
VINI DELL’ISOLA D’ELBA
26
Una passeggiata a Rùfina
CHIANTI
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IN DEGUSTAZIONE
Un vitigno, una fede
IL PINOT NERO
36 LE
All’interno
I
VIGNETI DELLA
FATTORIA
RIPALTE CAPOLIVERI, ISOLA D’ELBA
DELLE
44 48 62 68 72 74 84 96 98
DI
BORGOGNA
Vini del Nord ECCELLENZE DELLE TERRE TEDESCHE
Musei ALLA SCOPERTA DELLA GRAPPA Vino e Architettura CONTINUA IL VIAGGIO NELLE CANTINE INNOVATIVE Turismo DESTINAZIONE PORTOGALLO Olio IL COMPLEANNO DELL’EXTRAVERGINE Birra MAGIA SOTTO LA SCHIUMA Distillati LE GRANDI GRAPPE DEL VENETO Fiere ASPETTANDO VINITALY… Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI Io non ci sto! PRODURRE MENO PER DARE UN FUTURO AL SETTORE
Mercati
I buyer esteri puntano sul
vino italiano di Silvia Baratta
PER
RAGGIUNGERE I MERCATI PIÙ
INTERESSANTI OCCORRE PUNTARE SU EVENTI CAPACI DI FAR INCONTRARE DOMANDA
E OFFERTA. IL DI
WINETT VENEZIA
RAPPRESENTA UNA FORMULA UNICA E IL SUO RIGORE È UNO DEGLI ASPETTI PIÙ CARATTERISTICI
n Italia si beve meno ma meglio. Questa affermazione, ormai concordata da tutti, è certo un segnale della crescita culturale del consumatore. Un risultato reso possibile anche grazie all’attività dell’Associazione italiana sommeliers, che ha il merito di aver spiegato agli italiani cosa stia dietro a una bottiglia di vino. Ciò è avvenuto attraverso i corsi Ais, oggi sempre più frequentati dagli appassionati oltre che dai professionisti, ma anche grazie alla figura del sommelier divenuta punto di riferimento in trasmissioni televisive o come firme in giornali di life style. Anche gli eventi che l’Ais organizza per fare conoscere sempre meglio un prodotto straordinario, simbolo del nostro paese, sono stati un veicolo di promozione importante. La preparazione raggiunta dal consumatore, che vede il vino a tutti gli effetti come prodotto culturale, è motivo di orgoglio per l’intero settore. Vi è, però, una seconda faccia della medaglia, legata al “meno”. Secondo Assoenologi, i consumi di vino degli italiani nel 2015 scenderanno sotto i 40 litri/anno ovvero un terzo rispetto a quanto si beveva negli anni Settanta. Un numero che preoccupa le aziende, costrette sempre più a guardare all’export come a una necessità più che a una scelta.
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I Un po’ di numeri Per inquadrare meglio il tema è necessario soffermarsi su qualche numero. Nel 2009 l’export del vino italiano ha registrato una flessione del meno 6,1 per cento mentre i primi mesi del 2010 hanno segnato un recupero del più 8,4 per cento in valore e del più 8 per cento in volume. Negli Usa, certamente un paese di riferimento per l’export, ad esempio, i primi mesi di quest’anno hanno portato al vino italiano un valore positivo del 10,2 per cento, contro un meno 8,7 per cento dello stesso periodo nel 2009 (dati Assoenologi). In generale, l’export del vino italiano vale il 41,3 per cento in volume e il 32,5 per cento in valore sul totale del mercato e, se nel 2009 aveva registrato una flessione del 6,1 per cento in valore e del 6,2 in volume, il 2010 ha ripreso con forza il trend positivo. D’altro canto, un assestamento è da considerarsi fisiologico, dal momento che l’Italia è stata il paese che più nel mondo ha aumentato la produzione, passata tra il 2007 e il 2009 a più 2,6 per cento contro il meno 0,4 per cento nell’Europa e il più 0,5 per cento nel resto del mondo. Ma cosa ci si aspetta dal futuro? I consumi di vino crescono decisamente in Cina (più 160,8 per cento), in Canada (più 121,2 per cento), negli Usa (più 46,2 per cento), in Giappone (più 89,7), calano invece in tutti i paesi tradizionalmente produttori. La riduzione più drastica è proprio in 6
L La domanda e l'offerta si incontrano a Winett
L Un tavolo di incontro fra buyer e produttori
Italia (meno 30,2 per cento) seguita da Spagna (meno 26,6 per cento) e Francia (meno 19,8 per cento). La crescita nei paesi extraeuropei si riflette anche sulle performance del vino italiano, che aumenta in Russia del più 68,7 per cento in valore e del più 56,3 per cento in volume, negli Stati Uniti del 14,1 per cento in valore e dell’11,6 in volume, in Cina del 90,5 per cento in valore e del 109, 6 per cento in volume (dati Cirve). Se in Italia l’export continua a salire, ciò significa che le aziende guardano all’estero. Per aver successo nei mercati vicini e lontani è necessario però selezionare le iniziative, capaci di portare risultati.
l’azienda o il compratore hanno già un partner in un dato paese. Questo permette a chi non è presente di trovare accordi commerciali e per chi invece è già in quel mercato di raccogliere informazioni da un interlocutore diverso rispetto all’importatore. In questo modo è possibile verificare la rispondenza delle informazioni ufficiali. Ma che cosa distingue questo evento? La ricetta di Winett si basa su quattro elementi: l’analisi dei mercati internazionali che “tirano”; la ricerca di buyer dotati di buone capacità di crescita e interessati ad ampliare il portfolio di aziende; lo studio delle aspettative dei compratori e l’analisi dell’offerta delle aziende.
I Per chi suona la campana La domanda diventa quindi spontanea: come raggiungere i mercati davvero interessanti? Gli eventi mirati, più ancora che le tradizionali fiere, giudicate talvolta troppo dispersive e dispendiose, sono una strada efficace. Tra tutti uno, Winett, che rappresenta una formula unica. La manifestazione, in programma a Venezia a marzo 2011, punta sullo slogan “Fatti e non parole”. Al Winett si incontrano solo addetti ai lavori: buyer, che si impegnano a comprare italiano e aziende vinicole di tutta la Penisola interessate all’internazionalizzazione. L’evento si svolge in tre giornate, una riservata all’Europa, una alle Americhe e una all’Asia e circa trenta buyer, selezionati tra più di duecento, incontrano le aziende vitivinicole. Il rigore è uno degli aspetti caratterizzanti la formula: ogni venticinque minuti “suona la campana” e arriva un’azienda che in questo tempo limitato deve presentare la propria realtà. Una formula forse un po’ teutonica, ma che negli anni ha fatto conquistare all’evento un’immagine di grande professionalità. C’è anche un’altra particolarità. Durante gli appuntamenti sono le cantine ad andare al tavolo del buyer e non viceversa e tutti incontrano tutti, anche se
I La parola ai mercati Trovare in un solo luogo Cina, India, Malesia ma anche Brasile, Polonia, Texas, solo per fare alcuni esempi, non è cosa da tutti i giorni. Per questo motivo è interessante conoscere il parere degli ospiti di Winett per capire che cosa il mondo si aspetta dal vino italiano. Anzitutto va precisato che le esigenze degli importatori non sono uguali ma dipendono dal canale in cui si distribuisce, dalla dimensione della società e dal tipo di cliente. Per alcuni il vino italiano rappresenta storia, cultura ed esperienza, per altri una ricchezza straordinaria di vitigni autoctoni e terroir, che permette di trovare il vino adatto per ogni consumatore. Per altri ancora, un paese che sa garantire prezzi equilibrati e buona qualità. Ciò che si riscontra è anche un miglioramento della conoscenza del nostro paese. Se fino a qualche tempo fa erano Toscana e Piemonte a farla da padroni, oggi dà una certa soddisfazione sentire importatori filippini parlare anche di vini delle Marche, della Campania o della Puglia. In generale, il vino italiano rappresenta un punto di riferimento e spesso ci si aspetta che dietro ci sia una famiglia, un volto, una storia unica. L’Italia è anche sinonimo di varietà, intesa come moltitudine di vitigni, suoli, climi e stili, insomma, terroir. Ed è crescente il numero di 7
Mercati
importatori che sono alla ricerca di vitigni minori quasi sconosciuti, per fare percepire al proprio cliente che gli si sta offrendo qualcosa di unico. Non manca, tuttavia, chi cerca i best seller, primi fra tutti Pinot Grigio, Lambrusco, Prosecco. Insomma, è difficile fare generalizzazioni. Nel mercato internazionale del vino c’è davvero spazio per tutti. IIIIISRAELE
Israele è un paese al quale forse non si pensa spesso e fa certo parte dei mercati cosiddetti minori. Questi, tuttavia, se considerati assieme muovono numeri importanti, come spiega Eyal Gat della società Hacarem. Quali vini state cercando? «Siamo l’importatore leader del mercato, cerchiamo tutte le tipologie, vini fermi bianchi, rossi o rosé oppure spumanti o passiti provenienti da tutte le regioni italiane». Come sta andando il mercato del vino italiano nel vostro paese? «Nell’ultimo anno abbiamo aggiunto al portfolio italiano nuove cantine, una sarda e una veneta. Nei due anni precedenti avevamo inserito cinque cantine di quattro differenti regioni: Piemonte, Friuli, Puglia e Toscana. Non siamo quindi concentrati su una sola regione. L’Italia è varia e offre molte possibilità per trovare vini qualitativi e non standardizzati». Perché i vini italiani hanno successo in Israele? «I vini italiani rappresentano circa il 20 per cento delle vendite della nostra azienda, quindi una fetta importante. Sono interessanti perché riuniscono molte diversità: varietà del vitigno, stile del vino, origini, livello dei prezzi. I vini italiani sono molto richiesti nel nostro paese e le prospettive di crescita sono buone». IIIIFILIPPINE
Sorprese vengono dalle Filippine, altro mercato di cui ancora si sa poco. E che cosa si scopre? Che in questo paese non solo si cerca la qualità ma anche che i collezionisti stanno divenendo una realtà. A rispondere è Lim Laraine della compagnia Premium Wine Exchange, Inc. Se nel 2009 l’azienda non importava alcun vino italiano, nel 2010 le idee sono molto chiare, come dimostrano alcune delle prime referenze importate: Paolo Scavino, Bruno Giacosa, Tua Rita, sono solo alcuni esempi. Cosa si aspetta dai vini italiani? «Grande qualità, per questo preferiamo piccole aziende a conduzione familiare piuttosto che grandi marchi. Ci sono già molti vini da prezzo nelle Filippine, noi invece vogliamo vini che esprimano veramente il terroir per dimostrare che i grandi prodotti italiani non sono secondi ai grandi cru classé di Bordeaux». A quali regioni è interessato? «Al Friuli, al Veneto con il suo Amarone, alla Sicilia, alla Puglia ma anche all’Umbria, regione che si conosce ancora poco nel nostro paese». In quali segmenti vendete? «Vendiamo in tutti i segmenti. Nell’Horeca il prezzo è tra 8,00 euro
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e 15,00 euro, per il privato e i collezionisti i prezzi vanno dai 50,00 euro in su». IIIIAUSTRALIA Trembath & Tailor ha sede a Melbourne, in Australia. A rispondere è Paul Matt.
Perché avete deciso di importare vino italiano? «Amiamo l’Italia e gli italiani e siamo specializzati in questo paese. L’amiamo perché presenta una grande diversità di regioni e stili. Il fatto, ad esempio, che il Gaglioppo si trovi solo in Calabria è uno dei motivi che rende l’Italia speciale». Quali vini ricercate? «Nebbiolo e Sangiovese sono le varietà preferite ma vorrei rappresentare più regioni e varietà possibili. Recentemente abbiamo iniziato a importare anche un ottimo Lambrusco. Inoltre, a causa della crisi economica, le etichette che si vendono meglio sono quelli attorno ai 5 euro. Al Sud ci sono molti vini che rispondono a questa esigenza come Fiano, Greco, Negroamaro e Nero D’Avola». Proprio la Sicilia registra un interesse crescente e non a caso a Winett 2010 la regione ha registrato un vero e proprio “boom”: ben 21 aziende di grandi, medie e piccole dimensioni. IIIISTATI UNITI A parlare è Todd Bacon di Admiralty. La società, 4,5 milioni di dollari di giro d’affari, riserva ai vini italiani un ruolo importante: il 25 per cento.
Quali vini state cercando? «L’interesse è principalmente per i vini della Sicilia, solo cinque anni fa questa regione non era considerata, ora è molto ricercata. Un tempo il mercato cercava solo grandi vini, quelli mito. Questi però richiedono di aspettare molti anni prima di essere bevuti e in un momento di crisi il mercato è cambiato, vuole vini più immediati, da stappare senza attendere troppo. L’incertezza del domani ha cambiato anche i consumi a tavola. IIIIBRASILE Il Brasile tradizionalmente consuma più birra che vino. Una scelta dovuta anche al clima caldo, che porta a privilegiare altre bevande come ad esempio la birra. A parlare è Luciano Furquim di Vital Gourmet.
Che tipo di aziende sta cercando? «Soprattutto vini top, non conosciuti in Brasile ma con ottimi punteggi nelle guide in paesi come Italia, Uk e Usa». Qual è la situazione del vino italiano nel suo paese? «In Brasile il vino è interessante ma c’è poca cultura, si bevono due litri di vino all’anno a persona. Stanno però crescendo il mercato e anche la qualità: se fino a ieri si pagava la bottiglia 2 dollari ora si pagano 3 dollari. In Brasile oggi il 60 per cento dei vini italiani importati sono Lambrusco e Prosecco, di facile approccio, e l’Italia è il quarto mercato fornitore dopo Cile, Argentina e Portogallo. Le cose stanno però cambiando e ci sono buone prospettive di crescita».
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Vino e finanza
Il
2011
è l’anno della ripresa?
di Lorenzo Simoncelli
CRESCE
LA QUALITÀ, AUMENTANO I FATTURATI E I MERCATI ESTERI SONO
RICETTIVI.
TUTTO
SEMBRA FAR PREVEDERE UN
2011
ALL’INSEGNA
DELL’OTTIMISMO MA OCCORRE FARE ATTENZIONE AI NODI ANCORA DA
SCIOGLIERE: PROMOZIONE E COMMERCIALIZZAZIONE he anno sarà il 2011 per il mondo del vino? Che cosa si devono aspettare produttori e consumatori sia in termini di produttività, che di qualità per l’anno che è appena incominciato? Possiamo finalmente dire che il periodo buio è terminato? Quali sono i nodi ancora irrisolti? Ma soprattutto le prospettive future sono rosee? E quali ostacoli bisognerà ancora superare? Interessante è un’analisi sul mercato del vino, sempre più ambasciatore dell’eccellenza dell’agroalimentare italiano nel mondo, e che faccia il punto sugli sviluppi del settore in termini di produzione, fatturato e normative. D’aiuto una ricerca, dal titolo «Tendenze e prospettive della filiera vitivinicola», realizzata dall’Area Reasearch di Banca Monte dei Paschi di Siena. Lo studio, presentato al Primo Forum Montepaschi sul vino italiano, è stato condotto tramite una serie di questionari e interviste con aziende produttrici.
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Produzione stabile, ma cresce la qualità Sia in termini di quantità, che di qualità, la produzione della vendemmia 2010 è stata giudicata uniforme al 2009, anche se la situazione varia a seconda delle aree geografiche e all’interno delle stesse regioni. Non dimentichiamo che il nostro paese, con circa 45 milioni di ettolitri, il massimo produttore con la Francia, copre il 17 per cento della produzione mondiale e circa il 28 per cento di quella europea. Cresce anche la qualità, con circa il 60 per cento 10
L Il pubblico presente al forum
dei raccolti destinati alla produzione di vini Doc, Docg e Igt. Per un giro d’affari stimabile intorno ai 13,5 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti circa 2 miliardi di indotto, per una quota che supera l’1 per cento del Pil nazionale. Fatturati in crescita nel 2011 grazie all’export In termini di fatturato, per il 2011 si prospetta un aumento per la maggior parte degli intervistati su livelli inferiori al 5 per cento, ma per circa il 15 per cento dei produttori addirittura sopra al 10 per cento. Grasso che cola, dopo mesi di magra. La crescita del fatturato ipotizzata è dovuta principalmente a un aumento dei volumi, anche se un terzo degli inter-
L La tavola rotonda al 1° Forum Montepaschi sul vino italiano
vistati prevede anche una crescita lieve dei prezzi. Quasi la totalità delle aziende produttrici si aspetta un ulteriore balzo in avanti dell’export, con una crescita tra il 5 per cento e il 10 per cento, e anche oltre per i più ottimisti. Questo grazie alla consapevolezza che i consumi di vino nei paesi emergenti continuano a crescere in controtendenza a quelli italiani. In Asia la crescita aumenta a una velocità pari a quattro volte quella media mondiale. Noi siamo scesi ai 40 litri pro capite dopo i 120 litri degli anni Settanta. Il cauto ottimismo deriva dal fatto che i primi segnali positivi si sono evidenziati già nei primi sette mesi del 2010, dove il vino made in Italy è cresciuto del 4 per cento in volume e del 7 per cento in valore. Con 3,5 miliardi di euro rappresenta la prima voce dell’export alimentare nazionale, con un’incidenza sul fatturato del settore vino in generale di circa il 45 per cento. Principale mercato di sbocco sarà sicuramente la Cina che, secondo stime dell’Area Reasearch di Banca Mps (BMPS), ha più che raddoppiato l’import di vino italiano con un incremento in valore del 105 per cento. Secondo lo studio, i produttori punteranno molto anche sui mercati del Nord Europa e sulla Svizzera. Usa e Germania si confermano mete positive, mentre la Francia risulta il paese meno indicato su cui puntare. Queste attese naturalmente saranno influenzate dalla stabilità-instabilità dell’economia mondiale e dall’oscillazione del cambio eurodollaro.
Canali distributivi: cresce la grande distribuzione organizzata (gdo) Per quanto riguarda i canali distributivi, continua la crescita del peso della Gdo, ormai prossima al 50 per cento delle vendite complessive di vino in Italia. Questo grazie all’upgrading dell’offerta, alla facilità di accesso e forse anche per la maggiore certezza e velocità nei pagamenti. Una buona opportunità è rappresentata dalle enoteche e dai wine bar, soprattutto per prodotti di elevata qualità. In crescita anche la vendita diretta nelle cantine, sia private che sociali, soprattutto da chi pratica l’enoturismo. Criticità da risolvere: promozione-commercializzazione del vino Dopo aver elencato le buone notizie, non si possono però non menzionare alcune delle criticità che da tempo ormai attanagliano il mondo del vino. A cominciare dal basso rapporto ricavi-costi, dovuto principalmente alla frammentazione dei produttori (oltre 400 mila con una superficie media di 1,5 ettari). Concetto ribadito dallo stesso ministro delle Politiche Agricole e Forestali, Giancarlo Galan, presente al Forum di Siena. «Sono entusiasta e preoccupato. Il mondo comincia a produrre vino in paesi che mai ti saresti aspettato e noi siamo troppo piccoli, sette ettari la media di una nostra azienda e non mi riferisco a sette ettari a Brunello. Sette ettari sono un quinto della superficie media di un’azienda france11
Vino e finanza L Indici di competitività MPS, la correlazione con il principale future internazionale
se» ha ricordato Galan, «e questo comporta incapacità a essere presenti su un mercato in forte trasformazione. Le aziende vitivinicole italiane scontano il problema di essere piccole (se non micro) imprese e non hanno spesso le risorse economiche per azioni di marketing importanti». Altre questioni rilevanti sono la debolezza nella fase di promozione-commercializzazione, la riduzione dei consumi interni dovuta anche all’alcol test, l’accesso ai mercati esteri e l’utilizzo di alcune tecniche produttive consentite, ma non condivise da tutti, come l’uso di zuccheri per aumentare la gradazione alcolica. Fino alle grane che arrivano direttamente da Bruxelles, come la futura liberalizzazione nell’impianto dei vigneti prevista dal 2015 e la normativa europea delle organizzazioni comuni dei mercati (Ocm) vino. Anche su questo si è espresso il ministro Galan: «La nuova politica agricola comune (Pac) sarà il contesto di riferimento, sapendo che sempre meno saranno le risorse nazionali destinate all’agricoltura. Attualmente dalla Pac alla filiera vitivinicola giungono ogni anno non meno di 500 milioni di euro. Si tratta di risorse vitali, di ossigeno che dobbiamo difendere in ogni modo. Il futuro passa dall’Europa. Dal 2015 l’Ocm vino prevede la liberalizzazione degli impianti viticoli» ha dichiarato Galan, «e questo apre una nuova minaccia. Si discuterà e si lavorerà nei prossimi anni per valutare la possibilità di proroga di tale termine ai sensi del regolamento Ue, ma occorre comprendere che il sistema nazionale dovrà essere in grado di crescere e svilupparsi anche in un quadro di impianti liberalizzati. Per raggiungere questo obiettivo» ha ammonito il ministro delle Politiche Agricole e Forestali, «la strada obbligata è quella della qualità. Solo sviluppando ulteriormente i mercati esteri per i nostri prodotti Docg, Doc e Igt, avremo la certezza di non subire contraccolpi dalla liberalizzazione degli impianti e dalla globalizzazione dei mercati. E sono certo che la nostra filiera vitivinicola abbia tutte le carte in regola per vincere questa sfida». Banche-imprese: via libera ai finanziamenti Oltre a fare sistema è necessario assolutamente che 12
il credito bancario accompagni gli imprenditori lungo tutta la filiera produttiva: dall’impianto del vigneto, alla costruzione della cantina, fino alla promozione e commercializzazione del prodotto. C’è da dire che, al contrario di altri settori produttivi, il sistema bancario ha garantito finanziamenti all’intera filiera agroalimentare. I prestiti sono addirittura aumentati, più 4,5 per cento a settembre 2010, rispetto a giugno 2010, e più 1,9 per cento su base annua. Contro rispettivamente il più 1,1 per cento e il più 1,7 per cento del totale dei settori produttivi (stime Banca Mps). Questo grazie a un tasso di rischio più basso nel comparto agricolo. Un nuovo indice per anticipare gli andamenti dei mercati Per gli addetti ai lavori in futuro sarà più facile prevedere l’andamento dei mercati e dei prezzi. Basterà, infatti, monitorare il nuovissimo indice Mps Wine. Un indice di competitività, elaborato dell’Area Research di Banca Mps, calcolato come prezzo medio ponderato di quasi cento Vini di qualità prodotti in regioni determinate (VQPRD) e vini da tavola. I prezzi presi a riferimento sono i prezzi all’origine, forniti dall’Ismea per i vini di qualità e i vini comuni. Dopo la forte contrazione registrata nel 2009 (meno 18,8 per cento), nei primi otto mesi del 2010 l’indice conferma una sostanziale stabilità sui livelli di dicembre 2009. Da notare l’elevata correlazione che l’Mps Wine Index mostra con il future Live-ex Fine Wine 100 Index, il principale benchmark dell’industria mondiale del vino. A ulteriore conferma di come gli andamenti dei prezzi dei vini italiani seguono da vicino l’evoluzione dei prezzi a livello internazionale. Il Live-ex Fine Wine 100 Index rappresenta anche un buon anticipatore dell’indice Bmps con un lag temporale di circa 3-6 mesi. Il recupero registrato dal future negli ultimi mesi è un segnale incoraggiante per l’andamento dei prezzi dei vini italiani nei mesi prossimi. È possibile considerare questo indice un affidabile anticipatore dei diversi trend di mercato? «Nel terzo trimestre del 2009» spiega Lucia Lorenzoni, Servizio Area Research Banca Mps, e una delle per-
Un giudizio qualitativo sulla vendemmia 2010 Rispondono tre dei principali produttori vinicoli del nostro paese (uno per area geografica).
Che 2011 sarà per il vino e per le vostre aziende?
Ernesto Abbona, presidente Marchesi di Barolo: «Nelle Langhe, agosto è stato caratterizzato da tempo cupo e poco soleggiato. Questo non ha favorito la maturazione dei frutti. Soprattutto per le uve a maturazione veloce, Moscato e Dolcetto, si è dovuto posticipare di venti giorni. Per le uve a maturazione tardiva, Barbera e Nebbiolo, non c’è stata grande umidità nel periodo autunnale, quindi l’uva è maturata perfettamente, garantendo frutti più equilibrati e aromi più sviluppati».
«Chiuderemo il 2010 con un più 14 per cento sul 2009. Per quanto riguarda i mercati esteri, negli Usa la crisi si è incancrenita sopratutto nella West Coast. C’è invece un riscontro positivo nel Nord Europa, bene in Estremo Oriente. In particolare stiamo lavorando molto con le Maldive, dove riforniamo con i nostri vini dieci resort di lusso. In Italia non siamo in crescita, ma da qualche anno stiamo facendo una cauta sostituzione di clientela spostandoci verso i piccoli gruppi di distribuzione».
Sergio Zingarelli, presidente Rocca delle Macie: «Quella del 2010 è stata sicuramente una vendemmia impegnativa in tutta Italia e anche in Toscana. Noi siamo riusciti a portare in cantina uve sane, mature e con una buona concentrazione zuccherina e polifenolica. Nonostante un leggero calo quantitativo, questa vendemmia darà sicuramente grandi risultati nei vini che verranno».
«Rispetto al 2009 la ripresa c’è stata sicuramente e per noi l’aumento di fatturato si aggira intorno al 10 per cento, grazie soprattutto all’aumento di vendite all’estero. Per il 2011 prevediamo aumenti in linea con il 2010, puntando anche alla ripresa del mercato italiano».
José Rallo, titolare di Donnafugata: «È stata un’annata particolarmente fresca con una piovosità che si è protratta sino all’ingresso dell’estate. Questo particolare andamento climatico ha rallentato i processi di maturazione. Complessivamente le uve raccolte sono in quantità leggermente inferiore alla media degli ultimi anni. Da molto buona a ottima è la qualità raggiunta ai fini della vinificazione: i bianchi hanno finezza aromatica e freschezza; i rossi presentano buona struttura ed equilibrio; il passito di Pantelleria sarà particolarmente ricco e complesso».
«A nostro avviso le maggiori criticità che il vino dovrà affrontare nel 2011 sono l’estrema competizione, il cambiamento di abitudini al consumo del vino e l’oscillazione della valuta. Per il futuro la nostra azienda continuerà a investire nella costruzione del brand per creare e rafforzare il rapporto con i consumatori».
sone che ha realizzato questo indice, «ad esempio l’Mps Wine Index registra una contrazione media ponderata di quasi il 20 per cento, dopo che nel trimestre precedente il future (Live-ex) aveva registrato un calo del 18 per cento a/a (vedere grafico). Questo evidenzia che in un mondo globalizzato le tendenze di prezzo sono le stesse. Non esistono più mercati protetti». Rete d’impresa come soluzione ai problemi? Per risolvere il problema della promozione-commercializzazione del vino, si evidenzia la necessità di iniziative progettuali legate soprattutto al passaggio
finale della filiera vitivinicola. Proprio per questo si sta registrando un forte interesse per il nuovo modello organizzativo della rete di impresa, che prevede tra l’altro anche incentivi fiscali. «In tal senso» spiega Stefano Cianferotti, responsabile Area Research Banca Mps, «assumono particolare significato le capacità progettuali di cui gli attori istituzionali, gli organismi di categoria e il mondo del credito devono essere portatori per fare sistema e supportare imprese vitivinicole, filiere e territori, coniugando valori locali e dinamiche di un contesto sempre più caratterizzato da eccessi di capacità produttiva, riduzione dei consumi domestici e globalizzazione dei mercati». 13
Mercati
Doc Bolgheri, una questione di principio
14
di Cesare Pillon
CI
SONO FAUTORI E CONTRARI AL
CAMBIAMENTO DEL DISCIPLINARE ED ENTRAMBI HANNO
RAGIONE.
I
PRIMI
PERCHÉ VOGLIONO CHE ANCHE I VINI MONOVARIETALI VENGANO IDENTIFICATI CON IL TERRITORIO DI
BOLGHERI,
I SECONDI
PERCHÉ SUI MERCATI ESTERI IL NOME DEI
VITIGNI, CABERNET
SAUVIGNON O MERLOT, PREVARREBBE SUL TOPONIMO
L In Italia si è maestri nel creare percorsi complicati anche con il vino
on è certo la prima volta che in Toscana scoppia una polemica a proposito della composizione ampelografica di un vino. Vi succede più spesso che altrove per due buoni motivi: il primo è che in Toscana il tasso di litigiosità è piuttosto elevato, il secondo è che questa regione è patria di guelfi e ghibellini anche in campo vitivinicolo, fanatici i primi del Brunello di Montalcino, uno dei più prestigiosi vini monovitigno, fatti cioè con una sola qualità d’uva, ultrà i secondi del Chianti, che è il più celebre vino italiano derivato dal taglio di parecchie varietà. A offrire il pretesto perché si acuisse la disputa fra tifosi del mono e del polivitigno è stato il progetto di modificare la Doc Bolgheri, nata come rosso d’assemblaggio, per includervi anche quei vini che scaturiscono da uno solo dei vitigni previsti per il suo blend. Tutto qui? La prima impressione, per gli estranei alla vicenda, è che si tratti di una diatriba di provincia piuttosto insulsa, ma non è affatto così. Al contrario, ciò che si sta dibattendo in questo momento nella Maremma livornese è qualcosa che va molto al di là della Doc Bolgheri. È una questione di principio che riguarda la percezione del vino italiano nel mondo e non solleva soltanto problemi di comunicazione, anzi, coinvolge lo stesso profilo del vino italiano, la sua essenza, la sua filosofia. Dal momento che questo dibattito potrebbe avere ripercussioni tanto importanti, sarebbe sbagliato disinteressarsene. Anche perché stavolta, fortunatamente, lo scontro di idee ha la possibilità di svol-
N
gersi sul piano concettuale, senza essere condizionato (e avvelenato) dall’incubo di indagini giudiziarie, com’era accaduto nel 2008 a proposito del Brunello di Montalcino. Vale anzi la pena di sottolineare che il tema del confronto oggi in atto a Bolgheri è esattamente l’opposto di quello dibattuto tre anni fa a Montalcino. Come si ricorderà, la questione era nata allora da uno scandalo provocato dall’illecita aggiunta di Merlot e Cabernet al Brunello, in violazione del disciplinare, che prevede quel vino composto esclusivamente da Sangiovese in purezza. In sostanza, nel 2008 si trattava di avallare o condannare il tentativo clandestino di trasformare un vino di monovitigno in vino d’assemblaggio, mentre a Bolgheri si sta oggi discutendo se includere ufficialmente oppure no, sotto l’etichetta di un vino d’assemblaggio, anche le sue varianti monovitigno. Ma per capire fino in fondo quanto diversa sia la natura dei due casi bisogna tener conto della profonda differenza che esiste, nell’immaginario collettivo, tra i vini che ne sono protagonisti. Tratto da un solo tipo d’uva, il Brunello di Montalcino viene percepito dai suoi estimatori come un cavallo di razza, frutto di una rigorosa selezione genetica. Se poi, come nel suo caso, la razza dell’uva da cui è ricavato si chiama Sangiovese, che è forse la più autoctona delle varietà autoctone italiane, chi si azzarda a miscelarla con grappoli che battono bandiera francese rischia di apparire non solo antipatriottico ma anche sacrilego. 15
Mercati L Vigneti a Bolgheri
È giusto condannare il suo comportamento illegale, ma non è un po’ esagerato considerarlo addirittura un profanatore? Forse sì, però bisogna ammettere che è legittimo irritarsi quando per la miscela con il Sangiovese si usano uve di Cabernet o di Merlot, ma non perché sono bordolesi: queste due varietà hanno infatti una personalità organolettica molto pronunciata e marchiano il vino con le loro caratteristiche, colore, profumo e sapore, anche quando la loro partecipazione è in percentuale limitatissima. Autorizzare ufficialmente questa miscela, come aveva ipotizzato qualcuno allora, significherebbe perciò stravolgere la fisionomia del Brunello di Montalcino: anche chi è convinto che in questo modo diventerebbe più facilmente smerciabile all’estero, non potrebbe negare che sarebbe diverso. Il Bolgheri, invece, non potrà mai diventare oggetto di scandalo per i puristi del patriottismo ampelografico per il semplice fatto che è nato meticcio: insieme al Cabernet e al Merlot, che lo caratterizzano, il disciplinare autorizza infatti il concorso del Sangiovese, fino a un massimo del 70 per cento (anche se questa possibilità è poco sfruttata). Il suo problema è un altro e deriva dal fatto che il territorio bolgherese ha scoperto solo una sessantina d’anni fa quale fosse la sua autentica vocazione enoica, quali fossero i vitigni che meglio vi si esprimono e proprio per questo non ha ancora individuato in ogni dettaglio le proprie potenzialità. Queste potenzialità, tanto ramificate da non essere ancora state esplorate tutte, sono scaturite da una geniale intuizione del marchese Mario Incisa della 16
Rocchetta, un gentiluomo piemontese che nel 1943, rifugiatosi dopo l’armistizio dell’8 settembre nella vasta tenuta ereditata da sua moglie Clarice della Gherardesca, ebbe l’idea di produrre sulle colline sassose della costa livornese un vino di classe pari a quella dei più famosi Bordeaux, i vini preferiti dall’aristocrazia italiana di allora. Incisa apparteneva a una famiglia che da secoli praticava la vitivinicoltura a Rocchetta Tanaro, nell’Astigiano, ma fino a quel momento si era dedicato a tutt’altra passione: nel 1930 aveva creato con Federico Tesio la scuderia di galoppo più prestigiosa d’Italia, la Dormello-Olgiata, e allevava cavalli che sono entrati nella storia dell’ippica, da Nearco a Ribot. Tuttavia aveva idee chiare anche su come si crea un vino di pregio: dagli amici Salviati, duchi di San Rossore, che avevano importato dal Bordolese vitigni di Cabernet Sauvignon, si fece dare le marze necessarie e nel 1944 realizzò un primo vigneto. Da quelle sperimentazioni è nato il Sassicaia, il primo grande rosso della moderna enologia italiana, un vino d’avanguardia che forse proprio per questo ha faticato non poco a farsi strada. Ma da quando, nel 1978, a una degustazione cieca svoltasi a Londra si piazzò primo davanti ai trentatre migliori Cabernet Sauvignon del mondo, è diventato un mito. E se lo merita: ha evidenziato la capacità di adattamento di un vitigno francese che in tutta Italia, ma soprattutto in Toscana, avrebbe poi dato straordinari risultati; ha sperimentato le intriganti possibilità della barrique con un quarto di secolo d’anticipo e oggi è il vino italiano che alle aste internazionali raggiunge
le quotazioni più alte. La Doc Bolgheri gli è stata cucita addosso nel 1983 (con la specificazione Sassicaia, di cui detiene ovviamente l’esclusiva) per impedire che andasse ancora in giro per il mondo spogliato d’ogni denominazione, nudo vino da tavola, come aveva fatto fino a quel momento. Ma quell’operazione di sartoria, praticata come ripiego, si è dimostrata inaspettatamente lungimirante: trainata dal suo prestigio, la Doc Bolgheri ha ottenuto crescenti successi incoraggiando sempre nuove iniziative imprenditoriali. Nel comune di Castagneto Carducci, di cui Bolgheri fa parte, si è innescato un processo di proliferazione virtuosa grazie al quale le aziende vitivinicole di qualità oggi segnalate dalle guide dei vini sono almeno quaranta. Può sembrare paradossale, ma sta di fatto che le motivazioni dell’attuale contesa sono state determinate proprio dall’eccesso di successo del territorio. A imporsi sul mercato, e non solo su quello italiano, non sono stati infatti soltanto i vini che possono fregiarsi della Doc Bolgheri, come l’Ornellaia, il Grattammacco o il Guado al Tasso, ma anche rossi di monovitigno, come il Paléo (Cabernet Franc), lo Scrio (Syrah) e il Masseto (Merlot), tanto per citare i più noti: tipologie che non essendo previste dal disciplinare della Denominazione d’origine controllata hanno dovuto ripiegare su una Indicazione geografica tipica: l’Igt Toscana. L’idea di modificare il disciplinare della Doc è nata nel momento in cui il Masseto si è conquistato una tale fama, nel mondo intero, da ottenere alle aste quotazioni sempre più simili a quelle del Sassicaia, di cui si propone ormai come il più legittimo successore. E a molti sembrerebbe assurdo che in quel caso il rosso forse più significativo di Bolgheri comparisse senza il nome di Bolgheri in etichetta. Tra l’altro, la modifica da apportare al disciplinare di produzione non comporterebbe revisioni di principio né correzioni di rotta, visto che la Doc in questione riconosce già oggi i monovitigno: accanto al Bolgheri Bianco è regolamentata infatti la produzione del Bolgheri Sauvignon e del Bolgheri Vermentino. Si tratterebbe semplicemente di applicare la stessa formula anche al Bolgheri Rosso. Come si spiega allora la formazione di una consistente schiera di oppositori a un’operazione apparentemente così saggia, equilibrata e lungimirante? Si spiega con una motivazione che merita d’essere attentamente meditata. Chi è contro il progetto sostiene infatti questa tesi: il Bolgheri Rosso non è un vino da taglio per caso, chi ha scelto deliberatamente di produrlo ha inteso far prevalere il territorio, cioè Bolgheri, sul vitigno, Cabernet, Merlot, Syrah
Mercati o Sangiovese che sia. Includere nella denominazione i rossi monovarietali costringerebbe a denunciare il nome dei vitigni in etichetta e indebolirebbe perciò il rigore di questa impostazione, oltre a confondere le idee al consumatore. È curioso però che anche i favorevoli al cambiamento del disciplinare siano convinti di soddisfare la stessa esigenza: esaltare il territorio. È vero che a dar fama a Bolgheri sono stati i blend di Cabernet e Merlot, ammettono, ma includendo nella denominazione anche i Cabernet e i Merlot in purezza di rilevanza internazionale oggi targati Igt Toscana, non si indebolirebbe la Doc, tutt’altro: loro sono sicuri che si rafforzerebbe invece il messaggio di qualità di Bolgheri. Messa in questi termini, tuttavia, la controversia non sembra avere sbocchi condivisibili: sia gli uni che gli altri hanno infatti ragione e allo stesso tempo hanno torto. Hanno ragione coloro L Vigneti a Montalcino che intendono modificare la Doc perché vogliono che anche i vini monovarietali vengano identificati con il magico territorio di Bolgheri, ma ha ragione chi vi si oppone perché sui mercati esteri il nome dei vitigni, Cabernet Sauvignon o Merlot, che tutti conoscono, prevarrebbe fatalmente sul toponimo Bolgheri, che conoscono solo i cultori di Giosuè Carducci. E allora? E allora forse varrebbe la pena di riflettere sul modo in cui i francesi hanno affrontato il problema, loro che al terroir ci credono fino in fondo e sull’etichetta dei loro vini di pregio si sono sempre guardati bene dall’indicare il nome dei vitigni, anche quando il vitigno è uno solo come il Pinot Noir e la zona d’origine ha la vastità della Borgogna. C’è da
chiedersi: come hanno fatto a far coesistere sotto la stessa Appelation d’origine contrôlée, Bordeaux, vini d’assemblaggio come Château Latour e vini monovarietali come Pétrus, senza provocare nessuna crisi d’identità? La risposta è molto semplice: a stabilire la differenza, per loro, non è il vitigno ma il cru: una volta chiarito quali sono le varietà d’uva con cui è consentito fare il vino in una determinata zona (varietà scelte perché sono quelle che hanno dato i migliori risultati), i disciplinari delle loro Aoc lasciano liberi i produttori di decidere quali usare e in quale quantità. La normativa italiana è molto più impicciona e pignola, fissa paletti, pone lacci e lacciuoli. Basterebbe eliminare dal disciplinare le percentuali imposte per ogni varietà d’uva e la Doc Bolgheri potrebbe raccogliere sia i rossi di polivitigno sia i monovarietali senza chiedere di denunciare in etichetta con quale uva sono fatti. Certo, per distinguere gli uni dagli altri sarebbe necessario che ciascuno si presentasse al mercato con il nome del cru, cioè della vigna che gli ha dato vita. È facile prevedere che questa soluzione non verrà adottata. I motivi sono due: è una soluzione troppo semplice per un paese complicato come il nostro e poi è frutto di una scelta radicale a favore del territorio che escluderebbe la menzione del vitigno in etichetta. E gli italiani non amano precludersi nessuna strada. Sarà perciò ancora più interessante vedere come andrà a finire la vertenza bolgherese: fornirà un’importante indicazione sul modo in cui il vino italiano intende presentarsi al mondo.
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Degustazioni
Vini d’Elba: mare, terra e sole
nel bicchiere
di Franco Ziliani iccolissima anche se storica visto che veniva già praticata fin dal tempo della dominazione etrusca ed era fiorente anche in epoca medievale, quando il vino, attraverso Pisa, veniva esportato in tutta la Toscana, la produzione vitivinicola di quell’isola assolutamente incantevole che è l’Elba. Una viticoltura che venne addirittura regolamentata dal Granduca Leopoldo di Lorena. Una viticoltura “di testimonianza” molto lontana, per dimensioni, dal periodo tra il XIX e il XX secolo, quando rappresentava una grande risorsa per l’economia elbana, con un quarto circa della superficie totale dell’isola destinata a vigneti. E lontana anche da quello che era negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, quando il paesaggio elbano era molto diverso dall’attuale, e i caratteristici terrazzamenti a vigneto ricoprivano le pendici dei colli fino ad oltre 300 metri d’altezza. Lo sviluppo del turismo ha sottratto progressivamente spazio alla viticoltura e oggi, quando larga parte dei terrazzamenti sono stati conquistati dalla macchia o dai boschi o sono stati cancellati dalle costruzioni, la superficie vitata, secondo le valutazioni del Consorzio vini Elba, che rappresenta circa il 70% dell’uva prodotta e vinificata sull’isola, si è ridotta a circa 250 ettari, di cui 161 iscritti all’Albo Doc, istituito nel 1967. E verrebbe da aggiungere anche Docg, visto che è di novembre la notizia che l’Elba Aleatico passito Docg o Aleatico passito dell’Elba ha ricevuto il riconoscimen-
P
to della Docg, l’ottava in Toscana. Larga parte della Doc è relativa alle due tipologie principali, Elba Bianco (62 ettari), che si ricava da uve Trebbiano toscano (localmente conosciuto come procanico) per almeno il 50%, Ansonica e Vermentino, da soli o congiuntamente fino a un massimo del 50% ed Elba Rosso (49 ettari) che si ottiene da uve Sangiovese per almeno il 60% e altre uve autorizzate per un massimo del 40% se rosse e 10% se bianche. Dieci ettari riguardano l’Elba Ansonica (per il Rosso riserva stesse uve del Rosso, ma con un invecchiamento non inferiore ai 24 mesi) e una quarantina il vitigno e vino simbolo, con l’Ansonica, dell’Elba, l’Aleatico, da cui si ottengono, con la pratica dell’appassimento, vini da dessert, meditazione, fine pasto, di straordinaria personalità. Una produzione, quella dell’Elba, molto particolare, che abbina una giusta ispirazione localistica, tesa alla valorizzazione delle uve storiche dell’isola, Aleatico e Ansonica, uva che data la notevole consistenza della sua buccia può essere lasciata a lungo a maturare in pianta o addirittura sottoposta a tecniche di vinificazione che prevedono brevi macerazioni sulle bucce, e un’ispirazione che definirei toscana, data dall’uso di uve, il Trebbiano toscano (o Procanico) per l’Elba Bianco, il Sangiovese per l’Elba rosso, diffuse un po’ in tutta la regione. Sta prendendo progressivamente piede anche l’uso del Vermentino, in purezza e non, e di alcune varietà internazionali utilizzate per le Igt, Merlot, ma anche e soprattutto Syrah,
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Degustazioni
Grenache, Carignano, ma non è lecito pensare a stravolgimenti dell’attuale impostazione. E i vini come sono? Per averne un’idea più chiara a fine ottobre ci siamo recati alcuni giorni all’Elba e grazie alla preziosa collaborazione del Consorzio vini dell’Elba, del suo presidente Marcello Fioretti, oltre che di Antonio Arrighi, viticoltore, ma anche uomo Ais all’Elba, nonché di un’elbana di adozione, Elisabeth Poletti, ambasciatrice del Franciacorta in Polonia, che ha organizzato e coordinato con grande professionalità ogni cosa e fatto da tramite con il Consorzio (un grazie sentito a tutti), abbiamo potuto visitare una serie di aziende e fare un’ampia degustazione di oltre cinquanta vini delle diverse tipologie. Degustazione di cui potete leggere di segui-
to le impressioni e valutazioni. Una cosa è certa: i migliori vini dell’Elba presentano un carattere spiccatamente isolano, mix di salinità, mineralità, nerbo, dei profumi che mettono insieme il mare e la macchia mediterranea ed il sole, assolutamente affascinante. Vini che meritano di essere conosciuti non solo quando si viene in vacanza in questa stupenda isola, ma anche in giro per l’Italia. Per maggiori notizie sulle aziende ed i loro vini si consiglia la consultazione del sito Internet Bacco sull’Elba – http://www.baccosullelba.it/ – e del lavoro dettagliato di degustazione dei vini – http://www.baccosullelba.it/Portals/0/Baccosullelba2008_1.0a.pdf – realizzato dal sommelier bresciano Davide Bonassi.
LA DEGUSTAZIONE ELBA BIANCO Elba Bianco 2009 Acquacalda
Colore paglierino intenso-oro di bella brillantezza e vivacità. Naso abbastanza neutro e ben secco, con accenni di fiori bianchi, fieno, lievi accenni agrumati. La bocca è decisamente secca, con bel nerbo e sale, con acidità ben calibrata. Vino verticale nervoso con una buona componente minerale e finale su nota di mandorla: tecnicamente impeccabile ma non di grande personalità. Elba bianco 2009 Mola
Colore paglierino oro con leggera ramatura, naso con leggeri accenni di miele d’acacia e fiori bianchi e note di frutta surmatura, pesca albicocca prugna gialla, un po’ molle e carente di nerbo. Bocca molto neutra, con una certa dolcezza di frutto, note di mandorla e nocciola, acidità viva: un po’ semplice manca un po’ di definizione e articolazione. Elba bianco 2009 Acquabuona
Paglierino verdognolo di bella luminosità: naso sapido nervoso ben definito con nerbo salino. Note di fieno, fiori bianchi, frutta secca, leggera nota agrumata, bocca molto diritta, piena di sale con acidità che spinge. Una buona verticalità e un certo dinamismo non ha grande complessità ma buona piacevolezza viva e nervosa. Elba bianco 2009 Arrighi
Colore paglierino oro verdognolo di bella luminosità, naso interessante con una bella espressione agrumata, un bel frutto vivo e succoso, note di fiori bianchi e fieno e leggera vena di anice e finocchio per un insieme di bella fragranza e vivacità. Bocca viva, nervosa, con una buona ampiezza e articolazione, gusto ben secco deciso, con vena di mandorla e liquirizia sul finale. Elba bianco 2009 Sapereta
Paglierino verdognolo di bella intensità e vivacità, naso abbastanza articolato, intrigante, con note di fiori secchi, fieno, frutta secca, una leggera vena di miele e buccia di cedro con una certa fragranza e un buon sale, bocca di buona costruzione, ben secco, asciutto nervoso con un’acidità che spinge e una bella componente salata minerale nervosa. Vino più verticale che ampio, ma con una bella persistenza e una chiusura su una nota di mandorla. 20
VERMENTINO Elba Vermentino 2009 Acquacalda
Bellissima intensità di colore, paglierino oro, naso poco espressivo con una piccola espressione aromatica: frutta matura, accenni di pesca, albicocca, frutta esotica, una leggera vena agrumata, miele, fiori bianchi, biancospino di bella fragranza, ampiezza e piacevolezza, bocca di interessante equilibrio e buona dolcezza di frutto, retrogusto di mandorla, buccia d’agrumi con una bellissima vena salata e accenni minerali, bella la persistenza e il nerbo. Elba Vermentino 2009 Acquabuona
Paglierino verdolino di non grande intensità, con lucentezza metallica. Naso neutro, con poca espressione aromatica: lievi accenni minerali di pietra focaia e una vena di nocciola fresca, bocca che trova il suo meglio nella componente sapida acida nervosa ben bilanciata verticale. Frutto piccolo, ma il vino ha una piacevolezza e un carattere semplice, preciso, pieno di energia che non dispiace. Elba Vermentino 2009 Arrighi
Paglierino verdognolo brillante, mostra un bel naso varietale con note di frutta candita, agrumi, biancospino, miele. Bocca abbastanza ampia, salda ben costruita: manca un po’ di tensione e slancio e tende ad avere una sola dimensione con un finale leggermente amaro.
ANSONICA Elba Ansonica 2009 Acquacalda
Paglierino oro di bella intensità e brillantezza, naso compatto maturo, ben secco, con note di frutta matura (pesca e albicocca), fiori bianchi, ginestra, miele d’acacia mandorla e nocciola tostata. Al gusto è largo, pieno, succoso, di bella ampiezza e articolazione, avvolgente con una componente fruttata ben espressa, lunga persistenza e finale su note di liquirizia anice e mandorla, con una bella acidità incisiva. Elba Ansonica 2009 Mola
Paglierino oro con riflessi ramati, naso caldo, maturo ben secco, con accenni di anice, liquirizia, leggera tostatura e caramello, bocca ampia salda ben costruita, manca di nerbo e freschezza e tende ad asciugare sul finale. Elba Ansonica 2009 Acquabuona
Paglierino scarico verdognolo, naso sapido nervoso minerale (pietra focaia) con note di fiori bianchi e mandorla non di grande ampiezza ma precise, incisive, salate. Bocca sottile, nervosa incisiva, “diritta”, con un’acidità importante che spinge. Vino non di grande ampiezza ma preciso, pieno di energia con una componente minerale molto evidente Elba Ansonica 2009 Agricoop
Bellissima vivacità di colore, brillante luminoso, naso ben secco, solare, mediterraneo, con fiori bianchi secchi, agrumi, albicocca candita, frutta secca, miele e una bella componente petrosa. Bocca ben secca, asciutta diritta, incisiva, il vino ha salda costruzione nerbo acido-sapido, vivo, nervoso, con una vena di mandorla salata lunga scattante di grande energia molto piacevole e persistente. Elba Ansonica 2009 Montefico
Paglierino oro intenso, naso caldo compatto, maturo quasi macerativo, con una vena di liquirizia, fiori secchi, lavanda miele e frutta secca molto personale. Piuttosto ampio succoso al gusto, largo, caldo, di salda costruzione. Un bianco con la materia e la pienezza di un rosso molto pieno, asciutto, con una persistenza lunga e piena: ha carattere saldo manca un po’ di freschezza. 21
Degustazioni
Elba Ansonica 2009 Sapereta
Paglierino oro brillante pieno di riflessi luminoso, naso compatto, complesso, intrigante, solare e mediterraneo, un bel mix di fiori secchi, frutta candita, agrumi, macchia mediterranea, accenni di leggera speziatura e qualcosa di zafferano. Bocca asciutta, composta, ampia e strutturata, ha l’intensità e la stoffa il calore di un rosso, una persistenza ampia e lunga, un carattere secco che riempie la bocca.
ELBA ROSATO Elba rosato 2009 Mola
Cerasuolo scarico, buccia di cipolla, sangue di piccione, non di grande intensità, ma con una bella lucentezza. Naso succoso, con note di fragola, ribes, lampone e una leggera vena floreale, di buona pulizia e fragranza. Bocca di buona struttura, ben secco senza tentazioni dolciastre, con una presenza del frutto succosa, piacevole e una buona freschezza finale. Elba Rosato 2009 Acquabuona
Color buccia di cipolla cerasuolo scarico non di grande intensità, naso molto asciutto vinoso, secco con una piccola espressione fruttata (più ciliegia che ribes) e accenni di rosmarino e rosa. Bocca con buona compattezza e ricchezza di frutto, molto rotondo, equilibrato, piacevole, con una bella vena acida finale e una vena di mandorla ben precisa. Elba rosato 2009 La Chiusa
Cerasuolo corallo di notevole intensità e brillantezza, naso intensamente fruttato e succoso (ciliegia, ribes, lampone, un accenno di fragola) e sfumature di erbe aromatiche e fiori. Bocca larga piena succosa, con una buona dolcezza del frutto ma con un finale leggermente sbilanciato, con accenni geraniosi verdi e una certa quale astringenza e durezza. Elba rosato 2009 Agricoop
Cerasuolo scarico - sangue di piccione, naso molto secco, compatto, preciso, di non grande fragranza con una componente vinosa ben evidente. Bocca fresca viva, bilanciata, con una grazia e un sale e un nerbo che non apparivano nei profumi, bella lunghezza e persistenza verticale molto piacevole. Elba rosato 2009 La Fazenda
Cerasuolo corallo rubino scarico di bella intensità e brillantezza, naso con nitida espressione fruttata (ciliegia, ribes, lampone) di una certa succosità e polpa. Bocca un po’ contratta con una certa durezza e una componente tannica aggressiva e verde, non di completo equilibrio. Molto secco, manca un po’ di finezza. Elba rosato 2009 Sapereta
Cerasuolo scarico, naso di bella fragranza e pulizia, con note di ribes, lampone e accenno di ciliegia, sfumature di erbe aromatiche, rosa, ginestra, lavanda in evidenza, con freschezza, vivacità, indubbia eleganza e sale. Bocca ampia, succosa con bellissima polpa: largo, pieno, persistente con una bella vena acida e una salda costruzione. Finale con nerbo ed energia.
ELBA ROSSO Elba rosso 2009 Agricoop
Colore rubino violaceo di bella intensità e brillantezza, naso intensamente vinoso di bella fragranza pulizia ed immediatezza, note di ciliegia, macchia mediterranea, leggera pepatura, ginepro, accenni terrosi sapidi minerali. Bocca molto semplice, sapida, con un frutto piccolo ma ben espresso, non ha grande ampiezza ma bel nerbo e sale, persistenza media ma precisa. Elba rosso 2009 La Fazenda
Rubino violaceo di bella vivacità, naso con qualche riduzione e mancanza di precisione, note selvatiche, animali leggermente rustiche. Bocca molto semplice, con vino-sità accentuata, qualche durezza tannica. Vino piuttosto asprigno e nervoso con una sua certa rusticità piacevole, ma non di grande ampiezza e costruzione. 22
Elba Rosso 2008 Acquacalda
Rubino violaceo di media intensità, naso compatto, succoso con nitida ciliegia ben espressa, accenno di fiori bianchi, leggera speziatura liquirizia e pepe nero, con fragranza e immediatezza. Bocca semplice, di non grande ampiezza, che tende leggermente ad asciugare e mostrare qualche segno di stanchezza. Non ha grande nerbo ma buona vinosità e una certa franchezza d’espressione. Elba rosso 2008 Acquabuona
Rubino violaceo brillante, naso con una bellissima dolcezza succosa del frutto in evidenza, con striature floreale di macchia mediterranea, liquirizia e accenni cuoiosi. Bocca ricca e carnosa, piena, compatta succosa, ha immediatezza, vinosità spiccata, costruzione salda, un buon corredo tannico e una persistenza molto interessante. Elba rosso 2008 Sapereta
Rubino violaceo di media intensità e brillantezza, naso con una ciliegia succosa ben in evidenza, sfumature selvatiche, di erbe aromatiche, macchia mediterranea, con una leggera speziatura. Bocca con un bel nerbo acido sapido che prevale su un piccolo frutto croccante e su un tannino che si fa ancora sentire, con buona persistenza e ricchezza di sapore. Elba rosso 2008 Vigna Tea Sapereta
Colore rubino violaceo fitto concentrato, naso abbastanza caldo e maturo, ma con una presenza di note di legno e caffè e qualche accenno verde pirazinico che tendono a prevalere. Bocca piena e succosa, ma con poca articolazione e come un vuoto centrale: finale su note leggermente asciutte astringenti, manca di bilanciamento. Elba rosso 2007 Montefico
Sangiovese 90% e 10% Cabernet Colore di notevole intensità ma brillante, naso con uno spiccato accento toscano, con macchia mediterranea, erbe aromatiche, sale, accenni minerali pepati e una bella dolcezza succosa di ciliegia nera con sfumature di liquirizia. Pieno e compatto in bocca, con una bella componente acida nervosa salata minerale: vino molto più verticale che ampio, ma con nerbo e tannino ben presente che danno carattere e personalità.
ELBA ROSSO RISERVA Elba rosso riserva 2007 Acquabuona
Notevole intensità di colore, ma naso senza la finezza, l’immediatezza, il semplice fascino dei migliori Elba: estrattivo, aggressivo, con note di legno e accenni verdi di notevole durezza e accenni animali. Bocca ancora con una buona materia ricca e succosa, ma con poco carattere di terroir, compresso da una varietalità delle uve bordolesi utilizzate e del legno eccessiva. Molto rotondo e succoso, ma con poco fascino e una sensazione di vino già assaggiato in tanti posti in giro per l’Italia. Elba rosso riserva 2006 Acquabuona
Ancora bella la vivacità del colore e la brillantezza: naso fitto compatto con una buona dolcezza succosa del frutto e accenni di liquirizia, prugna, sfumature floreali e di sottobosco, spezie, pepe nero, con una certa consistenza e plasticità cremosa. Bocca di apprezzabile integrità, ancora con un bel frutto vivo, una sapidità minerale petrosa, un certo nerbo, ancora con energia e carattere.
ROSSO IGT Rosso Igt 2009 Le Ripalte
Rubino violaceo di bella vivacità ed espressività, naso fragrante e succoso con un bel mix floreale fruttato selvatico, con note di ciliegia e prugna, accenni di liquirizia e floreali. Bocca snella, incisiva sapida, con un piccolo frutto ancora vivo e succoso buon equilibrio e piacevolezza non ha grande allungo e persistenza ma si fa bere bene grazie a una bella acidità e sapidità. Uvaggio Grenache 70% e Carignano 30%. 23
Degustazioni
Rosso Igt 2007 Cecilia
Rubino violaceo profondo concentrato, naso ricco polputo di grande estrazione e polpa, con sfumature balsamiche, pepate, speziate in evidenza, accenni salmastri animali e poi note di tostatura e caffè. Bocca ricca, piena, succosa, con una bella materia multistrato e un’indubbia piacevolezza giocata su note dolci rotonde senza spigoli, ma il carattere locale, l’accento isolano è poco evidente anche se un carattere minerale petroso e una bella liquirizia sono indubbiamente piacevoli. Syrah 100%. Rosso Igt 2007 Arrighi
Bella intensità di colore, brillante, fitto, luminoso, naso selvatico-balsamico, con note di eucalipto e mora, accenni dolci e succosi con una certa maturità del frutto. Bocca simpatica, piacevole con una certa quale freschezza e vivacità pepata speziata, un buon equilibrio e un’indubbia piacevolezza. Cuvée di Merlot, Syrah e Sangiovese. Rosso Igt 2006 Acquabuona
Colore molto intenso ed estrattivo, rubino violaceo profondo, naso con una spiccata presenza di legno e di note caffettose, con accenni verdi vegetali pirazinici. Bocca contratta, bloccata da un legno in eccesso che tende a rendere il vino asciutto e senza slancio, con finale leggermente amaro. Buona materia ricca, ma non ha grande equilibrio e piacevolezza. Cuvée di Merlot, Syrah e Sangiovese.
ALEATICO Aleatico 2009 Acquacalda
Rubino squillante luminoso, naso molto fragrante e aperto, con note di rosa passita, prugna, liquirizia, uvetta passita, accenni pepati minerali, di erbe aromatiche, macchia mediterranea, di china e rabarbaro e una bella componente sapida in evidenza. Bocca succosa, piena, dolce in maniera calibrata ma viva e sapida, con ottimo nerbo, alcol ben bilanciato, una lunga persistenza e continuità, grande equilibrio e avvolgenza sul palato. Aleatico 2009 Montefico
Colore intenso profondo, brillante naso con prevalenza di note salmastre, selvatiche, animali e speziate, con sfumature di alloro ed erbe aromatiche macchia mediterranea ginepro e leggera liquirizia sulle note più dolci di prugna, frutta secca, fichi, uvetta. Bocca ricca, piena, avvolgente, fondente, con un dolce largo e succoso grasso che riempie e satura il palato con lunghezza e persistenza. Con un filo di sale e di freschezza, sfumature di alloro ed erbe aromatiche, macchia mediterranea ginepro, leggera liquirizia. Sarebbe quasi perfetto. Aleatico 2009 La Fazenda
Colore profondo denso misterioso, naso intrigante, speziato di grande fragranza, ampiezza e complessità, con note di sottobosco, china, spezie, uvetta e prugna passita, agrumi canditi, rabarbaro alloro e macchia mediterranea. Bocca piena, avvolgente, succosa, con una certa grassezza ben calibrata da un sale e da un’acidità viva. Vino pieno dal sapore lungo e bilanciato. Aleatico 2009 Sapereta
Colore di grande intensità e brillantezza, naso intrigante, minerale, nervoso con una presenza sapida e di macchia mediterranea importante che tende a prevalere sulla dolcezza succosa del frutto. E poi sfumature di rosa passita, rabarbaro, alloro, pepe, agrumi canditi e una bella componente aromatica di grande freschezza ed eleganza. La bocca è molto ampia, grassa, carnosa e satura interamente il palato multistrato ma con un bel sale e una coda lunga finale piena di energia e carattere. Aleatico 2008 Arrighi
Rubino profondo brillante il colore, naso caldo, avvolgente di calibrata dolcezza, note di prugna, ribes, rosa passita, liquirizia a comporre un insieme solare mediterraneo caldo avvolgente dalla compattezza quasi cremosa. Al gusto è grasso, pieno, consistente materico, con un po’ di dinamismo e tensione in più sarebbe ancora meglio. 24
Aleatico 2008 La Chiusa
Colore rubino brillante intenso e luminoso, naso con una spiccata componente minerale selvatica in evidenza, con sfumature di spezie e macchia mediterranea. Gusto dolce ben calibrato con una componente acido salata che dà coda lunga e nerbo e il vino è ricco avvolgente dotato di grande energia e dinamismo e ben articolato sul finale. Aleatico 2007 Mola
Colore di notevole profondità, naso molto ferroso e selvatico, con prugna secca, accenni di china e rabarbaro, di uva passita e canditi, fichi alloro e pepe nero in evidenza. Bocca di grande grassezza, ampia, carnosa consistente, satura e riempie bene il palato, dove si dispone suadente, ma con una dolcezza al punto giusto perché il vino è ricco di sale e con un’acidità viva che bilancia la materia. Aleatico 2007 Le Ripalte
Colore fitto e profondo e naso assolutamente personale, con note di marron glacé e castagne arrosto a dominare, ma anche frutta candita, arance e poi uno spiccato carattere selvatico di sottobosco e macchia mediterranea. Bocca ricca dolce fondente, con una bella tensione e un saldo corredo tannico: dolce calibrato salato con notevole acidità che dà nerbo e carattere al vino. Aleatico 2007 Cecilia
Magnifica intensità, densità e profondità di colore, naso con un predominio delle note ferrose terrose minerali e di sottobosco sulla pura componente frutto che pure è ben presente e succosa, con prugna secca, pepe, ginepro, liquirizia nera, agrumi canditi. Bocca piena di nerbo ed energia, materia ricca di grande dolcezza, ma con una grande tensione, un saldo corredo tannico, una componente minerale piena di energia e di sale. Un grande vin di terroir con una finezza, una precisione un’energia ammirevoli. Aleatico 2006 Acquabuona
Buona intensità di colore, naso salmastro, salato leggermente pungente, con spiccato carattere selvatico. Bocca molto ricca, dolce, ma un po’ molle e unidimensionale, manca di allungo e profondità, di sale. Un’interpretazione un po’ troppo semplice anche se la materia multistrato non manca. Aleatico 2006 Agricoop
Colore di grande vivacità e brillantezza, naso profondamente ferroso e terroso di grande precisione ed energia, con predominio delle note salate quasi salmastre, di sottobosco e macchia mediterranea, e poi china, ginepro, pepe nero, striature di cannella e chiodi di garofano. Bocca di grande compattezza e finezza, saldo corredo tannico, energia minerale e terrosa sale, lunga persistenza che innerva il frutto e dà lunghezza salata e piena di energia al vino.
ELBA MOSCATO Elba Moscato 2008 Cecilia
Colore paglierino oro squillante, luminoso e multi riflesso, naso assolutamente intrigante, fresco, vivo, complesso, con note di agrumi canditi, cera d’api, miele, sfumature di salvia e frutta secca e accenni sapidi salini e di macchia mediterranea. Bocca molto dolce, avvolgente mielosa e succosa, ma con un bel nerbo salato che equilibra la materia ricca e dà bella piacevolezza.
ANSONICA PASSITO Ansonica passito 2007 La Chiusa
Colore oro ambrato di luminosità, naso estrattivo, leggermente ossidativo, con note di fiori e fieno secco, accenni agrumati, di spezie orientali e frutta secca, di alloro, camomilla, cioccolato bianco. Bocca larga, piena dolce e succosa, che si allarga sul palato con una certa grassezza cremosa, un finale salato con acidità spiccata. 25
Degustazioni
Rùfina, il
Chianti più alto e più piccolo
di Alessandro Franceschini è sempre un timbro particolare nei vini che provengono da quote più alte rispetto alla media. E non è una questione solo di posizione geografica dei vigneti. Se in Oltrepò Pavese sali di altitudine il Pinot nero cambia. In Valtellina il Nebbiolo assume connotazioni più introverse, nervose e sottili. In Chianti succede la stessa cosa: al netto di territorio e mano dell’uomo, sempre e comunque determinanti, il fattore altitudine può apportare un quid di diverso, ovviamente se ben interpretato e valorizzato. Quando da Greve ti inerpichi, per esempio, verso Lamole, cambiano molti aspetti: tempi di matu-
C’
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razione delle uve e, soprattutto, sfumature, spesso decisive. A Rùfina, avere i vigneti collocati in una fascia collinare con altitudini che arrivano sino a 500 metri, ha da sempre connotato uno dei tratti distintivi delle uve qui allevate: Sangiovese, ovviamente, da una parte, e poi i classici vitigni autoctoni che in molti casi vanno a comporre il taglio finale. Canaiolo, Colorino e infine i vari merlot e cabernet che il disciplinare, datato come Doc nel 1967 (poi Docg nel 1984) consente di utilizzare. “Il più alto fra i Chianti” è, d’altronde, il claim che da sempre il Consorzio locale, fondato nel 1980, ha utilizzato per sottolineare l’unicità dei vini di Rùfina all’interno delle tante sottodenominazioni del vasto Chianti. Delle sette, Rùfina è anche la più piccola: occupa una superficie di 12.483 ettari, 750 dei quali iscritti all’Albo (destinati a diventare mille) i quali fanno sì che vengano prodotti circa 27mila ettolitri di vino. Le grandi escursioni termiche tra la notte e il giorno, la conformazione geologica dei terreni composti di pietre calcaree, galestro e alberese, l’esposizione a sud, consentono da sempre non solo un’ottima maturazione
Mariani: dobbiamo continuare a comunicare le nostre eccellenze Lorenzo Mariani è stato da poco eletto presidente del Consorzio Chianti Rùfina, succedendo per il triennio 2010-2013 a Giovanni Busi, neo eletto al Consorzio vino Chianti. Classe 1974, è il più giovane Presidente del Consorzio Chianti Rùfina mai eletto e conduce l’azienda I Veroni. Rùfina ha una sua connotazione ben precisa all’interno del complesso universo del “Chianti”. Secondo lei è una “casa” ideale per questa particolare enclave del sangiovese o sarebbe meglio presentarsi come Rùfina L Lorenzo Mariani, tout court e basta? Presidente del Consorzio Chianti Rùfina Eliminare dal marchio “Chianti Rùfina” la parola “Chianti” è una questione non nuova all’interno del nostro consorzio. Spesso, specialmente nel passato, si è discusso sull’argomento e sulle conseguenze in termini di immagine e di comunicazione che tale eliminazione avrebbe comportato. Oggi, anche alla luce del perdurare di questo difficile momento di crisi e delle difficoltà di mercato che tutti i produttori vivono, anche ed in particolare all’estero, cancellare dal proprio marchio una parola così diffusa a livello mondiale come la parola “chianti” risulterebbe inopportuno e potrebbe indubbiamente avere conseguenze non positive. Il Consorzio Chianti Rùfina lavora da oltre trenta anni per differenziare la propria immagine dal resto del Chianti e comunicare in modo sempre più chiaro e incisivo la sua originalità e le peculiarità del territorio. Per quanto sopra detto, non sembrano, quindi, ancora maturi i tempi per iniziare a parlare di una Docg “Rùfina”. Quali pensa siano i tratti salienti che caratterizzano i vini di Rùfina, soprattutto rispetto agli altri Chianti? L’essere, in particolare, “Il Chianti più alto” che valore aggiunto conferisce, secondo lei, al sangiovese di questi luoghi? Sia dal punto di vista organolettico che da quello più squisitamente commerciale. Lo scorso Vinitaly un giornalista giapponese nel degustare alcuni Chianti Rùfina presso lo stand del Consorzio ha usato la definizione di “Sangiovese d’altura”; indubbiamente la posizione e la latitudine del territorio del Chianti Rùfina, a nord-est di Firenze, alle pendici delle montagne dell’Appennino tosco-romagnolo e con tutti i vigneti tra i 300 e i 500 metri slm, caratterizzano fortemente i vini che vi vengono prodotti. Ai vini più alcolici, strutturati e tendenzialmente morbidi propri delle zone vitivinicole a sud di Firenze, corrispondono vini nel Chianti Rùfina caratterizzati da una spiccata acidità e forza tannica, tendenti più a una eleganza olfattiva che a una struttura invadente ed eccessivamente morbida. Dal punto di vista commerciale potremmo ricordare che quasi la totalità dei produttori soci del Consorzio, tutti presenti con i pro-
pri vini sui più importanti mercati esteri, sono ormai ben organizzati per ospitare presso le proprie aziende il pubblico, gli operatori e i clienti con attività di ristorazione, di ospitalità agrituristica, degustazioni e visite alle cantine e ai vigneti in considerazione anche della vicinanza con la città di Firenze. Il Consorzio che ora si trova a guidare, negli ultimi anni ha investito, come pochi in Italia, nella comunicazione e nella diffusione delle caratteristiche del vino di questo territorio. L’anteprima che si è appena conclusa, ne è un esempio concreto. È, secondo lei, la strada giusta da percorrere ancora nel futuro? Pensa che abbia portato risultati concreti sino ad ora? Questa è senza dubbio la strada da seguire. Giovanni Busi, il precedente Presidente, con l’aiuto della nostra responsabile stampa Lucia Boarini, in quattro anni è riuscito ad accendere un sempre più crescente interesse verso il Chianti Rùfina non solo da parte degli operatori del mondo vitivinicolo nazionale e internazionale, ma anche da parte del pubblico non addetto ai lavori. L’anteprima del Chianti Rùfina deve continuare a essere uno strumento di comunicazione a livello internazionale, oltre che locale, mediante il quale si possa annualmente mettere a confronto una selezione di vini Chianti Rùfina con vini provenienti da zone vitivinicole più conosciute e blasonate, come quest’anno è stato per i vini di Borgogna. Solo continuando a confrontarsi con chi ha fatto la storia del vino possiamo far capire il livello qualitativo dei nostri vini e l’enorme lavoro svolto da tutti noi produttori del Chianti Rùfina negli ultimi venti anni. Durante la prima anteprima del 2007 fu presentato il lavoro di zonazione che era stato affidato alla facoltà di Agraria dell’Università di Milano sotto la direzione del professor Scienza. Dopo questi primi anni, pensa sia stato un lavoro utile alla zona? È, realmente, utilizzato dai produttori? Lo studio della zonazione del territorio del Chianti Rùfina è stato, indubbiamente, per il Consorzio e i suoi produttori un lavoro molto importante e un utile strumento di conoscenza del territorio. È, purtroppo, terminato all’inizio di un grosso periodo di crisi del mercato per le aziende le quali, pertanto, si sono trovate costrette a rallentare, se non a interrompere, gli investimenti in cantina, ma soprattutto nei vigneti e nel reimpianto degli stessi. Nella speranza che torni un po’ di entusiasmo sul mercato e una stabilità economica, il giorno che i produttori inizieranno nuovamente a investire con serenità nei vigneti, le indicazioni date dallo studio sulla zonazione saranno alla base delle scelte di ciascuno di noi. 27
Degustazioni L Villa Poggio Reale a Rùfina
delle uve, ma anche la possibilità di poter ottenere vini a base sangiovese originali e di carattere. Spesso da queste parti i tratti esuberanti cedono il passo a note più lievi, nascoste, anche scorbutiche in gioventù. La trama tannica di razza e un’acidità di grande rilevanza fanno sì che sia possibile combattere con serenità le annate più siccitose (si veda la 2003), ma, soprattutto, di avere vini che abbiano l’ardire di sfidare il tempo con particolare scioltezza. Avere la possibilità, per esempio, di testare vecchi millesimi dell’azienda Selvapiana, piuttosto che di Frescobaldi o ancora di Marchesi Gondi e Spalletti, consentono di avere una fotografia non solo di una viticoltura oggi scomparsa, ma anche di come una certa filosofia produttiva consentiva in seguito di tuffarsi dentro questi vini dopo anni dal loro imbottigliamento; Montesodi 1974 di Frescobaldi, La Riserva dei Marchesi Gondi del 1962, l’etichetta Rossa Poggio Reale del 1955 o ancora la Riserva Selvapiana del 1985 sono esempi lampanti che in questi anni il Consorzio ha messo a disposizione durante il prologo dell’oramai annuale Anteprima per testare con occhi, naso e bocca come la longevità del sangiovese locale non fosse solo leggenda. Tra il 1999 e il 2005 da queste parti non sono mancati grandi investimenti, forse superiori a quelli spesi in tutte le altre aree del Chianti: rinnovamento dei vigneti, creazione di un’Anteprima per pubblico e stampa, ma soprattutto un lavoro di zonazione durato 4 anni, affidato alla facoltà di Agraria dell’Università di Milano e all’affiatato team coordinato dal Prof. 28
Scienza. Hanno mappato praticamente tutto il Chianti Rùfina, nonché diviso in “unità vocazionali” (Pelago, Grignano, Sieci, Selvapiana, Nipozzano, S. Brigida, Rùfina, Colognole, Pomino, Contea e Frascole) all’interno dei cinque comuni che compongono la denominazione (Dicomano, Londa, Pelago, Pontassieve e Rùfina). Un lavoro che può risultare utilissimo così come ininfluente se riposerà solo sugli scaffali di qualche archivio. Dipenderà dai produttori, recepire o meno le indicazioni contenute in questo articolato lavoro in grado, se applicato, di valorizzare quelle differenze tra singoli cru che tanto invidiamo ai cugini d’oltralpe. Tra i progetti futuri del neo presidente del Consorzio Lorenzo Mariani (proprietario della Fattoria I Veroni), che succede a Giovanni Busi, l’incremento delle collaborazioni con la comunità montana locale, al fine di realizzare “nuovi progetti legati alla tutela e alla divulgazione del territorio vitivinicolo del Chianti Rufina per cui tutti noi produttori la-voriamo quotidianamente”. Territorio, che è utile ricordare, negli ultimi anni era stato protagonista anche di un’infuocata querelle in merito alla realizzazione dell’ampliamento dell’inceneritore “I Cipressi” esistente in località Selvapiana e che aveva visto schierarsi da una parte Francesco Giuntini Antinori della Fattoria Selvapiana e l’Associazione Italia Nostra e dall’altra la Provincia. In primavera dello scorso anno il Tar ha bocciato la realizzazione dei lavori che avrebbero permesso al termovalorizzatore già esistente di passare a bruciare dalle attuali 9mila tonnellate ben 68mila.
LA DEGUSTAZIONE Sono stati 31 i campioni presentati, annata 2009 e Riserva 2008, presso la sede del Consorzio a Villa Poggio Reale a Rùfina nel novembre dello scorso anno. La degustazione, coadiuvata dall’ottimo servizio dei sommelier della delegazione fiorentina, è avvenuta scoperta. Buone le indicazioni complessive, considerando ovviamente le attenuanti dovute alla gioventù dei millesimi in degustazione, molti dei quali ancora non imbottigliati. Un caso esemplare, il campione di Selvapiana, uno dei vini più rappresentativi della zona, al momento della degustazione chiuso, contratto e inespressivo per poter pensare di esprimere un qualunque giudizio in merito. Ma non era l’unico caso. Nel complesso, abbiamo trovato profili olfattivi ben distesi, decisamente fini ed eleganti in alcuni casi. Tannini di piacevole tessitura, freschezze che finalmente tornano a essere protagoniste e un uso più ragionato e consapevole del legno. Segnaliamo qui di seguito 6 campioni che ci hanno particolarmente colpito. Azienda Agricola Frascole – Chianti Rùfina 2009 Dicomano (FI) – Vitigni: sangiovese 90%, colorino 5%, canaiolo 5% Con alle spalle l’Appennino tosco-emiliano, l’azienda Frascole possiede 16 ettari, 11 dei quali all’interno della denominazione del Chianti Rufina. Grandi pendenze, nonché altitudini (fino a 500 metri), dedicate alle riserve. Inox, cemento ed un 30% di affinamento in legni non nuovi. È un campione già ben pronto ora: aromaticamente aperto, con i piccoli frutti rossi in evidenza, bella succosità in bocca, con un tannino di piacevole tessitura e una più che buona chiusura finale. Azienda Agricola Colognole – Chianti Rùfina 2009 Rufina (FI) – Vitigni: sangiovese 95%, colorino 5% Appartenente sin dall’800 ai Conti Spalletti, l’azienda, conserva ancora vecchi millesimi di invidiabile longevità in grado di donare uno sguardo al Rufina che fu con l’emozione di poter trovare ancora bottiglie in stato di grazia. Giovane, a tratti vinoso, ma già ben delineato, il Chianti di annata di casa Spalletti si dimostra già molto piacevole nella sua semplicità schietta. Azienda Agricola Travignoli – Chianti Rùfina 2009 Pelago (FI) – Vitigni: Sangiovese 100% L’azienda si estende su una dimensione di 65 ettari (15 a uliveto), interamente esposti a Sud tra i 150 e i 400 metri di altitudine e completamente immersi nell’areale di Rùfina. Sono sei i mesi di affinamento in botti grandi per questo campione di bella espressività, dolce nelle note di lampone con ottima struttura, freschezza ed equilibrio. Fattoria Castello del Trebbio – Chianti Rùfina Riserva 2008 Lastricato Pontas-sieve (FI) – Vitigni: Sangiovese 100% Si conferma di gran razza, ai vertici della denominazione per carattere e tipicità, il vino prodotto dalla dinamica Anna Baj-Macario con la consulenza di Luca d’Attoma. Frutto in gran spolvero per freschezza e dolcezza con le sue note di confettura di visciole. Bocca tenace, con tannini ancora scalpitanti, una grande freschezza e persistenza decisa. Fattoria I Veroni – Chianti Rùfina Riserva 2008 Pontassieve (FI) – Vitigni: Sangiovese 100% I terreni si estendono sulle colline fra Pontassieve e Rufina: 15 ettari in totale con una densità di circa 5000 ceppi per ettaro. Ottimi entrambi i campioni presentati quest’anno: segnaliamo la riserva, che per struttura, integrità e allungo finale ha davvero donato una bella impressione. Frutta matura di ciliegie e lamponi, spezie di bella complessità e un tannino che unisce nerbo e tattilità di spessore. Fattoria Il Lago – Chianti Rùfina Riserva 2008 Dicomano (FI) – Vitigni: Sangiovese 100% La famiglia Spagnoli conduce la fattoria con annesso agriturismo a qualche chilometro da Dicomano: l’attività è iniziata nel 2000 e oggi sono proprietari di 22 ettari per una produzione di circa 50mila bottiglie annue, tra il chianti d’annata, il vin santo e la riserva che segnaliamo. Lo stile lievemente “estrattivo” (le uve vengono lasciate appassire in cassette prima della vinificazione ) connota un quadro aromatico mai stucchevole. Ottima mano anche nella conduzione dell’affinamento in barrique. Carattere e freschezza in bocca, con un finale di bella corrispondenza gustolfattiva. 29
Degustazioni
Pinot Noir: degustarlo è una fede di Roberto Bellini o scenario enologico della Borgogna ha come attori protagonisti molti storici négociant: Jadot, Patriarche, Chanson e Drouhin sono alcuni dei nomi che hanno calcato e ancora calcano i palcoscenici enologici del mondo. I négociant rappresentano uno spaccato molto significativo della viticoltura e dell’enologia della Borgogna, perno insostituibile nella commerciabilità dei vini e hanno anche affrontato il risvolto educativo-culturale di questa attività fondando, nel 1989 a Beaune, l’Athenaeum de la Vigne et du Vin: uno spazio pluriculturale di 1.200 metri quadrati dedicato ai libri di enologia, enografia e gastronomia del mondo. Essi rappresentano una singolare porzione della crema enologica borgognona e si affiancano ai blasonati nomi dei proprietari di climat e finage come Romanée-Conti, La Tâche e Montrachet. Il mondo della vite e del vino di Borgogna, specialmente quello della Côte d’Or, è anche un’altra cosa e può raccontare altre storie. La Côte d’Or ha una storia vitivinicola molto insolita e deve la sua fortuna anche al fatto di aver dovuto lottare con la confinante regione dello Champagne, per conquistarsi uno spazio di vendita nel mercato del nord Europa. La posizione geografica non era certo delle migliori per trovare convenienti sbocchi commerciali alla vendita dei vini, e solo con il completamento del Canale di Borgogna, nel 1832, si ebbe-
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ro quelle facilitazioni nei trasporti, che i dipartimenti come il Bordeaux e la Champagne se le sono trovate già create. Questo scoglio viario non ha scoraggiato i proprietari delle vigne, anzi, consci del fatto che il costo del trasporto sarebbe stato superiore a qualunque altra zona viticola francese, pensarono di ammortizzare questo maggior onere ricercando una migliore espressione vitivinicola, mirando subito ad ottenere vini di qualità più ricercata ed esclusiva rispetto alle altre zone. La selezione delle uve nel corso dei secoli ha radicato nelle vigne della Côte d’Or due soli vitigni, lo
Chardonnay e il Pinot Noir, relegando le altre uve al ruolo di comprimarie anche un po’ demoralizzante. Nel mondo del vino il Pinot Noir è considerato un vitigno dalla purezza aristocratica, solo la tenacia dei vignaioli lo ha salvato dai numerosi rischi di contaminazioni e inquinamenti, che la parcellizzazione dei vigneti seguita alla Rivoluzione tendeva a trascinare con se, offrendo impianti di variétal resistenti alle malattie e dall’elevato potenziale alcolico: Oberlin, Plantet e Baco Noir tentarono di penetrare nei filari. Queste uve nel 1968 occupavano ancora il 10% dei vigneti e fu la nuova rivoluzione di quel maggio
a spazzarle via. «Il Pinot Noir è indubbiamente femminile, anche se non è esattamente femmina», così scrisse Jancis Robinson nel 1986; forse veste i galloni della zdora, gestendo con autorevolezza il pianeta gusto-olfattivo della raffinatezza aromatica e della vellutatezza tannico-sapida, incidendo sul sapore acidulo in modo ruspante nell’età puerile, plasmandosi alle soglie della quiescenza dei sensi e della libido. Indubbiamente il Pinot Noir è un vitigno contadino, che trasmette al vino quella poetica espressività di nostalgia e di arcaicità sempre da ricondursi al mondo agricolo. È un poeta pieno di talento e di bellezza organolettica, può toccare le corde della sensibilità e dell’emozionalità di ogni degustatore, ed essendo femminile attira prima e di più le femmine; i degustatori uomini vi arrivano più tardi, quando le forme delle bevibilità sono assuefatte al tannino. Il Pinot Noir ha le sue radici nella Côte d’Or, le cui profondità e densità del profilo affondano nel sottosuolo stratificato in roccia, argilla, calcare e sabbia, sfruttando un magico drenaggio e quella trappola di timo che è il miglior viatico per l’eccellenza del vino. Chi meglio dei vigneron conoscono i pendii scavati dalle combe, i detriti sdrucciolati nei vigneti, le colorate ferruginosità degli avvallamenti e i flussi del vento e dell’umidità che scivolano dai ciuffi boschi31
Degustazioni vi che arredano le sommità delle colline. Il consolidamento del Pinot Noir di Borgogna passa anche attraverso queste preziose figure, in parte semplici coltivatori, ma anche strepitosi interpreti di climat, finage e lieux-dit. La loro filosofia è una combinazione di tradizione e innovazione, hanno il massimo rispetto per le piante più anziane del vigneto, preservano le essenze del mosto impiegando lieviti indigeni, addirittura vinificandole con i raspi ed evitando la filtrazione meccanica. Per rappresentare la personalità del Pinot Noir la scelta è caduta su sette vigneron per otto vini, una degustazione tematica, alla ricerca di un terroirist (modo di interpretare il territorio) che disegna un abito sartoriale alle qualità del vino.
Chassagne-Montrachet Aoc 2007 - 1er cru “La Maltroie” - Bruno Colin - 13° Le vigne alloggiano a sud, su un terreno composto da ciottoli, calcare, marne e sabbia formatosi 163 milioni di anni fa. Le viti di 40 anni hanno originato un vino discretamente colorato, di un rubino vivace e di media trasparenza. Domina un profumo di marasca macerata, accompagnato da lampone selvatico, ribes rosso e fragola di bosco; un pizzico di speziato chiude la complessità olfattiva. Al gusto resiste una certa scorbuticità tannica, l’acidità pecca un po’ in sapidità, il finale di gusto, pur lungo, chiude con un sentore di legnoso nocciolo, tipica espressione di una fermentazione molto tradizionale. Volnay Aoc 2008 - Catherine e Claude Maréchal – 13° Solo 1.500 le bottiglie di questo Pinot Noir. I vigneti godono di una perfetta esposizione ad Est, il terreno marnoso e calcareo favorisce una certa intensità al colore, mentre la presenza di materiale ferruginoso apporta una sapidità al sapore di ruggine. La veste rubino granato ha intensità media, il profumo atomizza odori di rosa e viola inzuppate di rugiada, l’espressione fruttata coglie la sfumatura vegetale e selvatica dei piccoli frutti di bosco. La sensazione prodotta dal tannino è poco fruttata, il tono salino delle sostanze minerali crea un sapore terroso molto gradevole, come d’argilla, il finale di gusto è rinfrescante per il ritorno della freschezza dell’acidità e dà un leggero pizzicore di pepe nero. Pommard Aoc 2006 - 1er cru Rugiens - Gilles De Courcel-Yves Confuron – 13.5° Nel vigneti del comune di Pommard lo spirito del Pinot Noir si discosta dalle linee gustative della Côte. Sarà il colore rossastro della superficie delle vigne, sarà l’altitudine (290 mt s/l/m), sarà la presenza dei ciottoli, ma di fatto il vino è diverso. Il rubino è molto intenso, ha unghia intensamente granato. Il profumo di violetta si spande sul fruttato: mirtillo e mora di gelso; tracce di humus e di ruggine spengono la complessità, lasciando alla liquirizia una finissima nota amaricante. Il tannino è alquanto potente per un Pinot Noir, la mineralità s’avverte anche al palato, ben armonizzato è il dualismo acido-sapido. Finale gusto olfattivo lungo e vellutato, al sapore di sciroppo di amarena. Da queste vigne di 50 anni si ottengono solo 4.000 bottiglie
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Nuits-Saint-Georges Aoc 2007 - 1er cru Les Vaucrains - D. Georges et P. Chicotot – 13° L’argilla rossastra di questo 1er cru affina un corredo odoroso molto floreale, di glicine e viola mammola. Sono 1.200 bottiglie le bottiglie che si ottengono dai ceppi di 65 anni, con utilizzo anche di uve non diraspate nella vinificazione. Il colore è scuro e intensamente granato, a testimonianza dei 18 mesi di barrique. Complesso è il suo aroma: spezie, piccoli frutti rossi, fiori rossi e viola, caffè tostato, minerale e boisé. Tannino davvero elegante, setosità ondulata dalla sapidità e dalla freschezza; la voluminosità della sua struttura cresce con l’allungarsi della persistenza gusto-olfattiva e nel finale il ritorno aromatico ricorda il tartufo nero. Echezeaux Grand Cru 2007 - Domaine Jean Marc Millot – 13° Sabbia, limo, ciottoli, marne e calcare, con queste prerogative la raffinatezza è di facile acquisizione. Il colore ha vivace tinta granato con unghia porpora. Ammaliante è la complessità floreale, dominata prepotentemente dalla violetta, dalla rosa di macchia. La parte fruttata ha eleganti note di ciliegia e mora macerata in alcool; champignon e terra umida rinforzano la mineralità, finissimo è il sottofondo di cuoio. La struttura del Pinot impatta con vellutata tannicità, originale è il sapore minerale, con una sapidità succosa e fresca: è un vino che tesse un gusto liscio, lasciandosi alle spalle l’idea di proporsi nella potenza. Il finale ha gusto carnoso. 5.000 le bottiglie prodotte.
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Degustazioni Clos de la Roche Grand Cru 2006 – Louis Remy – 13° La fascinosa personalità di Chantal Remy passa anche nel vino. 22 mesi di barrique, 2.000 bottiglie, vigne di 40 anni e uve parzialmente non diraspate, filtrazione vietata: un vino che accarezza i raggi del sole all’alba. Colore d’ottima intensità, granato scuro. Bouquet complesso e carico di note fruttate (ciliegia selvatica, lampone, cassis e mirtillo); molto attraenti sono le sfumature di legno bagnato, di tartufo nero, di sottobosco, di viola appassita e di fondo di caffè. La pienezza del gusto è sorprendente, i tannini già si integrano nelle parti morbide e lasciano alla sapidità lo sbocco e lo spazio per allungare la finezza gusto olfattiva in eleganti sensazioni di pepe nero e di liquirizia Chambertin Grand Cru 2006 - Louis Remy – 13° Solo 1.000 bottiglie. Terreno di colore bruno, con limo e roccia, idealissimo per il Pinot Noir. Veste granata e sorprendentemente intensa. C’è tutto quello che ci si attende dal Pinot Noir al profumo: fiori rossi e viola, sottobosco, cassis, ribes rosso, ciliegia selvatica, mora di gelso, cuoio, humus, boisé, liquirizia, cuoio, scatola di sigaro. Tannino ben concentrato e setoso, freschezza che ricorda il lampone, molto sapido è già bilanciato nella struttura. Lunghissima la pai, finale di bocca dal felpato retrogusto di mandorla tostata. Gevrey Chambertin Aoc 2006 - Les Corvées - Gilles Burguet 2006 – 13.5° Gilles è un vigneron schietto e poco loquace, da questa vigna di 75 anni ottiene 3.000 bottiglie di un vino che si veste di colori intensi: rubinogranato. Lo spunto floreale ha il sopravvento su quello fruttato, soprattutto per l’irridente flusso di rosa selvatica e viola di bosco. Lo speziato si fonde nelle note di tartufo nero, humus e liquirizia; nel finale c’è un sentore di pelliccia e di cuoio usato. La sensazione tattile del tannino sembra costruire un corpo mascolino, la freschezza si riconosce in un sapore di lampone, l’equilibrio del gusto si completa con note minerali sapide e prolungate; elegante è la chiusura aromatica che ricorda la felce secca.
Più che negli altri vigneti del mondo, qui il Pinot Noir è stato plasmato dalla personalità culturale dei vigneron, che in modo autonomo e riflessivo cercano di avvicinare al massimo l’uva al terreno. Del Pinot Noir si sussurra che sia stato il vino gradito ai poeti melanconici e anticonformisti, che traevano ispirazione dal limbo del perbenismo e dell’ortodossia sessuale. Degustare un Pinot Noir accende i ricordi dei primi innamoramenti, della prima cotta; il suo impatto spugnoso, soffice e tenero colora di candida timidezza le guance, disegna sorrisi che fanno sporgere le labbra e non accigliano gli occhi. Fu Eustache Deschamps, poeta medievale e diplomatico di Carlo V, a parlare di Pynoz, (Pinot Noir) citandone in versi alcune peculiarità; continuò Sergej Esenin, poeta introspettivo e scapigliato a cantarne le litanie: «Arrivederci amico mio, senza strette di mano e parole, non rattristarti e niente malinconia sulle ciglia». È il distacco da ciò che si è assaporato, gustato e sorbito. Non è un capriccio o una moda. Degustare il Pinot Noir è una fede. Madeline Triffon M.W. da Bingham Falls, ha genialmente sintetizzato il meglio del Pinot Noir, definendolo: sex in the glass. 34
L’inchiesta
Un vino
ancora tutto da
scoprire di Ludovica Schiaroli
PER
IL
PAESE LA
MOLTI È SOLO
DELLA BIRRA.
IN
REALTÀ
GERMANIA
È UNO
DEI MIGLIORI PRODUTTORI DI BIANCHI AL MONDO
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he si possa coltivare la vite sul cinquantesimo parallelo, all’altezza dell’Alaska, è cosa che stupisce molti. In Germania accade dal I secolo a.C. quando i legionari romani portarono le prime barbatelle nei territori occupati. In seguito furono i monaci cistercensi provenienti dalla Borgogna a studiare l’influenza del terroir sulla viticoltura e così tra il XV e XVI secolo ebbe inizio un periodo di grande prosperità che vedeva la Franconia come la regione vitivinicola più estesa con centomila ettari di vigneto. L’arrivo di Napoleone, i cambiamenti climatici e la fillossera portarono a un lungo declino che durò fino alla metà del secolo scorso. Oggi la Germania è uno dei migliori produttori di vini bianchi al mondo, anche se per molti continua ad essere solo il paese della birra. Il Riesling è il vitigno nobile che regala vini preziosi e longevi difficilmente imitabili. Si tratta certamente di un’agricoltura difficile, bisognosa di grande cura e continue attenzioni perché il freddo è sempre in agguato. Perciò le vigne sono spesso a ridosso di fiumi ed esposte a sud per beneficiare al massimo delle ore di sole. D’altra parte il clima fresco favorisce una maturazione più lenta che contribuisce ad arricchire l’uva di sostanze aromatiche ed estratto che insieme a un’elevata acidità caratterizzano i migliori vini tedeschi. Oggi i distretti vitivinicoli sono 13 per un totale di centomila ettari di superficie vitata e una produzione annua di vino che basta a soddisfare circa la metà del consumo interno. Si coltiva per lo più uva a bacca bianca (Riesling, Müller Thurgau, Silvaner) anche se ultimamente l’Istituto del Vino Tedesco (Dwi) ha registrato una crescita dei vigneti a bacca rossa, soprattutto Spätburgunder, ovvero Pinot nero. Il processo verso una graduale riqualificazione dei vigneti iniziato anni fa continua e, nonostante il leggero dato negativo sull’esportazione registrato nei primi sei mesi del 2010, il vino tedesco mantiene un trend positivo. Certamente l’ottimo rapporto qualità prezzo è un elemento non trascurabile. Qualche tempo fa, sulle pagine del “Financial Times”, Jancin Robinson suggeriva di investire in
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Il Silvaner Kabinett Trocken di Graf von Schönborn nella tipica Bocksbeutel, la bottiglia arrotondata, in origine riservata ai migliori vini di Franconia
vini tedeschi abbandonando i costosissimi Bordeaux francesi. Nessuno però sembra avere seguito il consiglio, dal momento che anche quest’anno, secondo “Liv-ex Fine Wine 100”, il 91% delle bottiglie pregiate provengono da Bordeaux! I Il labirintico sistema delle classificazioni Differentemente dagli altri Paesi dove i vini vengono classificati secondo la loro origine e qualità in Germania si valuta il peso specifico del mosto (metodo Oechsle) che dipende dalla maturazione dell’uva e quindi prende in esame il grado zuccherino del vino. Tralasciando i vini da tavola, le classi di qualità sono sette e vanno dal vino di qualità con predicato “Qualitätswein mit Prädikat”, (che a sua volta si suddivide in sei classificazioni), si prosegue con il “Kabinett”, poi “Spätlese” ovvero la vendemmia tardiva, per passare alla “Auslese” una selezione dei grappoli migliori, “Beerenauslese” cioè uve surmature e selezionate, “Eiswein”, il famoso vino del ghiaccio, dove se non si sviluppa la muffa nobile si aspetta a raccogliere l’uva fino alla prima notte di gelo e infine la settima e ultima classificazione, quella dei vini “Trockenbeerenauslese”, dove le uve vengono raccolte quando sono quasi appassite ottenendo un vino denso e concentrato, con un grado zuccherino importante. Un sistema complesso che se riesce a garantire la qualità grazie a controlli effettivi ed efficienti «risulta spesso complicato da spiegare a chi si avvicina a questi vini per la prima volta», conferma Ivano Boso, responsabile acquisti cantina dell’enoteca-ristorante Pinchiorri.
I Gli italiani bevono il vino tedesco? Se è vero il contrario, cioè che i tedeschi amano il vino italiano, un po’ più difficile è capire se agli italiani piaccia il vino tedesco. Appassionati e addetti ai lavori a parte, sono pochi quelli che conoscono zone di produzione e cantine. I più informati (o chi ha visitato la Germania) hanno assaggiato qualche “bianco”, anche se poi non ne ricordano il nome. Certo la lingua non aiuta l’italiano notoriamente poco incline all’apprendimento degli idiomi stranieri, senza contare la difficoltà di orientarsi all’interno del complesso sistema di classificazioni dei vini tedeschi e in alcuni casi la presenza di un grado zuccherino a cui il consumatore nostrano è poco abituato. Tra i ristoratori, sono pochi quelli che tengono abitualmente in carta più di qualche etichetta di vini tedeschi. Con qualche eccezione naturalmente. Della cosa non si stupisce Eckard Supp, giornalista e animatore di uno dei siti Internet più seguiti sul vino tedesco, che anzi conferma come in Italia «non vi sono molti vini di altre nazioni particolarmente popolari, unica eccezione, in misura comun-
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L’inchiesta
que modesta, per i vini francesi». Da Pinchiorri a Firenze su oltre quattromila bottiglie, le etichette tedesche si contano sulle dita di una mano: «Sono cinque» conferma Ivano Boso, «tra i nostri clienti non abbiamo una richiesta particolare, per lo più siamo noi, a volte, a proporli con determinati abbinamenti. In genere poi viene apprezzato, ma difficilmente è il cliente che lo richiede». Da Cracco a Milano su 2.200 bottiglie, sono venti quelle tedesche, la regione più rappresentata è la Mosella e il vino più venduto è il Riesling, “la regina dei vitigni” ci conferma Luca Gardini, miglior sommelier del mondo nel 2010 e responsabile della cantina del ristorante, che aggiunge: «Mi piace proporre tutti i vini che abbiamo in carta e soprattutto fare assaggiare anche quelli meno conosciuti… sicuramente è più facile che sia io a consigliare un vino tedesco piuttosto che il cliente a chiedermelo». Va meglio, ma forse perché gioca “in casa”, al ristorante La Pergola a Roma dove Heinz Beck ha in carta circa 40 etichette di vino tedesco fra le oltre 3.000 della cantina. Ammette che non ha grande richiesta «ma forse perché l’Italia ha un panorama talmente ricco di vitigni autoctoni che rende difficile fare emergere gli altri…». Da Palermo Vera Bonanno dell’enoteca Picone dichiara un amore incondizionato per il Riesling, su settemila etichette 40 sono quelle tedesche che conosce e apprezza in tutte le sue sfumature ma ammette che non è un vino per tutti, «necessita un palato colto, preparato alla differenza». E conclude: «Il cliente va spesso educato, poi si hanno anche grandi soddisfazioni». I Territori da scoprire: la Franconia e il Baden Si dice che Goethe amasse il vino di Franconia e ne consumasse quantità incredibili… ma nonostante l’illustre poeta il vino di queste zone rimane fra quelli meno conosciuti della Germania. Eppure negli ultimi anni i risultati sono stati positivi e anche fra gli addetti ai lavori si è registrato un plauso generale, soprattutto per i vini della Franconia. Non è un caso che sia stato proprio Otto Geisel, gastronomo ed esperto riconosciuto a livello internazionale di vino a portare l’attenzione sul vino di questi territori. Geograficamente il Baden è il distretto più meridionale della Germania, bagnato dalle acque del Reno soffre, con tutta probabilità, la vicinanza della più famosa Alsazia. Gli ettari vitati sono circa 16000 e l’80% della produzione è realizzata da cooperative. I vitigni coltivati sono quelli tradizionali Spätburgunder e Müller Thurgau ma anche Riesling e Weissburgunder. I terreni sono generalmente fertili e piuttosto vari. Decisamente più conosciuti sono invece i vini della Franconia, che si trova in Baviera lungo le anse del fiume Meno. La qualità di questi vini è dovuta alla conformazione geologica del terreno risalente al periodo triassico che nel corso dei millenni ha dato origine a una pietra arenaria rossa, a volte sabbiosa e a una marna gessosa particolarmente fertile che regalano alla vite e al frutto caratteristiche uniche. Il Silvaner è sicuramente il vino che ha reso conosciuto e famo-
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L Johann Wolfgang von Goethe, uno dei più grandi letterati tedeschi, amava i vini di Franconia
so il distretto. In Italia Fontanafredda distribuisce i vini di questi territori e le motivazioni che hanno spinto l’azienda a puntare su distretti ancora poco conosciuti le spiega Graziano Cipriano, wine specialist e brand manager: «Ultimamente è cambiato qualcosa, se una volta colpivano i vini bianchi corposi e strutturati, con affinamenti importanti, oggi registriamo una richiesta di vini più freschi, leggeri, con una bella bevibilità. La selezione fatta per noi da Otto Geisel nasce proprio da questa esigenza». Senza contare che i vini dei distretti più importanti erano già presenti e ben distribuiti sul territorio. Certo Cipriano è consapevole che si tratta di un mercato di nicchia, «al momento il fatturato si aggira intorno a centocinquantamila euro ma abbiamo iniziato a proporre i vini a gennaio 2010, sapevamo che non ci potevamo aspettare molto, al contrario sta andando meglio del previsto». I Gli italiani preferiscono il loro vino Per dirla con Goethe, mancano le affinità elettive fra il “vino del nord” e gli italiani. Così sembrerebbe. Oppure potrebbe essere un problema di marketing, forse una migliore comunicazione e investimenti maggiori nella promozione gioverebbero al vino tedesco. Le opinioni sono eterogenee. Se Boso, Gardini e Beck sono di questo avviso, non la pensa così Supp che invece afferma: «Non credo che gli italiani, con una comunicazione migliore, potrebbero consumare vini stranieri in misura più consistente». Vera Bonanni “teorizza” una sorta di resistenza al mercato quando afferma «la democrazia nel vino non mi piace. Il vino ha la sua personalità e bisogna che incontri la persona giusta. Non si deve farlo diventare una moda, deve rimanere per pochi». Per il momento, il rischio non sembra imminente. Il vino tedesco (e verosimilmente il vino non italiano in generale) rimane nel nostro Paese un prodotto di nicchia, per pochi appassionati. L’italiano si conferma consumatore fedele del “suo” vino e poco incline a scoprire quello degli “altri”. Almeno fino ad oggi. Domani chissà…
Otto Geisel: dobbiamo ispirarci all’Italia Gastronomo e gourmet, Otto Geisel (classe 1960) è una figura di riferimento per quanto riguarda il vino in Germania. Membro permanente del Gran Jury europeo del vino dal 1999, l’anno successivo è stato insignito pubblicamente del titolo di esperto per la valutazione dei vini dalla Camera di Commercio di Franconia. È stato, inoltre, presidente di Slow Food Germania dal 2006 al 2009. Dopo avere gestito per oltre vent’anni l’Hotel Victoria a Bad Mergentheim rendendolo uno dei luoghi più importanti per gli appassionati di cibo e di vino, oggi continua a occuparsi di vino tenendo seminari, scrivendo libri e rilasciando interviste. In questi ultimi anni il vino tedesco ha fatto parlare di sé per un costante aumento della qualità. Come è la situazione oggi? Grazie alle esperienze fatte all’estero dai vignaioli tedeschi il nostro vino in questi ultimi anni ha raggiunto una grande spinta qualitativa, che per fortuna non si è ancora esaurita. Nei distretti più freddi si registra un enorme potenziale soprattutto per quanto riguarda l’eleganza e la finezza dei vini. A suo avviso come è considerato il vino tedesco in Italia? Durante i miei viaggi in Italia percepisco un grande interesse per il nostro vino, che potrebbe concretizzarsi in uno scambio culturale, a vantaggio di entrambi. Dovunque vado il vino tedesco suscita sempre entusiasmo che si tratti di Riesling, Silvaner, Müller-Thurgau, oppure Pinot nero. Ma per far sì che un vero scambio culturale funzioni e si realizzi si deve proseguire sul cammino intrapreso e ci deve essere la stessa volontà anche in Germania – che poi è uno dei mercati più importanti per il vino italiano –. A volte il consumatore italiano percepisce un residuo zuccherino eccessivo anche nei vini considerati secchi (trocken). Pensa che possa rappresentare un problema? I vini provenienti dalle zone più fredde sono spesso caratterizzati da una maggiore acidità e da un minimo residuo zuccherino, che li rendono in ogni modo freschi e fruttati e a mio avviso eccellenti per la cucina mediterranea. Non un problema ma un ulteriore stimolo. D’altronde l’offerta dei nostri vini è completa visto che ce ne sono alcuni senza residuo zuccherino, penso ad esempio alla Franconia e al Baden.
L Otto Geisel Il Riesling Spätlese Trocken di Andreas Laible è una delle bottiglie più vendute in Italia tra quelle scelte da Otto Geisel nell’ambito del “Progetto Europa”
Infatti ultimamente ha puntato proprio su questi vini con il “Progetto Europa”. Come sono stati scelti e che caratteristiche hanno rispetto a quelli di altri distretti? I vini provengono tutti da produttori con una propria personalità. Il criterio è che il vino sia buono, sano e onesto. Un ulteriore criterio di scelta è stato quello di scegliere vini che si accompagnassero bene alla cucina italiana, che fossero quindi “fini” e “leggeri”. Come sta vivendo il mercato tedesco l’attuale crisi generale dei consumi? Attualmente il mercato è buono, ma qualcosa è cambiato. Una bella etichetta oggi non basta più. Chi si avvicina al mondo del vino, soprattutto i più giovani, è spesso spinto dalla voglia e dalla curiosità di fare nuove esperienze fra tutte quella di scoprire quale storia ruoti intorno al mondo del vino. Questo è ciò che intendo per scambio culturale. Cosa si augura per il futuro del vino tedesco? Vorrei incoraggiare i vignaioli tedeschi a proseguire con grande attenzione il cammino intrapreso nel vasto mondo del vino, e spingerli a cercare sempre nuove ispirazioni, soprattutto in Italia. 39
CuriositĂ
CittĂ
che vai,
vigneto
che trovi
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di Fulvio Piccinino
COMPLETATO
A
TORINO
IL RECUPERO DELLA VIGNA DI
VILLA
DELLA
REGINA
CHE TORNA COSÌ AL SUO ANTICO SPLENDORE orino come Ginevra, Vienna e Parigi. Il recupero ampelografico della vigna di Villa della Regina, piccolo, ma significativo appezzamento vitato permette alla città sabauda di fare il suo ingresso nella piccola cerchia di capitali dai nomi e dal passato prestigioso che possono vantare la produzione di vino con vigne all’interno del territorio comunale, fatto molto singolare per città che, Ginevra a parte, contano oltre un milione di abitanti. Questa curiosa ed esclusiva caratteristica dà ulteriore lustro e motivo di visita a questa città che per lunghi anni è stata a torto sottovalutata sotto l’aspetto architettonico e culturale, che risulta invece essere cospicuo e variegato, in virtù del passato regale che ha lasciato una importante eredità di costruzioni e musei unici al mondo. Il binomio che univa in maniera indissolubile Torino con l’industrializzazione portata dalla Fiat nell’immaginario collettivo aveva relegato il capoluogo piemontese a un ruolo di grigia città dormitorio. L’amico “straniero” in visita alla città veniva portato, in un impeto neo futurista, ad ammirare le fabbriche di Mirafiori e Lingotto, piuttosto che davanti agli splendidi monumenti barocchi e neo classici del centro storico di Torino o gli immediati sobborghi. Negli anni immediatamente prima delle Olimpiadi invernali del 2006, iniziò a Torino un circolo vir-
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tuoso di rivalutazione dell’immenso patrimonio architettonico che i Savoia avevano lasciato in dote, che permise al turista giunto in città grazie alla meravigliosa kermesse mondiale di apprezzare finalmente la città sotto un’altra luce. Villa della Regina è l’ultimo, fantastico pezzo di un mosaico che finalmente si compone, uno degli ultimi monumenti di Torino a tornare al suo antico splendore, a completare lo “skyline” delle colline che circondano Torino e che hanno nella Basilica di Superga e il Monte dei Cappuccini i due vertici ideali. Questo straordinario monumento di rilevanza paesaggistica, storica e artistica, fu costruito su progetto tradizionalmente attribuito ad Ascanio Vittozzi, sulla collina che domina Piazza Vittorio, per volere del principe cardinale Maurizio di Savoia, figura chiave nei rapporti politici di corte, ispirandosi alle ville romane, completato da giardini all’italiana e da un Teatro d’Acque. La Villa conserva ancora intatto l’impianto originale, che voleva le proprietà collinari completate anche da parti boschive ed agricole che qui sono rappresentate da una “vigna” che anticamente si estendeva per quasi un ettaro e mezzo, sul fronte soleggiato della proprietà, a fianco del naturale anfiteatro collinare che circonda ancora l’edificio principale. 41
Curiosità Il recupero dei giardini e della vigna, dopo un lungo periodo di degrado che in pratica aveva cancellato la proprietà dal panorama collinare torinese, ha nuovamente valorizzato l’immagine della viticoltura, complemento fondamentale della scenografia della collina, come previsto fin dalla costruzione della Villa. Del resto i registri catastali dimostrano come le colline che circondano Torino fossero un unico vigneto. I lavori di costruzione della Villa, documentati a partire dal 1615, portarono all’ampliamento di un preesistente edificio appartenuto alla famiglia Forni, con la creazione di due giardini à parterre all’italiana ai lati della struttura principale, del Giardino “dei fiori”, del Giardino “ad anfiteatro” con percorsi semicircolari su livelli diversi e del Teatro d’Acque realizzati con massicci lavori di sbancamento della collina. Sull’asse del Belvedere si articola un sistema di grotte e giochi d’acqua dalla Grotta del Re Selvaggio alla Cascatella con il gruppo scultoreo della Naiade e Pan, fino alla fontana del Mascherone. L’importante ridefinizione settecentesca degli spazi fu progettata da Filippo Juvarra che lavorò alla Villa, prima per Anna d’Orléans, moglie di Vittorio Amedeo II, poi per Carlo Emanuele III, salito al trono nel 1730, e le sue consorti. All’architetto della corte sabauda si deve il riallestimento decorativo dei due appartamenti, del re e della regina, affacciati sul grandioso salone centrale, realizzati da Juvarra con l’intervento degli stessi artisti che all’epoca avevano contributo alla straordinaria scenografia delle stanze del Castello di Rivoli e della Palazzina di caccia di Stupinigi. Gli appassionati dell’arredo settecentesco trove-
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ranno in questi ambienti magnifici esempi di arredi intagliati, mentre gli amanti di decorazioni “alla China” potranno ammirare negli ambienti della Villa il trionfo del gusto per l’esotismo nei quattro gabinetti nei torrioni, con boiseries e volte dipinte dalla bottega di Pietro Massa (1732-1735). In seguito alle nozze di Vittorio Amedeo III con Maria Antonia Ferdinanda di Borbone Spagna nel 1750, la proprietà passò alla nuova principessa, la quale fece costruire un corpo di guardia e le scuderie nell’area antistante la Villa e promosse l’ampliamento del cosiddetto Palazzo Chiablese, destinato ad accogliere i membri della corte sabauda, strutture oggi purtroppo non più esistenti. Arrivando ai giorni nostri i lavori di restauro alla Villa iniziati poco dopo il 1994, quando fu affidata alla Soprintendenza per i Beni artistici e storici del Piemonte, hanno consegnato nuovamente alla loro bellezza le splendide stanze con i loro magnifici stucchi e affreschi. Attualmente i lavori sono incentrati sul ripristino dell’antico viale di accesso alla Villa e dell’edificio detto del Vignolante, destinato originariamente a custodire gli strumenti per la cura dei giardini, degli orti e del vigneto. Il progetto di reimpianto del vigneto (2000-2007), inizialmente a fini didattici e sperimentali, è stato promosso dalla Soprintendenza con la direzione lavori dell’architetto Federico Fontana. È dato in gestione, con concessione della Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici del Piemonte alla Cantina Balbiano di Andezeno, una importante realtà storica della collina torinese che ha sempre creduto nella potenzialità di questa area e nel vitigno storico di questa area, la Freisa.
Nella vigna di 0,73 ettari, un appezzamento ben superiore alla vigna di Montmartre di Parigi, sono state impiantate 2.700 barbatelle di questo vitigno, i cui cloni sono stati scelti da Anna Schneider (Cnr), una ampelografa che ha scoperto nel suo codice genetico importanti parentele con il Nebbiolo, che sembrerebbe esserne una sua variazione genetica. Nelle prossime settimane è prevista la presentazione ufficiale del primo vino derivante dal vigneto di Villa della Regina, frutto della vendemmia 2009, in un’asta in cui verranno banditi alcuni esemplari di magnum. Indipendentemente da queste importanti e recenti scoperte sulla sua nobile paternità, il vitigno Freisa è uno dei vitigni più importanti del Piemonte, citato per la prima volta dal Nuvolone nel 1799, da sempre simbolo di questa area, che vede nella Doc Chieri la sua massima espressione. La vigna ha al suo interno anche una piccola percentuale di vitigni autoctoni delle Colline torinesi, ormai quasi scomparsi come la Grisa Roussa, Neiretto Duro e Cari, questo per salvaguardare il patrimonio ampelografico piemontese, spesso influenzato nelle scelte dal successo commerciale di Nebbiolo, Barbera e Moscato. L’impianto e la cura del vigneto, fatta totalmente a mano, viste le pendenze e la volontà di preservare la tradizione, diedero il primo frutto con la raccolta di 10 quintali di uva con la vendemmia del 2008. Queste uve furono messe a disposizione del professor Gerbi della facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Torino, che procedette ad una microvinificazione sperimentale, ottenendo preziose indicazioni per le vinificazioni delle annate successive.
E nel 2009 si iniziano a vedere i primi frutti del lavoro, con 50 quintali raccolti di uve sane che sono utilizzati per la vinificazione di una partita di 5.200 bottiglie, per la quale l’enologo Maurizio Forgia, decide di procedere con un semplice passaggio in acciaio per preservare le ottime qualità organolettiche del vino e soprattutto optando per la scelta non tradizionale, di ottenere un vino secco, fermo e con un titolo alcolometrico di ben 13,5 gradi. La tradizionale vinificazione di questo vitigno era infatti amabile, per contrastare la spiccata acidità e frizzante per abbinare la beva del vino alla grassa cucina piemontese, con una gradazione alcolica di circa 11 gradi. La vendemmia 2010 ha portato a un raccolto di circa 55 quintali di uva, che probabilmente sarebbero potuti essere di più se i piccioni di Piazza Vittorio, non avessero scoperto la presenza della comoda e squisita merenda a pochi battiti d’ali dalla loro residenza. Questo pellegrinaggio è stato vanamente contrastato da nastri argentati, che hanno raggiunto il solo obiettivo coreografico di colorare la vigna, ma che non hanno per nulla impaurito gli scafati piccioni, abituati da anni alla movida notturna torinese della famosa Piazza. Ma il vero protagonista di tutta questa storia è il vino. Il recupero della vigna si intreccia con i trascorsi della città e con la sua cultura. Chi avrà l’opportunità di bere un sorso di questo vino avrà modo di assaporare un pezzo del passato di questa bellissima città, prima capitale d’Italia e centro dei futuri festeggiamenti per il 150.mo anniversario dell’Unità d’Italia.
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Musei
In vetrina la “magia” della VIAGGIO
Grappa
NEI MUSEI DEL DISTILLATO CHE RACCHIUDE IN SÉ ARMONIA, STRUTTURA E BELLEZZA
di Letizia Magnani utto nasce nel nord dell’Africa, al tempo degli antichi egizi o giù di lì. E da lì l’acqua di vita, l’acquavite, poi grappa, viene conosciuta dagli arabi e poi dai romani e diventa uno degli elementi culturali dell’Italia e del centro Europa. Grappa è il nome tipicamente veneto. E ricorda i graspi, i grappoli, le vinacce. La grappa ha in sé contemporaneamente qualcosa di popolare e di magico, in una parola di ancestrale, per questo, nel nostro continuo viaggio nei musei del cibo e del vino non poteva mancare una tappa, importante, nei musei dedicati a questo distillato, che in Italia ha assunto nel tempo corpo, vivacità e qualità. Considerata forse meno nobile di altri distillati più glamour, come il Cognac, l’Armagnac, il Brandy o il Whisky, la grappa veniva normalmente fatta nelle campagne italiane e non solo. È al confine con la Slovenia, in Friuli che la grappa nasce come vero e proprio distillato, anche se la sua storia pesca nelle radici del tempo. Usato come medicamento, questo distillato è sempre stato considerato il vero elisir di lunga vita e in effetti anche oggi la grappa dà, in dosi moderate, si intende, euforia. Come dicevano i nostri nonni
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la grappa, consumata con moderazione, è un “toccasana” per i visceri, perché è vaso-dilatatrice, diuretica, ha una lieve azione sonnifera, se assunta di notte, e narcotica. Ben nota anche nelle campagne subito al confine con l’Italia, in Istria, per esempio, dove assume il nome popolare di ètrapa, la grappa è considerata da sempre la bevanda degli uomini forti, poveri e attaccati alla terra. I Il museo Poli a Bassano del Grappa Parlando dei musei dedicati alla Grappa non si può non partire da quello che a Bassano del Grappa la famiglia Poli ha dedicato a questa bevanda. A pochi chilometri da Venezia, subito sotto il famoso ponte di Bassano sorge questo museo che nelle intenzioni della famiglia Poli vuole essere un sentito omaggio al distillato. Il museo, dal sapore tipicamente francese (come è noto è Oltralpe che da sempre vengono valorizzati vini, formaggi e altri prodotti della terra con due peculiarità che solo i francesi hanno, quella di salvaguardare, prima di tutto, e, poi, quella di raccontare), il museo Poli offre uno scenario di ricerca, attenzione e di omaggio alla grappa. Si parte dalla storia, dai libri, dalla tradizione. È questo che si può vedere nella prima delle cinque sale che compongono il museo. Grazie a ricostruzioni di apparecchi di distillazione e all’esposizione di documenti a stampa si possono in pochi minuti ripercorrere le origini di questo distillato nato per curare il corpo, ma anche per capire la vita e l’evoluzione dell’arte della distillazione. A inizio secolo in Italia erano oltre duemila, forse di più, gli alambicchi funzionanti, ora ne sono rimasti attivi appena 113. Di questi solo 34 sono industriali, gli altri sono artigianali. Alambicco è una delle parole dal sapore più magico di tutta la storia della grappa. Sono gli arabi (infatti alambicco è una parola araba) ad aver introdotto nella storia questo strumento, col quale,
L Bassano del Grappa e il suo famoso ponte
L Alambicchi esposti al Museo Poli 45
Musei
ne e nel sapere medico e contadino di un tempo. Ma, spiega ancora Jacopo Poli, «l’operazione della distillazione è sempre stata circondata da una aurea di mistero, che affascina i curiosi e nello stesso tempo li tiene distanti. In generale i distillati sono sempre stati fonte di un certo interesse, sfruttato con maggiore o minore abilità commerciale a seconda dei casi (vedi Cognac, Whisky). Per quanto riguarda la Grappa, ci troviamo di fronte a un prodotto a noi talmente familiare da risultarci sconosciuto, si potrebbe paragonare alle ville palladiane da cui siamo circondati e che molti vicentini non hanno mai visto».
dalle bucce dell’uva si ricava questo liquido giallastro, dorato, alcolico. E a Bassano del Grappa si può andare a ritroso nel tempo, fino a incontrare gli alchimisti che ricercavano l’elisir di lunga vita, i medici rinascimentali che distillavano erbe e fiori per fini farmaceutici, gli acquavitisti veneziani, che nel 1600 producevano acquavite per uso voluttuario. Siamo a Venezia, nel XVII secolo, quando nasce la “Corporazione degli Acquavitieri”.
Dalle bucce del vino, l’elisir di lunga vita E proprio come le ville palladiane, la Grappa racchiude in sé armonia, struttura e bellezza. In una parola: i segreti della vita, anzi, della lunga vita. E così dagli scarti nobilissimi dell’uva, dalle bucce del vino, nasce la Grappa. La materia prima, la vinaccia, merita però un capitolo a sé. Perché è solo in Italia che, con la sapienza, esclusivo retaggio delle campagne, si massaggia con dolcezza l’acino del vino per trarne il succo che poi andrà a costituire il vino vero e proprio e però contemporaneamente si rispetta la buccia, che poi, fermentata darà origine al distillato. È questo che si scopre facendo un giro nelle sale del museo di Bassano del Grappa, che raccoglie anche una esposizione di bottiglie da collezione, unica al mondo. Per gli appassionati sarà un piacere ritrovare fra gli scaffali alcune bottiglie da veri intenditori. D’altra parte per chi è semplicemente curioso, dando uno sguardo in giro, si può capire quanta sapienza e bontà ci possano essere in una bottiglia. Museo della Grappa a Bassano del Grappa, www.grappa.com, 0444 665007.
Perché proprio un museo «La mia professione – spiega Jacopo Poli – mi ha portato a girare per il mondo, sempre seguendo le tracce di qualche nobile distillato. Ho avuto occasione di visitare le zone in cui sono prodotti il Cognac, l’Armagnac, il Calvados, il Whisky e così via, e ho notato che tutti questi distillati erano supportati da una certa attività di carattere informativo, condotta da organismi sia pubblici sia privati. Ho cercato di capire quali fossero gli elementi comuni di tutti i diversi ecomusei che mi è capitato di vedere». Sono tre, ricorda sempre Poli, i motivi per i quali in genere nasce un ecomuseo: «L’esistenza di un patrimonio culturale da salvare, la tecnologia e l’interesse palese o meno delle persone». Nasce da qui anche il museo della Grappa Poli, «da un’esigenza di tutela di un patrimonio culturale che sta scomparendo». A scomparire sono le artigianalità che stanno dietro l’alambicco, la manualità della distillazione, la magia di quei gesti che pescano nella tradizio-
I Gli altri musei della grappa Il museo Poli non è tuttavia l’unico in Italia dedicato alla Grappa. In Piemonte negli storici locali in tufo e mattoni della distilleria Mazzetti viene raccontata una storia fatta di passione, amore e materie prime. Qualcuno dice che la fortuna di certi Armagnac e di alcuni Cognac viene fatta dal cattivo vino (in genere infatti questi due distillati sono resi possibili dalle uve scartate, cioè non destinate alla produzione del vino), in realtà per la Grappa è tutto il contrario. È come se la Grappa fosse un secondo prodotto. Prima si mette da parte il succo per il vino e poi si pensa, con intelligenza e sapienza, alle bucce.
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Nasce così questo succo che racconta molte sfumature del territorio. A metà Ottocento risale il primo alambicco a vapore, che si può ammirare nel museo piemontese, assieme a documenti dell’epoca, fotografie storiche e altre curiosità, come le originali bottiglie in vetro soffiato. Museo della Grappa e della distilleria Mazzetti (Altavilla Monferrato), www.altavilla.com, 0142 926185. Ad Asti troviamo invece il Museo Berta, che, oltre a una selezione di strumenti da lavoro, racconta la storia della distilleria della famiglia Berta dove, tra le Langhe e il Monferrato, sono solo i tempi degli alambicchi a vapore, il loro lavoro incessante, lungo i mesi e gli anni, l’odore delle bucce in trasformazione, che danno il senso della storia. Una storia materiale che si perde in queste campagne belle e forti. Museo Berta, Asti, www.distillerieberta.it/museo.php Altri musei da non perdere si trovano in Europa. Uno è il Museo della Grappa in Baviera, l’altro è quello di Vienna. Più piccolo il primo, più ricercato ed esclusivo il secondo, sono due tappe importanti per un viaggio alla ricerca delle radici e del gusto. A Vienna sorge lo Schnapsmuseum (www.schnapsmuseum.com). Vale veramente la pena di visitarlo, perché è un esempio di esaltazione della cultura del saper fare e del saper bere. I La curiosità: Grappa o Acquavite? La Grappa veniva sicuramente prodotta in Friuli già nel 1600, anche se il termine “grappa” viene correntemente usato solo alla fine del XIX secolo. “Grappa” è molto simile a grappoli e proprio dal grappolo si prende la materia prima del distillato, ovvero la buccia dell’uva, le vinacce. Acquavite deriva dal latino, aqua vitae, ovvero acqua di vita, cioè acqua che ridà la vita o la allunga. Nei manoscritti medievali si trova talvolta anche la dicitura aqua vitis, cioè gli avvitamenti dei bracci dell’alambicco. I due termini sono sostanzialmente intercambiabili, anche se con acquavite si tende a chiamare i distillati che provengono oltreconfine, mentre con Grappa si identifica proprio il prodotto italiano.
Vino e architettura
Le
cattedrali
del vino sbarcano in
Laguna di Alessia Cipolla
A VENEZIA
UNA MOSTRA
DEI PROGETTI DI ALCUNE DELLE PIÙ BELLE CANTINE
COSTRUITE IN ITALIA NEGLI ULTIMI ANNI
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a dodicesima Mostra internazionale di architettura di Venezia, organizzata dalla Biennale di Venezia, ha avuto come tema People meet in architecture. La curatrice è stata l’architetto giapponese Kazuyo Sejima, prima donna a occuparsi personalmente della Mostra veneziana. All’interno degli eventi collaterali della mostra, all’hotel Danieli, l'Ordine degli Architetti pianificatori paesaggisti e conservatori di Roma e provincia e l'Istituto nazionale di architettura, hanno presentato “Le cattedrali del vino: incontro di due culture”, una mostra dei progetti di alcune delle più belle cantine realizzate in Italia negli ultimi anni. Per completare il percorso espositivo è stato organizzato un aperitivo con degustazione di alcuni vini delle cantine presenti. L’evento ha permesso di sviluppare una riflessione culturale e scientifica sui temi della progettazione di aziende vitivinicole e della trasformazione del mondo dell’ enologia, in un continuo dialogo con le diverse componenti paesaggistiche: vale a dire che le cantine vitivinicole sono edifici che contribuiscono alla valorizzazione dei luoghi, della cultura e delle tradizioni locali. La creatività architettonica, puntando sulla valorizzazione del contesto, ha intercettato la sperimentazione enologica e spesso, insieme, hanno creato una interessante connessione tra tradizione e contemporaneità. La Mostra internazionale di architettura dei giardini della Biennale e gli eventi collaterali organizzati in Laguna, hanno attivato una discussione aperta sul ruolo dell’architettura, intesa come spazio sociale, dove, appunto, la gente si incontra: una ricerca sui luoghi come riflessi della società contemporanea e dei nuovi modi di vivere lo spazio; l’architettura come spazio di condivisione, dove la gente si conosce, si scambia informazioni, idee, riferimenti culturali ma anche emozioni e
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sensazioni. 53 le Nazioni presenti, tra cui, per la prima volta il Regno del Bahrain, vincitore del Leone d’Oro per la migliore Partecipazione nazionale e anche Albania, Iran, Malesia, Repubblica del Ruanda e Thailandia. La presenza di alcuni edifici di “wine making” all’interno della Mostra internazionale veneziana è la dimostrazione dell’interesse che il tema progettuale delle cantine ha acquisito nel tempo, diventando centrale per una considerazione più ampia sulla valorizzazione del territorio e del prodotto vino. Molti dei progetti presenti sono già stati recensiti all’interno di questa rivista. Ma sorge una domanda: perché “Cattedrali del vino”? È apprezzabile l’atteggiamento referenziale nei confronti delle cantine, dalle quali nasce un prodotto così “sacro”, ma l’identificazione con la cattedrale potrebbe risultare fuorviante. Certamente le cattedrali hanno rappresentato il riferimento visivo e identificativo di una comunità sin dal Medioevo, la cui costruzione, opera della manovalanza locale e di architetti-muratori, è stata spesso il risultato di geniali tecniche costruttive e materiali sia tradizionali sia locali. Questi elementi potrebbero rappresentare una buona partenza compositiva per la costruzione delle nuove “cattedrali” del vino. Le cantine non possono tuttavia essere solo “segni” riconoscibili all’interno di un certo paesaggio ma costituiscono spazi prezio-
si all’interno del “fare sistema” di un determinato territorio. Le cantine rappresentano, inoltre, luoghi vivi, animati, di relazione e oltre a essere l’ incontro di due culture, quella architettonica contemporanea e quella enologica, sono, prima di tutto, spazi di lavoro e di produzione: un workplace a tutti gli effetti con laboratori, uffici, spazi vendita, aree di degustazione che comunicano valori aziendali al consumatore. E inoltre, se è vero che People meet in architecture, (la gente si incontra nell’architettura) la cantina è soprattutto un luogo dove le persone hanno l’occasione di incontrarsi e incontrare un prodotto meraviglioso, parlandone, conoscendolo, discutendone con i produttori evitando, magari, un religioso silenzio. Degustare il vino è attività meditativa, intima, certamente ma è forse giunto il momento di comunicare maggiormente le proprie curiosità ed esperienze sensoriali. Se il paesaggio è il campo “sacro” dove l’architettura e l’enologia si incontrano, la gente, People, non può restare ordinatamente a meditare, ma ha il pieno diritto di interrogarsi e ottenere risposte esaustive che si celano dietro il mistero del Vino. UNA CANTINA IN SIMBIOSI CON IL PAESAGGIO A una ventina di chilometri da Grosseto la Cantina Poggio La Comare di Collemassari a Cinigiano è frutto dell’incontro tra l’azienda vitivinicola ed 49
Vino e architettura
Edoardo Milesi di Bergamo, architetto attento alla progettazione bioclimatica. Un progetto compatto, semplice ma con una grande qualità architettonica sia per gli spazi progettati sia per i materiali utilizzati: un edificio che è nato per sfruttare al meglio le risorse naturali: vento, luce, acqua e paesaggio. Come nei migliori impianti di vinificazione, le uve cadono per gravità nella sottostante area di vinificazione dal grande piazzale di conferimento: il piazzale termina con un edificio dalla struttura in pilastri e travi in cemento bianco, una sorta di pergolato “architettonico”, che accoglie la sala di degustazione e gli eventi conviviali organizzati dall’azienda. Sullo stesso livello emerge la palazzina degli uffici, un cubo in cemento bianco e legno che ospita anche lo spazio vendita. Al piano inferiore del piazzale troviamo oltre alla zona di vinificazione anche l’area di imbottiglimento; proseguendo ulteriormente nel percorso di creazione del vino, al piano inferiore ha sede la barricaia e la zona dell’affinamento in bottiglia. I magazzini, i locali tecnici e il ricovero dei mezzi agricoli sono ricavati nella collina. Il progetto si presenta al magnifico paesaggio circostante come una scatola in legno dove tutti i suoi elementi seguono soluzioni di architettura bioclimatica. Le pareti ventilate a doghe in cedro rosso canadese permettono alla luce diretta del sole di filtrare attraverso le vetrate a bassa emissività per bilanciare la luce naturale; ventilata è anche la copertura
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con una struttura in larice lamellare rivestita da lastre in zinco titanio per la protezione all’acqua; le murature di tamponamento utilizzate, in termolaterizio impastato con farina di legno, hanno un grande spessore ed è stata mantenuta a vista la parete in roccia naturale per permettere all’umidità del terreno di filtrare nell’edificio. Nella barricaia i pavimenti sopraelevati, che fungono anche da collettori delle acque di drenaggio, sono rivestiti in cotto in quanto favoriscono la qualità e la quantità dell’umidità controllata dell’area; il controsoffitto è invece stato realizzato in doghe di legno di cedro, in quanto potente fungicida naturale: la ventilazione avviene in maniera naturale, attraverso l’apertura e la chiusura di prese d’aria, strategicamente posizionate in corrispondenza di intercapedini che fungono da camini naturali. Il progetto, con grande attenzione per tutte le fasi di vinificazione, ha voluto mantenere sotto controllo i campi elettromagnetici che si concentrano sui contenitori in acciaio, causando la modificazione delle molecole del vino, e la presenza di insetti, limitata da percorsi obbligati studiati in base alla dinamica e allo “stile di vita” del moscerino da mosto. Tutta l’acqua utilizzata nelle varie fasi di lavorazione viene recuperata, depurata e stoccata in diverse tipologie di cisterne, usata più volte e in fine inviata verso un impianto di fitodepurazione dove viene poi riutilizzata per l’irrigazione delle vigne. È un progetto che restituisce al paesaggio ciò che si è preso.
Nuove tendenze
Quelle antiche
ricette
“rivisitate” di Piermaurizio Di Rienzo radizione e innovazione, in cucina e in cantina. Il giusto mix di queste due componenti è il punto di forza di Cibo&Vino, enoteca-ristorante di Milano, in viale Isonzo 24, a pochi passi da Porta Romana. È una storia d’amore quella che lega la titolare Alessandra Zucchini all’arte culinaria: passione per le buone cose, secondo antiche ricette da rivisitare. Il risultato è sorprendente: dal classico risotto milanese si è passati al “ZZ Top”, con zafferano e zenzero. Oppure altre sperimentazioni di successo come il risotto al melograno o alle bollicine rosé, a seconda della stagione. Il discorso si ripete con i secondi, come la cotoletta di vitello alla milanese, non battuta e cotta nel burro chiarificata. La ricerca della qualità, rigorosamente italiana (per non dire lombardo-emiliana), si manifesta particolarmente nei taglieri di salumi e formaggi, provenienti da piccoli produttori scovati con straordinaria meticolosità. «Andiamo alla scoperta del territorio e ci piace proporre ai clienti il risultato delle
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nostre ricerche – spiega Zucchini. Ci proponiamo come una trattoria tradizionale, dove, però, si possa gustare anche qualcosa di nuovo. Ai piatti popolari, come il bollito misto o il risotto alla milanese, affianchiamo portate particolari». Qualche esempio? Salmone marinato con yogurt all’aneto, flan di cardo con fonduta di Raschera, maccheroncini al torchio al ragù di campagna, oltre alle già citate varietà di risotto. Ma il fiore all'occhiello di questo locale è la cantina, che offre una scelta tra 350 etichette di soli vini italiani. Un’offerta che è stata costruita con poche semplici regole: rapporto qualità-prezzo e ricerca territoriale. Piccoli e grandi produttori si avvicendano sugli scaffali, in rappresentanza di tutte le regioni del Belpaese. Molte bottiglie, per la verità, sono un’eredità della vecchia gestione, ma la mano dei nuovi titolari già si vede. La carta dei vini è suddivisa sia per tipologie, sia per aree geografiche. Cibo&Vino si avvale anche delle valutazioni di Duemilavini per una sem-
L L'interno di Cibo&Vino
L La cantina di Cibo&Vino
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L Risotto al melograno
L Cotoletta della Madonnina
L Dessert e vino passito
plice legenda che a livello grafico permette al cliente di individuare la caratura della bottiglia scelta. E vengono contrassegnati con un particolare richiamo quei vini ottenuti da coltivazione biodinamica. I consigli di Giacomo, figlio della titolare, sono tutti indirizzati verso piacevoli scoperte. Come il Centoundici di Cascina Zoina, azienda di Oleggio, in provincia di Novara: un Nebbiolo al 100%, affinato quattro mesi in acciaio. Il risultato è un rosso immediato dal sapore fresco con una tannicità piuttosto moderata, ideale per accompagnare gran parte dei piatti proposti nel menù del ristorante di viale Isonzo. Semplice, ma piacevole, la degustazione di uno Chardonnay della cantina pugliese Tormaresca, unito nella serata del primo compleanno del locale, nel dicembre scorso, a un piatto di maccheroncini ai broccoli. Altro testimone di una ricerca accurata è il Recioto della Valpolicella di Corte Sant’Alda, di Mezzane di Sotto, in provincia di Verona: vino ottenuto da uve certificate biologiche raccolte a mano e riposte in piccole casse ad appassire secondo il sistema tradizionale. Sorpresa tra le sorprese è poter scegliere tra i passiti un Moscato di Scanzo della cantina Castello di Grumello. Un vino bergamasco, che nasce nella più piccola denominazione d’origine italiana, ma ricco di storia. Considerato “di nicchia”, estremamente profumato, straordinario per la meditazione, si adatta benissimo anche per accompagnare formaggi erborinati o dolci a base di cioccolato. Tra i produttori delle colline di Scanzorosciate il rammarico più ricorrente è proprio quello di non riuscire a farsi conoscere come si deve. Assente in gran parte dei ristoranti bergamaschi, il Moscato di Scanzo fa la sua comparsa nella carta di Cibo&Vino: «È stato un
amore a prima vista», racconta Alessandra Zucchini, accompagnandolo con una semplice quanto ottima torta al cioccolato. Presto, però, arriveranno ulteriori novità. Come il Nero d’Avola della cantina Morgante o il Taurasi di Rocca dell’Angelo. Per le bollicine la scelta è ricaduta sui Franciacorta de Le Marchesine, azienda giovane di Passirano, che negli anni si è affermata in Italia e all’estero per uno stile elegante. Dalla zona di Soave si aggiungeranno anche le pregiate etichette di Fattori. Il ristorante di viale Isonzo esiste da poco più di un anno. In questo periodo, il lavoro dei titolari è stato quello di affiancare la loro filosofia ad alcuni baluardi preesistenti in cantina. Pertanto, se circa la metà delle etichette fa parte dell’eredità della precedente gestione, l’altra metà rientra nel nuovo progetto di selezione. Seguendo una consolidata usanza anglosassone, e a causa dei continui controlli sulle strade, vi consiglieranno anche di portare via il resto della bottiglia non consumata al ristorante e di brindare comodamente tra le mura domestiche. Cibo&Vino è anche divertimento. Ogni ultimo mercoledì del mese si organizzano le serate Tapas y Musica. Il titolo non deve trarre in inganno gli amanti dell’italianità… Il menù prevede infatti stuzzichini italiani (mozzarelle in carrozza, bignè di riso, alici in carpione, crostini alla toscana, mondeghili) da abbinare con un calice di vino. Così con 35 euro si trascorre la serata con musica dal vivo. Il consiglio, ovviamente, è prenotare: i coperti sono 35 al piano di sopra e 45 di sotto, zona adibita esclusivamente a cantina. Il locale è aperto dalle 19,30, sette giorni su sette, con chiusura della cucina alle 23.
L La cantina di Cibo&Vino
L Piatti di tapas 53
Donne nel vino
Il vino
declinato
al femminile di Michela Lugli
DA BARBE NICOLE CLICQUOT-PONSARDIN
AI GIORNI NOSTRI SONO SEMPRE PIÙ
NUMEROSE LE DONNE CHE SI OCCUPANO CON SUCCESSO DI SOMMELLERIE, CANTINE ED ENOTECHE
rima delle due figlie di un ricco commerciante e sposa di François Clicquot produttore di un vino spumante torbido e un poco più dolce dell’attuale champagne, Barbe Nicole ClicquotPonsardin vissuta a Reims tra il 1777 ed il 1866, ereditò a soli 28 anni dal marito l’azienda di famiglia e, contro tutte le tradizioni, optò per dirigerla da sola con l’aiuto del suocero e dell’amica Louise Bohne divenendo una delle prime imprenditrici dei tempi moderni. Nonostante le difficoltà, fu più volte sull’orlo del fallimento per l’impossibilità di ottenere credito dai banchieri, 5 anni più tardi ottenne il suo primo millésime e un anno più tardi conquistò il mercato russo, impresa nella quale aveva fallito il marito. La gestione imprenditoriale e lungimirante – fece murare gli ingressi delle caves per evitare che i soldati prussiani e austriaci le depredassero ma offrì bottiglie agli ufficiali russi che avrebbero, in futuro, potuto essere ottimi clienti – ebbe come obiettivo costante la perfezione: «Una sola qualità, la primissima». Per ottenerla inventò la table de remuage grazie alla quale le bottiglie inclinate con il collo più in basso del fondo, potevano essere ruotate manualmente così da lasciar scivolare i depositi del vino, che doveva invecchiare almeno un anno per formare le bollicine di anidride carbonica, nel collo e sul tappo. Il vino restava chiaro e limpido. Il metodo (champenoise), mantenuto segreto per 15 anni in una città dove tutti si conoscevano – pare che madame Cliquot condividesse i profitti con il personale –
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L Elena Martusciello 54
ottenne successo immediato. Nel 1841 dopo quasi quarant’anni, lasciò la direzione dell’azienda che sotto la sua guida aveva quintuplicato la produzione (mezzo milione di bottiglie l’anno) e le vendite. Barbe Nicole Clicquot, donna dalla grinta eccezionale, a metà del 1800 era un esempio rarissimo se non unico (un ringraziamento per la storia a Sylvie Coyaud e all’enciclopediadelledonne.it). Nei 150 anni a venire la determinazione di madame Cliquot si manifesta in un numero sempre maggiore di imprenditrici e ha visto crescere e svilupparsi in mani femminili, numerosi sentieri tessuti in contesti tradizionalmente maschili che le hanno spesso portate verso risultati di successo degni di nota. Elena Martusciello, dallo scorso gennaio presidentessa dell’Associazione nazionale donne nel vino, affiancata dai figli e dai nipoti ne è un esempio. Donne nel vino nasce, con l’obiettivo di fare rete, 22 anni fa per volontà di un piccolo gruppo di imprenditrici che si sentiva sola in un ambito lavorativo fino a pochi decenni or sono prettamente maschile. Un po’ come la vedova Cliquot, anche Donne nel vino ha avuto un’intuizione lungimirante in largo anticipo sui tempi: ha saputo cogliere l’importanza di legare percorsi di settori diversi tra loro ma con un comune denominatore, il vino. È per questa ragione, spiega Elena, «che le associate sono produttrici, sommelier professioniste, ristoratrici, enotecarie e giornaliste enogastronomiche. Con la loro attività hanno contribuito a far crescere la valorizzazione del legame tra territorio, vino e gastronomia di qualità. Ognuna con la propria storia, sono accomunate dalla passione e sanno essere costruttive, determinate e intelligenti, non per intelligenza superiore, ma per approccio nelle decisioni. L’uomo spesso perde di vista l’obiettivo e si impunta pur di affermare una personalità, un ego, la donna è pragmatica e dovendo scegliere tra il bene suo e il bene di tutti sceglie per quest’ultimo». A capo dell’azienda Grotta del Sole, Elena per prima è stata capace di rinnovarla portandola da una tradizione di sfuso fino a un imbottigliato d’eccellenza. «Ho prima di tutto perseguito la qualità valorizzando le produzioni autoctone e sono arrivata a concorrere alla realizzazione di quattro Doc nella regione Campania. Siamo sempre esistite dietro alla figura maschile» racconta Elena, «per molto tempo abbiamo mantenuto un approccio timido. Quando però riusciamo, e molto spesso accade per necessità, a prendere coscienza sappiamo emergere. Sono ormai 40 anni che lavoro in azienda, ho iniziato tra quattro uomini. Vengo da una famiglia matriarcale, avendo avuto la sfortuna di perdere il padre a 11 anni. Una mamma eccezionale è stata per me un forte riferimento femminile e forse, proprio questo, amalgamato alla realtà tutta maschile dell’azienda di mio marito, mi ha spinto a fare emergere le mie potenzialità; anche perché l’alternativa era soccombere» scherza Elena. «Ho lavorato con tanta umiltà per
Come bevono le donne? Come spiega Marilena Postiglione, le donne che frequentano la sua enoteca hanno un approccio più aperto e curioso dell’uomo lasciandosi stupire da nuovi prodotti. «C’è il cliente che si lascia consigliare, soprattutto nell’abbinamento con il cibo, ma con le donne è più facile parlare e arrivare a dare buoni consigli». Secondo Valentina Merolli, in accordo con Nicoletta Gargiulo, la donna al ristorante non beve o beve poco e comunque vini morbidi e rotondi prediligendo vini frizzantini, dolci e aromatici, mostrando scetticismo per vini rossi strutturati e tannici. Come afferma Elena Martusciello, fino a pochi decenni fa bevevano soprattutto gli uomini, le donne si sono avvicinate più tardi quindi il consumo femminile di massa, nato da un approccio più responsabile, crescerà. Per questa ragione, oltre a voler ricordare alle consumatrici che ci sono altri vini che meritano la nostra attenzione andando alla ricerca dell’equilibrio e dell’abbinamento, vogliamo regalare due consigli delle nostre plurititolate sommelier. Nicoletta lancia un invito a scoprire i vini bianchi campani che tradizionalmente vengono consumati d’annata, anche dopo 10-12 anni «ho degustato un Fiano di Avellino del 1998 che mi ha sbalordito: aveva acquistato complessità, ricchezza e profumi». Valentina, in virtù della sua grande passione per i vini biologici e biodinamici, li consiglia in quanto «vini genuini di qualità. Meno si riesce a manipolare il vino e meglio è ma occorre essere bravi, non si può improvvisare, solo così si può dare un prodotto veramente valido arrivando ad avere grandi vini. In occasione di Enogenio, è stato citato Michel Chapoutier produttore biodinamico la cui filosofia sostiene che il biodinamico toglie tutto ciò che non serve dando una esatta fotografia del terroir con la massima pulizia possibile. I suoi vini sono infatti meravigliosi e danno massima espressione al territorio e alla pianta».
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Donne nel vino arrivare al ruolo che rivesto oggi, ottenuto non perché sono donna ma per l’opportunità che ho avuto. Va garantito questo, le opportunità tanto alle donne quanto agli uomini, così che ciascuno possa dimostrare il proprio valore sul campo. Anche se sei donna se sei in gamba, magari con tempi più lunghi, maggiori sacrifici, dovendo fare due per vedersi riconosciuto uno, alla fine arrivi ad essere professionalmente riconosciuta». Il Global gender gap report che indaga le differenze di genere nel mondo, pubblicato ad ottobre dal World economic forum, dipinge però un’immagine della nostra bella penisola davvero drammatica. Lo studio che considera la parità salariale, l’occupazione e l’opportunità di carriera delle L Nicoletta Gargiulo, Miglior Sommelier d'Italia 2007 donne, colloca l’Italia all’ottantasettesimo posto per occupazione; al centoventunesimo per parità salariale e al donna. Ma ho arginato questo aspetto perché sono novantasettesimo per opportunità di ricoprire inca- un professionista come lo è un uomo; lavoro tutti i richi importanti. Il tutto riassunto in un settanta- giorni al ristorante e combatto al lavoro proprio come quattresimo posto nella classifica mondiale dopo la lo fa un uomo, non ci trovo niente di strano nel fatto Colombia, il Perù e il Vietnam. Ben sette posizioni che una donna raggiunga un obiettivo di questo genesono state perse dal nostro Paese solo negli ultimi re». Nicoletta è un esempio felice, e anzi afferma di due anni e, in aggiunta, le lavoratrici italiane gua- aver sempre lavorato con uomini e di prediligere addidagnano in media il venti per cento in meno degli rittura la condivisione del luogo di lavoro con queuomini. Nelle aziende vitivinicole però, per la loro sti ultimi. Dopo aver fatto esperienza in diversi ristocaratteristica di realtà a gestione aziendale, secon- ranti stellati e aver conquistato anche il titolo di do quanto spiega Elena Martusciello, questa proble- Miglior sommelier della regione Campania, oggi è il matica non sembra essere particolarmente viva. «Le primo presidente donna dell’Associazione italiana persone nelle nostre aziende non sono numeri – spie- sommelier Campania. «Mi sono circondata di più ga Elena – quindi è più facile percepirne il valore donne, quattro nel mio direttivo, perché penso che indipendente dal genere; vediamo le donne che il sesto senso femminile, soprattutto dal punto di comandano e sono un punto di riferimento per vista professionale, aiuti. Non ci si deve porre dei l’azienda. È un aspetto penalizzante la mancanza di limiti in quanto donne, anzi, in molti casi veniamo un sostegno a livello di servizi e strutture volti a con- maggiormente apprezzate per la capacità di gestire ciliare la vita lavorativa con quella familiare. È vero, i rapporti interpersonali con maggiore garbo e spesle coppie sono diverse da trent’anni fa, qualche uomo so abbiamo una più spiccata sensibilità olfattiva. rimane a casa in paternità, ma sono eccezioni che Non ho mai vissuto differenze o discriminazioni dal punto di vista della credibilità professionale né remuconfermano la regola». Esempio di grinta e passione per il proprio lavoro, nerativa» ma, e Nicoletta ne è consapevole, lei rapNicoletta Gargiulo sommelier professionista, è riu- presenta un campione d’eccellenza. «Avere vinto il scita in barba alla sua giovane età dopo aver ricevu- concorso italiano mi ha permesso di non vivere molte to un punteggio strabiliante all’esame finale per problematiche messe a tacere dal fatto di aver otteSommelier, a conquistare il titolo di Miglior Sommelier nuto un risultato schiacciante anche sugli uomid’Italia nel 2007. «Ero l’unica donna in concorso, 15 ni». uomini ed io» racconta «sono rimasti tutti straniti «Il problema di una donna in carriere subentra quandalla mia preparazione folgorante, ero l’outsider, do si diventa mamma – ammette Nicoletta – Adesso c’erano persone più titolate per vincere il concorso. sono presidente dell’Associazione italiana sommeIl mio risultato ha avuto una grandissima risonan- lier Campania, carica che avrei accettato comunque, za, infatti, prima di me solo un’altra donna ven- faccio lezione, sono relatore, curo altri aspetti del t’anni fa, conquistò il titolo. In verità – spiega Nicoletta vino e faccio consulenze ma non riesco più a essere – c’è stata strumentalizzazione per il fatto che io fossi al ristorante per tutte quelle ore come lo facevo prima. 56
L Valentina Merolli
L Marilena Postiglione
Posso dire che la maternità ha momentaneamente fermato anche Nicoletta e su questo aspetto probabilmente c’è molto da lavorare; il bimbo è piccolo, ha 15 mesi, appena possibile tornerò a lavorare come prima, penso già per l’estate prossima». Un po’ diversa l’esperienza di Valentina Merolli, sommelier professionista segnalata come migliore corsista Ais e vincitrice della borsa di studio Bonaventura Maschio, del Master Sangiovese 2009 e del titolo Miglior sommelier di Toscana nel 2010. «Ho fatto molta fatica – spiega Valentina – trovandomi spesso in situazioni poco piacevoli per il fatto di essere un sommelier donna. Ho trovato maître che mi facevano fare i cappuccini. Le più grandi soddisfazioni le ho avute con un maître donna, mi ha insegnato moltissimo, ero ancora agli inizi ma ha creduto in me e mi ha dato massima fiducia, lavoravo bene. Sono stati anni difficili – spiega – Ho molto studiato per partecipare ai concorsi che sono riuscita a vincere con soddisfazione davvero grande che però non mi è stata riconosciuta sul luogo di lavoro, dove anzi mi sono stati messi i bastoni tra le ruote quando ho manifestato la volontà di volervi partecipare. Atteggiamento mai messo in atto con i miei colleghi uomini. Fortunatamente i clienti hanno sempre mostrato molto apprezzamento del mio lavoro, regalandomi grandi soddisfazioni». La tenacia e la passione di Valentina la stanno portando oggi, dopo aver fatto esperienza in molti ristoranti stellati, sulla strada della libera professione: «Avere vinto il titolo regionale mi ha fatto fare il salto di qualità e ora mi sto avviando alla libera professione per fare degustazioni, consulenza, serate tematiche di formazione e informazione. Si sono aperte diverse strade e vedremo. Sicuramente non tornerò
a lavorare in sala se non per occasioni particolari perché sento di avere bisogno di parlare di vino e rapportarmi con le persone lontano da maître e chef». Storia di imprenditrice di se stessa, infine, quella di Marilena Postiglione sommelier professionista che ha svoltato, abbandonando l’attività di ufficio e aprendo un’enoteca. «Ho iniziato ad apprezzare e conoscere il vino grazie a un uomo, Sergio, il mio attuale compagno. Non bevevo ma con lui ho scoperto la voglia di saperne di più. Ho studiato con già in testa il mio progetto, mi sono detta “non posso aprire un enoteca senza sapere nulla di vino e quindi devo studiare”. Prima il corso Ais e quindi con Raffaella, mia sorella assaggiatrice di formaggi, abbiamo concretizzato la nostra idea». L’enoteca, la cui atmosfera è permeata del famoso valore aggiunto femminile si trova a Pioltello, nell’hinterland milanese, e offre un’ampia carta di vini che vengono scelti da Marilena per degustazione. «Il fatto di essere due donne, per di più aiutate da due uomini, abbiamo proprio ribaltato i ruoli classici – ride Marilena – suscita qualche volta stupore nella clientela, ma non ho mai avuto problemi di nessun genere né con i fornitori né con i clienti i quali, soprattutto, quando ti danno l’opportunità di discorrere di vino colgono la tua competenza e sono molto ben disposti. Certo, è vero si deve sempre dimostrare di essere all’altezza – ammette – tranne quando – e sorride – c’è chi ti fa i complimenti ancora prima che tu apra bocca, solo perché sei donna». «Appartiene a molte donne l’intelligenza di non essere aggressive e di non fare finta di essere uomini; gli eccessi portano sempre fuori strada, non dobbiamo eguagliare l’uomo perché siamo donne, siamo diverse e dobbiamo essere felici delle diversità». 57
Mappamondo
Il grande festival del
vino
ungherese di Stefano Quagliere
NEL CASTELLO
DI BUDA LA POSSIBILITÀ DI DEGUSTARE LE ECCELLENZE DI UNA TERRA CAPACE DI REGALARE GRANDI SORPRESE ENOLOGICHE
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umeri contrastanti ma successo in salita per la 19esima edizione del Budapest wine festival, svoltosi nel Castello di Buda. Oltre duecento cantine di grandi e piccoli produttori, quasi tutti ungheresi, rappresentate tutte le regioni vinicole dell’Ungheria, una terra troppo
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spesso dimenticata dagli addetti al settore o univocamente identificata con il suo prodotto più famoso: il Tokaji. Il festival ha offerto, invece, la possibilità di viaggiare idealmente per tutto il Paese, dai terreni vulcanici del Badacsony e di Somlò, vocati per il vino bianco, alle regioni dell’Eger, di Szekszard e di Villany, maggiormente note per i vini rossi, fino ad arrivare, inevitabilmente, a sua maestà il Tokaji, dal cui territorio erano presenti ventotto produttori, tra i più noti della regione. L’ospite d’onore di questa edizione è stato il vino ungherese del Bacino Carpatico, in ricordo della grande Ungheria imperiale, una macro-regione che andava dall’odierna Slovenia, alla Slovacchia, fino alla Transilvania (l’attuale Romania). Un mondo a parte, quello della viticultura ungherese, una tradizione secolare che si è sviluppata in maniera apparentemente autonoma e distaccata da quella occidentale, come testimoniato dalla parola stessa bor (vino in unghe-
L Il Wine Festival nel Castello di Buda
rese), che non rispecchia alcun legame con la radice vin-um, diffusa nel resto del continente. Un’occasione ghiotta e unica per apprezzare vitigni presenti solo in queste regioni, come i bianchi Kéknyelű, Harslevelu o il Budai Zöld, uno dei vitigni tradizionali ma quasi dimenticati durante la parentesi socialista, quando molti di questi vigneti vennero sradicati per far posto a uve che promettevano rese maggiori e ora riportati alla luce da aziende che credono fortemente nella riscoperta delle proprie radici contadine. Uve che danno vini dalla spiccata acidità, quasi tutti fermentati in acciaio per mantenere intatte le loro caratteristiche varietali, che possono permettersi di affrontare discreti periodi di invecchiamento. Per i rossi, da evidenziare il Kekfrankos (il tedesco Blau fränkisch) e il semi-sconosciuto Menoire (o Médoc nero). Una tradizione secolare che lascia spazio a nuove sperimentazioni, come il bianco Kabar, singolare
L Il famoso pane fritto 59
Mappamondo incrocio di uva Hárslevelű e Bouvier e il Turan, un incrocio di diversi vitigni rossi, brevettato nel 1985, dai sentori molto fruttati e vegetali, che possono ricordare un Cabernet Franc. La precedenza delle degustazioni è stata focalizzata sui vigneti locali, lasciando in secondo ordine gli internazionali, che pure stanno suscitando un interesse crescente del mercato, anche per l’ottimo rapporto qualità-prezzo. Tra gli stand anche una quindicina con cibo di strada: salsicce, polli e il famoso pane fritto, tradizionalmente servito con panna acida e abbondante sale. Quindi non solo vino ma anche mostre, spettacoli folkloristici, concerti e un’asta di beneficenza che ha per messo di raccogliere circa 12mila euro.
L Gli stand del Wine Festival nel Castello di Buda
LA DEGUSTAZIONE REGIONE BADACSONY Localizzata sulla sponda settentrionale del Lago Balaton, il paesaggio è caratterizzata dalla presenza dei vecchi apparati vulcanici basaltici. Già i Romani avevano scoperto le peculiarità del suolo e del microclima per la coltivazione della vite. Valibor Kéknyelű 2009 Una delle splendide sorprese dei vigneti tradizionali. Questo vino affina in grandi botti di rovere locale per 7-8 mesi, ma la permanenza nel legno non ne piega la grande mineralità e freschezza, aggiungendo sentori di frutta tropicale (soprattutto al naso) e grande morbidezza, per un insieme davvero equilibrato e gradevole. Produzione limitata a sole 1600 bottiglie.
REGIONE NAGY-SOMLÒ È la regione vitivinicola più piccola dell’Ungheria, circa 500 ettari totali, localizzati a Nord della più conosciuta Badacsony. Terreni più sabbiosi, ma sempre su substrato vulcanico. Tornai Pincészet Selezione Apatsagi Furmint 2007 Nettamente migliore questa annata, rispetto alla più recente 2008, anch’essa in degustazione, sia per la qualità delle uve, che per il maggior tempo passato in bottiglia che ha permesso al legno di amalgamarsi meglio, non coprendo semplicemente il gusto; la grande morbidezza ed eleganza donate dalla barrique ben si bilanciano con la spiccata acidità e il lungo finale minerale. Uno dei migliori degustati.
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REGIONE EGER Bikaver (sangue di toro) è il più famoso vino rosso di Ungheria e la regione di Eger, nel Nord-Est del paese, è particolarmente vocata per i vitigni che lo compongono. Il vitigno base (ora rimpiazzato dal Kekfrankos) fu introdotto dagli Ottomani. Demeter Pincészet Bikaver Selezione 2006 Questa annata ha un 50 per cento di Kekfrankos, 40 per cento di Cabernet Franc e 10 per cento di Menoire, raccolti a mano, con rese bassissime. Lungo passaggio di due anni in botti di rovere. Si presenta di un bel rubino chiaro, consistente, con sentori di frutta rossa. I tannini sono levigati al gusto, che risulta morbido ed equilibrato, anche se di corpo un po’ debole. Demeter Pincészet Cserje Turan 2006 Questo Turan in purezza è una vera sorpresa a cominciare dal brillante rosso rubino e dagli odori, intensi e complessi, incentrati sulla frutta rossa (fragola su tutte). Ben equilibrato e armonico in bocca, con buona persistenza. Due anni di invecchiamento in grandi botti da 500 litri donano tannini levigati e morbidezza.
REGIONE VILLANY La regione di Villany è una delle zone tradizionali di coltivazione della vite. Situata nel Sud del paese, le ore di insolazione sono tra le più alte, consentendo una buona maturazione delle bacche rosse. Vylyan Pincészet Duennium 2006 Uvaggio di Merlot, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon. Rosso rubino, al naso ancora un po’ chiuso, il fruttato riesce comunque a emergere dalla nota alcolica (15,5 per cento). Molto intenso e persistente al palato, con note fruttate e speziate di cacao e tabacco. Tannini ancora persistenti, ben bilanciati dalla componente morbida.
REGIONE TOKAJ La regione di Tokaj, situata nell’angolo Nord-Est dell’Ungheria, non ha bisogno di presentazioni. I suoli sono di origine vulcanica, con una importante componente minerale. Caratteristica una forte escursione termica sia annuale che diurna. La produzione del Tokaji Aszù merita una nota particolare. I grappoli botritizzati, raccolti singolarmente e leggermente pressati, sono sistemati in ambiente fresco, in attesa di essere miscelati con il vino base. In questa attesa, dai contenitori cola, per gravità naturale, il nettare dell’Essencia, con un contenuto zuccherino tra 500 e 700 g/lt. I grappoli sono quindi messi a macerare nel vino base o mosto base per 12-60 ore. Dopo la macerazione, i grappoli, saturi di vino, sono pressati e il succo avviato alla fermentazione. Il numero di Puttonyos indica il contenuto di zuccheri residui. Successivamente, lunga sosta in botte e bottiglia. Disznoko Szolobirtok 6 Puttoyos Tokaji Aszù 1999 Ambra brillante, intenso odore di frutta secca e candita, miele; dolce, ricco, fresco e “cremoso” al palato con sensazioni che riportano a quelle nasali. Bella nota minerale. Ben bilanciato e lunga prospettiva di invecchiamento. Dereszla Pincészet 5 Puttonyos Tokaji Aszù 2005 Colore giallo ambrato. Al naso rivela sentori di frutta secca (albicocca, scorza d’arancio) e di miele. Molto ben bilanciato tra dolcezza e freschezza, ha un buon finale minerale. Forse un po’ corto rispetto alle attese. 61
Turismo
Il Portogallo: arte, cultura ed enogastronomia di Elisa della Barba l Portogallo confina esclusivamente con la Spagna ed è lo Stato più occidentale dell’Europa. Affacciato sull’oceano Atlantico e favorito da questa particolare posizione privilegiata, ha costruito nel corso dei secoli un vasto dominio coloniale che si è esaurito poco meno di trent’anni fa. Durante l’Impero portoghese (iniziato nel XV secolo) il Paese viveva di commercio e scambio di materiali grezzi, con attività economiche che si estendevano nei
territori colonizzati come l’Asia, l’Africa e il Sud America. Col passare del tempo l’economia si è estesa, coinvolgendo nuovi aspetti del processo produttivo, con esportazioni che sono cresciute dell’11% nel giro di una quindicina d’anni. Tra recessioni e riprese economiche, però, oggi il Paese ha rallentato notevolmente i ritmi di crescita e sta cercando di mettersi al passo con gli standard dell’Unione Europea della quale fa parte dal 1986. Dal 2002 al 2007 il tasso di disoccupazione è aumentato del 65%, Una visione notturna di Lisbona con il ponte Vasco de Gama sullo sfondo arrivando nel 2010 al 10% (l’Italia ha registrato l’8,7% nel 2010). Nonostante le note difficoltà, il Portogallo rimane terra da scoprire per molti Europei e non solo. Nel 2010 si prevedono entrate di circa 12 milioni di dollari grazie al settore del turismo, registrando guadagni ben maggiori rispetto agli scorsi anni, il 2008 e il 2009. Si calcola infatti che il turismo contribuisca al prodotto interno lordo totale del Paese (che nel 2007 ammontava a $ 232 miliardi) con un lauto 5%. Il Portogallo si classifica infatti
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Il ponte Vasco de Gama sul fiume Tago a Lisbona
50.mo nel mondo per arrivi turistici con 1.072.000 persone: non male! Per quanto riguarda le nazionalità degli arrivi, i visitatori più assidui del Portogallo sono spagnoli, inglesi e tedeschi (in quest’ordine), mentre quelli che prenotano più notti negli alberghi (ovvero che pernottano di più) sono nell’ordine: Inghilterra, Germania e Spagna. Oltreoceano il numero di visitatori si fa piccolo, con turisti provenienti dagli Stati Uniti, Brasile e Giappone. Quello che è certo è che il turismo di questo Paese ha saputo diversificarsi nel tempo: partito con un turismo di massa, iniziato una ventina di anni fa, che non ha risparmiato spiagge e cattivo gusto nonostante abbia cercato di frenarsi grazie al (cattivo) esempio della Spagna, il Paese ha guardato oltre diversificando di molto l’offerta e i pacchetti turistici presentano ormai la vacanza perfetta per ogni tipologia di turista. Il Portogallo, proprio per la sua storia, attrae milioni di turisti ogni anno (nel 2006 Lisbona è stata la destinazione più popolare con 7 milioni di turisti, seconda solo alla Spagna).
L L'Isola di São Miguel, la più estesa delle Azzorre
Ma come scegliere cosa visitare? Innumerevoli i luoghi da non perdere. Prima fra tutti ovviamente Lisbona, che, per chi ancora non lo sa, proprio come Roma, Mosca, San Francisco, Seattle, Bath, Istanbul, è costruita su 7 colli. L’architettura abbonda, con il ponte di Vasco de Gama (il più lungo d’Europa), l’acquedotto antico das Águas Livres, risalente al XVIII secolo, il Castello di San Jorge (appena sopra l’Alfama). I quartieri sono Un suggestivo scorcio di Madeira
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Turismo L Lisbona, la Praça do Comé rcio M Il Queijo da Serra da Estrela
L Il Caldo Verde, una zuppa di cavolo, patate e lardo affumicato M Gli Azulejos sono decorazioni tipiche dell'architettura portoghese
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incredibilmente diversi tra loro, abbracciati dal mare e da pittoresche abitazioni. Tra i tanti, la già nominata Alfama, che offre ai visitatori le impronte storiche della presenza dei Mori, con le stradine irregolari e i palazzi addossati l’uno all’altro. Centro nevralgico della città è ovviamente una piazza, Praça do Comércio, piena di vita e, spesso, invasa dalla musica. Chiunque sia stato a Lisbona ha però un’immagine fissa che ritorna alla mente: il Monastero di Geronimo. Parte del quartiere di Belém, che annovera anche la Torre omonima e il magnifico monumento delle scoperte (dedicato agli esploratori, categoria largamente rappresentata dai portoghesi), è stato classificato dall’Unesco patrimonio dell’umanità nel 1983, una pennellata di bianco su sfondo blu che non si può dimenticare. E che dire dei parchi e della natura? Città a contatto col mare, Lisbona parla di verde e di blu. Dal giardino zoologico al gigantesco acquario, l’Oceanarium, dai giardini botanici agli spazi di relax vicino al porto, Lisbona è tutt’uno con l’ambiente che la circonda. Ma non c’è solo Lisbona ovviamente. Porto, patria del famoso nettare liquoroso di cui parleremo, è la città più grande del Portogallo dopo Lisbona. Si affaccia sul fiume
Douro ed è uno dei più antichi centri Europei. Passando dall’antico al moderno, se visitate la città non potete perdervi la Casa de Musica progettata dall’architetto olandese Rem Koolhaas. Setúbal è il terzo porto del Paese ed è anche sede vescovile. Anche lei ha una storia antica: era già abitata in epoca preistorica! Tra i monumenti, il Chiostro del convento di Jesus e il Castelo de São Felipe che domina la città. Molti i resort che offrono intrattenimento sportivo dall’interno alla costa, con una maggiore concentrazione di golf-resort nella regione dell’Algarve. E se lo sport non fa per voi, perché non visitare l’aripelago vulcanico di Madeira, riscoperta dai Portoghesi nel 1419 (l’isola infatti appare già in mappe risalenti al 1339)? Nota per il suo vino delizioso, è ormai celebre anche per i suoi bellissimi fiori e gli spettacoli pirotecnici per il nuovo anno. Da non perdere anche le Azzorre, 9 isole color smeraldo nel bel mezzo dell’Atlantico tra il Portogallo e il Nord America. Anche loro vulcaniche, conservano edifici dallo stile tipicamente portoghese risalenti al XVIII e al XIX secolo. Sottofondo, nelle viscere di questi luoghi, suona il fado, eteree note malinconiche, intangibili ma così presenti nella cultura di questo Paese. E infine non si può parlare di Portogallo senza nominare Fatima, centro religioso e spirituale grazie alle visioni della Madonna che si dice avvennero in questa cittadina nel 1917. Centinaia di turisti affluiscono qui per riunirsi e pregare, ricordando le apparizioni che si sono susseguite negli anni. Anche altre regioni si stanno aprendo al turismo, proprio per la politica del Paese che vuole diversificare e attirare ancora più visitatori. Tra le destinazioni promosse, la valle del Douro, l’isola di Porto Santo e Alentejo. E poi ancora Douro Sul, Templários, Dão-Lafões, Costa do Sol, Costa Azul, Planície Dourada. Tutte da scoprire, visto che se è
vero che l’Italia si piazza orgogliosamente fra i cinque Paesi più visitati del mondo bisogna anche dare atto al Portogallo che il vantaggio di un Paese non ancora completamente vincente per quanto riguarda il turismo è proprio quello di potersi godere ancora la sensazione di scoperta che è del tutto estranea in luoghi d’Europa ormai sdoganati. Questo non basta ovviamente, ma aiuta. Altra curiosità del Paese è che se di solito le attrattive di Parigi o Roma vanno a braccetto con l’enogastronomia creando amore a prima vista, per quando riguarda il Portogallo si può dire che la sua fama sia dovuta al 90% dai grandi vini che il territorio produce e solo un 10% (stando comunque larghi con le percentuali!) è dato dalla gastronomia. Perché questi due aspetti sono qui così diversi? Probabilmente perché è lo stesso territorio che decide la diversità degli ingredienti, ma sicuramente anche le tradizioni e la cultura di un popolo che non è ricco e non ha le stesse risorse che possono avere avuto Francia o Italia nei decenni passati. Va segnalata una curiosità: il Portogallo si posiziona al quarto posto nella classifica dei grandi bevitori d’Europa (niente di più lontano dalla Germania) con 12,9 litri di alcool puro pro capite. La precedono il Lussemburgo, la Francia e – guarda un po’ – l’Irlanda. Ma allora cosa si può bere in Portogallo? Si potrebbe quasi dire che la disponibilità vinicola va di pari passo con quella turistica, perché la situazione del Portogallo ha permesso al Paese di non essere invasa dai vitigni internazionali, puntando tutto sul locale. Territorio fortunato, quello di questo Paese: la sua forma gli permette di ottenere grandi differenze climatiche e quindi grande varietà tra i vini. Potremmo chiamarli quasi sponsor, i due vini per eccellenza del Portogallo: il Porto e il Madeira. Vini storici che hanno estimatori in tutto il mondo, non a caso.
Il Porto nasce per caso nel 1678, quando due mercanti inglesi assaggiarono questo prodotto nella valle del Douro e decisero di inviarlo in Inghilterra, aggiungendo astutamente del brandy locale per proteggerlo durante il viaggio. Diverse le tipologie di Porto prodotte: il White è giovane e leggero, il Ruby fruttato ma decisamente alcolico, il Tawny è un misto tra Porto Bianco e Porto Rosso, fatto poi invecchiare in botte, e il Late Bottled Vintage LBV che riposa in botte dai 4 ai 6 anni. E il Madeira? Il Madeira nasce in un’isola in mezzo all’Atlantico. Punto di sosta per le navi dirette verso le Americhe, si scoprì che proprio le stive dove venivano conservate le botti di vino riempite in quest’isola, che già produceva malvasia o malmsey, erano la “causa” degli sbalzi termici subiti dal vino, che grazie a queste restituivano, negli anni, sfumature odorose eccezionali. Si pensò così di ricreare questo effetto con la cottura del vino in apposite estufas. Anche qui, diverse le tipologie di vino, come il Sercial, il Verdelho, dolce e strutturato, il Bual, il Malmsey e il Terrantez. Ora che abbiamo parlato dei protagonisti, ricordiamo tra i vitigni a bacca bianca il fernão pires e síria, ma soprattutto loureiro, azal, tra-
L I tram di Lisona M Sua maestà il Porto!
L Sopa de legumes M Il maiale all'Alentejana
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Turismo L Il Bairro Alto di Lisbona
L La Valle del Douro
jadura e pederna, impiegati nella produzione del Vinho Verde bianco, che danno freschezza e profumi semplici di frutta e fiori bianchi. Il vino bianco più importante è a base di l’alvarinho, più complesso dei Vinho Verde e più “prepotente” nei profumi e negli aromi. Per il Madeira vengono impiegate varietà di malvasia o malmsey, oltre al moscatel, usato anche per il vino liquoroso di Setúbal. Per i vitigni a bacca nera ricordiamo il baga e il periquita, diffusissimo nel sud del Paese. La touriga nacional è l’uva a bacca nera più importante visto che viene utilizzata per la produzione del Porto, seguita dalle varietà della Valle del Douro (rilan-
L Un tipica barca che un tempo trasportava le botticelle di Porto a invecchiare a Vila Nova de Gaia 66
L La costa dell'Algarve
ciata appunto come meta enologica), ma anche la tinta barrica, la tinta roriz (chiamata anche tempranillo proprio come in Spagna). Sempre nel Porto, ma in piccole percentuali, è presente anche il souzão, che dona acidità e note fruttate ed è coltivato anche nella Repubblica Sudafricana. Tutti questi vini si accompagnano magnificamente ai piatti più tipici del paese, piatti poveri ma gustosi, come la caldeirada, una zuppa di pesce, la sopa de legumes, un passato di verdure con aggiunta di vino e spezie, e il caldo verde, una zuppa di cavolo, patate e lardo affumicato. Base importante della cucina sono le carni di maiale, capretto e manzo e ovviamente pesci e crostacei, di solito serviti fritti, grigliati o perfino bolliti. Combinazione curiosa ma tipica quella del maiale all’Alentejana che combina carne di suino con i frutti di mare, oppure il bife com batatas, bistecca di patate o la chanfana, carne di capra marinata nel vino ottenuto dal vitigno locale baga (poi cotta a fuoco lento). Come non nominare anche il baccalà, specialità locale (viene cucinato persino abbinandolo alle uova) così come le sardine, preparate in ogni modo, e il cozido à portuguesa, stufato di carni e verdure, ma anche i formaggi, di solito consumati o prima o dopo i pasti. Tra questi, i più tipici sono il cabreiro (formaggio di capra molto forte), il Queijo de Azeitão (formaggio cremoso), il Queijo da Ilha (formaggio delizioso tipico delle Azzorre) e Queijo da Serra da Estrela (formaggio di pecora). Fra i dolci, squisiti sono il rice-pudding alla cannella e il pudim flan (budino al caramello), così come i pasticcini e le torte. Chi visita il Portogallo, insomma, forse non troverà lo stesso panorama e la stessa offerta della nostra bellissima Italia, che combina sapientemente arte, cultura in genere, enogastronomia e… (possiamo dirlo?) simpatia. Chi va all’estero, però, dovrebbe in fondo cercare altro: Lisbona offre terreno fertile per storia, architettura e cultura, per poi portarsi a casa un po’ di quello che più si ha amato del luogo, felici di “rientrare alla base” e condividerlo con chi ci è caro. Non è questa la ricetta perfetta per un bellissimo souvenir?
Oli d’Italia
Extravergine, perché non chiamarlo
succo di oliva?
di Luigi Caricato
stato un evento epocale. Di quelli memorabili. Sul numero 95 di DeVinis l’avevamo annunciato in anteprima assoluta. Gli altri, invece, l’hanno saputo solo un mese prima dell’evento. Si tratta di un gesto d’affetto verso i sommelier, ma anche un modo esplicito per riconoscere l’importanza e la centralità del loro ruolo. Crediamo infatti che la figura del sommelier sia la più indicata per valorizzare un prodotto di grande pregio qual è l’olio ricavato dalle olive. L’augurio è che di qui in avanti
È
l’olio acquisisca, nella stessa misura del vino, una sua centralità anche presso l’Ais. Non ha d’altra parte alcun senso creare figure analoghe ai sommelier per l’olio. Il sommelier deve diventare un’analista sensoriale a tutti gli effetti e occuparsi di tutto, di cibi e bevande. Non può fermarsi solo al vino. Riteniamo pertanto che l’Ais possa svolgere tale compito egregiamente, estendendo le proprie attenzioni anche all’olio. Come già avviene attraverso questa rubrica su DeVinis. Così, oggi che tutti si occupano volentieri d’olio, è giunto il tempo di prestare la massima attenzione al momento della formazione. È sufficiente prepararsi e tenersi costantemente allenati, il resto poi verrà da sé. Il breve corso di degustazione al quale hanno partecipato alcuni sommelier della delegazione di Milano è stato un bel segnale da portare avanti con altre iniziative in ogni regione d’Italia. 1960-2010, IL CINQUANTENARIO Risale per l’esattezza al 13 novembre 1960 la legge, la numero 1407, che ha introdotto tale categoria merceologica. L’olio che si ricava dalle olive ha una storia antica, millenaria, ma, come si sa, ogni epoca ha le sue prerogative. Cinquant’anni fa si è sentita giustamente l’esi-
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Luigi Caricato introduce l'evento
genza, al fine di tutelare la genuinità dell’olio, di costruire un solido impianto normativo per regolamentare la complessa materia; un impianto così solido che tuttora resiste, dopo essere diventata una denominazione valida in ogni altro Paese al mondo, motivo di grande orgoglio per l’Italia, per essere stata l’artefice di tale passaggio storico. L’unica perplessità è tuttavia sul nome, visto che chi scrive avrebbe preferito di gran lunga una denominazione più chiara, come ad esempio quella, più semplice e immediata, di “succo di oliva”. Oggi, a distanza di tanti anni, non ha più senso cambiare il nome all’extra vergine, ma chissà, non è detto, non si sa mai: le soluzioni possono sempre essere trovate, se solo vi è la volontà per farlo. L’alta qualità, l’eccellenza, per esempio, potrebbe essere etichettata ricorrendo all’appellativo di “succo di oliva”, espressione da utilizzare accanto a quella di olio extra vergine di oliva. Non è un capriccio ma un’operazione tesa a ridare valore all’olio extra vergine di oliva. Se avete notato, infatti, negli ultimi anni il divario di prezzo per la medesima categoria merceologica è davvero notevole. Si parte da un prezzo minimo, inferiore ai 2 euro al litro, a prezzi anche superiori ai 20 euro. In tutta questa confusione, effettivamente il consumatore resta disorientato. Allora sarebbe opportuno distinguere tra un semplice extra vergine e un extra vergine denominato “succo di oliva”. Anche questa riflessione la sottoponiamo in anteprima a voi lettori di DeVinis: sarà prossimo cavallo di battaglia del sottoscritto.
LA CRONACA DELL’EVENTO A riportare l’intera cronaca non basterebbe lo spazio di un articolo, di conseguenza riprendiamo solo alcuni passaggi chiave, giusto per offrire un’idea generale di come si sia svolta la giornata milanese del 2 dicembre scorso. Intanto, il fatto che ci sia stato un pubblico numeroso, giunto da ogni parte d’Italia, è un bel segnale, a testimonianza di quanto determinante sia stata la spinta culturale che ha mosso tale kermesse. Dopo la proiezione di un cortometraggio, in cui si è ripercorsa da nord a sud tutta l'Italia dell’olivo e dell’olio, con i diversi paesaggi regionali, si è entrati subito nel vivo della giornata-evento, snocciolando un ricco programma con numerose testimonianze, originali e accattivanti, rese a ritmo serrato, da parte di tutto il gotha dell’olio. La manifestazione ha vantato tra l’altro il patrocinio del Consiglio oleicolo internazionale. Tra i vari interventi, ha colpito l’attenzione generale il saluto di Renzo Angelini, ideatore e coordinatore della felicissima collana editoriale “Coltura & Cultura”. Angelini ha gettato subito una contagiosa luce positiva facendo leva sull’importante requisito della sostenibilità, senza cui – ha detto – oggi non potrebbero esserci prospettive future. Avendo a cuore temi portanti come l’innovazione, la formazione e la comunicazione, si possono così scardinare tutti i luoghi comuni, le false concezioni che si hanno di un prodotto altamente simbolico qual è l’olio extravergine di oliva, restituendo quel valore che si è perduto nel corso degli ultimi anni. È un impegno cui tutti noi dobbiamo lavorare per fare in modo che un prodotto ritenuto oggi 69
Oli d’Italia un functional food, adatto per garantire uno stato di buona salute, rimanga un punto fermo per la nostra alimentazione. Anche perché non è accettabile che, nonostante tale valenza salutistica, l’olio ottenuto dalle olive abbia negli anni smarrito la propria forza persuasiva. È scandaloso che l’extra vergine sia diventato nel tempo un prodotto commodity, posto in vendita a prezzi scandalosamente bassi. Un prodotto sul quale oggi incombono tante paure, visto che si cerca continuamente di violarne la purezza, attraverso i vari tentativi di frodi e sofisticazioni cui spesso è sottoposto. Il professor Giovanni Lercker, al riguardo, ha avvertito perentoriamente i presenti, senza tanti giri di parole: l’unica strada per non incorrere in oli contraffatti, o comunque sofisticati – ha detto – sta tutta nella capacità di infondere nel consumatore una corretta percezione della qualità reale degli extra vergini. A poco del resto possono servire i rigorosi controlli – che già esistono e funzionano bene – se non vi è poi una solida cultura dell’olio tra la gente. La strada dell’educazione alimentare è dunque la via maestra da seguire. GLI ITALIANI? GRANDI ESPERTI DI BIRRA, RUM, WHISKY, MA NON DI OLIO La nota più curiosa viene dalla relazione del professor Daniele Tirelli, il quale ha voluto svelare i meccanismi segreti che muovono e animano il consumatore nostrano. Dal suo studio è emerso in particolare un dato inatteso: i consumatori italiani sono diventati nel corso degli anni un popolo di grandi intenditori, ma solo di prodotti originari di altri Paesi, come per esempio lo sono la birra, il rum, il whisky e altri prodotti di importazione, che non ci appartengono per cultura. Daniele Tirelli ha così evidenziato l’avvenuto passaggio, nell’ambito di pochi decenni, dalla fase di abbondanza a quella di sovrabbondanza. Un passaggio che ha permesso al consumatore di trovarsi davanti a una vasta gamma di marchi di uno stesso prodotto, fino a giungere alla disponibilità sullo scaffale, tanto per fare un esempio, di oltre 300 tipi di yogurt: un’enormità! Motivo per cui è lo stesso Tirelli a ritenersi, assieme con tanti altri italiani, un consumatore decadente, perché non si entusiasma più di fronte ad alcun alimento, in quanto ha ormai provato di tutto, a meno che non trovi qualcosa di veramente buono che provochi in lui nuove emozioni. Per l'olio extra vergine di oliva vale pertanto lo stesso discorso: esistono ormai, per la medesima tipologia di prodotto, tantissimi marchi disponibili. Non è facile dunque districarsi. A salvarci può essere soltanto la conoscenza del prodotto. 70
LE TESTIMONIANZE E I BUONI ESEMPI DELL’IMPRENDITORIA I cinquant’anni dell’extra vergine ovviamente sono anche il frutto dell’impegno di tante aziende, che agiscono quotidianamente su più fronti. Nicola Pantaleo, dell’omonima azienda pugliese, è orgoglioso di essere il leader del mercato dell’olio in Giappone. Attribuisce il suo successo in terra nipponica al determinante ruolo svolto dal Consiglio oleicolo internazionale con l’attività promozionale, quale apri pista nel mercato. «Basti pensare – ha raccontato Pantaleo – a qualche anno fa, quando nella tv nipponica si poteva partecipare a una trasmissione a quiz in cui venivano inseriti piatti caratteristici della tradizione conditi con olio extra vergine di oliva, o, più semplicemente, si doveva in altri casi superare un test consistente nel riconoscere le peculiarità sensoriali dei vari extra vergini». Anche Paolo Coppini, della Coppini Arte Olearia, ha voluto lasciare un segno inedito attraverso il progetto “L'albero d'argento”, portando idealmente una piantina di olivo sull’Everest, a 5.500 metri di altezza, nel campo base del Cnr, alloggiata all'interno della piramide di vetro dove viene seguita passo
Oli in degustazione
mente aiutato a superare i grossi problemi da cui è attraversato. La perdita di valore dell’extra vergine sullo scaffale in primis. Per questo è bene fare delle opportune precisazioni. Le ha fatte per esempio Pina Romano, presidente dell’Interprofessione olio di oliva, sostenendo che in Italia si è commesso in passato (ma ancora oggi, in verità) il grave errore di promuovere la competizione nell’ambito della sola categoria dell’extra vergine. Senza fare alcuna distinzione tra i prodotti. Senza valorizzare gli altri prodotti ottenuti dalle olive: l’olio di oliva propriamente detto, e l’olio di sansa di oliva. A questo punto – ha affermato la Romano – serve solo una maggiore e più efficace promozione, unitamente a una migliore informazione rivolta ai consumatori. Senza sbagliare colpo, com’è accaduto a inizio 2010 con il ministero alle Politiche agricole, responsabile della messa in onda di uno spot istituzionale tra i più banali della storia pubblicitaria, con alcuni imperdonabili errori formali che potevano essere evitati. passo dai ricercatori. C’è voglia insomma di lasciare segni tangibili, come d’altra parte è avvenuto in passato, e come ricordano in tanti, ma tutto ciò non basta. Lo ha giustamente sostenuto Teresa Severini, parlando a nome della casa vitivinicola Lungarotti. Presentando la felice esperienza del Museo dell’olivo e dell’olio di Torgiano, ha evidenziato quanto sia stato fatto per il settore vitivinicolo, e quanto poco si è fatto invece per quello oleario. Considerazioni purtroppo vere, proprio perché, a parte il lodevole impegno di pochi imprenditori, il mondo dell’olio nella generalità dei casi resta chiuso in se stesso. Le stesse Istituzioni non hanno mai sostenuto il comparto olio di oliva a sufficienza. Si sono comportate come pessimi genitori, illudendosi che potesse bastare l’elargizione di danaro pubblico per ridare slancio a un settore un po’ zoppicante. Non è così: all’Italia dell’olio manca un Piano olivicolo nazionale che dia corpo e struttura a un settore ormai senza più fiato. LE PAROLE NON DETTE, LE PAROLE DA DIRE A differenza del comparto del vino, quello dell’olio è un settore piuttosto tempestoso, e ciò non ha certa-
COSA SARÀ DEL DOMANI? La manifestazione del 2 dicembre è nata da un’iniziativa personale e si è contraddistinta per l’assenza delle Istituzioni, le quali hanno totalmente ignorato l’anniversario. Il domani sarà tutto nelle mani dei singoli. Così, mentre in Spagna si investe in idee e in ricerca, in Italia ci si lamenta soltanto, ma poi si spreca tanto danaro pubblico per iniziative fallimentari in partenza, e non ci si sforza nemmeno di attuare alcuna progettualità. Ecco perché chiudiamo con un appello ai sommelier, che poi è lo stesso rivolto anche a cuochi e ristoratori: investite in cultura, acquisite informazioni corrette sull’olio, frequentate corsi di degustazione (che siano amatoriali o professionali poco importa), purché si acquisiscano le conoscenze di base utili per trasmettere una vera cultura dell’olio ai consumatori. Prendetela come una missione. È un onore avervi come compagni di viaggio. Un sentito grazie, in ultimo, va ad Ais Lombardia – nella persona del suo presidente Fiorenzo Detti e del delegato di Milano Hosam Eldin Abou Eleyoun – per la preziosa collaborazione, utilissima per la buona riuscita della giornata-evento. 71
Birra di qualità
Magia
sotto la
schiuma
di Maurizio Maestrelli
UN
PROGETTO BIRRARIO, ARTICOLATO E AFFASCINANTE, INTERAMENTE
DEDICATO AL MONDO DELLA RISTORAZIONE PORTA LA FIRMA DI UN’AZIENDA
VENETA DA ANNI PROTAGONISTA NEL MONDO DELLA BIRRA D’ECCELLENZA
ai come in questi ultimi anni il mondo della genere, il loro passo successivo è stato quello di elaristorazione e quello della birra si sono guar- borare delle vere e proprie “carte della birra” chiavi dati negli occhi con reciproco interesse. È in mano. Ovvero delle selezioni di etichette, sia in un puro e semplice dato di fatto che si può desume- formato classico da 75 cl sia da 33 cl, da proporre re sfogliando le guide ai ristoranti, partecipando agli al mondo della ristorazione. «L’idea ci è venuta pareceventi gastronomici più importanti che hanno ini- chi anni fa», commenta l’amministratore delegato di ziato a dare spazio anche alle birre e ai loro abbi- Interbrau, Sandro Vecchiato. «Era il 2005, durante namenti con il cibo. E, più semplicemente, frequen- l’annuale fiera della birra di Rimini, e un ristoratotando i ristoranti stessi, sfogliando le carte dei vini re di Riccione, per la prima volta e dopo aver assagdove appaiono con maggiore frequenza di un tempo, giato alcune nostre birre, ci chiese di introdurle nel delle vere e proprie liste di birre in bottiglia. La nuova suo ristorante. La cosa funzionò subito ed egregiafrontiera, indubbiamente, è aperta e sono in molti mente e in questo modo il progetto si mise in moto». quelli che la stanno frequentando. Uno dei soggetti Prima con la realizzazione di una carta delle birre che, per tempo e con logica, ha avviato le “pratiche” per i pub più “evoluti” ossia capaci di gestire sia le per sdoganare la birra al di fuori del circuito classi- tradizionali spine sia una gamma in bottiglia ampia co di pub e birrerie è senza dubbio Interbrau e articolata, ma successivamente con una carta pen(www.interbrau.it). Da decenni azienda di riferimen- sata su misura per il mondo della ristorazione. Il proto autorevole nel settore birrario, la veneta Interbrau getto oggi ha un nome: Magia sotto la schiuma. «Noi ha incrementato nell’ultimo periodo il proprio range crediamo che un certo tipo di birre debbano essere brassicolo andando a pescare ottime etichette nel presentate e raccontate come si fa per il vino», provasto mare dell’eccellenza belga, segue Vecchiato. «Ci sono delle tipologie che senza disdegnare però altre forti vanno capite prima ancora di essere bevutradizioni europee, come la tedete, la birra è tutto un mondo ricco di fersca e l’inglese, e lanciandosi addimentazioni diverse, ingredienti differittura nella valorizzazione renti, caratteristiche organodelle produzioni statunilettiche a volte molto distantensi e italiane. Il risultati le une dalle altre. Il cliento è che oggi Interbrau ha te del ristorante, pensiamo, un portafoglio di tutto ha la necessità di leggere rispetto: dalle artigianaqualche riga di spiegali italiane di Birra del zione sulla birra che Borgo, alle tedesche di potrebbe ordinare e la Schneider, alle belghe nostra carta risponde come Rulles e Dupont, proprio a questo scopo». alle americane come Le cosiddette “carte” posBrooklyn e Sierra Nevada. sono ovviamente differire Forti di un campionario del Sandro e Michele Vecchiato l’una dalle altre. Essere, in
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qualche modo, “tagliate” a livello sartoriale sulle esigenze del ristoratore. «È in effetti il ristoratore che decide», spiega il responsabile del progetto, Giorgio Bergamini. «Noi proponiamo un massimo di ventiquattro etichette tra le quali scegliere. Nel prossimo futuro pensiamo di aumentare ancora le referenze, ma se si vuole si può comporre una carta anche solo con sei birre diverse. Insomma, il minimo indispensabile se si ha voglia di scoprire il lato “gastronomico” della birra». In tutta onestà, un progetto del genere, curato nei minimi dettagli e seguito da vicino dall’azienda, non sarebbe stato nemmeno ipotizzabile fino a qualche anno fa. Tanto più che una buona parte delle birre che oggi affrontano i tovagliati bianchi dei ristoranti sono da anni importate in Italia. Solo che fino a oggi non erano affatto “canalizzate” verso un circuito diverso da quello dei pub o delle birrerie. Perché dunque accade questo? In primo luogo perché si è innalzata l’età media del consumatore di birra, non è più insomma semplicemente il ragazzino, poi perché è aumentata la conoscenza dell’universo birra, nelle sue particolarità e nella sua “dignità” e infine per il gusto della ricerca e delle novità che rode, come un tarlo, gli chef più giovani, talentuosi e creativi. Da questa serie di “coincidenze”, se le vogliamo chiamare così, è nata una nuova fetta di mercato nella quale i giocatori più brillanti hanno deciso di investire risorse ed energie. Con risultati positivi per tutti: per chi nella birra ci lavora direttamente, questo è scontato dirlo, ma anche per i ristoratori, che hanno maggiori stimoli da queste nuove protagoniste nel gioco degli abbinamenti, per i responsabili di cantina, che avranno più frecce al loro arco e soprattutto frecce, nella maggior parte dei casi, di ottimo rapporto qualità prezzo e infine per tutti quei consumatori che non rientrano nel target dei locali birrari tout court. Chi scrive è del parere che trovare birre in bottiglia e di qualità all’interno del ristorante non riveli semplicemente un’attenzione al fenomeno di moda, quale la birra è a tutti gli effetti, ma anche un segnale di gusto, di volontà di andare alla scoperta di nuove sensazioni. Senza pregiudizi di nessun tipo. La speranza, infine, non è certo quella di assistere a una moltiplicazione massiccia di referenze birrarie all’interno del singolo ristorante così da aggiungere “volume” allo spesso già consistente “volume” della carta dei vini. Solo, e più semplicemente, di poter dare uno sguardo a una finestra aperta su un paesaggio diverso. Non solo quindi fatto di uve, vitigni e filari, ma di luppoli, di cereali maltati e di lieviti.
DEGUSTAZIONE SIERRA NEVADA PALE ALE
Produttore: Sierra Nevada Brewing Company Chico (California, USA) Distributore: Interbrau (www.interbrau.it) Diffusissima in California, dove vi consigliamo di assaggiarla alla spina, la Sierra Nevada è sbarcata da qualche tempo anche in Italia. È una birra dal colore dorato carico e profumi intensi di luppolo, ma anche note di agrumi e di fiori. Ben equilibrata al palato con un retrogusto piacevolmente amaro, questa Pale Ale è eccezionale da bere a prescindere dagli abbinamenti, addirittura come aperitivo per quanto il grado alcolico non sia del tutto da sottovalutare: 5,6% vol. Aromatica, si abbina bene a piatti a base di carni bianche ma, se si vuole osare un pizzico, la consigliamo anche con crudità di mare e con il sushi.
TRIPEL KARMELIET
Produttore: Brouwerij Bosteels Buggenhout (Belgio) Distributore: Interbrau (www.interbrau.it) La Bosteels va annoverata tra le birrerie belghe più note dalle nostre parti, resa già da anni celebre per la sua Kwak. La Tripel Karmeliet che suggeriamo in queste pagine è già diffusa nella ristorazione italiana. Si tratta di una birra di alta fermentazione e di notevole complessità, di colore dell’oro e dai profumi intensi ed eleganti, che ricordano la frutta. Il corpo si sente, 8% vol., e nel palato si avvertono le note dolci del miele e della frutta bianca, ma il finale sorprende per pulizia e secchezza. Birra da pasto, senza dubbio. Da mettere alla prova con arrosti e carni rosse alla griglia, perfetta su formaggi stagionati e dal gusto deciso.
KÖSTRITZER SCHWARZBIER
Produttore: Köstritzer Schwarzbierbrauerei Bad Köstritz (Germania) Distributore: Interbrau (www.interbrau.it) Per quanto il nome possa risultare ostico all’udito italiano, la Köstritzer è con tutta probabilità la birra scura più popolare in Germania. E le ragioni di questo successo sono molte. Si tratta di una birra di bassa fermentazione dal colore scuro ma con intriganti riflessi rubino; al naso la tostatura dei malti si evidenzia in note ben delineate di caffè e di cacao amaro. La bassa gradazione alcolica, 4,8% vol. le dona un corpo leggero e una persistenza non troppo pronunciata. Quindi una birra con personalità, ma che non vuole strafare. Proprietà che la fanno abbinare bene a piatti unici sfiziosi come le torte salate, anche ai carciofi.
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Distillati
grandi grappe del Veneto
Le
di Angelo Matteucci
UNA
TRADIZIONE CONSOLIDATA FA DI QUESTA REGIONE UNA DELLE PIÙ
IMPORTANTI PER LA PRODUZIONE DEL FAMOSO DISTILLATO, PROPOSTO DA
STORICHE AZIENDE SECONDO LE RICETTE DEI LORO AVI l Veneto produce circa il 40 per cento della grappa nazionale e quindi in questa regione vi sono alcune tra le maggiori produttrici del nostro distillato nazionale, oltre a entità di media dimensione e, naturalmente, sono operative anche piccole distillerie tradizionali. Tra le distillerie industriali compare Bonollo che opera in provincia di Padova con due stabilimenti a Conselve e Mestrino. Già nel 1908, anno della sua fondazione, Giuseppe Bonollo inizia la produzione con alambicchi a vapore, nuovo sistema all’epoca, quando la maggior parte dei produttori di grappa operava con alambicchi a fiamma diretta. Nel tempo l’azienda ha acquistato i marchi delle vecchie distillerie Modin di Ponte di Brenta (nata nel 1812) e Dalla Vecchia di Malo (1890) producendo sotto l’antica veste di queste distillerie quattro grappe per azienda. La produzione Bonollo comprende diciotto tipi della collezione “OF” alcune con speciali bottiglie create da maestri d’arte e mastri vetrai e otto grappe della tradizione. Nel 1779 Bortolo Nardini, grappaiolo di Segonzano in Val Cembra, lascia il paese natio e si trasferisce a Bassano del Grappa dove inizia la sua attività sulle rive del Brenta di fronte al ponte di legno disegnato
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dal Palladio. Per circa ottant’anni la distillazione avviene con fiamma diretta fino a quando il nipote del fondatore, Bortolo anch’egli, nel 1860 trasforma gli impianti applicando il riscaldamento a vapore. Durante il primo conflitto mondiale Bassano fu teatro di guerra e molti soldati di ogni parte d’Italia ebbero il loro battesimo con il distillato. Con il ritorno dei militari ai loro paesi, iniziò il primo periodo di divulgazione della grappa fuori del territorio di produzione. Nel 1964 fu costruita, alle porte di Bassano, la nuova distilleria Nardini che comprende quaranta silos atti a contenere duecento tonnellate di vinaccia ciascuno. In seguito fu acquistata e ricostruita la distilleria a Monastier, con una capacità produttiva di ben sei volte superiore a quella di Bassano. La grappa Nardini è per quasi il 90 per cento venduta “giovane” o “bianca”. L’indicazione sull’etichetta originale è di Acquavite di vinaccia, (aquavite senza la “c” come da arcaica scrittura legata al latino e utilizzata ininterrottamente dalla fondazione del 1779). Questo, come ha chiaramente specificato Antonio Guarda Nardini, non ha alcuna relazione con la dicitura Acquavite (con la “c”) di vinaccia che la nostra legge impone ai produttori che utilizzano vinacce non
italiane e che non possono pertanto utilizzare l’appellativo “grappa”. Ricordiamo che per accordi internazionali il termine “grappa” è riservato esclusivamente ai distillati prodotti in Italia con vinacce italiane. Fa eccezione unicamente il Canton Ticino mentre gli altri paesi devono utilizzare altre diciture. Dal 2004 la distilleria di Bassano è abbellita da Le Bolle, due spazi per la ricerca e per gli eventi. Inoltre lo scorso anno ha visto la luce la Fondazione Nardini con un impegno culturale particolarmente ambizioso proiettato verso il futuro. Roberto Castagner, mastro distillatore e presidente dell’Accademia della grappa e delle acquaviti è a capo della più grande distilleria del Veneto, a Visnà di Vazzola, e produce circa il 10 per cento della produzione nazionale di grappa. Utilizza impianti a distillazione continua e anche con alambicchi discontinui. Ha diviso la produzione in linee come la Sartoriale con undici prodotti, Fuori classe con cinque grappe, Vigne del Cuore con tre prodotti e Retail con ben sedici qualità tra riserve, monovitigno e grappe aromatizzate. Bonaventura Maschio, grappaiolo ambulante, decise di fermarsi a Gaiarine dove iniziò la sua produzione nel 1903. L’azienda da alcuni lustri è impegnata maggiormente nella produzione dell’acquavite d’uva con la nota gamma Prime Uve, ma ha naturalmente mantenuto la produzione di grappe di grande distinzione. Lo confermano le qualità La Grappa 903 in tre specifiche versioni, bianca, barrique e Riserva d’autore. A queste si aggiunge la tradizionale gamma Gaiarine con monovitigno Chardonnay, Moscato, Pinot e Prosecco oltre alla qualità Chianti prodotta con vinac-
ce del territorio toscano e affinata in barili di rovere. Giobatta Poli, anch’egli grappaiolo ambulante iniziò la sua attività stanziale a Bassano del Grappa. Il figlio Giovanni modificò la vaporiera di una locomotiva utilizzandola per produrre la propria grappa ed ebbe come filosofia “vendi caro ma pesa giusto”. Nel 1956 Antonio Poli, la terza generazione, ristrutturò la distilleria e l’azienda è ora capitanata dai fratelli Jacopo, Giampaolo, Barbara e Andrea. La gamma delle grappe Poli comprende le qualità Morbida da vinacce di moscato d’arancio e moscato bianco, Elegante da pinot nero e pinot bianco, Secca da Merlot del Piave e Merlot di Breganze oltre a barrique di tredici anni e Torcolato di tre anni. Per quanto riguarda le distillerie che operano esclusivamente con distillazione discontinua troviamo l’azienda dei Fratelli Brunello, costruita a Montegalda, nel 1840, la più antica a livello artigianale. La filosofia della famiglia è di salvaguardare la tradizione e produrre “lo spirito del territorio”. Le vinacce giungono in distilleria sempre fresche. Quelle a bacca bianca sono conservate in piccoli contenitori per due, tre settimane per dar luogo alla fermentazione. La distillazione avviene nel periodo ottobre-novembre dai fratelli Giovanni e Stefano che si alternano creando così un lavoro continuo di 24 ore al giorno. Operano con quattro caldaiette a vapore diretto a bassa pressione e bassa temperatura. Oltre alle grappe tradizionali, giovani e invecchiate, nonché monovitigni classici, la scelta dell’azienda cade su vinacce di vitigni antichi, quasi scomparsi. Nascono così grappe di Cruvajo delle colline di Breganze, di Carmenère dei Colli Berici, di Moscato Fior d’Arancio dei Colli Euganei, o di Amarone di Giuseppe Quintarelli. A queste si aggiungono alcune grappe composte da vinacce “fuori territorio” da vitigni Enantio, Casetta (trentini), Spergola di Scandiaro (Emilia) Aleatico di Gradoli (Lazio) e Frappato di Vittoria, Catarratto di Monreale, Zibibbo di Pantelleria (Sicilia). Gianni Vittorio Capovilla non è “figlio d’arte” ma è diventato un grande appassionato ricercatore e distillatore perfezionista. Meccanico di auto da corsa, in seguito tecnico di materiali per enologia, nel 1986 si fa costruire in Austria un alambicco a bagnomaria e comincia ad apprendere la difficile arte di distillatore a Rosà. Visita quando può molte distillerie di tutta Europa, mette a punto varie tecniche apportando modifiche “originali” ai suoi impianti e si dedica con grande passione alla distillazione di diverse tipologie di frutta e, naturalmente, alla grappa, lasciandola riposare in recipienti inox per almeno due anni. La sua produzione totale, distillati di frutta compresa, è di 30mila bottiglie annue con etichette create da lui stesso. I suoi interessi e impegni sono molteplici. Citiamo gli accordi con V.E.L.I.E.R. di Genova per la quale produce l’acquavite di vinaccia proveniente dalla Casa di Champagne Billecart-Salmon. Imbottiglia sempre per l’azienda ligure alcune grappe specifiche oltre a distillati di frutta ad alto grado. Inoltre si reca ogni anno a Marie Galante nei Caraibi per distillare e seguire la produzione del Rhum Rhum appositamente creato da V.E.L.I.E.R.. Nel giro di pochi lustri Gianni Capovilla è inserito a buon diritto tra i migliori distillatori d’Italia. 75
Formaggi
Jamar
Lo , tesoro prezioso custodito nella grotta di Davide Oltolini
IL
DUINO AURISINA, IN PROVINCIA DI TRIESTE, NEL DARIO ZIDARIC. LE FORME, UNA VOLTA PRONTE,
CACIO È PRODOTTO A
PICCOLO CASEIFICIO DI
VENGONO PORTATE A MATURARE IN UNA GROTTA CARSICA A SETTANTA METRI
DI PROFONDITÀ, DOVE LA TEMPERATURA E L’UMIDITÀ SONO SEMPRE COSTANTI l tempo di stagionatura rappresenta uno dei dif- munte, è lavorato a crudo, ossia senza essere pastoferenti parametri che vengono, abitualmente, rizzato, al fine di preservarne tutte le caratteristiche impiegati per la classificazione dei formaggi. Oltre organolettiche. Viene coagulato a una temperatura al tempo a rivestire una grande importanza è l’am- di circa 38 °C, con l’aggiunta di latte-innesto o ferbiente dove la maturazione di questi avviene e a tale mento selezionato (approntato il giorno prima a parproposito lo Jamar è certamente un formaggio unico. tire dallo stesso latte) e con caglio liquido. Dopo la Questo cacio è prodotto in località Prepotto a Duino rottura la cagliata è messa a sgocciolare per quaranAurisina, in provincia di Trieste, nel piccolo caseifi- totto ore, dopodiché viene tagliata e sminuzzata, salacio di Dario Zidaric. Viene impiegato latte bovino di ta e messa nelle tele e negli stampi per essere presanimali allevati sull’altopiano del Carso, la cui dieta sata per almeno quattro giorni. Dopo un mese le comprende il fieno della zona, ottenuto da prati poli- forme vengono prelevate e portate, con non poche fiti e permanenti. Si tratta, a detta di Zidaric, di un difficoltà, a maturare in una grotta carsica a settanfieno estremamente particolare, dalla struttura molto ta metri di profondità, dove la temperatura e l’umifine, simile a quello di alta montagna, ma molto dità sono sempre costanti. È proprio da tale ambienpiù ricco di essenze botate del tutto particolare che il niche, grazie alle particolaformaggio prende il nome di ri condizioni pedoclimatiJamar, dallo sloveno “jama” che delle quali il Carso che significa grotta. Rimane in beneficia. Tale alimentaziotale luogo per circa quattro ne naturale è fondamentamesi, prima di essere riporle per ottenere un ottimo tato in superficie dove, dopo latte, ovvero un’ottima un’accurata spazzolatura e materia prima per il forpulitura delle forme e un mese maggio. Gli animali, inoldi ulteriore asciugatura, risultre, non vengono forzati e ta pronto per la degustazione. la bassa produzione giorLe notevoli difficoltà di accesnaliera contribuisce a eleso rendono, però, quasi imposvare la qualità del prodotsibile o comunque troppo oneto. Il latte vaccino intero, Per raggiungere la grotta il percorso è molto rosa la periodica discesa nella di un massimo di quattro grotta per l’effettuazione del impegnativo
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Forme di Jamar
Fabrizio Nonis di TG5 Gusto, Dario Zidaric e Davide Oltolini
classico rivoltamento delle forme durante il periodo della stagionatura. Per ovviare a tale problematica produttiva, una volta trasportato nella grotta, lo Jamar viene inserito in alcune reti a maglie larghe che, appese a una struttura in legno, lo lasciano sospeso nell’aria. L’accesso alla grotta è interdetto al pubblico e nemmeno la moglie e le figlie di Dario hanno avuto l’opportunità di visitarla. Con un’unica eccezione. A Duino Aurisina in un gruppo di cinque persone, fra le quali Zidaric e l’esperto di speleologia Josko, si indossa tuta, scarponi, imbragature di sicurezza, caschetto (dotato di relativo faretto) e guanti, e ci si incammina fra la vegetazione presente nella proprietà del casaro, fino ad arrivare in presenza di un’apertura di dimensioni estremamente ridotte nel terreno, che rappresenta l’accesso della grotta. Si entra uno alla volta, scendendo al buio, nel sottosuolo, lungo una ripida e scivolosa parete, con l’ausilio di una corda di sicurezza, utilizzando, per alcuni tratti del percorso, delle strette scalette a pioli in metallo. Al termine di tale discesa si arriva a una piattaforma in legno, ma le emozioni non sono ancora finite. Al di sotto della piattaforma, infatti, la grotta si “apre” in una cavità enorme, nella quale, per proseguire, si deve scendere, sempre uno alla volta, ondeggiando nel vuoto attaccati a un verricello. Così facendo si percorrono, cercando di distogliere lo sguardo dal basso, le diverse decine di metri che, ancora, separano il visitatore dal fondo della grotta, situato a oltre una settantina di metri di profondità. Dario è il primo a calarsi nel vuoto, mentre Josko rimane sulla piattaforma a supervisionare l’ultimo tratto della discesa, pronto, in caso di necessità, a tornare in superficie per chiamare soccorso. Una volta raggiunto il suolo la vista che si presenta è spettacolare e l’atmosfera, in questo luogo “fuori dal tempo”, estrema-
mente suggestiva. Ai lati della cavità si intravedono nell’oscurità le forme di quelle che devono essere stalattiti e stalagmiti, mentre l’attenzione viene attirata dalle forme di Jamar, appese nelle proprie reti e sovrastate da una sorta di tettoia. Questa ha la funzione di ripararle dalle gocce d’acqua che incessantemente cadono al suolo dalla parte alta della grotta. Le stesse gocce che hanno compromesso definitivamente il tavolo in legno che si trovava qui e che si voleva utilizzare come base d’appoggio per un brindisi con la particolare e accattivante Vitovska vinificata da Edi Kante, i cui vigneti si trovano a poca distanza. Il lento ritorno in superficie non regala meno emozioni della discesa ed è con gioia che si rivede la luce del sole, anche perché c’è finalmente la degustazione del particolare cacio. Lo Jamar si contraddistingue per la sua forma cilindrica del diametro di circa 20-25 centimetri e per lo scalzo che può andare dai 13 ai 18 centimetri. La crosta risulta di colore bruno nerastra, rugosa e granulosa, mentre la pasta, priva di occhiature, evidenzia una colorazione che va dal bianco avorio al giallo paglierino, sino a raggiungere tonalità giallo ocra. Può, a volte, presentare in prossimità della crosta una leggera erborinatura, del tutto naturale, che trasmette un gusto lievemente piccante alla pasta. Quest’ultima appare di una certa compattezza nelle forme più giovani ed estremamente friabile in quelle maggiormente stagionate, evidenziando una certa cedevolezza al taglio. L’aroma si rivela particolarmente intenso e di grande persistenza a livello retrolfattivo, con richiami lattici appena accennati che si stemperano in gradevoli, quanto particolari, note di maggiore evoluzione e complessità, per quello che risulta essere, senza alcun dubbio, un formaggio estremamente interessante e davvero unico. 77
Vino e tecnologia
Risonanza magnetica per smascherare la
cocaina
nelle bottiglie di Simone Savoia
IL FISICO
GIULIO GAMBAROTA HA SCOPERTO CHE LA
RISONANZA MAGNETICA PUÒ CONTROLLARE CONTENITORI DI LIQUIDO SENZA APRIRLI. UN USO SU LARGA SCALA DI QUESTA TECNICA COSTITUIREBBE UNA PICCOLA RIVOLUZIONE
Giulio Gambarota
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state 2008: alla frontiera francese della Svizzera vengono intercettate alcune bottiglie di vino con una posa sospetta, gli esami di laboratorio non lasciano dubbi, si tratta di cocaina. Luglio 2009: mille bottiglie di vino francese provenienti dalla Bolivia vengono bloccate dai doganieri in un porto della Bulgaria. Agosto 2010: un taxista inglese muore per arresto cardiaco dopo aver bevuto del rum da una bottiglia che, si scoprirà, contiene quasi 250 grammi di cocaina purissima. Tre episodi che raccontano uno dei metodi usati da circa sei anni dai narcotrafficanti per passare le dogane senza danni. Alcune bottiglie incriminate arrivano al dipartimento di medicina legale dell’università di Losanna in Svizzera. Del tutto casualmente uno dei medici telefona a un ricercatore del centro di risonanza magnetica. È il fisico Giulio Gambarota, partito molti anni fa da Casalbore, in provincia di Avellino. Ha girato il mondo per studiare e lavorare: Stati Uniti, Olanda, Svizzera e ora Londra. Dopo la telefonata Gambarota lavora la sera, “per sfizio”, dice lui, per cercare di capire se la fisica della risonanza magnetica si può applicare alla chimica del vino. Compra alcune bottiglie di Aglianico del Vulture («un richiamo al mio Sud, alla mia terra») e comincia gli esperimenti. Guida una squadra di esperti ricercatori, tra cui la veneta Chiara Perazzolo. Risultato: in un futuro non lontano l’uso di un macchinario di risonanza magnetica potrà permettere i controlli su contenitori di liquido senza la necessità di aprirli. «È come scattare una foto delle molecole del liquido» spiega Gambarota con la semplicità di chi conosce a fondo i misteri della fisica. Nel mondo dei controlli sulle merci, un uso su larga scala della tecnica sperimentata da Gambarota costituirebbe una piccola rivoluzione. Non sarebbe più necessario infatti stappare alcune bottiglie a cam-
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Vino fermato alla dogana! La “cocaina in bottiglia” è l’ultimo espediente dei narcotrafficanti per superare i controlli
pione, con il duplice rischio di mancare le bottiglie “drogate” e dover risarcire il trasportatore o il destinatario. I risultati degli esperimenti di Gambarota e della sua squadra trovano spazio in un articolo scritto dagli stessi protagonisti e pubblicato sul numero di settembre di un prestigioso mensile scientifico americano Drug Testing and Analysis. Rilevanza internazionale, se ne è occupato anche un quotidiano della Russia. Che cosa pensa Gambarota della fuga dei cervelli e dello stato della ricerca in Italia? «Certo in Italia spendiamo poco per la ricerca». Ma, lungi dalle pur giuste ma ripetute lamentele, aggiunge: «Un po’ in tutti i paesi, compresi gli Stati Uniti, si spende poco dopo la crisi economica. I soldi sono pochi e anche gli investimenti si sono abbassati. Anche all’estero esistono fenomeni di raccomandazione e di nepotismo. Ma se mandi un curriculum per lavorare ti rispondono. E nel campo della ricerca devi pubblicare articoli che dimostrino i risultati del tuo lavoro, se vuoi restare nel giro. E poi nessuno ti chiede a chi appartieni, chi sono i tuoi sponsor. Conta davvero quello che fai e quanto vali». Ma c’è un altro aspetto che chiarisce meglio il ritardo italiano rispetto al resto dell’Occidente in alcuni settori. «Nel mio campo, quello della ricerca sulla risonanza magnetica, l’Italia non ha la tradizione di altri paesi. Quindi non avrei mercato, se tornassi a lavorare in patria». Una politica industriale degna di questo nome in alcuni settori strategici manca in Italia ormai da troppo tempo. Perché programmare la crescita di alcuni settori industriali significa anche innestare lo sviluppo della ricerca. Lo scanner antidroga di Gambarota non nasce a caso. Resta un solo dubbio: per festeggiare la scoperta il ricercatore irpino avrà stappato le bottiglie di Aglianico, quelle buone? Forse sì. Alla salute! E senza cocaina. 79
Viticoltura
Scampato all’estinzione perché
Famoso
di Riccardo Castaldi
LA
SECONDA VITA DI UN VITIGNO CHE STAVA PER SCOMPARIRE ED È STATO
RILANCIATO GRAZIE ALLA COSTANZA DEI VITICOLTORI ROMAGNOLI Italia vitivinicola si contraddistingue per l’amplissima gamma di condizioni pedologiche e climatiche che differenziano e caratterizzano i suoi siti produttivi e che sono alla base di un’ampia gamma di espressioni enologiche dei vitigni. L’offerta enologica del nostro paese si differenzia ulteriormente se si considera la vastissima base ampelografica, con buona probabilità la più ricca del mondo, su cui possono contare i viticoltori di tutte le regioni, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Questa abbondanza di materiale genetico, che offre l’opportunità di ottenere vini unici e irripetibili, ci viene invidiata soprattutto dai paesi produttori del Nuovo Mondo, in questi anni più che mai alla ricerca di vitigni che possano consentire loro di caratterizzarsi e di ampliare nel contempo l’offerta enologica, nella maggior parte dei casi limitata ai cinque-sei vitigni internazionali più diffusi. Tra gli innumerevoli vitigni che popolano l’Italia rientra anche il Famoso, a bacca bianca, sottratto a una molto probabile estinzione dal progetto “Vitigni minori” della Regione Emilia Romagna, portato avanti dal Crpv di Tebano (Ravenna) e dall’università di Bologna, il quale è stato iscritto nel registro nazionale delle varietà di viti (matricola 420) con il D.M. 12 gennaio 2009.
L’
Dal Medioevo ai giorni nostri Quello che potremmo definire il secondo atto della storia del Famoso, che lo porterà a essere ufficialmente riconosciuto, inizia nel 2000, anno in cui venne individuato in due vecchi filari sulle colline di Mercato Saraceno (Forlì-Cesena), il cui proprietario lo indicava per l’appunto con tale nome. Le prime osservazioni morfologiche del vitigno portarono alla luce forti analogie con il vecchio vitigno conosciuto come 80
La Rambéla ovvero il Famoso del Consorzio Il Bagnacavallo
Valdoppiese o Rambella, che lasciarono fin da subito intuire un probabile caso di sinonimia, confermato in seguito dall’analisi del Dna. Numerosi sono i documenti che attestano come il vitigno Famoso fosse coltivato, in modo particolare, nelle colline di Cesena, nel corso del XIX secolo. Come riportato anche da Marisa Fontana, il Famoso viene menzionato ne «I giornali dei viaggi» dal botanico Giorgio Gallesio nel 1839, che lo include tra i vitigni a bacca bianca presenti nelle tenute del conte Tampieri a Solarolo (Ravenna). Si deve inoltre considerare la presenza del Famoso sia alla Mostra ampelografica di Forlì del 1876, che alla Fiera provinciale dei vini, tenutasi a Rimini nel 1886. Il più antico documento riguardante il Famoso, che consente di accertarne coltivazione già nel Medioevo, è comunque rappresentato da una tabella del dazio comunale di Lugo di Romagna (Ravenna), datata 1437. Il Famoso, per i profumi e gli aromi che lo caratte-
Sfogliatura del Famoso presso l’Azienda Agricola Randi
rizzano, oltre che per la vinificazione, veniva anticamente utilizzato anche per la produzione di uva da tavola, venduta fresca per lo più nei mercati rionali e durante le fiere e le sagre che animavano città e paesi. La forte contrazione della sua coltivazione verificatasi nel corso del XX secolo, che lo ha portato al limite della scomparsa, è forse da ricercare proprio nelle sue peculiarità, ovvero in quegli aromi e in quei profumi intensi che molto probabilmente non erano graditi ai commercianti di vino, che in Romagna ricercavano prodotti più neutri, adatti al taglio o a essere utilizzati come base spumante, caratteristiche che ritroviamo non a caso nel Trebbiano romagnolo, che a partire dal secondo dopoguerra ha soppiantato gran parte dei vitigni autoctoni e tradizionali presenti in passato sul territorio della pianura romagnola. Un’altra caratteristica che ha determinato l’abbandono del vitigno è sicuramente la produttività, contenuta, comparativamente ad altri vitigni, sia nei contesti collinari che in quelli di pianura. Per chiarezza è necessario aggiungere che in passato era nota la presenza di un vitigno denominato Famoso anche nelle zone di Pesaro e di Rimini che, come già ampiamente dimostrato verso la fine dell’800, non ha nulla a che vedere con il Famoso Rambella in questione. Attualmente la coltivazione del Famoso riguarda per lo più vigneti di ridotte dimensioni, distribuiti su buona parte della Romagna, in modo particolare nei territori di Forlì, Castrocaro, Bertinoro, Mercato Saraceno, Cesena, Bagnacavallo, Fusignano, Brisighella, Riolo Terme, Faenza e Castelbolognese. Caratteri ampelografici e agronomici
Sotto il profilo morfologico, come descritto dal Crpv conformemente ai parametri fissati dall’Oiv, il Famoso
presenta una foglia adulta cuneiforme, trilobata o quasi intera, con seno peziolare – ovvero la cavità della lamina in cui si inserisce il picciolo – conformato a V, da aperto a molto aperto. Il grappolo, a maturità, è caratterizzato da dimensioni medie, da forma conica e dalla presenza di un’ala e si presenta tendenzialmente spargolo. L’acino si contraddistingue a maturità per le dimensioni medie e la forma troncovoidale, nonché per una buccia di colore verde - giallo ricoperta da pruina e piuttosto spessa, caratteristica correlabile con una buona resistenza alla Muffa grigia (Botrytis cinerea); la polpa è abbastanza consistente, con sapore dolce e che richiama leggermente il Moscato. Il vitigno è dotato di vigoria medio-alta e caratterizzato da epoca di maturazione medio-precoce; considerata la buona fertilità delle gemme basali, per la sua coltivazione possono essere adottate anche forme di allevamento che prevedano la potatura corta, quali ad esempio Cordone speronato e Doppia cortina o GDC, oltre a quelle a potatura lunga, come il Guyot, il Doppio capovolto e il Casarsa. Per il raggiungimento di livelli qualitativi di eccellenza, anche per il Famoso è fondamentale la corretta gestione della chioma tramite opportuni interventi di potatura verde, soprattutto negli ambienti fertili di pianura che tendono spesso a esaltarne lo sviluppo vegetativo, come confermato da Massimo Randi, responsabile commerciale dell’Azienda Agricola Randi di Fusignano (RA), una di delle realtà più interessate a sviluppare questo vitigno. Caratteri enologici e abbinamento Il vino presenta generalmente una colorazione giallo paglierino tenue, che può assumere riflessi verdolini. Sotto il profilo olfattivo si presenta molto inten81
Viticoltura so, con sentori caratteristici che rimandano al Moscato e che consentono di ascriverlo ai vitigni aromatici. Tra i descrittori olfattivi principali, individuati dal Crpv, rientrano le note floreali che richiamano i fiori di tiglio, arancio, biancospino e gelsomino, nonché quelle fruttate di banana, albicocca, pesca e di frutta essiccata; il quadro olfattivo è completato da note balsamiche, agrumate e di salvia. Dal punto di vista gustativo il Famoso è generalmente intenso e persistente, abbastanza fresco, morbido, dotato di buona struttura ed equilibrato. Per le caratteristiche che presenta, il Famoso si presta a essere abbinato con antipasti a base di pesce, come ad esempio il carpaccio di pesce spada, dei quali è in grado di controbilanciare i profumi e i sapori intensi. Sempre nell’ambito delle preparazioni a base di pesce, lo si può abbinare al risotto alla marinara, agli spaghetti con sugo bianco alle vongole e con il pesce alla griglia; particolarmente riuscito è l’abbinamento con il rombo ai ferri. Servito a una temperatura di 12-13°C, il Famoso può essere abbinato anche a primi piatti speziati, risotti alle erbe aromatiche, formaggi freschi e preparazioni a base di carni bianche. Al momento il Famoso viene per lo più vinificato in acciaio, puntando con decisione sugli aromi primari che lo caratterizzano, anche se esistono tuttavia delle eccezioni, come quella della cantina Santa Lucia di Mercato Saraceno (in provincia di Forlì-Cesena), il cui Famoso viene in parte affinato in barrique sulle fecce fini, ricorrendo alla pratica del battonage; secondo Paride Benedetti, proprietario e direttore tecnico della cantina, l’idea è quella di aumentare il corpo e la complessità gustativa del vino, in modo da controbilanciarne l’intensità e l’ampiezza olfattiva. Il Famoso si presenta in questo caso più strutturato, 82
con garbate note tostate e lievi speziature, sostanzialmente differente rispetto a quello vinificato esclusivamente in acciaio. La Rambéla del Consorzio Il Bagnacavallo
Diversi piccoli produttori hanno scommesso sul Famoso, sia mettendo a dimora nuova vigneti che reinnestando vigneti già esistenti, realizzati con varietà ritenute di scarsa rilevanza commerciale, al fine di accelerarne l’entrata in produzione, considerando la crescente attenzione nei confronti del vitigno. A credere in modo particolare nel Famoso è il Consorzio Il Bagnacavallo, che ha registrato il Rambéla, nome dialettale del vitigno, per il vino da esso ottenuto. I produttori del Consorzio ritengono infatti che la Rambéla possieda i requisiti qualitativi per poter essere degnamente affiancata al Burson (Uva Longanesi), che trova in esso l’alter ego bianco, e che rappresenti quindi un’ottima opportunità per ampliare la gamma di vini prodotti. Al momento il Consorzio Il Bagnacavallo non ha ancora stilato un protocollo di vinificazione in considerazione del fatto che, come asserisce Sergio Ragazzini, enologo e anima scientifica del Consorzio, si stanno ancora investigando le potenzialità del vitigno, che pare essere alquanto versatile. Se fino ad ora è stato vinificato per l’ottenimento di vini fermi, il Famoso pare avere le carte in regola per poter essere spumantizzato con il metodo Charmat, in grado di esaltare le note fruttate e floreali del vitigno, normalmente impiegato per gli aromatici, quali ad esempio Moscato e Malvasie. Considerata la particolarità dei profumi e degli aromi, il Famoso pare potersi esprimere ottimamente anche per la produzione di vini passiti, come le prime prove eseguite in questo senso lasciano intendere.
Vinitaly
45 volte Vinitaly! di Emanuele Lavizzari 150 anni dell’Unità d’Italia e il 45° compleanno di Vinitaly: ecco due straordinari anniversari che cadono nel 2011, la cui concomitanza non poteva che dar vita a un progetto celebrativo comune. Anche il grande salone fieristico di Verona, in programma dal 7 all’11 aprile, sarà infatti impegnato in prima linea per rafforzare l’identità nazionale del nostro Paese e ovviamente per valorizzare sempre più a livello mondiale il vino e l’inimitabile patrimonio italiano: cultura, turismo, paesaggio, arte e prodotti di qualità. Il progetto, nato alcuni mesi fa, è in piena fase realizzativa e porterà alla creazione della “Bottiglia dell’Unità d’Italia”: un originale testimonial che diventerà protagonista dell’edizione 2011 e viaggerà all’estero durante i Vinitaly Tour nelle piazze di tutto il pianeta. Non dimentichiamoci, infatti, che l’Italia è il primo esportatore di vino al mondo in quantità, secondo in valore, il quarto Paese per entrate derivanti dal turismo, il primo con 44 siti nella lista del patrimonio dell’umanità dell’Unesco, oltre a essere capolista in Europa nella graduatoria dei prodotti di qualità certificati Dop e Igp, con 4.470 tipicità agroalimentari regionali. Insomma, un curriculum che non può restare chiuso in un cassetto ma deve essere promosso in una grande vetrina come il Vinitaly. La rassegna, oggi la più grande nel panorama mondiale, con oltre 4.200 espositori e 152 mila visitatori dei quali 47 mila esteri da 114 Paesi, è presente anche in Russia, Stati Uniti, India, Cina, Giappone, Singapore, Corea del Sud, Svezia e Brasile. Numeri straordinari che devono far ben sperare in vista dell’appuntamento fieristico di aprile. Vinitaly, Sol, Agrifood Club ed Enolitech: ecco il poker delle manifestazioni veronesi dedicate al vino, all’olio extravergine, al cibo di qualità e alle tecnologie vitivinicole e olearie. È innegabile che i consumi domestici non hanno dato segni di ripresa nei primi sei mesi del 2010. L’export sembra pertanto l’unica strada che può dare impulso alle imprese nazionali: le esportazioni agroalimentari hanno fatto registrare un aumento del 9,3% nei primi sei mesi del 2010 rispetto al medesimo periodo del 2009. Le migliori performance sono state realizzate dai vini (+8,6%), dall’olio d’oliva (+13,5%), dalle carni suine preparate e dai salumi (+13,5%), dai formaggi e latticini (+15,3%) e dai prodotti dolciari (+18,5%). Vengono dall’estero anche le opportunità per l’industria dell’impiantistica, dei macchinari e delle attrezzature tecnologie per la filiera vitivinicola e olearia, con previsioni di espansione verso l’Asia, dove la crisi economica ha avuto effetti più contenuti e la domanda è in crescita.
I DAL 7 ALL’11 APRILE A VERONA IN PROGRAMMA LA GRANDE KERMESSE DEL VINO CHE STA PER TOCCARE IL MEZZO SECOLO DI VITA
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VERONAFIERE SI FA IN QUATTRO IIIIVinitaly Sold out per l’edizione numero 45 della sua storia: la rassegna più grande del mondo dedicata al vino e ai distillati punta decisa sugli strumenti innovativi che in questi ultimi anni hanno favorito sempre di più l’incontro tra produttori e buyer. La risposta delle aziende e di alcune rappresentanze, riunite in consorzi, province o altre aggregazioni di imprese, è quella di scegliere Vinitaly per evidenziare particolari ricorrenze celebrative della propria attività e per cercare un’identità distintiva autonoma rispetto alle collettive regionali, per meglio cogliere le occasioni d’affari che la rassegna offre. Una formula fieristica che piace anche all’estero, come dimostra l’aumento dell’interesse a partecipare come espositori da parte dei produttori di altri Paesi, in particolare francesi. Tra le novità in programma per l’edizione 2011 vi è anche un nuovo logo sotto il quale verranno proposte le iniziative legate alla ristorazione, che vedrà coinvolti i 5.000 locali top italiani segnalati dalle principali guide. Dal mese di dicembre scorso, inoltre, sono aperte le iscrizioni ai grandi concorsi di Vinitaly: il Concorso Enologico Internazionale, in programma dal 28 marzo al 1° aprile, e il Concorso Internazionale Packaging, in calendario il 15 marzo. Nell’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, infine, il Salone del vino e dei distillati si prepara ai festeggiamenti con la già citata “Bottiglia dell’Unità d’Italia”, progetto lanciato da Veronafiere nel corso della passata edizione nell’ambito della storica visita del Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, e l’unica ad avere ottenuto nel settore di riferimento il logo ufficiale delle celebrazioni proprio in accordo con la Presidenza della Repubblica. IIIISol Il Salone internazionale dell’olio extravergine di oliva di qualità, punto di riferimento del settore nel mondo, è arrivato alla 17.ma edizione. Dalle richieste di partecipazione emerge l’interesse di molte aziende a non aderire alle collettive per mettersi in gioco autonomamente, così da sfruttare al massimo i contatti che si realizzano nei cinque giorni dell’evento. La tendenza, che aveva iniziato a manifestarsi già lo scorso anno, si conferma per l’edizione 2011, insieme a un incremento della partecipazione di collettive straniere. Anteprima di Sol è Sol d’Oro, il più importante concorso internazionale dedicato ai migliori oli extravergine di oliva, in programma dal 7 al 12 marzo 2011 e per il quale sono allo studio importanti novità. IIIIAgrifood Club Per gli operatori del settore enologico e oleario che vogliono ampliare la conoscenza dell’Italian food la rassegna è un’importante occasione per entrare in contatto con l’agroalimentare made in Italy. Agrifood Club cresce di anno in anno per qualità del prodotto e varietà di merceologia, continuando però a mantenere la sua caratteristica di club dedicato alle migliori produzioni agroalimentari. L’evento ha conquistato operatori ed espositori, grazie anche alle degustazioni distribuite nell’arco della giornata e per i cinque giorni della manifestazione, presentate con professionalità e passione dagli stessi espositori, sommate alla presenza costante di buyer internazionali che incontrano i produttori presso l’International Meeting Point o presso i singoli stand. Il successo del salone delle eccellenze alimentari italiane è confermato dalle richieste di partecipazione superiori agli spazi disponibili e dalle nuove importanti presenze regionali. IIIIEnolitech La qualità della tradizione enogastronomica italiana è frutto anche del know-how tecnologico che trova a Enolitech, Salone internazionale delle tecniche per la viticoltura, l’enologia e le tecnologie olivicole e olearie, giunto alla 14.ma edizione, il suo appuntamento di elezione. L’ampiezza dell’offerta permette alla filiera enologica e a quella olearia di ottenere tramite questa manifestazione risposte innovative a qualsiasi necessità, dal campo al consumatore finale. Non solo, Enolitech si configura come una vera e propria fiera di servizio per i molti operatori professionali, come degustatori, sommelier, tecnici di cantina e frantoio, che possono trovare strumenti per la propria attività.
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Eventi
Una mostra permanente per far conoscere e
vino territorio di Annalisa Raduano
ipenderà forse dalla crisi economica che aguzza l’ingegno ma sta di fatto che negli ultimi anni le iniziative per promuovere l’enogastronomia si susseguono in tutto il Bel Paese. Succede ad esempio a Reggio Emilia, dove con una formula trendy è stata allestita dalla locale Camera di Commercio una mostra permanente di vini e sapori del territorio. Obiettivo dell’iniziativa è veicolare l’immagine dei prodotti, del vino soprattutto, in sinergia con il territorio. La vetrina delle eccellenze reggiane è destinata ad ampliarsi e a diventare centro importante dell’enologia e della gastronomia, grazie anche alle attività complementari predisposte e rivolte alla formazione dei consumatori, alla promozione delle ricchezze di questa terra e alla rappresentanza istituzionale. Il progetto molto articolato è degno di menzione anche per il risvolto storico e artistico. Infatti il palazzo che ospita la sede della Camera di Commercio, in un prossimo futuro si trasferirà in uno stabile vicino, lasciando definitivamente, a Palazzo Scaruffi il ruolo di luogo di rappresentanza per la realizzazione di eventi, iniziative e per la promozione del vino. Attualmente solo alcune sale sono destinate all’esposizione dei vini e dei sapori reggiani e a fare bella mostra di sé nei locali inaugurati in occasione della festa patronale cittadina, San Prospero, ci sono i vini della tradizione, Lambrusco in primis, e le tipicità alimentari. «Il progetto, unico nel suo genere, guarda al futuro mantenendo ben saldo il legame con il passato e con quelle che sono le caratteristiche produttive che hanno reso celebre nel mondo Reggio Emilia» spiega Enrico Bini, presidente della Camera di Commercio, che prosegue confermando: «Obiettivo di questa iniziativa è quello di offrire alla città e alla provincia, un ambiente per far conoscere al pubblico, agli appassionati e ai visitatori italiani e stranieri i prodotti della nostra enogastronomia esposti in una suggestiva cornice artistica e culturale». Il palazzo infatti risale al secolo XVI e prende il nome dalla famiglia del noto studioso di economia Gaspare Scaruffi. Se ne è concluso il restauro negli anni scorsi. Al suo interno sono custoditi numerosi affreschi che raffigurano miti neoclassici, tra cui scene ispirate all’opera di Apuleio, Le Metamorfosi, o episodi della favola di Amore e Psiche, attribuiti al pittore Orazio Perucci. Un progetto dalla forte identità territoriale che si avvale dell’ausilio di partner locali e di una stretta sinergia tra Ais e Assoenologi per promuovere la cultura del buon bere e sviluppare didattica e cultura utile anche alla promozione commerciale. Protagonisti della giornata inaugurale sono stati i vini premiati in occasione del Concorso enologico Matilde di Canossa, manifestazione promossa dall’ente camerale per valorizzare i migliori Lambruschi, in questo caso, messi in esposizione e fatti degustare da sommelier profes-
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Gli interni di Palazzo Scaruffi Situato proprio nel centro storico della città di Reggio Emilia, in un isolato che nel corso degli ultimi quattrocento anni ha subito diverse trasformazioni, è collocato Palazzo Scaruffi, edificio del XVI secolo. Appartenuto per centinaia d’anni alla famiglia Scaruffi, signori arricchitisi con il commercio della seta e delle spezie, deve sicuramente il momento del suo massimo splendore alla figura di Gasparo Scaruffi che raggiunge l’apice della ricchezza nella seconda parte del cinquecento, dedicandosi di conseguenza alla miglioria del palazzo di famiglia con grandi risultati. In quegli anni inoltre Gasparo Scaruffi si accorda con Prospero Sogari, detto il Clemente, collaboratore di Michelangelo, per la scultura di due magnifiche statue: Marco Emilio Lepido ed Ercole, originariamente collocate nelle nicchie, ora vuote, che si affacciano su Via Crispi. Le stanze interne vengono maggiormente impreziosite da un ciclo di affreschi, ma che saranno disgraziatamente ricoperte da tinteggi. Di recente il palazzo è stato sottoposto ad accurati e complessi lavori di restauro che hanno riportato alla luce parte degli affreschi originali.
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I sommelier della delegazione di Reggio Emilia
Il Presidente della Camera di Commercio di Reggio Emilia Enrico Bini al taglio del nastro
sionisti che hanno raccontato al pubblico virtù e particolarità dei vini vincitori. A fianco dei Lambruschi, i salumi dell’Appennino, il miele e il Parmigiano Reggiano insieme all’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia. Il tutto accompagnato dal Pan de Re riscoperto e valorizzato dalla Provincia di Reggio Emilia. «Si tratta di un primo passo, a cui seguirà la messa a punto di azioni di promozione dei nostri prodotti» spiega Enrico Bini. «Infatti, grazie alla formulazione di un programma di degustazioni guidate sarà possibile per il pubblico appassionato conoscere meglio le nostre tipicità e avvicinarsi a tali prodotti sotto la guida di esperti. Ma la nostra vetrina è stata pensata anche per offrire alle numerose delegazioni italiane e straniere ospiti nella nostra città un luogo dove conoscere da vicino i prodotti della famosa enogastronomia reggiana. La Camera di Commercio si è dotata di uno strumento che mancava alla città, un luogo che cerca di presentare le tipicità della nostra tradizione a chi vuole conoscere meglio Reggio Emilia e la sua provincia. Per la città si tratta di una vetrina, ma anche di un luogo di formazione e scoperta che valorizzi sempre più i nostri prodotti. Un’iniziativa questa che si inserisce a pieno titolo nella politica dell’ente che vede tra le proprie priorità la valorizzazione e la promozione dei nostri vini e dell’agroalimentare. Un ringraziamento particolare» conclude Bini, «al Consorzio vini reggiani, al Consorzio del Parmigiano, a quello dell’aceto balsamico tradizionale e a quello dell’Ars canusina che hanno creduto nel nostro progetto contribuendo in modo significativo alla realizzazione degli allestimenti». Un impegno quello preso dalla Camera di Commercio di Reggio notevole anche sotto il profilo degli investimenti ma che vuole accendere i riflettori sulle tipicità reggiane, veicolare ulteriormente il vino e offrire un luogo di conoscenza, promozione e scoperta che funga anche da catalizzatore per gli esercizi commerciali. Per l’inaugurazione si è scelto di affiancare i Lambruschi vincitori del concorso enologico Matilde di Canossa ai prodotti tradizionali reggiani. Anche questo concorso nasce per promuovere il vino reggiano in una logica di marketing integrato tra vino e territorio, avvalendosi inoltre della collaborazione dell’Associazione enologi enotecnici italiani e dell’Associazione italiana sommelier dell’Emilia. Un concorso riservato ai vini frizzanti rossi e rosati prodotti con prevalenza del vitigno Lambrusco per almeno l’85 per cento delle seguenti denominazioni di origine controllata (o Dop) e indicazioni geografiche tipiche (o Igp): Colli di Parma Doc; Colli di Scandiano e di Canossa Doc; Lambrusco di Modena Doc (per la vendemmia 2009); Lambrusco di Sorbara Doc; Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Doc; Lambrusco Mantovano Doc; Lambrusco Salamino di Santa Croce Doc; Reggiano Doc; Emilia Igt Lambrusco; Provincia di Mantova Igt Lambrusco; Lambrusco di Modena Igt (per la vendemmia 2008). 87
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Lo Château Phélan Ségur incanta i sensi «In Francia si dice che a Saint-Estèphe si facciano vini troppo duri e tannici. Noi usiamo più Merlot rispetto ad altri produttori di questa denominazione per cercare maggior femminilità». Fabrice Bacquey, giovane enologo di Château Phélan Ségur, non ha dubbi sul carattere dei vini di questo storico Château del Médoc, tanto da non patire il non far parte del novero dei famosi Cru Classés di questa denominazione comunale. «È vero Château Phélan Ségur non è un Cru Classé perché è nato poco dopo la famosa classificazione del 1855, ma per noi non è un problema. Anzi, in degustazioni alla cieca spesso ci confondono con vini classificati per il nostro livello qualitativo. Però costiamo la metà». Queste le premesse intriganti e affascinanti come spesso capita quando si ha a che fare con il mito di Bordeaux e che hanno preceduto un evento di notevole spessore organizzato dalla delegazione Ais di Parma: una verticale di Château Phélan Ségur (1996 - 2004 - 2005 2006 - 2007 - 2008), servita alla cieca, con un prologo di due annate del secondo vino dell’azienda, Frank Phélan. Il tutto in abbinamento con la piacevole cucina del ristorante Al Tramezzo, che ha ospitato nelle sue
sale un folto gruppo di sommelier locali. Delle circa 450mila bottiglie totali prodotte dall’azienda (tre i vini: Frank Phélan, Château Phélan Ségur e La Croix Bonis) il 60 per cento vola all’estero (solo il 15 per cento negli Stati Uniti), principalmente in Europa. Saint-Estèphe, come ha ben illustrato il sommelier Luigi Delsoldato, è il comune posto più a nord all’interno del panorama bordolese: tanta ghiaia di origine alluvionale in superficie e poi un mix di argilla e calcaree che donano struttura, tannini austeri e un’acidità superiore rispetto ai vicini del comune di Pauillac. L’idea di fondo che anima la filosofia e lo stile dello Château di proprietà della famiglia Gardinier è quella di distinguersi all’interno del panorama dei vini prodotti nel Médoc. In che modo? Come accennava l’enologo, il matrimonio con il Merlot ha coinciso, recentemente, con l’abbandono del Cabernet Franc perché non garantiva un livello qualitativo in linea con le esigenze aziendali. Spazio, quindi, a partire dall’annata 2007, solo a Cabernet Sauvignon e Merlot, praticamente in parti uguali in vigna, che vanno a comporre il taglio bordolese in misura però poi differente in bottiglia a seconda dell’andamento climatico, annata per annata. Non si può, comunque, non partire dal segnalare l’eccellente impressione che ha donato il campione 2005, che ha al suo interno ancora un piccola quantità di Cabernet Franc (3 per cento): maturo, dolce nel frutto di mora ed elegante nelle sfumature di erbe officinali. Freschezza e austerità in bocca, con una componente tannica di razza e una lunghezza convincente. Più concentrato, ma calibrato e di gran bello slancio il millesimo 2008 (Cabernet Sauvignon 60 per cento, Merlot 40 per cento): precisione stilistica nel frutto e carattere con le sue note olivastre e di rosmarino. (Alessandro Franceschini)
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Enopolis e la Sicilia guardano al futuro Un antico monastero dei Benedettini, il secondo d’Europa per grandezza, dove è ancora ben visibile la lingua di lava che nel 1669 lambì la struttura distruggendone una parte. Un magico percorso dei sensi, grazie al quale ci si immerge nei profumi, nei sapori e nelle immagini dell’uva e del vino. La possibilità di degustare, bicchiere alla mano, le principali eccellenze enogastronomiche siciliane, partecipare a seminari, visitare cantine, il tutto in un sito unico, immerso nel centro storico di Catania, a due passi dal mare, baciato dal sole e guardato a vista dall’imponente profilo dell’Etna. Sono questi gli ingredienti di Enopolis, la manifestazione ideata dall’Ais Sicilia nel 1999 con l’obiettivo di mettere in contatto produttori e consumatori di vino e oggi, alla nona edizione, diventata importante vetrina di settore oltre che punto di riferimento regionale per addetti ai lavori, aziende e appassionati. L’edizione 2010 è stata quella della definitiva consacrazione. Ciò grazie anche all’importante collaborazione assicurata dalla Regione Sicilia attraverso l’assessorato delle Risorse agricole e alimentari – dipartimento interventi infrastrutturali per l’agricoltura. «Un bilancio eccezionale» ha spiegato il presidente di Ais Sicilia, Camillo Privitera, «anche perché abbiamo stretto un forte legame con la regione e le associazioni di categoria FIPE e Federalberghi, partner con i quali si camminerà in futuro per far sì che qualità e professionalità, che sono le due voci più importanti per mostrare e portare avanti l’eccellenza del territorio e del vino siciliano, vadano avanti e coinvolgano gli operatori del settore, per i quali è prevista una formazione articolata». Soddisfatto della crescita registrata dalla manifestazione si è detto anche il professor Salvatore Barbagallo, dirigente generale del dipartimento Interventi Infrastrutturali per l’Agricoltura della Regione Sicilia, che ha plaudito al lavoro dell’Ais: «Siamo grati all’Associazione italiana sommerliers per il lavoro delicato e importante che svolge nella corretta valorizzazione e nella promozione del prodotto vino. Un lavoro che attraverso Enopolis viene adesso messo in vetrina nel migliore dei modi». Parole che hanno trovato il pieno accordo del presidente nazionale dell’Ais, Antonello Maietta, intervenuto al convegno d’apertura sul tema “Il Vino nella ristorazione siciliana: cultura ed economia”. «La Sicilia si sta ormai scrollando di dosso l’immagine di vini difficili, strutturati, pesanti da bere, per acquisire invece un ruolo leader della nuova viticoltura, fatta di vitigni tradizionali, autoctoni ma anche con un mix di vitigni di caratura internazionale, quindi molto originale e particolare».
L Il Prof. Salvatore Barbagallo al taglio del nastro. Insieme a lui l’On. Nicola D’Agostino, Camillo Privitera e Antonello Maietta
(Antonio Carreca)
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Titolo per Rudy Travagli al Master del Sangiovese 2010 La decima edizione del Trofeo Consorzio Vini di Romagna – Master del Sangiovese andata in scena al MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza), ha celebrato la sfida tra due romagnoli. Rudy Travagli nel corso di un avvincente finale ha preceduto la corregionale Annalisa Linguerri. Al terzo e quarto posto si sono classificati i toscani Claudia Bondi e Daniele Arcangeli. Era dal 2003 che un romagnolo non si aggiudicava il Master del Sangiovese. Allora fu Luca Gardini a conquistare il concorso, rivelatosi per lui un grande trampolino di lancio che lo ha portato a diventare il miglior sommelier d’Italia e più recentemente campione d’Europa e del mondo. Lo stesso Rudy Travagli durante il concorso Gardini è intervenuto quest’anno in giuria per celebrare il decennale della manifestazione. La selezione è avvenuta con alcune prove scritte in cui quattro finalisti si sono distinti tra una ventina di partecipanti e nella prova finale pubblica è emersa la bravura e la professionalità di Rudy Travagli. Cervese, Travagli svolge l’attività di consulente per ristoranti ed enoteche. Nel 2010 aveva già raccolto un ottimo terzo posto al Gran premio del Sagrantino. Lo scorso anno aveva partecipato al Master del Sangiovese classificandosi terzo. Oltre al titolo si è anche aggiudicato un assegno di 2.500 euro. Onore al merito anche per la seconda classificata, la cotignolese Annalisa Linguerri. Bravissima e preparatissima, salvo pagare un po’ di emozione sul finale.
È una signora la sommelier più “anziana”
La signora Italia Lenarduzzi Franz al seggio elettorale del Friuli Venezia Giulia
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Si chiama Italia Lenarduzzi Franz ed è nata il 3 maggio 1921 a Moggio Udinese. Si iscrisse all’Ais nel lontano 1965, anno in cui frequentò i corsi e sostenne l’esame finale. Da allora ne è passato di tempo, ma la signora è sempre stata fedele all’Ais, rinnovando sempre puntualmente l’iscrizione e partecipando con entusiasmo alla vita associativa. A fine ottobre, a 89 anni e mezzo, non ha esitato a recarsi alle urne per il rinnovo del direttivo nazionale Ais. A lei e a tutti i sommelier della sua generazione dedichiamo un brindisi per un grandioso 2011!
La presentazione delle guide
Le guide di Bibenda 2011 Per gli appassionati, per i buongustai, per gli irriducibili della tavola e per i cultori delle grandi etichette le eccellenze enogastronomiche italiane sono state racchiuse in tre volumi. Franco Ricci, direttore di Duemilavini, Il Libro Guida ai Vini d’Italia, de I ristoranti di Bibenda, Il Libro Guida ai migliori ristoranti d’Italia e de L’Olio, Il Libro Guida agli Oli d’Italia, ha presentato le sue tre nuove creature, spalleggiato da un istrionico Federico Quaranta (Decanter, Radio Due), alla presenza di produttori e di rappresentanti della sommellerie mondiale, dei più grandi chef e ristoratori italiani, dei professionisti del settore, della stampa e della televisione. Tra gli altri hanno presenziato Lamberto Sposini, Stefano Masciarelli, Antonella Clerici, Gioacchino Bonsignore, Bedi Moratti, Tinto (Nicola Prudente) di Decanter, Tiberio Timperi e Al Bano Carrisi. Il salone dell’Hotel Rome Cavalieri, addobbato a festa con una coreografia essenziale ed elegante, con centottanta sommelier schierati a curare il servizio ai tavoli e in cantina, ha deliziato gli oltre mille convitati presenti con un menu stellare curato da Gianfranco Vissani e una carta dei vini e degli oli strepitosa. Presenti erano tutti i 389 Cinque Grappoli assegnati dalla Duemilavini e tutte le 81 Cinque Gocce conferite da L’Olio. Inoltre quindici ristoranti sono stati premiati con i 5 Baci, altri nove diplomati Ristoranti dell’Anno, in altre parole, le migliori realtà in crescita rispetto alla scorsa stagione. Emozionante l’intervento di Franco Biondi Santi, decano della storia del vino italiano, e di Roberto Anselmi, produttore veneto reduce da ingenti danni causati dalla recente alluvione. Straordinario l’impatto visivo della cantina con 5.400 bottiglie in vetrina, a testimoniare l’eccellenza vitivinicola italiana.
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Pillole
Il Veneto al 300 x 100... solo il meglio! Il Veneto al 300 x 100, ovvero trecento vini e cento aziende vinicole, tutti rigorosamente del Veneto, si presentano sabato 12 marzo nello splendido castello di San Salvatore a Susegana, borgo del XIII secolo. L’evento accoglierà il pubblico di appassionati e di addetti ai lavori per presentare le venticinque aree vinicole regionali attraverso i vini scelti in seguito alle degustazioni ufficiali delle delegazioni Ais Veneto. L’evento si aprirà con il convegno “L’ambiente nel bicchiere”, che affronterà il tema della sostenibilità ambientale. Si parlerà delle soluzioni adottate dalle aziende vinicole, di nuove tecnologie in cantina, ma anche delle scelte che il sommelier e il ristorante possono mettere in campo per divenire “eco friendly” ed educare il cliente a un consumo consapevole. Dopo il convegno, il banco d’assaggio vedrà protagonisti i produttori, presenti personalmente per spiegare la propria filosofia. Nel pomeriggio sarà la volta del concorso Miglior sommelier del Veneto, premio giunto alla quinta edizione. I concorrenti delle due categorie, amatori e professionisti, si sfideranno a colpi di tastevin per conquistare il titolo. Particolarmente difficile sarà la gara per i professionisti, che dovranno sostenere un’analisi sensoriale di tre vini, la decantazione, la correzione di una carta dei vini, disseminata di errori, e per l’abbinamento cibo-vino quattro vini nazionali e quattro internazionali. Per informazioni www.aisveneto.it oppure 0422 928954 – info@gheusis.com
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A Critical Wine vini artigianali con l’anima I poeti della terra, così Luigi Veronelli chiamava agricoltori, contadini e vignaioli, hanno fatto di nuovo il tutto esaurito. Trentasei aziende vitivinicole, quattro microbirrifici e una decina di piccoli “artigiani alimentari” hanno testimoniato che si possono ottenere prodotti di qualità, a un prezzo equo, rispettando l’ambiente. Arrivata alla sesta edizione, Critical Wine di Genova non perde lo spirito che la caratterizza dagli esordi, portando ancora una volta al centro del dibattito tematiche sociali e ambientali. Tra gli ospiti ci sono stati alcuni terremotati dell’Aquila, tra cui gli abitanti di Pescomaggiore, che hanno raccontato come stanno costruendo, con le loro mani, un ecovillaggio totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico. L’assemblea nazionale delle reti contadine ha invece cercato di delineare una proposta di legge popolare, per semplificare il lavoro dei piccoli agricoltori, mentre la Ragnatela di cinquanta produttori campani ha raccontato come una volta al mese occupino uno spazio dichiarandolo temporaneamente autonomo, per poi animarlo con la Fiera delle soluzioni Valleponci, azienda agricoimmaginarie, la di Finale Ligure, produce 14.000 bottiglie all'anno un’occasione per produttori e consumatori per conoscersi e confrontarsi. «Questo è il messaggio che Critical Wine ha sempre voluto diffondere: filiera corta, rapporto diretto contadino - consumatore, rispetto dell’ambiente, consumo critico invece di consumo produttivo» aggiunge Gianni Morando del collettivo Terra e Libertà-Critical Wine di Genova, organizzatore della manifestazione fin dalla prima edizione.
Una minoranza per vocazione, potrebbe obiettare qualcuno, eppure non è così. Dal 2005 a oggi il numero dei produttori è cresciuto in modo costante, dal Veneto alla Puglia quest’anno erano otto le regioni rappresentate. Fra loro c’erano i vignaioli indipendenti, quelli del vino naturale, del biodinamico e gli “spiriti liberi” non certificati. La maggioranza possiede mediamente tre-quattro ettari, pochi quelli che vivono solo di viticoltura. Claudio Marconi coltiva meno di due ettari a Baccanello e Sangiovese e fare vino è il suo secondo lavoro. Molte le aziende agricole, fra queste Valleponci di Finale Ligure, Maurizio Ferraro di Montemagno nell’Astigiano, Claudio Giachino di Montelupo Albese. Accanto ai produttori storici, da sempre presenti a Critical Wine come Cascina degli Ulivi, Eraldo Revelli, Aldrighetti, Clerici, quest’anno si sono uniti due viticoltori del Centro-sud, le Cantine Rasicci, giovane realtà da Controguerra nel Teramese e Gaetano Morella, vignaiolo indipendente, che da Manduria ha portato l’eleganza e la struttura dei vini del Sud. Un viaggio lungo, che testimonia come sempre più produttori credono nell’importanza di conoscere personalmente il consumatore finale. Nadia Verrua di Cascina Tavi’jn conferma e aggiunge: «Soldi per la pubblicità non ce ne sono e offrire il nostro vino è una sorta di investimento per il futuro». E forse anche per il presente, dal momento che gli amanti del buon vino sono moltissimi, assaggiano e soprattutto comprano. Luigi Veronelli diceva che «l’ultimo dei vini artigianali sarà sempre migliore del primo dei vini industriali, perché avrà un’anima». Come dargli torto? (Ludovica Schiaroli)
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Pillole
A Lugano va in scena il gusto Il 13 e 14 marzo Lugano diventa la capitale del vino e della gastronomia grazie a Gusto in scena, evento ideato da Marcello Coronini, che si svolgerà al Palazzo Congressi, nel cuore della città. La manifestazione, aperta ai professionisti e agli appassionati, si articolerà in tre momenti: Chef in concerto, I Magnifici Vini, rassegna di oltre cento cantine d’Italia e d’Europa, e Seduzioni di gola, selezione di sfizi gastronomici. Il vino sarà il vero protagonista. Anzitutto, durante il congresso gastronomico Chef in concerto, alcuni dei più importanti cuochi italiani ed esteri si alterneranno sul palco attraverso la realizzazione di piatti cui sarà abbinato e presentato il vino di una delle cento cantine presenti a I Magnifici Vini, secondo appuntamento della manifestazione. I soci dell’Ais, cui saranno riservate condizioni vantaggiose, potranno seguire il congresso e riflettere sul binomio fra alta cucina e vini di qualità. Potranno inoltre incontrare personalmente al banco d’assaggio i produttori. E se la presenza italiana è ormai consolidata, quella svizzera riserverà non poche sorprese. In questi anni, infatti, i vini elvetici hanno costantemente migliorato la qualità, raggiungendo punte molto interessanti. I soci Ais potranno quindi scoprire queste perle enologiche, situate a due passi dall’Italia. A I Magnifici Vini alcuni tra i nomi più importanti dell’enologia italiana saranno disposti secondo l’innovativa classificazione “mare, montagna, pianura e collina”, brevettata da Marcello Coronini con il contributo scientifico di Attilio Scienza. Infine Seduzioni di gola, terzo momento dell’evento, presenterà alcuni degli sfizi gastronomici più golosi e rari d’Italia e della Svizzera. Informazioni: www.gustoinscena.it – 02 29404086
Ecco la nuova agenda Ais 2011 Prenota anche tu l’esclusiva agenda firmata dall’Associazione Italiana Sommeliers, realizzata interamente a mano, in soli 1000 esemplari, dal Maestro artigiano e Sommelier Sergio Antonini. I materiali usati per la fabbricazione sono della più alta qualità per rendere l’oggetto, oltre che bello ed elegante, durevole nel tempo. Un’accurata selezione di nappa di vitello francese, la pelle più pregiata reperibile sul mercato, è stata rifinita da una delle più rinomate concerie italiane e lavorata secondo i canoni della tradizionale pelletteria fiorentina. L’edizione 2011 veste la livrea del Chianti Classico, inaugurando la serie da collezione dedicata ogni anno a un grande vino italiano. All’interno troverai le parole del vino, nel semplice ed efficace linguaggio della scuola Ais, unitamente a un pratico planning settimanale. Il prezzo riservato ai soci è di € 65,00 (spese di spedizione comprese). Per richiedere la vostra agenda contattate la sede centrale: ais@sommeliersonline.it – tel. 02-2846237
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Libri
SULLO SCAFFALE LA SCIA DEI TETRAEDRI NEL MARE GASTRONOMICO DELLE EGADI Autore: Editore: Prezzo:
Emilio Milana Danilo Montanari Editore 25,00 euro
Premio Bancarella della Cucina nel 2009, Premio del Museo Nazionale delle Paste Alimentari nel 2010, il volume di Emilio Milana, ingegnere “egadiano” appassionato agli aspetti culturali della gastronomia e sommelier, è uno studio a 360°su ogni aspetto – storico, antropologico, linguistico, biologico – di un’isola mosaico di differenti culture. Con particolare attenzione alle Egadi e al Trapanese, il volume spazia sulla Sicilia in generale e sulla storia dei popoli che in queste terre si sono incontrati e scontrati. Parlare della cucina e del mutevole sfaccettarsi del tetraedro del gusto (dolce, amaro, salato e acido) dei Siciliani è come “attraversare” la storia; perché rispetto al patrimonio di reperti e di documenti che si correlano a civiltà ormai estinte, la cucina continua a essere testimonianza viva e pulsante di una realtà che ci accompagna ogni giorno attraverso i sapori, gli odori e i colori. Il volume si articola in una sintesi storico-culturale dell’evoluzione culinaria siciliana, con collegamenti diretti a tematiche fondamentali – come la pasta e il vino – e in un’ampia raccolta di ricette, ripescate nella pratica comune, nei ricordi degli anziani, come da fonti ufficiali. Ecco allora rivelatici dall’acuto Milana gli usi e i costumi di quanti vissero questa cuspide dell’isola a partire dal Mesolitico e dal Neolitico: i Siculi, gli Elimi, i Fenicio-Punici, i Greci, i Romani. Popoli dei quali viene fornita una precisa descrizione dei prodotti alimentari che introdussero, influenzando e modificando le scelte culinarie delle popolazioni indigene. Tra le numerose curiosità, mi piace citare quella relativa ai Normanni, che nel primo secolo dell’anno Mille introdussero nuovi arnesi nelle cucine dell’isola, come coltelli di vario tipo e forse anche le forchette. Così come crearono per la prima volta la figura del “siniscalco” (dal franco siniskalk), che rappresentava il servitore anziano e maestro di casa della famiglia reale e il cui compito originario era quello di “trinciare” le carni e servirle ai convitati. La stessa figura che – con implicazioni sociali di prestigio via via maggiori nel Cinquecento – dalla Sicilia sarebbe passata a tutte le altre corti europee. Un popolo è soprattutto ciò che entra ed esce dalla sua bocca. Cibo e parole. 96
di Natalia Franchi
L’ALTRO TARTUFO DEL PIEMONTE Autore:
Editore: Prezzo:
Elio Archimede, Cetta Berardo, Mauro Carbone, Mario Palenzona, Sergio Maria Teutonico Sagittario Editore 29,00 euro
O lo ami o lo odi: è il tartufo, e – per chi lo ama – è una delizia, ma alla portata (economica) di pochi. Fatta eccezione per l’appena concluso 2010, anno in cui una offerta importante ha favorito una riduzione dei prezzi, il tartufo resta un alimento di lusso, a braccetto con ostriche e Champagne, solo più nostrano. I tartufi sono il corpo fruttifero (sporocarpo o ascocarpo) di funghi che compiono il loro intero ciclo vitale sottoterra (funghi ipogei). La notorietà odierna va al tartufo bianco di Alba, che del tubero ha fatto un mito a livello mondiale. Non così nelle cucine reali dei Savoia e ai tempi dell’avvio dell’Unità d’Italia, centocinquant’anni fa, quando il tartufo nero era prediletto. La vicenda regressiva del tartufo nero è stata una perdita per la gastronomia piemontese che ora, però, vive una stagione di riscoperta, riproponendosi con l’evidenza raccontata dai curatori del volume. Oltre alla ricerca scientifica, condotta dalla società Ipla, “L’altro tartufo del Piemonte” in 320 pagine ricorda miti e leggende, le citazioni letterarie e i dati di mercato di questo comparto speciale, proponendo due aspetti: la coltivazione del Nero Piemonte e il suo corretto impiego in cottura, con 110 ricette firmate da cuochi piemontesi e non. Curioso e infarcito di puerilità il trattato Opusculum de tuberibus che Alfonso Ciccarelli, medico di Bevagna, ha avuto il merito, nella sua breve vita, di dare alle stampe nel 1564. Nel trattato Ciccarelli azzarda una distinzione di genere tra il tartufo bianco che “è femmina, nato dall’umidità satura di vapori caldi” mentre il nero “è maschio nato dal caldo denso di vapori”. Per il medico, il modo migliore per gustarli è di cuocerli sotto le ceneri calde, poi, una volta ripuliti, di “condirli con olio dolce, pepe e sale, e irrorati dall’acre sapore delle arancie si portino in tavola alla fine del pranzo”. Un dessert per i potenti della terra, papi e re. Il “tubero più brutto del mondo” ma “divinamente sensuale”.
I VINI DELLA COLLINA BIELLESE DIALOGO TRA I FILARI DI VIGLIANO, RONCO, VALDENGO, CERRETO E QUAREGNA
Autore: Editore:
Alberto Pattono Edizioni Gariazzo
Ad Alberto Pattono, sommelier e autore già noto a queste pagine per aver pubblicato altre apprezzate monografie, va riconosciuto il merito di aver condotto una ricerca accurata e puntuale, ricomponendo il complesso quadro vitivinicolo biellese. Se, infatti, fino a un secolo e mezzo fa quarantamila ettari vitati connotavano fortemente il paesaggio collinare tra Biella e Gattinara, lo scenario attuale vede poco meno di 400 ettari, frazionati, distanti dai luoghi di vinificazione e sparsi tra boschi e quartieri residenziali. Analogamente a quanto avvenuto in altre regioni del Paese, anche in questo caso l’analisi di documenti storici e di interviste (condotti da Mariella Debernardi), ha evidenziato come i vigneti di queste colline risalgano a epoche assai remote e come questa zona sia rimasta fittamente vitata, fino a quando la progressiva industrializzazione attirò nelle fabbriche la manodopera specializzata nell’arte della viticoltura e dell’agricoltura, lasciando che i vigneti abbandonati diventassero boschi incolti. Un destino comune a molti terreni, che alcuni Biellesi doc intendono riscattare, come è ben reso dalle parole di uno di loro: «La vigna non muore mai, è eterna, è sfida, è fonte di grande preoccupazione, è impegno manuale costante e continuo, richiede serenità d'animo e grande pazienza, è fonte di grande soddisfazione. Per chi la coltiva con orgoglio e fatica per autoconsumo, la vigna è un piacere dell’anima, è un modo per ricordare con nostalgia il passato, è lo spunto per farsi promotore di progetti di sviluppo del territorio, in cui impegnare energie e capitali. È sogno da realizzare». Eccoli, dunque, i protagonisti di questo riscatto – vuoi piccoli produttori per autoconsumo, vuoi giovani imprenditori disposti a mettersi in gioco – le cui storie tracciano un esauriente sguardo d’insieme sullo stato della vite e del vino di Vigliano, Ronco, Valdengo, Cerreto e Quaregna. Storie da ascoltare, alle quali, perché no, ispirarsi, in questi tempi di diffuso e rassegnato appiattimento. Una tra tutte, la storia di Katia Giordani, esempio di incarnazione del felice binomio donna e vino. A lei il merito di aver valorizzato i vini del territorio trasformandoli in gelatine da abbinare ai formaggi locali. Alternative alle conserve, le gelatine vengono prodotte estraendo la pectina direttamente dalle mele e con l’aggiunta di zucchero rigorosamente di canna, non raffinato. Un’intuizione prettamente femminile e moderna, espressione dell’estro e della passione trasferiti al prodotto. Dall’orgoglio della terra, buoni frutti …
LE VOCI DI PETRONILLA Autore: Editore: Prezzo:
Roberta Schira e Alessandra De Vizzi Salani 16,80 euro
La premessa doverosa per quanti avranno la fortuna di leggere questo libro è la seguente: se donne, preparate il fazzoletto. Perché starete leggendo frasi e pensieri che anche voi avrete pronunciato e pensato. Se uomini, mandate a memoria. Perché quanto emerge dal testo è quanto di più vero e attuale sull’universo femminile vi sia dato di leggere; e perché “gli uomini conoscano il segreto per renderle felici” (le donne, queste sconosciute) per dirla con le parole di Amalia Moretti Foggia, protagonista del volume, femminista ante litteram, giornalista, medico. Donna coraggiosa e moderna, a cui tutte – come da lei auspicato nelle ultime volontà raccolte dal marito Memi – dovremmo ispirarci traendone incitamento a migliorare. Classe 1872, figlia di speziali mantovani, Amalia fu una delle prime donne in Italia a laurearsi in Medicina a Milano. Dalle pagine della Domenica del Corriere, per anni dispensò consigli medici, ricette di cucina e pillole di saggezza, firmandosi con gli pseudonimi di Dottor Amal e Petronilla. Le autrici del libro, riescono a rendere la sua vita un romanzo di vorace lettura, narrato in prima persona da Amalia, alla stregua di un diario, intimo e toccante. Temperamento indomito e instancabilmente al fianco delle donne bisognose che si recavano nella Poliambulanza di Porta Venezia, Amalia conobbe la crème dell’intellighenzia dell’epoca, da Sibilla Aleramo ad Anna Kuliscioff, e partecipò attivamente alla promozione dell’immagine femminile nella società. Erano anni in cui le donne a fatica cercavano il proprio posto al sole, in un mondo culturale maschile che riservava loro ruoli marginali. Quando «scrivere sui giornali era un diritto quasi esclusivamente maschile, e cucinare bene era un modo per farsi perdonare di essere intelligenti». Come le due autrici raccontano, Amalia combatté perché le donne diventassero «padrone della propria vita, perché l’unico vero tradimento, quello che ci annienta e dal quale non ci si solleva più perché rappresenta la morte interiore, è tradire la propria indole ed essere infedeli a se stesse». In chiusura del volume, alcune ricette di cucina, tratte dai suoi libri e dalla Domenica del Corriere. Ricette che hanno dell’incredibile, quasi come la vita di Amalia e come ha osservato Miriam Mafai, capaci di mettere in tavola gli stessi piatti di prima ma senza gli ingredienti ormai introvabili (per intenderci, maionese senza olio e torta margherita senza farina …). Secondo un antico detto cinese, ci sono tre modi per guadagnarsi l’immortalità: piantare un albero, fare un figlio e scrivere un libro. 97
Io non ci sto
Produrre meno
per dare un futuro al settore di Franco Ziliani o premetto subito, non sono e non sarò mai un avversario né tantomeno un nemico delle Cantine sociali. Come ho già scritto recentemente in questa rubrica, dicendomi risolutamente contrario alla proposta di accorpare diverse cantine per creare delle maxi strutture in Sicilia, «è sotto gli occhi di tutti che diverse Cantine cooperative italiane oggi non solo siano protagoniste sul mercato nazionale e su quelli esteri, ma che non abbiano nulla da invidiare alle aziende private. Ma c’è di più, perché alcuni vini prodotti da Cantine cooperative sono addirittura diventati degli autentici punti di riferimento nelle rispettive denominazioni». Il mondo del vino italiano ha bisogno di cantine sociali nuove per mentalità e dal mondo della cooperazione possono venire risposte utili e valide soluzioni per tentare di risolvere (o quantomeno di arginare) la crisi che attanaglia pesantemente il settore. Una condizione è però fondamentale: riconoscere che oggi in Italia si produce troppo vino, molto di più di quello che tutti i mercati, di ogni ordine e livello, quelli interni e quelli esteri, sono in grado di assorbire e che occorre urgentemente procedere, con coraggio e lungimiranza, a modifiche strutturali che devono per forza prevedere, non c’è alternativa, una riduzione delle superfici vitate. Soprattutto nelle aree i cui vini hanno dimostrato di faticare molto a stare con dignità sui mercati, o hanno trovato “ragion” d’essere per anni, solo nella pratica della distillazione con contributo. È una situazione di fatto che non riguarda solo l’Italia, ma anche i cugini francesi. Come leggo nel lucido editoriale di Andrew Jefford France’s secret wine crisis pubblicato nel numero di dicembre della rivista britannica Decanter, nella terra dei grand cru, «metà della produzione viene dalle cooperative», come pure «il 40% dei vini a denominazione». Le circa 800 cooperative contano su qualcosa come 87 mila soci conferitori di uve. E se nella zona della Loira solo l’11 per cento del vino viene dalle cooperative, la percentuale risale a ben il 71% nel Languedoc-Roussillon, al 76% nel dipartimento dell’Ardèche e all’82% in un dipartimento della zona del Rodano. Qual è il problema dei problemi che i viticoltori associati alle caves coopératives francesi si trovano ad affrontare? È un’evidenza drammatica che riguarda anche tanti loro colleghi italiani singoli viticoltori o soci delle tante cantine sociali italiane, non certo quelle di cui siamo abituati a tessere le lodi perché fanno ottimi vini e li sanno ben proporre, con una giusta mentalità imprenditoriale e commerciale in Italia e nel mondo, ma quelle che sono sempre sull’orlo della chiusura e campano di contributi pubblici (finché ci saranno ancora). La realtà pesantissima è che i costi di produzione sono superiori ai ricavi, i margini di guadagno si sono ridotti all’osso o peggio, non è garantita più alcuna redditività per la produzione di uve da conferire a molte cantine sociali. O peggio ancora destinate ad essere acquistate dai grossi imbottigliatori. Che non comprano o sono disposti a pagare prezzi ridicoli. Tutto questo comporta, in Francia come in Italia, di fronte al mare di vino disponibile e spesso invenduto, che per provare a restare a galla si debbano drammaticamente
L
abbassare i prezzi. Buone notizie, tutto sommato, per i consumatori, che si trovano a poter trovare sullo scaffale molti vini, soprattutto nella fascia medio bassa, a prezzi ribassati (a volte scandalosamente troppo: poco prima di Natale in Lombardia in una catena della grande distribuzione si poteva trovare del Barolo a prezzi varianti, a seconda dei negozi, dai 4,90 ai 5,90 euro…), ma un tipo di “strategia” che assolutamente, è il caso di dirlo, non paga, che può essere forse un espediente tattico per sopravvivere, ma non assicura alcun futuro. Perché quando si è scelta la strada del taglio drastico dei prezzi, taglio consentito a volte da rinunce pesanti dal punto di vista della qualità, è assai difficile, se non impossibile risalire… Che fare dunque? Nel suo articolo Jefford, ragionando secondo un ottica molto inglese e marketing oriented, sostiene, riferendosi ai vini, a suo avviso pieni di problemi, di molte caves coopératives francesi, che questa materia prima grezza se affidata a mani esperte e capaci di tecnici francesi, australiani o californiani esprimerebbe «vini superbi» in grado di rappresentare comunque, una volta eliminati i loro difetti, esempi di ottimo rapporto qualità, «se potessero trovare dei compratori». E porta poi ad esempio un’esemplificazione normativa introdotta nella vastissima zona vinicola del LanguedocRoussillon dove accanto alle classiche AOC (ce ne sono di note: Corbières, Limoux, Minervois, Faugères, SaintChinian…) nel 2006 è stata introdotta, mediante una semplificazione normativa, la possibilità di presentarsi sul mercato con il semplice marchio Sud de France, una sorta di global brand, destinato dapprima al mercato locale, poi a mercati esteri come Giappone, Cina, Corea, Stati Uniti, Brasile e Messico. Bene, pensando alle tante denominazioni sconosciute se non localmente, presenti in svariate regioni del nostro Sud come Puglia, Campania, Calabria, nonché in Sicilia e Sardegna, e alle moltissime cantine sociali in attività (in molti casi mi verrebbe da aggiungere “se così si può dire”...) in queste regioni, si potrebbe pensare che un’analoga soluzione, una denominazione larghissima come Sud Italia, Italia del Sud, o magari “Vini del Sole”, possa essere la soluzione. Magari, ma mi sembra già di vedere svariati enologi fregarsi le mani per tanta libertà loro ufficialmente concessa, attraverso un mix di uve e vini di diverse regioni, non di una sola. Personalmente non credo che questa “ricetta”, la soluzione adottata, peraltro non con trascinanti risultati, in Francia possa dare gli sbocchi auspicati a una produzione che continua a essere, purtroppo, sovra-dimensionata, eccessiva e che deve essere rivista sia nelle dimensioni che nell’impostazione. Perché non si tratta tanto di cambiare il marchio e il modo di presentarsi, ma di ripensare e ho parlato del caso delle cantine sociali anche se il problema tocca anche molti singoli produttori, un’intera idea del fare vino. Non vedo alternative, se non il produrre meno (e produrre sempre meglio, anche nel caso di vini base destinati al primo mercato) per dare un futuro, fatto di vitalità e redditività, al settore del vino in Italia. 98