POESIE E PROSE
ANTONIO ALLEGRINI
SENTIVA NEI BOSCHI ODORI DI ALTRI MONDI POESIE E PROSE
a cura di Alberto Sana
MORCELLIANA
© 2016 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia
Prima edizione: giugno 2016
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ISBN 978-88-372-2845-3 LegoDigit srl - Via Galileo Galilei 15/1 - 38015 Lavis (TN)
A mia madre Anna e a tutti quelli che hanno mantenuto i frammenti della VeritĂ
Quel che conta e che conforta è pensare che il grano non ha fine se una zolla ha serbato l’ultimo seme: e poco importa quanto si perse M. Pomilio
Introduzione Una volta fummo uomini altrove Un cosacco in Frentania «Mi hanno salvato le icone», ha recentemente dichiarato Antonio Allegrini a chi scrive questa nota. L’affermazione di natura soteriologica, contemporaneamente e apparentemente fuori moda, fuori misura e vagamente esotica, si spiega invece con le vicende biografiche e letterarie dell’autore dei testi che qui proponiamo. Anche la vita di Allegrini, come quella di miliardi di individui e migliaia di artisti, è stata segnata da una ferita originaria. E all’origine del trauma è la sorte di un’intera stirpe incenerita, una stirpe nomade, dispersa e disgregata come tante altre, i cui destini hanno raccontato monumenti, libri, miti. Ma nemmeno in tale tragica circostanza sta la sua singolarità. Il singolare destino dello scrittore abruzzese è quello di essere da una parte uno degli ultimi eredi e forse l’estremo cantore, almeno nella nostra penisola, del sentire dell’eroico e bistrattato popolo cosacco, quello dei vari Taras Bulba, Sten’ka Razin, Emel’jan Ivanovič Pugacëv, Ivan Stepanovič Mazeppa spesso celebrati nella letteratura russa;1 dall’altra il praticante di un credo religioso singolare in occidente, originario dei padri, quei Vecchi Credenti (noti da noi per i romanzi dostoevskijani e il racconto leskoviano L’ angelo sigillato) che, guidati dal celeberrimo protopop Avvakum, si opposero nella seconda metà del XVII secolo alle riforme del patriarca Nikon, dalla chiesa ortodossa russa si separarono da scismatici (raskol’niki) e da scismatici furono trattati, perseguitati, uccisi, esiliati. Ed è una sorte di esilio e di perdita (della terra madre, del legame con i correligionari) 1 Del primo narra le vicende il famoso omonimo racconto gogoliano. Il secondo, fondatore nel 1670 della Repubblica Cosacca e sostenitore dell’uguaglianza sociale, fu catturato, torturato e squartato dalle autorità zariste; lo celebra il canto popolare Il sogno di Stepan Razin (Oj, to ne večer). Del terzo, la celeberrima guida della grande insurrezione contro Caterina II, scrisse Puškin ne La figlia del capitano. Il quarto, atamano dello Stato Cosacco, si schierò contro Pietro il Grande: i fatti che lo riguardano furono descritti dallo stesso Puškin, da Byron e da Hugo, la sua figura esaltata da alcuni componimenti musicali di Liszt e Čaikovskij. Del mondo kazak del Terek scrisse Tolstoj ne I cosacchi. Altre celebri imprese cosacche in prospettiva filorivoluzionaria narrarono Isaak Babel’ (L’armata a cavallo) e Michail Šolochov (I racconti del Don).
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Introduzione
quella che condusse gli antenati dell’autore (il cui cognome originario è Demidov) dalla Russia a cavallo attraverso l’Europa (presumibilmente tra Polonia, Boemia, Germania e Austria) in Abruzzo, in un indescrivibile e doloroso viaggio di privazioni e di fame. La storia del popolo cosacco fu spesso caratterizzata dall’insofferenza nei confronti del potere costituito: seminomadi da sempre, talvolta si accordarono con i detentori del potere, ma frequentemente si ribellarono di volta in volta ai grandi feudatari, agli zar, ai vincitori della Rivoluzione d’Ottobre. Lo scalcinato piccolo clan giunto in Abruzzo (forse originario della Siberia, di Novosibirsk)2 era una reliquia di quei gruppi che, appoggiata inizialmente la rivoluzione, passarono ben presto e in massima parte con le forze antibolsceviche ‘bianche’; e a partire dal 1919 in Unione Sovietica si verificò uno dei primi veri e propri genocidi staliniani (la cosiddetta «decosacchizzazione»): i bianchi furono spazzati via, molti cosacchi vennero uccisi o andarono in esilio. «Tutte le cose diventano fatali alla mia razza», scrive Allegrini. Gli avi di Anton Nazarovič (questi il nome e il patronimico russi dell’autore) trovarono definitiva sistemazione in quel di Castel Frentano (Chieti).3 Il paese, in un passato non troppo remoto, era noto nella zona per la presenza settimanale di un importante mercato equino: e un cosacco senza cavallo è nulla, ricordava nonno Sevastjan, figlio di ataman. La dolce conca valliva su cui l’abitato affaccia – dominato dal massiccio della Maiella, la montagna madre degli abruzzesi, primitivizzata e mitizzata oltre misura dall’imaginifico Gabriele – fu dolcemente cantata come tèrra d’ore nei bei versi dialettali di un amico del vate pescarese, il sacerdote
2 Piccole comunità vecchiocredenti vivono ancora sparse in Siberia, ad esempio attorno al lago Baikal, nella valle di Ujmon sugli Altai o in Buriazia, una regione nel sud-est del paese ai confini con la Mongolia. Starovjery, oltre che a Mosca, si ritrovano anche in Estonia, Lettonia, Romania e, nel nuovo mondo, perfino in Alaska. In Italia la comunità più consistente si trova a Torino. Come primo approccio allo staroobriadčestvo si veda Hans-Dieter Dopmann, Il Cristo d’Oriente, ECIG, Genova 1994, pp. 77-91. 3 La Frentania è una consistente porzione del territorio chietino che comprende zone marittime (dalla tostiana Ortona, alla dannunziana San Vito, a Torino di Sangro) e interne (Lanciano, la valle del Sangro-Aventino e il versante orientale della Maiella). Fu abitata da un popolo italico di lingua osca (i frentani) strettamente affine ai sanniti. Su Castel Frentano (fino al 1864 Castel Nuovo) si vedano segnatamente le raccolte documentarie di Michele Scioli (Gli atti preliminari del catasto onciario di Castel Nuovo, Castel Frentano 1995; Documenti per la storia di Castel Frentano, ivi 2007 ss., 14 voll.) e il volume di Matteo Del Nobile Da Guasto Inferiore a Castel Frentano. Un’esposizione storica, ivi 2011. Del borgo è originario lo scultore di fama internazionale Mario Ceroli (1938), amico dell’autore.
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letterato Cesare De Titta.4 I membri del clan, portatori di un’inevitabile alterità, cercarono di mimetizzarsi in un clima da perenne medioevo (secondo l’opinione di Allegrini); il cognome venne mutato a ricordo di un benefattore,5 e forse anche a causa delle conseguenze di buone bevute. Il piccolo borgo collinare, dopo la perduta grande madre Rus’, diventa il secondo fuoco della parabola esistenziale del poeta, natovi nel 1942: «il paese dell’esilio» (come intitola una rilevante sezione della raccolta La stirpe di cenere), amato/odiato «paese dell’anima» e «paese della notte», contemporaneamente «paese dei nemici» e «dei miei morti più cari», russi per parte di padre e abruzzesi per parte di madre. Intanto, altrove in Italia e nella ex Jugoslavia, in Carnia e sulle rive del fiume Drava, sul finire della seconda guerra, per una parte del popolo cosacco si consumava un altro dramma: dopo essere divenuti improvvidamente alleati dei nazisti per opposizione all’odiato bolscevismo sovietico e nella speranza di rifondare da qualche parte una utopica Kosakenland, inclusi nei ranghi della Wehrmacht e delle Waffen-SS, i kazaki furono impiegati in azioni militari contro le formazioni partigiane della regione giulio-isontina nella cosiddetta Operazione Ataman. Arresisi ai britannici alla fine del conflitto, vennero rimpatriati dagli alleati, con la forza o l’inganno, in Unione Sovietica: molti di quelli che rifiutarono tale sorte nel maggio del ’45 finirono suicidi annegati nelle acque della Drava; altri vennero fucilati o impiccati dai russi, o furono internati nei gulag.6 L’arrivo, la permanenza e la tragica fine delle sgangherate truppe a cavallo, oltre che in tesi di laurea e libri di storia,7 sono stati 4 Il De Titta (Sant’Eusanio del Sangro 1862-1933) fu insegnante liceale, poeta trilingue e traduttore nella koiné chietina delle Elegie romane e de La figlia di Iorio dell’illustre corregionale. La raccolta dialettale che celebra i dintorni del paese nativo (nei pressi di Lanciano) si intitola appunto Tèrra d’ore (1925). Oltre che di altre sillogi poetiche il De Titta fu il compilatore di due note grammatiche scolastiche, latina e italiana, che con tribuirono alla fortuna commerciale del tipografo ed editore lancianese Rocco Carabba. 5 A. Allegrini, I cavalieri di neve – Icone, Edizioni Orient-Express, Castel Frentano 2000, p. 248. Della casa editrice dal significativo nome è titolare lo stesso autore. 6 Negli stessi anni, ma per altri motivi, visse e descrisse la realtà dei gulag sovietici Aleksandr Isaevič Solženicyn, anch’egli di origini cosacco-ucraine per parte di madre. 7 P.A. Carnier, L’armata cosacca in Italia, 1944-1945, Mursia, Milano 1993; P. Stefanutti, Novocerkassk e dintorni: l’occupazione cosacca della Valle del Lago (ottobre 1944 - aprile 1945), IFSML, Udine 1995; A. Dessy, I cosacchi di Krassnov in Carnia e loro forzata consegna ai sovietici (tesi di laurea), Università degli Studi di Padova, a.a. 2003-2004; P. Deotto, Stanitsa Tèrskja. L’illusione cosacca di una terra, Gaspari, Udine 2005; R. Rossa, Venti cammelli sul Tagliamento. L’avventura cosacca in Friuli dal 1944 al 1945, IFSML, Udine 2007; L. Zanier, Carnia, Kosakenland. Racconti di ragazzi in guerra, Forum, Udine 2010.
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narrati dal friulano Carlo Sgorlon nel romanzo L’armata dei fiumi perduti, vincitore del Premio Strega 1985. «Nel Friuli, in Carnia / è morta la stirpe cosacca. / Armaghedon, disfatta.», scrive il poeta russo-castellino in un componimento incluso nella presente antologia, rammentando la eco della notizia di quei fatti giunta tra lo sparuto drappello dei kazaki abruzzesi. L’adattamento dei Demidov/Allegrini fu solo parziale: già stranieri in patria per schiatta e per la rigida ortodossia, mantennero ostinatamente anche in Abruzzo l’attaccamento a idee, pratiche, oggetti, usi linguistici, narrazioni orali, tradizioni e rituali. In un manoscritto dell’anno 1919 firmato da Nikolaj Alexandrovič Demidov, gelosamente conservato dalla famiglia di Antonio e da lui pubblicato, si leggono tra le altre le seguenti affascinanti e coercitive raccomandazioni: «A mio figlio […] Questi precetti che ti lascio sono anche per i tuoi figli. […] Non dimenticare la lingua, le nostre tradizioni, soprattutto l’antica fede e tutto questo ti comando di tramandare alla nostra discendenza. Non dimenticare la patria, le usanze nostre, le byline e le starine, i priskazki e le konkovki, le canzoni e il vero cognome nostro che è Demidov. […] Tieni sempre a mente l’antica religione. […] Rammenta il codice dell’onore cosacco: sii coraggioso senza spavalderia ed al momento opportuno. Retto nel giudizio, fedele alla parola data, deciso nella vendetta. Continua a vivere per quanto ti è possibile alla maniera della steppa. […] Tieni con te dei cavalli. I cavalli ci hanno salvato la vita. Essi per noi sono simbolo di gioia e di libertà. Ogni volta guardandoli ti ricorderai della nostra provenienza».8 Tra i poveri oggetti d’uso quotidiano trascinati dalla Russia fino al borgo chietino, spicca al contrario un tesoro: si tratta di alcune antiche icone che rappresentano la Vergine purissima, il Salvatore e i santi della tradizione ortodossa. Anche a questo proposito le parole di Nikolaj Alexandrovič risultano inderogabili: «Per quanto riguarda le icone rimasteci esse sono sacre […] in esse è racchiuso un potere divino, indicano una strada di conoscenza. Sono state testimoni del nostro errare, delle gioie e dolori della nostra famiglia. Esse sono vive». Chi ha letto anche il solo Le porte regali di Pavel Florenskij comprende perfettamente il senso di queste parole: l’icona, materialmente e spiritualmente preparata dalle mani e nell’animo dell’artista, scritta (e non dipinta) secondo tradizione, benedetta ‘all’antica maniera’, collocata su mensola in alto nell’angolo migliore della casa (‘l’angolo rosso’), fiocamente illuminata dal fuoco delle candele, riverita dalla famiglia e da essa pregata durante le ricorrenze liturgiche del calen8
Allegrini, I cavalieri cit., pp. 248-249.
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dario giuliano, costituisce l’ingresso verso l’altra dimensione e l’egresso da quella a questa: è la manifestazione epifanica che squarcia il buio del nostro mondo. Attorno alle tavole dorate i Demidov si raccoglievano spesso; nel brano introduttivo in prosa de I cavalieri di neve (qui antologizzato) Antonio si rivede fanciullo «con gli occhi inchiodati alle icone», presenti ovunque nella sua casa: da lì Maria, Isús (il nome vecchiocredente del Bambino) e i santi scendevano nella stanza e prendevano parte ai suoi giochi infantili. Una delle caratteristiche più evidenti della scrittura di Allegrini è l’accesa visionarietà:9 come ha scritto molti anni fa Vittoriano Esposito recensendo La stirpe di cenere, appare inesauribile lo sfolgorio delle sensazioni e delle immagini sulla pagina tanto del poeta quanto del narratore.10 È una caratteristica di famiglia, scrive Antonio; e in età infantile egli soffrì, o piuttosto ebbe dono, di coloratissime e «interminabili allucinazioni visive»: «azzurri impossibili, bianchi abbaglianti, arcobaleni di fuoco in cui i colori dell’iride scintillavano a lungo nel cielo, nuvole di un prodigioso arancione in equilibrio sull’oro antico del tramonto».11 Fu da bambino, e certo per il tramite delle figure iconiche, che egli ebbe certa sensazione di una realtà parallela che si incrocia continuamente con quella quotidiana, tanto da trascorrere poi «tutta la vita… in uno stato irreale e in un mondo inesistente per i più, ma reale e concreto» per lui e altri come lui:12 la vera patria perduta, propria di tanta tradizione orientale, di cui la Rus’ – tante volte rievocata nostalgicamente dai racconti dei parenti – rappresentava il corrispettivo nel nostro universo. Guardare oltre produce risveglio spirituale e fa acquisire un sapere che terrorizza (la consapevolezza della morte), per sostenere il quale è necessario diventare guerrieri. Con queste premesse si può immaginare che i primi anni di Antonio si divisero tra gioie e sofferenze intense: «l’infanzia trascorse felice»13 ma 9 Lo hanno rilevato in più occasioni Franco Di Carlo (La poesia in Abruzzo, Forum/ Quinta Generazione, Forlì 1984, pp. 32-33), Mariella Bettarini (nella prefazione ad A. Allegrini, Ritratti e notturni, Edizioni Orient-Express, Castel Frentano 2002, pp. 5-6) e Giovanni Casoli (Novecento letterario italiano ed europeo. 2, Città Nuova, Roma 2002, p. 165). 10 V. Esposito, Note di letteratura abruzzese, Edizioni dell’Urbe, Roma 1982, p. 110. 11 A. Allegrini, L. Ceroli, L’arte divina. L’icona: viaggio nei luoghi dell’anima, Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2009, p. 131. 12 A. Allegrini, Sciamanski. Un viaggio nella realtà magica, ivi 2006, p. 10. Se si presta fede alle parole dell’autore, nel volume si registrano anche sue capacità taumaturgiche, sparizioni misteriose e una vera e propria resurrezione. ‘Sciamanski’ era il nome segreto con cui il futuro scrittore veniva chiamato dai familiari. 13 Ibid., p. 11.
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nella miseria della realtà del dopoguerra, tra le umilissime cose che tanta parte hanno nella sua produzione letteraria, gli insegnamenti dei familiari (il nonno, il padre dai mille mestieri, la madre amatissima), la presenza della sorella più giovane, i cavalli, i giochi, le scorribande per le campagne, e le byline narrate ogni sera; ma amando «la solitudine, i grandi spazi, il silenzio – egli scrive – con i miei coetanei non mi trovavo e non mi ci capivo. Lo stampo mi era stato dato in maniera diversa».14 Anche la parte abruzzese della famiglia influì fortemente sulla formazione del ragazzo: da essa assimilò segnatamente il gusto per il racconto orale, parallelo a quello, fondamentale, della parte russa che tanta rilevanza ha nella sua produzione narrativa. L’adolescenza fu travagliata: a Roma si segnalano la precoce esperienza lavorativa in un circo come inserviente e la frequenza di un collegio salesiano (durante la quale si registrano i primi tentativi poetici) risoltasi con l’espulsione; nel Natale del ’59 morì quarantenne la madre. Dopo gli studi magistrali a Lanciano, iniziò la sarabanda degli anni più irrequieti: il periodo universitario al Magistero di Urbino, l’amicizia con Francesco Valli e Carlo Bo, gli spostamenti frequenti a Bologna, Firenze, Roma, i molti precari lavori (assistente universitario, insegnante di arti marziali, rivenditore ambulante di apparecchi televisivi ed enciclopedie), le occupazioni (allevatore di cavalli, cani e uccelli, pittore di icone). La morte del suo mentore, il professor Valli, marca l’abbandono degli studi: l’ormai ultimata tesi di laurea sui trovatori provenzali e le tradizioni popolari abruzzesi fu letteralmente buttata al macero. Venne incrementata invece quella che, per sé, Italo Calvino una volta definì ‘dromomania’; almeno fino al ’73 quella dello scrittore fu una continua nomade vita di strada – punteggiata da frequenti ritorni al paese – dentro e fuori i confini nazionali, talvolta ai limiti della legalità: in Francia, Germania, Olanda, Belgio, Danimarca, Tunisia, Turchia, Stati Uniti. Innumerevoli gli incontri e le amicizie; si segnalano almeno quelli con l’iconografo e monaco ortodosso Grigorij Krug al monastero parigino della Trinité, con Pier Paolo Pasolini,15 col poeta giramondo Irving Stettner,16 che lo mise in contatto Allegrini, I cavalieri cit., p. 12. L’intellettuale friulano aveva espresso ammirazione per i versi del poeta abruzzese e pare che, poco prima della morte, ne avesse caldeggiato la pubblicazione. 16 Irving Stettner (1922-2004), «l’ultimo poeta beat», newyorkese apolide e dissidente, pubblicò per decenni la rivista indipendente «Stroker», sulla quale trovarono posto, nel 1976, anche traduzioni di alcune poesie di Allegrini. Fu pure editore di Henry Miller. La sola antologia poetica esistente in italiano dal titolo Hurrah! è uscita a cura di D. Argnani ed E. Sughi, Edizioni del Foglio Clandestino 2012. 14 15
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con Henry Miller: e con l’autore di Tropico del cancro Allegrini tenne una folta corrispondenza, con reciproco scambio di disegni e acquerelli; fu perfino suo ospite per alcuni mesi a Pacific Palisades, sull’oceano.17 Nel frattempo presero corpo molti componimenti poetici, alcuni dei quali stampati.18 Tre lunghe poesie vengono pubblicate nel volume palermitano della sesta edizione del premio CE.SI (1972); parecchie compaiono nell’antologia in appendice al saggio Gli ultimi poeti della strada (1973) di Rolando D’Alonzo; nello stesso anno e nel successivo escono due plaquettes e una raccolta (Non dormono non ascoltano sono solo morti, 1973; Ultima stazione e Quaderno per un ricordo del sole, 1974). I componimenti di Non dormono… risalgono ai primi anni ’60; quelli di Ultima stazione, secondo Vera Passeri Pignoni, al ’64.19 In tutti si riscontra un impotente senso di rivolta in anni da apocalisse e fine del mondo: occorrono con frequenza immagini e realtà di solitudine, percezione di incombente decadenza (il sud è definito «terra di ginepri, serpi e morte»), scomparsa della luce, consapevolezza di un’imperdonabile colpa: l’abbandono dei boschi, pianeti perduti, a favore della stritolante modernità incarnata dall’asfalto delle città. Ricorrono molte espressioni del campo semantico religioso e biblico, invocazioni o bestemmie, spesso in linea con gli enunciati negativi («fuoco della Geenna», «Armaghedon», «dies irae», «Kyrie», «Amen»). I versi sono lunghi (versi-prosa) ma fratti: ossessiva la presenza dei trattini, di probabile vaga ascendenza beat, che quasi maciullano l’andamento prosastico. In tanta distruzione si fa largo tuttavia sempre più una «attesa di luce», un’antica promessa di un ordine più grande: dopo l’ultima stazione (l’ultima osteria, l’ultimo casello ferroviario, l’ultima stazione della croce di Cristo) sembra rifarsi possibile il «ricordo del sole». Compare già in queste prime raccolte uno dei temi più cari all’autore, che tanta parte ha nella produzione successiva: quello della potenza e della necessità 17 Dell’amicizia con lo ‘scandaloso’ romanziere americano e del rocambolesco viaggio per raggiungerlo ha dato conto lo stesso Allegrini nel ricordo intitolato Incontro con Henry Miller, «I fiori del male» 50 (2011), pp. 8-13. 18 Un’intera raccolta, Il sentiero di Numa, andò perduta. 19 Il vol. del sesto Premio di poesia CE.SI. è a cura di M. Camilucci (A. alle pp. 151162); il libro di D’Alonzo (A. alle pp. 91-104) e Non dormono… uscirono presso Cinque Punti (Chieti), come il Quaderno, incluso in Nuove proposte di poesia e teatro (seconda ed. a sé: Gabrieli, Roma 1987); Ultima stazione, Premio Pier delle Vigne 1973, fu pubblicato dal Centro d’arte e cultura L’Airone (Capua): sull’anno di composizione si veda Il peso della speranza. Antologia della poesia religiosa degli anni ‘70, a cura di V. Passeri Pignoni, Forum, Forlì 1977, p. 153 (ma alcuni componimenti della raccolta risalgono certamente ai primi anni ’70).
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della memoria. La memoria è «striscia bianca di luce / lo scarabocchio sul muro», scrive il poeta in Ultima stazione: anche se «è duro ricordare il buio dell’origine», dimenticare è impossibile perché «il mio corpo – la mia anima sono completamente mescolati / a tutte le cose che vennero distrutte e che risorgeranno» (Non dormono…). Nell’oscurità, nel silenzio completo è possibile ritrovarsi e perdersi. «Non dimenticare», scriveva Nikolaj Alexandrovič al figlio. Allegrini scrive parole e non dimentica, nemmeno gli oggetti e i giorni meno degni di attenzione: la muffa, lo sterco di cane, gli inutili anni. A dispetto della sua fama di regione periferica, isolata e primitiva (un mito coltivato spesso dai suoi stessi figli, D’Annunzio e Croce in primis),20 l’Abruzzo negli anni ’60 e ’70 fiutò il vento del cambiamento anche in ambito letterario. Figliastri della neoavanguardia, del Gruppo 63 e dei Novissimi furono i poeti (Renato Minore, Renzo Paris, Sergio De Risio i più noti) che a Pescara, a Chieti, a Gessopalena, si autodenominarono Quinta Generazione: alfieri della rottura e del rifiuto della tradizione, sperimentatori linguistici. A questo nutrito contingente si contrapposero altri poeti e artisti, definiti da D’Alonzo «Gli ultimi poeti della strada»: tra loro i migliori furono Allegrini, la sorella Pina, Clemente Di Leo (morto ventiquattrenne), Tommaso Tozzi. Essi opponevano agli alambicchi intellettualistici e ai componimenti da laboratorio dei Novissimi e di Quinta Generazione una poesia sull’uomo calato nella storia, poesia come atto vitale, ben piantata in quella terra sulla quale ancora sapevano coltivare pomodori e zucchine: D’Alonzo li denominò pure «poeti zappatori» (con riferimento colto, non tanto ai succitati ortaggi quanto a un omonimo gruppo democratico della storia inglese postcromwelliana). Nel ’72 alcuni degli «zappatori» (Antonio e Pina Allegrini, D’Alonzo stesso) diedero vita al Gruppo dell’Est, che raccolse consensi e adesioni anche fuori regione:21 pubblicarono diversi numeri di rivista (i «Quaderni della malora», dal ’76)22, indirono un convegno (in sintonia con le posizioni del New York 20 Per la Frentania hanno sfatato la leggenda gli studi storici di Corrado Marciani (raccolti in gran parte in Scritti di storia, Carabba, Lanciano 1974 [seconda ed. ivi 1998]), che ha dimostrato i secolari significativi rapporti della regione con il resto della penisola e la costa orientale dell’Adriatico. 21 Tra le figure più note il poeta operaio mestrino Ferruccio Brugnaro e il trevigiano Agostino Contò, oggi bibliotecario a Verona. 22 Fino al 1978 ne uscirono alcuni numeri a stampa o ciclostilati. La rivista alternava manifesti letterari, testimonianze ‘dal basso’, traduzioni (in ispecie di poeti americani come Stettner e Ferlinghetti), poesie del Gruppo o di altri (segnatamente dei membri del
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Poets’ Protest Day), opposero al disimpegno una lotta morale ancor prima che politica, e che legasse poesia e vita contro ogni cultura libresca. Nel primo componimento della silloge per il Premio CE.SI Allegrini scriveva: «La poesia nasce / come una prova di vita […] La poesia nasce da un universo oggettivamente inafferrabile come vita – / morte – pensiero abbagliante – / la poesia nasce nel rischio di vivere…». Le peregrinazioni finirono (e dal 1978 Allegrini acquistò casa in una isolata contrada castellina), la poesia no. Sulle pagine dei «Quaderni» vennero elaborati i nuclei di almeno due raccolte successive, La stirpe di cenere (Forum/Quinta Generazione, Forlì 1978)23 e Tavernanova (Solfanelli, Chieti 1992), entrambe prefate da Giorgio Barberi Squarotti. Esse distillano le esperienze personali fuori dal comune degli anni precedenti e insieme marcano il segno della differenza tra presente e passato, individuale e collettivo (della «stirpe»). Nella prima silloge (nella quale Barberi Squarotti avverte un rimbaudismo autenticamente rivissuto) inconsolabile appare il senso di perdita che ne deriva dal confronto con l’oggi dell’infanzia e gioventù passate («Abbiamo giocato le carte migliori / perdendo»; «il mio tempo migliore si ferma per sempre / su questa pagina bianca» è la quasi epigrafe del libro), delle generazioni andate, dei perduti anni; irrefrenabile la necessità della memoria («Ricordo l’inverno…») e del recupero dell’unico vero sé, quello del passato («qui / una volta siamo restati fermi all’infanzia»; «Sarò vissuto per tornare in questo posto») continuamente e inutilmente rimetabolizzato («E qui resterò per sempre murato e ignoto»; «So che non troverò mai più quello che cerco / e che nessuno ricorda»); passione metafisica per il marginale e il rifiutato, si tratti di uomini (ragazzi del manicomio, prostitute, emigrati, zingari), animali (la gallina, la formica, il grillo, il topo, il serpe), cose (il borgo franoso, gli orticelli, le stalle, i piatti sgretolati). «Ritorno nei piccoli luoghi dove nessuno mi ricorda», «sarò sempre lo stesso ragazzo»: il ritorno a Castel Frentano rompe la frenesia dei viaggi materiali ma fa irrompere totalmente la presenza di un altrove temporale, uno ieri continuamente ruminato senza cedere all’idillio (Barberi Squarotti). Il mondo di ieri, non bello («Ebbi un’infanzia triste / e bussarono alla porta troppo presto»), è comunque rimpianto, come ha definitivamente insegnato il favoloso giovane di Recanati; e ricosiddetto Antigruppo siciliano – fondato a Trapani dall’italo-americano Nat Scammacca e su posizioni analoghe agli «zappatori» – come Crescenzio Cane, Gianni Diecidue e lo stesso Scammacca). 23 Uscita nella nota collana di poesia diretta dal benemerito Giampaolo Piccari.
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Introduzione
manda forse a un altro ieri, quello del «grido dei Padri» della terra cosacca. I versi della Stirpe, anche se spesso più brevi di quelli giovanili, hanno acquisito maggiore respiro: la memoria è un flusso. Il poeta è fermamente intenzionato a recuperare e non solo a gridare. La copertina del libro (un disegno dell’autore) lo ritrae quasi in vesti sacerdotali su uno sfondo innevato dove un cane e un diavolo si fronteggiano, e altri animali veri o fantastici assistono alla scena: una sorta di rappresentazione simbolica di un rito sciamanico che interessa il cosmo. Nel paese dell’esilio, «di bruchi e flagelli» (mentre la patria si andrà definendo precisamente più tardi), Allegrini per anni fece il maestro di scuola elementare, e con l’infanzia (anche sua, supponiamo) fu quotidianamente in rapporto. Nelle lunghe composizioni di Tavernanova (raccolte sì all’inizio degli anni ’90 ma composte in maggior parte tra la fine degli anni ’70 e la prima parte degli ‘80)24 il poeta rimesta ostinatamente nel mondo e nel sentire delle sue età passate, infanzia e giovinezza. La poesia eponima oscilla tra «il terribile viaggio nell’Ade di tutta l’Europa, conoscenza totale della solitudine e del dolore; i lunghi inverni del Nord» (come si ricava dalla introduzione di Ultima stazione) e i dolci ricordi dei «libri di ragazzo / perduti nei cassoni che odorano di mele / bruciati per far fuoco e luce nelle più buie notti»: da una parte i viaggi randagi e oscuri nelle stazioni, nelle strade nere e nelle città «appestate dallo sterco dei padroni», nelle camere delle prostitute, nelle taverne, nelle bische «laddove inizia il buio»; dall’altra flash di partenze e arrivi in paese dei lupi di un circo. L’infanzia la fa da padrone ne La controra, in cui compaiono «le cose care ed inutili che ci fecero felici», accompagnate da animali, piante, spaventi («lu Rifero», lo spirito maligno delle campagne; «la Pantafica», incubo notturno), condizioni miserabili («i pidocchi pellini in fila sulle assi / che aggrediscono i bambini nella culla / rabbiosi / pieni di roffa e merda secca», «il muro / mangiato dal salnitro»), i morti. Nel futuro «nessuno sarà ad attenderci… ci ritroveremo nella piazza vuota / come pezzenti»; e sarà un futuro di «Malora. / E tutto è stato detto / compiuto / consumato / niente da fare / triste profezia / enigma / storia narrata da una stanca bocca / dimenticata 24 Il componimento eponimo era già comparso nell’84 in Poeti d’Abruzzo, a cura di G. Lasca e B. Sablone, Forum/Quinta Generazione, Forlì; Le quattro strade in Codex figurarum, Solfanelli, Chieti 1986 ma con indicazione di luogo e data «Castelfrentano [sic] gennaio del 1978», e, con il titolo 1978, ne «Il bel paese» 7 (1989); una delle Canzoni dei giorni incompiuti in Poesie e prose scelte. Premio L’Aquila-Zirè d’oro 1988, Edizioni dello Zirè, L’Aquila 1989; parte di Computo dei mesi (che porta come data di nuovo il 1978) ancora ne «Il bel paese» cit.
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per sempre / nel tempo del destino». E ancora le due età si intrecciano, inesorabilmente perdute, ne Le quattro strade, tra i ricordi della scuoletta dei «piccolini /ormai dimenticati» ma chiamati per nome e soprannome e colloqui disperati con gli zingari «gente strana / orgogliosa / pieni di sapere e di poesia», tra crescite miracolose («per scommessa quasi / come topi nelle caverne buie / grotte o stalla / magri / sbilenchi ed acidi / dentro abiti più grandi») e le osterie di «un lungo viaggio inconsolabile / sempre uguale sempre diverso». Le Canzoni del tempo perduto, qui ampiamente antologizzate, insistono sul «breve, atroce inganno della giovinezza». In Malastagione, dedicata al docente universitario urbinate Francesco Valli, la struggente autobiografia porta il marchio dell’esclusione fin sul limitare della vita. Al Concerto dell’estate dal paese dell’esilio, che manifesta la consapevolezza che «il destino di ognuno di noi è segnato fin dall’inizio» (e le citazioni di diverse filastrocche infantili a quell’inizio rimandano), segue Alberi, siepi e piante, composta perlopiù di un elenco degli antichi e nuovi sodali. Infine nel Computo dei mesi (in cui prose poetiche precedono i versi dedicati ai mesi), tra inappellabili prese di coscienza («non dimentico niente», «ora posso solo ricomporti nel ricordo»), la putredine delle cose e l’indifferenza dell’universo, la fine di una razza («la stirpe di gente semplice / autorevole / si perde per sempre»), la sapienza dei vecchi sconfitta, si avverte che nel mondo c’è posto anche per un progetto metafisico: «credo esista un disegno inavvertito / nelle piccole cose che vediamo…» e per una professione di fede nella irresistibilità della parola: Segreta forza che mi spingi a raccontare tutto ciò che ricordo con voce amorevole piccole storie di un mondo perduto di erbe – stagioni luci che ritornano con scansione precisa in un paese ormai solo della memoria Anche Tavernanova, come la Stirpe, si compone di «perfetti poemetti» (Barberi Squarotti) e componimenti più brevi. Tre delle otto sezioni principali del libro riportano in esergo citazioni veterotestamentarie che parlano di erranza (Isaia), ferite (Zaccaria) e del breve tempo all’uomo concesso (Salmo 144), a testimoniare certo l’eterna e dolorosa vicenda umana, ma anche l’accoglienza in misura sempre maggiore dell’insegna-
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Introduzione
mento dei Padri e, in ultima istanza, della dimensione religiosa; e i padri tornano, nella figura del nonno, con considerazioni di sapienza popolare, in altre due citazioni in esergo (la prima tra stoicismo, scetticismo e fede: «Ora che tu hai capito tutto / e sai il gioco / non t’arrabbiare, stai zitto e buono, / getta la tua carta e non fiatare»). Dalla fine degli anni ’70 a oggi Allegrini dunque non ha più compiuto significativi spostamenti geografici ad ampio raggio. Ha coltivato come sempre le amicizie, che si sono arricchite via via di nomi nuovi e prestigiosi, quali quelli di Umberto Bellintani, Dario Bellezza, Mario Rigoni Stern, Raffaele Crovi e Lawrence Ferlinghetti,25 ad esempio. Tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80 il poeta, forse memore delle sue ricerche per il lavoro della tesi di laurea, certamente per un interesse in lui da sempre presente,26 attraversò più volte a cavallo le montagne dell’Appennino abruzzese-molisano con lo scopo di raccogliere canti, testimonianze, usi, proverbi della civiltà pastorale in estinzione: lo scopo, l’ossessione evidente, è ancora quello di tentare di conservare i lacerti del passato.27 Nascono in questo periodo i due libri di novelle, Gli anni delle tristi piogge (Solfanelli, Chieti 1988) e Il fuoco della Gehenna (Carabba, Lanciano 1998),28 e un volume sulle tradizioni popolari del paese natale (Castelnuovo. Racconto di un mondo scomparso, Solfanelli, Chieti 1988). È lo stesso autore, come avviene frequentemente, a far cenno alle multiformi origini del proprio raccontare. In primo luogo «l’alternarsi delle stagioni, le fasi lunari, i mutamenti delle ore e dei giorni furono i primi grandi libri aperti ed inesauribili» che gli narravano «storie favolose e strane», comprensibili a lui solo.29 Poi, per parte russa, le byline 25 Crovi pubblica del nostro ampi stralci di due poemetti di Tavernanova sul periodico da lui diretto Il bel paese cit. Ne ricorda l’eccentrica figura in Diario del sud, Manni, San Cesario di Lecce 2005, p. 55. Dell’amicizia e dell’incontro (a Castel Frentano, nell’89) con il poeta statunitense, mentore Nat Scammacca, narra lo stesso Allegrini nel ricordo L’incontro con i grandi della Beat Generation: Lawrence Ferlinghetti, «I fiori del male» 47 (2010) pp. 18-19. 26 Nel racconto a sfondo autobiografico Antùn Tunias (Gruppo dei Solstizi e degli Equinozi, Castel Frentano 2012) il protagonista, avido di storie dalla più tenera età, diventa un maestro di favole: gira il mondo con il suo cavallo e il suo carro di libri incantando i bambini che lo ascoltano, come incantati per il vero Antonio erano i pomeriggi trascorsi ascoltando il nonno narrare (si veda qui il breve Le spose). 27 L’ultimo libro pubblicato ad oggi di Allegrini, Pastori della Maiella (Gruppo dei Solstizi e degli Equinozi, Castel Frentano 2014), riusa e rielabora parte del numeroso materiale allora raccolto. 28 La composizione dei racconti del volume risale al periodo in esame. 29 Allegrini, Ultima stazione cit., p. 9.
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serali raccontate davanti al focolare e la tradizione degli skaziteli, fabulatori orali spesso vaganti, da cui la famiglia discende, che erano in grado di imbastire vere e proprie saghe favolose in cui il complesso intreccio e gli innumerevoli personaggi delle vicende non facevano mai perdere il senso dell’unità diegetica;30 per parte latina, certo i nonni materni e le immense miniere del folklore e della favolistica abruzzesi, vivi fino a pochi decenni fa e oggetto di studi a partire dall’800.31 Si aggiunga anche l’influenza di due singolari e reali figure, due «sopravvissuti alla morte»: l’ebreo Elias Eruslàn, sfuggito ai campi di concentramento ed emigrato con fortuna negli Stati Uniti, e il parente cosacco Dimitri Demidov, scampato al massacro della Drava, ritornato in Russia alla fine degli anni ’50 senza lasciare più tracce, entrambi affascinanti cantastorie dell’infanzia dell’autore.32 La mescidanza delle tradizioni induce Allegrini alla creazione di un universo narrativo singolare: sullo sfondo di una mitica Castel Nuovo del tempo incerto, sempre sui bordi di un’immane apocalittica frana33 negli «anni delle tristi piogge», ma verosimilmente tra ‘700 e primo ‘900, si muovono figurine tragiche o più spesso grottesche, reali e fantastiche al contempo, in una dimensione dove morti e vivi convivono fianco a fianco: il comandante garibaldino Federico, Radovan lo slavo, Raissa la zingara, nonni, re, plebei, iconografi russi, rabbini, pastori, sacerdoti più pagani che cristiani, lupi mannari, uomini trasformati in donne, angeli, diavoli, girovaghi, negromanti, emigranti, promesse spose defunte. Eventi e personaggi si accavallano a ritmo frenetico (segnatamente nel Fuoco), creando una sorta di narrazione stratificata apparentemente caotica dove episodio rimanda a episodio, figura a figura, come nei più classici svolgimenti favolistici. Ma tutto si tiene in questo strano universo, per il quale più di un lettore avvertito ha colto affinità, quasi certamente casuali, con la Macondo di Gabriel García Marquez o l’opera di Isaac Bashevis Singer.34 I vivi e i morti vagano spesso in 30 Un esempio di bylina, sia pure in prosa, sul mitico eroe Ilja Muromski riporta Cristina Allegrini in Fiabe dell’antica Russia, Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2004, pp. 17-23. 31 Assai noti i nomi e le opere di tre demologi abruzzesi pionieri in questo campo, Antonio De Nino (1833-1907), Gennaro Finamore (1836-1927) e Giovanni Pansa (18651929). 32 Allegrini, Il fuoco della Gehenna cit., pp. 206-207. 33 Il territorio castellino subì più volte nei secoli disastrose frane di terreno; la più catastrofica (è anche il centro narrativo di un racconto di Allegrini) si verificò il 31 luglio 1881, per cui si veda Del Nobile, Da Guasto Superiore cit., pp. 239-270. 34 Si vedano l’introduzione di Anna Ventura a Gli anni cit., p. 8, e Casoli, Novecento letterario cit., p. 166.
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Introduzione
un universo parallelo nostalgico (la nostalgia riempie le cose di spirito, ha detto qualcuno): i primi per le cose misere perdute dell’infanzia (l’odore di farina, il rumore dei tarli), i secondi sospesi e in pena, in una dimensione legata alla vita ma da cui vogliono uscire. Nel mondo-paese fanno la loro apparizione figure spesso singolari: zingari, stranieri sapienti, infanti mostruosi e diabolici, stregoni. C’è chi ritorna: emigranti solitari ombrosi o innamorati, morti nel momento della catastrofe, diavoli. C’è il legame delle steppe uomo-cavallo. C’è il destino affascinante e tragico degli uomini. In un singolo racconto della metà degli anni ’80, Il Sacro Visindù,35 in un tono da fiaba senza tempo l’autore fa uso di un’ironia più pronunciata e della tecnica dei racconti nel racconto, ma per ribadire serissimamente che la ricerca di qualsiasi Sacro Graal coincide con il desiderio di conoscenza della propria e della comune sorte, che mai ci sarà interamente svelata. Pure il libro su Castel Nuovo non si sviluppa come un saggio accademico, ma è svolto anch’esso come una sorta di narrazione per aneddoti e personaggi: restano impresse le pagine sul commercio equino nella zona (per i castellini, scrive l’autore, il cavallo è l’unica ragione di poesia e di vita), sull’avo Federico, già mitica figura degli Anni, su Carmine il gaucho, su Ianuccio (anch’egli negli Anni) e i suoi commerci nei Balcani, sulla nonna Maria autrice di una affascinante narrazione che si snoda tra otto e novecento, e su altre figure minori (come Sem il pittore) della piccola comunità. Fino al 1996 Allegrini non pubblica altre raccolte poetiche, ma nello stesso 1988 scrive (e tiene nel cassetto) un feroce divertissement intitolato I poeti, edito solo nel 2005 (Edizioni Orient Express, Castel Frentano, con prefazione di G. Barberi Squarotti), un poemetto nel quale con toni sarcastici descrive l’escrementizio mare nel quale la genia dei falsi poeti è costretta a navigare negli anni. L’opera si chiude ancora su toni nostalgici nella rievocazione dei venti che accompagnarono, consolarono o contribuirono a maturare l’esistenza dell’autore dall’infanzia in poi. Il ritorno, deciso, alla primeva vocazione lirica avviene con la consistente raccolta Icone (Noubs, Chieti 1996), rifusa poi in seconda edizione, e completata delle parti a suo tempo escluse nella prima, con il titolo di I cavalieri di neve – Icone (2000), nella collana Doppia anima della casa
35 Scritto nell’86, pubblicato dapprima sulle pagine di Rivista abruzzese 53, 3 (1999) e poi a sé nel 2009 (Edizioni Orient Express, Castel Frentano).
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editrice dell’autore. Come scrive Anatolij Arkhipov36 nella prefazione al volume, si tratta di un vero e proprio «ritorno ai cosacchi» verificatosi nella piena maturità dello scrittore, che così lo giustifica: «qualche anno fa, in seguito ad una serie di accadimenti che portarono scompiglio nella mia vita, mi si sono risvegliate nell’animo immagini di quel passato favoloso: archetipi, tradizioni ataviche, fatti e situazioni che incisero in maniera assoluta il bianco libro della mia tenera età».37 Nella redazione definitiva il volume si compone di cinque sezioni (Icone; Incensi e penombre; Il custode dei campi; I cavalieri di neve; Congedo)38 e una breve prosa finale. Nella prima si manifesta netto il richiamo dell’altra dimensione («L’eco di invisibili sponde / rimbalzava / nei giardini primaverili / pieni di intramontabile stupore») che la «doppia anima» del poeta concreta nelle abitazioni delle sue due patrie («Datemi un’izba, una pinciara, / un tetto d’erba / dove riposare alfine incolume»). Avviene un’identificazione con le immagini della tradizione russa, il cui appeal è ormai perduto negli anni («Nessuno si ricorderà più di noi / irripetibili bagliori / vite perse / enigmatiche icone obliate / su palchetti polverosi»). Tuttavia i santi, la Vergine (Uspenij è lirica eccelsa), il piccolo Gesù, i pellegrini, gli angeli, i demoni, i defunti («senza requie… nelle case spoglie sepolte dalle piogge») tornano a mostrarsi ai «profughi migranti» condannati «ad una perenne sconfitta» (il poeta e la sua razza) perché «il mondo va per altre strade». Inesorabile nel «sangue ardente / di tutti i cosacchi» devoti alla «dolce ortodossia» si annida una malattia mortale che segue «la pista di gente per generazioni, simile a un nero, accanito segugio». La rivoluzione del poeta, un tempo urlata, prosegue, ma ora «per avere un pezzetto di cielo». Nella seconda sezione, introdotta da versi in russo che tradotti suonano «Anelante al cielo è l’anima / abitatrice di altri campi», l’intento del poeta si fa ancora più scoperto. Dominanti appaiono la dimensione della perdita e del dolore, e proprio a quest’ultima perenne realtà viene intitolato il poemetto più lungo e complesso del libro (che riportiamo integralmente) che chiude Incensi e penombre. Anche se «misere stanze trattengono ancora per poco / un tepore finora inviolato», la terra è «ricolma / di perdizioni», Intellettuale, scrittore e traduttore russo morto misteriosamente a 47 anni nel 1997. Allegrini, I cavalieri cit., p. 13. 38 Rispetto alla prima edizione vengono aggiunte le corpose sezioni terza e quarta. La più emozionante recensione all’opera è quella di Vittoriano Esposito, Antonio Allegrini e le sue Icone (2001), ora in Penultime note di letteratura abruzzese, Noubs, Chieti 2004, pp. 121-125. 36 37
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il mondo uno strazio, un «convito delle perdite»; la vita «ci beffò crudele / trascinandoci / in questa contrada di spiriti adulti. / Ci trafissero / con leggi crudeli / rivelazioni sinistre»: l’età matura è una desolazione, «la vita fece di noi / quello che voleva / fu necessario ogni tormento, / ogni dolore giusto». Evidentissimo lo scollamento tra le due parti di sé in una delle liriche centrali della raccolta: «Dualità mutevole / mai ricomposta nei giorni e negli anni / che vivemmo…». Si riscontra ancora la necessità del ricordo e della parola, ma, segnatamente nella memoria della storica strage cosacca sulla Drava de La lettera, la consapevolezza tragica è altra: «Da allora sapemmo con certezza / che non saremmo più tornati indietro». La dolce ortodossia, capace di ritrovare nonostante tutto l’armonia nelle e tra le cose, compare nella figura del santo Serafino di Sarov, la cui figura viene misticamente tratteggiata nella delicata Prokhoro Mochnine: nel beato fanciullo che torna alla Santa Madre (la Vergine) è avvertibile «l’antica nostalgia» del poeta per la Rus’, perduto e incantato paradiso. La realtà, nei mesi, negli anni, dopo la morte in Carnia della «grande famiglia» cosacca del Grebegn, è quella di uomini «disfatti / di fronte a questo squallore / immenso» di Bol-dolore (con titolo significativamente bilingue): il poemetto, fortemente visionario, ha inizialmente un respiro cosmico. Al dramma non c’è soluzione, e sarcasticamente Allegrini fa dire al nonno: «o si torna a cavallo in Patria / o si va al catasto a fare l’impiegato». Ciò che rimane dell’antica religione, ormai impraticabile secondo i precisi riti di un tempo, il suo principio, si può comunque riscontrare negli «umili, semplici elementi… dentro una goccia d’acqua, / nell’odore del concime, / nel fruscio dei topi sul piancito». Nella terza sezione il poeta si muove ancora tra destino di un popolo e destino individuale: il nuovo paese non sarà mai l’antica patria, e i suoi campi sono «luoghi di magie e perdizioni, / luoghi amari che rendono abietti / gli uomini e le cose […] L’anima qui si perde, / diventa rustica, meschina / nel seguire la logica dei semi…». E di nuovo, apocalitticamente, arriva la condanna. «Nessuna speranza su queste colline / che appartengono alla frana»: che non è solo quella reale del 1881, ma quella universale del tracollo di un’intera stirpe travolta dalla storia. Al poeta a nulla sono valse le fughe giovanili dal borgo: «… noi fuggimmo lontano / e fuggimmo negli anni, / nel tempo smisurato / per poi ritrovarci / in questo teatro di vecchi, / profughi della storia / a recitare / la parte del rimpianto…». Nonostante l’assenza di ulteriori rivelazioni, la salvezza – si diceva all’inizio – è rappresentata da una presenza dorata: «Dovunque vada / avrò le mie icone…». Esse costituiscono una sorta di parziale ma autentica cer-
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tezza: non solo reliquie del passato, ma eterni passaggi di comunicazione con l’altra dimensione. Una consapevolezza negativa definisce il nucleo della quarta sezione, una sorta di ovvia ma tragica profezia di esilio eterno: «Non sono mai partito per il mio paese», «I cavalieri di neve oramai riposano / in pascoli stranieri», «Morirò e non vedrò la mia Patria / l’immensa terra dalle guglie d’oro…». Solo la morte potrà interrompere la lontananza; ma la riconquista della Rus’ allora non potrà che essere l’approdo alla dimensione dell’altrove, il vero paradiso perduto e forse riacquisito. Il poeta si congeda due volte, superando in qualche modo l’apocalisse:39 la prima, nella quinta sezione, ricordando che la sua passione per il vero, il bello, il santo «fermò la vita in un tempo bambino» dove egli rimase per sempre non tocco dalla metamorfosi dell’età adulta, affamato «solo di candore»; la seconda con un apologo à la russe: la piccola storia del vecchio samovar che, dimenticato in soffitta e dato per defunto, torna vitalmente a sbuffare. Che cristiano è chi non crede nella risurrezione? La raccolta si chiude così in crescendo dopo aver segnato un inevitabile nadir di perdizione: è una caratteristica che ritorna anche in altri scritti successivi di Allegrini. Le raccolte pubblicate nel nuovo millennio, Ritratti e notturni (Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2002), Oscurità (ivi 2004) e Poesie da un modesto abisso (ivi 2008), sono accomunate nei titoli da una tenebrosa atmosfera. In realtà Allegrini riesce spesso prodigiosamente a trarre linfa vitale dalle cadute più aberranti. I Ritratti sono dedicati «a Isús» e si dividono in due sezioni: la prima composta da poesie che portano come titoli i nomi di molti amici,40 la seconda – ancora e insistentemente – ai morti, alla giovinezza perduta, al bimbo che si è stati. Ne svelano il carattere alcuni versi dell’autore apposti in esergo a un componimento intitolato a Italo Di Nardo:
La storia, la nostra storia è nostalgia di età lontane diventata inganno,
39 A proposito della quale A. Arkhipov non esita a suggerire paragoni con l’opera e il nome, oramai ben noti, di Vasilij Rozanov. 40 Tra gli altri Anna Ventura, Maria Grazia Lenisa, Mario Ceroli, Marcello Camilucci, Anatolij Arkhipov, Giorgio Barberi Squarotti, Mariella Bettarini, Mario Rigoni Stern.
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Introduzione
flebile suono, proiezione di inquieti fantasmi accampati davanti alla porta di vite in frantumi
L’altra storia, quella del resto degli uomini, ha strappato il poeta alla sua e a quella dei suoi; quest’ultima ritorna verso sera, quando giungono di nuovo a visitarci i defunti e «si svegliano / le perdute cose / raccolte / dal tempo dell’infanzia / lasciate / per un’incuria adulta / nel castigo / di dimenticanze / incomprensibili». Il destino del poeta è stato deciso molto tempo prima, sotto l’influenza della lattea luce lunare. Da allora, «antenati di noi stessi», spazzati dal vento «porta dell’inferno / adulto / a noi predestinato», il tentativo è stato quello di allineare parole in onore di uomini, animali e cose da tutti abbandonati: «E la vita, l’unica, la nostra / ha gli occhi neri delle notti / in cui sposammo gattini abbandonati / e topi rognosi / in pattumiere senza fondo / dove volarono inganni…». Nella prosa finale del libro il poeta rilancia coraggiosamente una speranza, negata «in questa epoca di fervida ignavia»: «Se ci sarà il chiarore della redenzione si trasformerà nel suono armonico di un pacifico respiro di fanciulla, nella parola della pioggia che recita sommessa il primo canto della primavera o nel fardello leggero di un sorriso amico». Oscurità è un breve libro la cui qualità poetica il prefatore, ancora una volta Giorgio Barberi Squarotti, non esita a definire «altissima». L’autore giunge a un punto di non ritorno: colpisce l’esorbitante numero di termini connotati negativamente e continuamente affioranti nei testi. Non solo tutto si rivela sotto le specie di un generale naufragio, fatto di anni perduti, di «viaggiatori espulsi dalla storia», non solo «Tutte le cose finite, / ammonticchiate nel cuore / costruivano con maestria / un domani di dolore, / una profonda ferita mai sanata / dagli esseri umani / che non ci insegnarono l’amore / con la loro paura / di scoprirsi deboli / davanti alla pena degli altri», ma anche la memoria sforna ormai «infernali legioni / di ricordi-vampiri» nei quali è impossibile trovare salvezza. E così «La civetta ci chiama / dolorosamente / sulle piste del vespro / a ricordarci il commiato / dalle verità svanite / nelle finzioni / del quotidiano inganno»; la mente produce storie con radici nella morte «fin da quando / la verde scorza / assaporò la luce del sole». In questi «anni cellofanati» Dio si è ritirato dalla terra. Eppure, come nota ancora Barberi Squarotti, la poesia
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di Allegrini diventa paradossalmente «una creazione mentre proclama il nulla»: il poeta ricorda, parla, scrive, affida ai segni sulla carta il messaggio della bottiglia nel diluvio. La patria è diventata la «madrepatria del silenzio»; tuttavia, nel cuore del libro, due versi riaccendono per un istante una minima ma intensissima luce: Per fortuna il Signore sopravvive alle nostre miserie. E sopravvive anche là dove più turpe e più laida si fa la vita, o ciò che ne resta. L’ultima raccolta di Allegrini è intitolata a «un modesto abisso». Modestissimo: quello di un giovane Rimbaud (o Dino Campana) in sedicesimo alle prese, tra anni ’60 e ’70, con amori e amorazzi nei cosiddetti luoghi di decenza, convinto da una parte che la «puzza di sterco e urina… racconta il pungente / odore della nostra putrefazione», e dall’altra che «la mano di Dio, / il suo amore silenzioso / ti raggiunge comunque / in ogni luogo / anche in una latrina puzzolente / nella defezione di uomini / che hanno tradito ogni morale, / la vita, i sogni / e senza speranza aspettano solo / il grande Sconosciuto». I componimenti sono dodici, dodici stazioni di un reale calvario della degradazione. Più in basso di così non è possibile andare. Senza violenza, come fecero Saba, Baudelaire e Kavafis – ricorda ancora Barberi Squarotti – nell’abisso si ritrova Dio, in una sorta di discesa nell’abiezione, che, come sanno i mistici, può essere il confine della rinascita. Il dodicesimo e ultimo componimento chiude così:
Sovente non riesco a ricomporre il puzzle della mia vita. Penso che un giorno incontrerò il Padrone e Lui severo mi guarderà in faccia sentirò la gravezza del mio vivere, l’inutilità di giorni spesi nel pattume. Ma non avrò rimpianti. Poi, Dio, il Padrone o Padreterno potrà cancellarmi pure con uno sputo ma sa anche che nelle fogne dove mi sbrodolai come un porco, un verme, un pestilenziale ratto c’era sempre un posto per Lui
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nel mio cuore, un luogo inaccessibile nella mia anima dannata.
Cosacco fino alla fine, senza sfumature: la tradizione ortodossa ci ricorda che il dolce Gesù è misericordia, e che il Padre è il Padrone. Nel momento in cui scriviamo questa nota abbiamo notizia che Allegrini sta preparando un’altra raccolta di versi in tre sezioni: nella prima, Le stanze delle voci, racconterà la sua esperienza in una casa di cura per malattie mentali; la seconda si intitolerà Lettere dai morti; la terza Versi randagi. Il titolo collettivo sarà identico a quello della prima parte.41 Oltre che in poesia, negli anni Duemila Allegrini si è dedicato all’auscultazione dell’altrove anche con volumi che genericamente potremmo definire saggistici, sospesi tra rievocazione di tradizioni popolari, istanze religiose e un certo esoterismo.42 I giorni dell’attesa e della rinascita (Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2001) dà conto delle usanze natalizie delle sue due patrie; Le sorti (ivi 2003) consiste nell’edizione a stampa di un vero e proprio antico manuale di divinazione ebraico in possesso della famiglia dell’autore, capace di scorgere almeno dei «frammenti del futuro»; Sciamanski (ivi 2006) raccoglie insegnamenti superstiziosi e pratiche magiche familiari dimenticati e dissotterati, con l’aggiunta in appendice di due trattatelli esoterici (Il libro di Alzother e Le virtù dei Salmi di Davide); Fantasmi (ivi 2008, in collaborazione con Pietro Verratti) narra di «storie verosimili» (anche autobiografiche) di apparizioni e spettri nelle credenze popolari; L’arte divina (ivi 2009) è un trattatello sulle icone, con belle immagini della produzione sua e dell’amico Alberto Di Fabrizio; di Pastori della Maiella (2014) abbiamo già riferito. Antonio Allegrini vive con la moglie e la figlia, circondato dagli amati animali e dalle icone, in quella che egli ha battezzato «casa del cosacco». Di fronte, la Maiella. A causa della salute malferma si rammarica di non poter tenere con sé, oltre ai cinque che già possiede, un numero maggiore di cavalli. Alberto Sana 41 Un’anticipazione e una scelta della nuova raccolta è stata pubblicata ne «I fiori del male» 62 (2015), pp. 66-73. 42 Si è provato a comporre anche nel dialetto castellino un lavoro teatrale umoristico dal titolo Lu pressepie vivente (Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2002).
POESIE
Da La stirpe di cenere (1978)
I ragazzi del manicomio videro la primavera nei prati pieni di sole mentre noi aspettavamo invano di sentirli parlare abbiamo un debito solenne verso di loro c’è una parabola d’innocenza nel loro sguardo e il loro gesto è pieno di un’antica catastrofe Invecchieranno nei loro mercati di paure tra vecchi ritratti di antenati insenature di confusi mattini caverne delle formiche e reparti di animali indocili mentre passano nel mondo delle forme senza guardare senza riconoscerci
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Ricordo le lunghe notti nelle camere alte della prigione le minacce la neve silenziosa nelle piazze deserte e tutte le cose spiacevoli che mi tormentano Partimmo senza una meta con gli occhi sporchi di fumo i vestiti intonacati di freddo e poche cose nelle valigie sfondate Ăˆ usanza della nostra gente uccidere il prossimo con un solo sguardo e qualche parola di estrema comprensione La prossima volta scriverò un libro sugli alberi con una copertina verde clorofilla e un titolo buio.
Poesie
Da La stirpe di cenere (1978)
Erano gli inverni del rifiuto del coprifuoco a tutte l’ore e della fame ti ubriacavi di vento e di tristezza tra le strade chiuse aspettando un lavoro che non sarebbe mai venuto un giorno senza segreti nÊ tormenti Gli zingari si divertivano tra stracci e immondizie a picchiare i cani negli accampamenti variopinti dove non c’era nessuna cosa da rubare nessuna profezia da scoprire.
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Ci fu un giorno in cui partii accappottato nella neve alta Le madri si strappavano i capelli lamentando come animali di stalla o ovile piano il dolore e mi furono amici il serpe la locusta il lupo nero delle stellate notti nella fuga dal paese avito franoso borgo di tufi e pergolati questa solitudine della conoscenza sempre amaro fiele dell’età matura I ragazzi che infilavano rane nei canneti gialli strillarono nel vedermi ancora ancora e ancora perchÊ come un’ombra alzavo le mani a Dio per scongiurare le vicine notti il tuono.
Poesie
Da La stirpe di cenere (1978)
Ritorno nei piccoli luoghi dove nessuno mi ricorda trasparente come aria i vecchi hanno le facce deserte dei giorni di domenica parole che appartengono al tempo gesti della muta stagione poiché dormirono per tutta la vita in luoghi stranieri nelle loro culle ereditate dai morti negli orticelli insabbiati dalla secca o nelle stalle gelate dalla luna e non si riconobbero… Sarò un giorno uno di loro misterioso e stanco ombra che la luce ignora fragile uomo ramo seme murato tra le travi della vecchia soglia racchiuso guscio corroso dalla terra perché i ragazzi di una volta sono andati via partiti come sempre sui vecchi stanchi treni della guerra che varcarono l’inverno degli anni più amari Ricorderò allora la giovinezza spenta tra le mani un soffio dell’estate una canzone triste che cantammo sottovoce qualche timido gesto agli altri indecifrabile Dirò…
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La sera ci accompagnò alle fredde sorgenti lasciava le colline deserte una tosse convulsa nell’aria Ho dormito per molte stagioni nei fienili col mio cane al passo semplice della gallina guardando la formica sulle travi l’industrioso topo i campi di erba medica Non è vero che ci troveranno la gioventù è trascorsa – Perduti gli anni cantammo senza parole il nostro ostinato rimpianto Ero fuoco primavera misterioso evento nube astro Forse vi sarà un altro tempo un’altra storia dove parleremo lontani da questo paese dell’esilio della mia condanna I miei trent’anni riposino in pace La nonna dimentica il cibo nei piatti sgretolati presto verrà la notte e l’inverno che è nostro padre nostro giudice Le stanze hanno corone di peperoni mazzi di chiavi armadi vuoti e ogni angolo racchiude il pianto inconsolabile dei morti.
Poesie
Da La stirpe di cenere (1978)
C’erano giorni così chiari arsi nel vento nel ricordo sui campi di erbe vive e di frumento I suonatori d’armonica si battezzavano col vino nei cortili vuoti al soffio del meriggio oscillante sulle spighe e la sera era un miracolo d’azzurro Gli scaricatori di zolfo gridavano parole dure sulla terra bestemmie sconosciute ai nostri luoghi con i denti taglienti d’ossidiana e gli occhi saraceni Il Venerdì Santo portò un vento di condanna i vecchi addobbati i sepolcri dormirono un sonno senza luna e senza pena nei loro letti antichi di tarme e di tempeste e nella notte fu emessa la sentenza Così da molti anni le primavere miti le Pasque col sangue degli agnelli le barriere di orazioni nei cortei fino alle porte sotto le finestre cieche della casa Nelle arcate i santi rabbrividirono al terzo canto e poi la pena sprofondò nel basso inseparabile dall’anima selvatica cattiva La falce della morte Verrà il giorno credo sarà maggio
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38 un suono leggero sopra i vetri con il sapore fresco del pane lo scricchiolìo degli armadi nel silenzio delle stanze La sposa busserà alla casa del padre nomade puzzolente di tristezza perché qui una volta siamo restati fermi nell’infanzia e un uomo nella sua preghiera mattutina voltò le spalle al cielo senza rimorso.
Poesie
Da La stirpe di cenere (1978)
Sentiremo ancora le primavere giovani nell’ampia meraviglia della sera gli amici seduti in mezzo al fieno ricorderanno le mie parole ardenti – le canzoni tristi i giorni lontani del passato Gli occhi di molti non ci riconosceranno altri incontreranno la rovina sulla via della fuga nel paese dell’addio dove vive il vento e la locusta e i vecchi siedono nelle grotte ricoperte dal salnitro con gli occhi chiusi e le mani aperte come in sogno Sarò sempre lo stesso ragazzo se mai riuscirò a vivere e a tornare e il mio vecchio cane mi si accuccerà vicino con il muso nascosto tra le zampe e gli occhi quieti dopo il temporale I bambini impareranno i giochi che un giorno ci videro felici sulle alte montagne di zucchero e di pane Sarò lontano ben oltre la fine del nostro tempo di questi anni taglienti e velenosi allora cercherò qualche ragazza buona che mi ascolterà paziente e dirò della lunga guerra dei partiti complici di una terra negata e mai avuta della giovinezza senza amore delle notti spietate del tormento quando fummo sepolti vivi nella calce Troverò il mio paese la mia casa con l’alberello secco e i conigli spelacchiati nel cortile la nonna nella cucina buia piena di gatti e spiriti folletti che smuove la brace per la cena e borbotta qualche preghiera – qualche scongiuro
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40 per lo sfortunato figlio Vedrò il vecchio fabbro che sogna le scintille quando le stelle si posano sui tetti e nei campi dormono i serpenti Riposerò sotto la neve farinosa del Natale con lo scricchiolìo del tarlo nell’orecchio e l’odore di salvia negli armadi Sarò vissuto per tornare in questo posto paese – strada – angolo dove fermarmi per sempre un giorno in pace questo sarà il mio significato ultimo la mia giusta fine e il mio epitaffio un volto – un cenno solo – un suono nel mattino il gallo sulla torre… Il tempo degli assassini è già segnato.
Poesie
Da La stirpe di cenere (1978)
Ricordo l’inverno… Il paese brilla in alto come puro cristallo silenzioso e lontano nella notte stellata e le piccole case fumose raccolgono facce di ulivo muschi ramoscelli d’alloro. C’è una stanza che amo – curvata dai travi – piccola e bassa con spigoli bui dove i Padri sognarono l’amore in tempi lontani e i cavalli in cerca di biada affacciarono le teste canute nelle piogge di marzo. La pignatta bolle sempre sul fuoco e sui vetri la mamma del vento che odia il riposo ci spia in segreto. I cari vecchi che mai più ci riconosceranno ormai quasi tutti sdentati masticano piano nell’ombra il pane raffermo siedono insieme maldicenti ed eterni sputando ogni tanto per terra col fiato rimasto non temono più né infelicità né amore ed è la lunga veglia dell’anno che l’uomo ricorda. Sono tornato tra queste contrade in un chiaro mattino come un fuggiasco sbandato dal sonno sconosciuto a me stesso nell’anima le canzoni perdute la giovinezza dal segno concluso. E sento il tordo tra i filari rossastri il calabrone assonnato seminatore di polline la porta di casa che scricchiola al vento con tenerezza nostalgica. E vedo le donne del grano nei loro giorni migliori
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42 quando i capelli lunghi e stregati giacevano sul fianco nell’ora del sonno in un misterioso candore lo zio morto al fronte che guarda per sempre ragazzo dalla foto sbiadita e bada al commercio nei giorni d’autunno e la guerra nazista che nessuno dimentica sull’Europa deserta Fui l’amico delle cameriere delle puttane vivaci nella città di Strasburgo dell’operaio arrabbiato del trafficante di droga del ladro dei lottatori possenti dell’albero – dell’acqua – del gatto e di tutte le umili cose che l’uomo dimentica. Entravo dappertutto nei ripostigli d’amore e sapevo vedere… ! La mezzanotte ha soffiato dai monti l’autunnale stanchezza e all’improvviso mi ritrovo esiliato dagli anni che vivo un estraneo sogno sconosciuto al mio cuore e le fonti sono ghiacciate ogni canto taciuto e dentro il boschetto di acacie la falce di luna s’innalza dal suo nascondiglio di terra muovendo le foglie. La nonna non dorme – si gira nel letto – tossisce – cerca il rosario sotto il guanciale e si sforza di ricordare una dimenticata preghiera. Ma certe volte il sonno nel paese è facile e calmo non dovete impaurirvi se la civetta si posa sul ramo né del topo che ammassa provviste né del grillo che vive nel buio lamentando la perduta stagione e i miei cani se abbaiano forte è perché la notte fa rumore di vetro sul sentiero di casa e ricordano le primavere lontane e la lepre sull’erba azzurrina
Poesie
Da La stirpe di cenere (1978)
che saltò all’improvviso sui loro musi accaldati. Ho dentro una tristezza profonda che brucia come un fuoco sotterraneo sordo e lento intossicandomi tutto So che non troverò mai più quello che cerco e che nessuno ricorda Andrò via in silenzio domani come un ospite non invitato come se non fossi mai venuto Signore dei molti naufragi – delle pergamene sbiadite sarò verso il Nord sulle pianure ricoperte di neve lasciando la mia fragile impronta sul letto dove non ho meritato riposo sulla polverosa finestra sulla brocca piena d’acqua di pozzo abbandonata nell’angolo per dissetare i defunti.
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Da Tavernanova (1992)
TAVERNANOVA
Noi tutti eravamo erranti come pecore, ognuno di noi seguiva la sua propria via… Isaia (53:69)
El Kade Mem, questo era il luogo dell’attracco. Brumoso, tetro di ferraglia. Navi senza rotta imprigionate nelle secche, oppresse dal sartiame, corrose dai marosi. All’improvviso ci invase la salsedine di infinite notti e stagioni ed anni in cui si scoprivano solitudini da tempo a tempo. Ci aggredì la collera di stelle sulle darsene ostili e il vento cinereo, che accompagnava negli antichi tempi le diaspore dei profeti, ci sfiorò con la sua gelida ala odorosa di muschi e sepolcreti. Venne l’ora di riprendere il mare, il giorno dei sestanti e delle bussole. Scrivemmo la rotta dell’ignoto sul diario di bordo consunto dai ritmi delle sfere e dei quadranti. Tracciammo epigrafi e frasi sibilline a prua e a poppa del naviglio. Stipulammo contratti sulle pergamene intonse di inverni prodighi in cui ricevemmo perle e somme di baratti. Furono decisi trattati e convenzioni con le anime perdute negli ossari, nei tuguri, nella violenza senza fine dei ghetti e barrios di Villalta. E le provvide fanciulle uscirono allo scoperto ma nessuno della ciurma le riconobbe in sentieri di crepuscoli e canneti senza più storie d’arrembaggi e di martìrii quando la luce del tramonto si fa foglia tremula nel ricordo smarrito dei pioppeti. Si presentarono disperate, violente, con in capo serpi e piume di colombe e negli occhi i luoghi di pena che le accolsero per sempre stranite dopo il fortunale. Ci portarono sulle tracce di qualche idolo di pietra in un nugolo di vespe velenose, nel giro equinoziale di un anno violato da intemperie, svanito nei meandri di Cnosso. Devote si prestarono per le cerimonie transumananti di sesso e sangue nelle città ostili alla primavera e all’uomo – chiuse alla nostra festa giovane e innocente. Il viaggiatore venuto da lontano non osava parlare più delle
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Poesie
turbate geografie, della sua terra inesplorata, dei papiri, delle grandi decorazioni del gelo, delle profezie ereditate dagli antichi libri. E il Dio dei nostri padri, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, bruciava il terreno sacro per la Pasqua imminente, spalmandolo di nettare e fiele. Il sacrificio dell’Agnello inerme si consumò in silenzio sulle colline rimaste spoglie per un desolato inverno e una tempesta di comete solitarie dopo i caldi soli di Betania e di Cafarnao che videro il Maestro parlare alla folla dei piagati e ulcerosi; qualche anima errante in mezzo ai rovi compiva arborescenti riti alla breve vita che restava, una preghiera per l’ultimo viaggio mentre incendi bruciavano friabili anni, costellazioni ormai spente, litanie di anacoreti e santi del deserto che non scrissero la storia ricordando i mali del passato, l’improbabile certezza del presente.
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Mo’ tu che ssè capìte tutte e siè lu jòche nen t’arraià, zitte e quiete, jette ssà carte e mosche. (Sciòreme)
Ora che hai capito tutto e sai il gioco non t’arrabbiare, stai zitto e buono, getta la tua carta e non fiatare. (Mio nonno)
Da Tavernanova (1992)
Raccolsero le poche cose e vennero i ragazzi dicendo ai più pigri – ai paurosi, ai deboli – che i mali hanno origini remote e vanno combattuti sempre per sete di giustizia. Torpidi, esangui i superstiti della guerra che intuimmo ma non conoscemmo. Serpente, fiamma, logos l’Europa con le sue strade nere che pochi videro ed io dimenticai. L’insegnamento della marcia i cacciatori di frodo tra le rocce le stagioni del silenzio lepre – cinghiali pochi uccelli sconosciuti con le verdi penne le birrerie dove studiai i canti funebri i tarocchi con i segni del destino praticai commerci e il mondo dei dannati… Le stazioni generarono viaggi oscuri estinzioni faticosi sogni di ricchezze trattative tra i viandanti aggrediti dai confusi anni dai venditori astuti di lamette lacci, biglietti per l’inferno carte per passare salvi le zone di frontiera. Le città appestate dallo sterco dei padroni che proteggono gli uffici i tribunali le stanze della muffa i libri della storia militare
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52 della Patria. Gli impiegati stanchi che mangiano le unghie venuti su dal nulla nella provincia abbandonata… Nessuno ha molto tempo al nostro giungere e il sonno porta pace come la pioggia nel suo cadere stanco sulle lamiere del soffitto stanotte nella primavera che ci vide ancora insieme per andare con il flusso della vita più vecchi bugiardi diversi nell’anima ferita… E qui ti vorrei piccola foglia – stella – neve di Natale come nei libri di ragazzo perduti nei cassoni che odorano di mele bruciati per far fuoco e luce nelle più buie notti dove lo sguardo si fermava sulla lettura quieta di un mondo fragile – dorato mai conosciuto nel tempo del domani… Piovose estati che ci videro randagi raccogliere insulti scontare peccati mai commessi nelle case del lavoro non pagato dietro i cortei funebri nelle stanze di puttane che al nostro giungere si fecero più accorte perché capirono il terrore del male che ci mangia. E per tutte queste contrade persi nelle taverne o bische dei marinai che affrontarono la morte e videro il mondo le città sottomarine il dio delle acque sedare la tempesta e si segnarono le braccia con aghi avvelenati perché tutti gli uomini li riconoscessero
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Da Tavernanova (1992)
e sapessero dovunque e ad ogni porto… Mi piego come in altri tempi a questo fuoco ardente misterioso solitudine arrabbiata nemica alla ragione quando le piazze tacciono nella luce orgogliose – perfette folgorate dal meriggio e i nomi degli alberghi odiati da tutti per i tappeti sporchi il finto marmo, il cesso pieno di piattole i quadri appesi dipinti da uno scemo brutti fino allo strazio il portiere della tomba corroso dalle tarme tetro, puzzolente, inconsolabile che respira sul tuo volto quasi odiandoti nascosto nel mistero degli androni parole strane incomprensibili rami nudi toccati dalla tigna un mondo spento di partenze tristi umide di pianto, brina, nebbia chiuso in brevi sonni tumultuosi per una terra inattesa nativa di serpenti, folgori, miniere dove il vento inveisce nella notte dell’autunno scoprendoti ancora vivo nelle tenebre compatte… Arrivai l’anno prima per pagare un vecchio debito con i santi che tagliarono i nastri della festa le bandiere sventolanti sulle torri la quiete del fossato pieno di tane la lotteria del diavolo del tipo prima classe che imbrogliò poveri, vecchi e giovani perfino il tondo prete più furbo del prefetto. Vorrei farti entrare ora per parlarti e dirti perché non amo tutto quello che dicono normale
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54 i vecchi ragazzi cominciarono canzoni che non seppero mai finire piene di immagini graziose, senza senso e al nostro giungere zittirono per sempre dimenticando le parole sciocche rimanti con «amore». Qualcuno potrà raggiungerci scoprirci dove siamo ora è una terra di carte negromantiche dadi truccati morfina droga malefica donnine che ruotano culo e sesso a pagamento per portarti laddove inizia il buio il gran silenzio e questa voglia di fuggire, andare ancora… Non ci sono posti per noi giardini con fontane zampillanti alberi in fiore – uccelli canori – gesti più chiari con una giovinezza rinnegata sulle spalle dentro di noi il nostro sangue senza legge meraviglioso e puro. Non possedemmo né chiarezza, né sapienza o calcolo con questo gioco sfuggito dalle mani senz’altro luogo dove andare dove posare il carico dei giorni… Moriremo in fredde sere quando l’aria azzurra appanna le finestre come un fiato di bambino stanco e la vecchia nonna seduta al focolare spegne con la morta cenere le ultime faville fuori gli alberi secchi avvinghiati all’inferriata dimenticano l’estate breve che li coprì di luce. Parleranno di noi in segreto i compagni
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nelle case di cura – zone infette – terra di prigioni strade che ci conobbero da vivi raccontando i viaggi, le gesta misere di questo dolore immemore e solo presagito che ci riempì di rimorso il cuore. Diranno a bassa voce: «…I testimoni lungo la pianura, nei campi d’avena e di cicuta agirono di propria iniziativa catturando rettili, volpi e donnole per il banchetto, seguendo i moti delle stelle nella stagione proibita – Finché l’ombra li ricoprì nascondendo soldati e campi di battaglia – il respiro della preda affidata al nascondiglio…». Poi l’inverno in cui lasciammo le selve, le stanze del comune, i matrimoni delle ragazze al dente che dicono «Per sempre» all’eroe del fumetto… Ma voltata la pagina ecco Sergio Esenin rapato a zero, il volto segnato dalla polvere – l’America con le mutande tricolori. Le spade di Cesare, la Berlitz-school, Pilato e i soldi per la cena, Annibale inconsolabile che chiude l’officina. I lupi arrivarono in paese una volta nell’infanzia – prigionieri in gabbie di metallo – pieni di pulci – gli occhi gialli roteanti e alla dogana morirono di caldo – mentre legislatori rozzi dentro il circo scrivevano per tutti l’uguaglianza… E Berta prima di crescere e di filar la tela sotto il cuscino trovò una lettera del padre: «O dolce bimba da venire – con le gonnelline colorate e le manine bianche che accarezzano profumi…». E piangeva nel sonno al fianco del suo amante… E Franco sul ring all’ultima ripresa sentiva le campane della Pasqua – l’odore dei torroni e voleva l’uovo con la sorpresa dentro ma ci trovò solo un biglietto con scritto sopra «vaffanculo»… E gli altri amici… Persi… Questo è il nostro Paradiso – l’unico accettato – conosciuto, dentro le mura delle città defunte – dove il nostro debito non sarà mai saldato – né la musica – la malattia che ci fece amare senza rimpianto la vita – le creature tutte… I leoni dormivano tranquilli e una nuvola soffice come un respiro coprì la luna…
Da Tavernanova (1992)
da CANZONI DEI GIORNI INCOMPIUTI Il paese da sempre riposa in collina battuto dal vento inebriato dal sole le piogge autunnali bagnarono e bagnarono le antiche casupole il selciato corroso i sentieri sommersi imprigionati dai rovi‌ Immemori restammo in anni di pena perduti nell’intrigo di indecifrabili stagioni impazienti al sangue piÚ giovane. Spesso si poteva ascoltare nelle sere del tempo incantato dagli usci socchiusi scricchiolanti ad un vento notturno la voce flebile tremula di fragili nonne cantare ai ninnilli irrequieti le canzoni del sonno con tenerezza nostalgica. Perdute canzoni lasciate a vegliare il segreto riposo
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58 di bimbi indifesi che si abbandonarono un giorno tra tenere braccia al respiro di ombre profumate di menta e di pane.
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Da Tavernanova (1992)
Per noi la giovinezza fu un canto incompiuto misterioso evento fioritura di malva e di spigo cristalli di luce cometa di fuoco uscita da tenebra inquieta e l’amore mai avuto ci dettò le canzoni dell’anima. Il desiderio si perse obliandosi tra campi di spine e ortiche nei giorni dai lunghi meriggi quando la nostra voce era varco al cuore di angotte1 e fiumare. Il transito fu breve. Polvere subbuglio la vita che resta.
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Angotte – Posti assolati dove si usava piantare la vigna.
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Molte stagioni passarono nell’eco di stanze addobbate con oscuri sarmenti erbari piccole ampolle di vetro. Solo il ritmo di tarlo scandiva il nostro tempo di spente vigilie. Nell’arca, più profonda di un pozzo riposavano i lari domestici il rametto d’ulivo la fede nuziale qualche ciocca di neri capelli ereditata da un’esigua giovinezza che pur non si dimentica. Così morivamo in paese nel buio di antiche dimore fedeli al ritmo delle lune e del gregge abituati all’infelice destino. Nelle velate – setacee tessiture dei ragni dentro le crepe del muro sui rami di pesco a volte cresceva un presagio di giorni in cui rifiorisce la pietà dei morti un aspro umore di assenzio e prugnoli. Ancora tornerà la tremula preghiera del vento nelle forre discreti passaggi di nubi oltre i tumoli del fieno il solitario giaggiolo la seduzione di un impossibile spazio
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Da Tavernanova (1992)
transiti e scatti sui verdi viottoli di casa nel breve varco lasciato da anni che chiudono crudeli il silenzio dell’anima.
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Bastava il tepore di un piccolo sguardo un piatto di fave la benigna frescura delle acque sorgive per festeggiare l’estate l’umile corteo dei giorni di là da venire.
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Da Tavernanova (1992)
da MALASTAGIONE Ci fu un giorno in cui l’aria immota e diafana mi vide in un perduto tempo di sacre bisce astri cadenti canneti folti straziati dalla falce quando cacciatori di martore e cinghiali zittirono nei segreti viottoli intricati come un sogno e musica era all’orecchio teso la canizza furiosa dei segugi rossi presso la tana del sapiente verro che conobbe molte lune stellate notti – taglienti inverni e primavere dai fremiti sottili segreti al sangue più giovane e inquieto ed io come turbato da un presagio oscuro baratro di foglie – autunnali soffi – voli di corvi – familiari volti lasciati negli anni cari alla memoria mai sopiti nei giorni della tenebra… E ci ritroviamo in un angolo qualsiasi senza salutarci – più poveri di prima feriti negli anni di una guerra che mai ci appartenne vecchi ragazzi – compagni dai gesti aerei confusi in luminose cadenze quasi d’amore Addio!
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Ed era solo ieri… Oh le canzoni che ci straziavano l’anima come un male struggente! Stagioni capovolte nell’arco di un respiro qualcosa d’immutabile, certo fu scritto per noi e solo allora… Addio! Ed è per sempre. Malvenga la stagione del silenzio dei forti venti che squassano i cieli del gelo che prende il cuore a tradimento in cui nacqui più povero di un cane piangente – affamato buttato lì per terra già pronto alla fatica così brutto malora – triste stella che la mamma urlò di rabbia per tre giorni e poi zittì per sempre in fondo all’orto. Nella vigna infestata dai pidocchi giù fino al pantano putrido – melmoso con le zanzare delle piaghe dell’Egitto il padre astrologo – cocciuto più di un mulo stabiliva i termini della miseria nera della fatica atavica e selvaggia con un diavolo ingegnere cittadino elegante ed astuto mandato per l’esproprio Setaccia setacce de stu citile che me ne facce ie le iètte abbàlle pe la frane andò aremàne na settemaneeee…1 1 Setaccio setaccio / di questo bimbo che ne faccio / io lo getto giù per la frana / dove resta una settimana (ninna nanna castellina).
Da Tavernanova (1992)
Caro piccolo scemo abbandonato tra cani polli e merda millenaria ninnillo sotto un albero stecchito che mangia terra e sassi fino a strozzarsi demonio di un demonio resta lì per sempre… e basta. …Ed eccomi nel mondo dei dannati per la strada infine nell’inferno a nostra immagine perpetua dove questa piccola, oscura vita a tutti sconosciuta sarà senza riscatto ed altre ancora all’infinito… Entro nella mia ultima stazione nell’osteria all’angolo che mi vide da ragazzo acceso ai furbi giochi dei dadi e dei tarocchi esposta a Nord più sporca di una stalla trasformata in un bar da qualche anno piena di zingari, maffiosi – cumbàri lerci – grossi bifolchi – puttane venute per la fiera del patrono… Mi fermo in mezzo ad un’azzurra nuvola eterno e guardo in fondo… Giù in fondo… Un cavaliere nero la terza carta rovesciata in mezzo al vino galoppa messere lo Maligno a tagliare il mazzo in fiamme finalmente nella città deserta del santo inquisitore.
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‌Ed in questa solitudine di mattoni sbrecciati decomposti per sempre nella luce di un giorno ormai già freddo mi ritrovo come un tempo seduto con i vecchi sul muretto della chiesa nel quartiere deserto alla controra. Oh inquieto procedere di stagioni ed anni! Non resta che grido di uccello notturno tenebra autunnale soffio l’immagine del santo tremante nella nicchia della Madonna silenziosa perduta nella neve.
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CONCERTO DELL’ESTATE DAL PAESE DELL’ESILIO «Essi non hanno né leggi – né castighi per punire i colpevoli ognuno vive come crede e più uno di loro è ladro più è stimato, perché più abile». «Va ora in un paese buono, non cattivo; va sulla strada del sole non su quella della pioggia; va dove non vi sono zanzare né mosche. La tenera madre ritornerà dalla terra degli spiriti e sotto forma di un grillo canterino spronerà lo spirito del figlio ancora vivente a fuggire…». E così sono rimasto essenziale e muto tra le radici e l’acqua ad ogni porto nudo come Giobbe * * * Un giorno mangerò pane nero sul cortile della scuola con i miei vecchi bambini mansueti che ragionano solo con gli occhi. Cari compagni, mi faccio vivo da profondità remote – insonnie – disamore – malattie. In questi anni che per me sono stati i peggiori, i più bui di tristezze, fatica ed ira. Eccomi tornare a voi più calmo ora – senza stagioni dove cantano gli amici – né alberi o vento o sole bruciante dietro i perduti giorni. Il destino di ognuno di noi è segnato fin dall’inizio – confinato nel paese, vivo in questa casa fin troppo piena di presenze – con i miei due vecchi folli – smarriti in una perenne giovinezza di menta e rosmarino che parlano da soli con una nostalgia contadina ai pochi fiori seccati dentro i vasi – al ragno nella crepa e al gatto più magro della fame. Queste mattine dell’estate mi hanno rubato tutto l’azzurro e costano fatica e sanno di forzato esilio. Quanto amore ho sprecato indifferente! Noi che sorridemmo prima di partire per giorni sempre più incerti e che tornammo per un oscuro senso
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di giustizia, per imbiancare la stanza dell’infanzia misera ed umida con le fotografie ingiallite di persone care incollate sul cartone. Per pulire la pietra della tomba più pesante della morte. Per ritrovare il vecchio braciere sul soffitto mangiato dalla ruggine, dove il fuoco si spegneva sempre e sempre e sempre nelle notti di tormenta. Una donna vicino mi racconta di anni in cui ero lontano e non mi conosceva. Di stagioni piene di fragole e ciliegie, di spiriti eremiti e fattucchiere, del nonno falegname, dell’America che ci ammazzò tutti: nonni, padri e figli. È la controra. Tra poco ci coglierà un sonno di zucchine e pomodori nel meriggio assorto, dove i cani ascoltano il serpe tra le canne e il rospo sogna le verdi mosche nella piena luce al di là del fiume, nel confine delle vigne dove si è fermato questo giorno stregato e torrido senza data – perduto per sempre nella memoria dell’estate. Nei giorni dell’estate debbo cavar patate Mangiando pasta e ceci si fecero le dieci Giocando a nascondino persero il bambino Blanca tela abriendo Blanca tela estendiendo Blanca tela – blanca tela Iesce sole sande arescalle tutte quande arescalle che la viecchia che stà ‘n gime a chela cerche nen file e ne tesse ze gode ugne feste1 Luna lune damme nu piatte de maccarune
1 Esci sole santo / riscalda tutti quanti / riscalda quella vecchia / che sta in cima a quella quercia / non fila e non tesse / si gode ogni festa.
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e ssé ttu ‘n gi mitte lu casce ie te rombe la rattacasce.2 Coccia pelate ‘nghe trenta capille tutta la notte ce cande le grille e dapò che ci-à candate bona notte coccia pelate3 Jeva a cacce pe’ franghelle n’à cchiappate chiù di mille disse «Amore spiumatelle acchiappate pe’ le capille statte bbóne franghelle».4 Le stagioni passano e ritornano così ogni cosa e la tristezza della volpe nei calanchi e il grido dell’uccello selvatico solo io un giorno non potrò più cantare.
2 Luna, luna / dammi un piatto di maccheroni / e se tu non ci metti il cacio / ti romperò la grattugia. 3 Testa pelata con trenta capelli / tutta la notte ci cantano i grilli / e dopo che vi hanno cantato / buona notte testa pelata. 4 Andava a caccia per fringuelli / ne ha acchiappati più di mille / disse «Amore spiumatello / prenditi per i capelli / statti buono fringuello».
Da Tavernanova (1992)
da COMPUTO DEI MESI da AGOSTO Segreta forza che mi spingi a raccontare tutto ciò che ricordo con voce amorevole piccole storie di un mondo perduto di erbe – stagioni luci che ritornano con scansione precisa in un paese ormai solo della memoria dove ogni cosa fu trascinata via e distrutta senza giustizia: le nostre canzoni, gli affetti, le storie degli avi – le ninne-nanne tenere, flebili delle bianche nonne nelle ventose sere dell’infanzia. Così il tempo fluiva una volta dolente e lieto su una terra dove c’era un senso più giusto alle cose delle leggi vicine alla vita. Ora, la stirpe di gente semplice autorevole si perde per sempre. I vecchi muoiono come pezzenti per strada dimenticati in mezzo ai vigneti sulle soglie di baracche cadenti
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72 piene di mosche e tarantole la loro sapienza sconfitta. Le amene risate di anni lucenti non riempiono più l’aria né le corse rissose, l’invisibile soffio fatato sulle verdi casette dei bimbi paffuti. I compagni sono andati via sui monti a cercare uno spazio più chiaro ritorneranno in autunno lungo gli antichi tratturi altre parole diranno con visioni di orfici prati acque – giardini allettanti vino bevuto col miele in cantine di pietra più scure dell’Ade e questo giorno pur sereno di agosto trascorre eterno per me solitario – funesto su un nuovo pianeta nemico di cemento e bitume.
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da SETTEMBRE Non sapemmo mai da quale strano paese venisse il pastore che ci raccontò rapito la vita di Annibale il Cartaginese. Era adolescente, ma pareva esser vissuto da sempre in stagioni di nevi e battaglie. Benediceva le piaghe degli agnelli con l’acqua di fonte, parlava col fuoco e col vento e suonava la notte con mite dolore il flauto di canna. Dopo vari giorni di sosta trascorsi abbàlle pe’ la frane, si inoltrò in un umido mattino con le sue pecore verso altri siti, restando nel ricordo fugace come un inganno, un lampo chiaro di inascoltata giovinezza…
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da OTTOBRE Padre, torneranno gli uccelli migratori nelle notti di luna piena. Questo odore di mentuccia e rosmarino il grido della volpe dentro i botri ma non ascolterò più il tuo passo nella casa la tua calda voce approdare nei desolati corridoi della mia vita troppo a lungo flagellata. Forse il tuo respiro profondo vaga ancora nei sentieri occulti delle selve che solo tu conoscevi nei giorni delle antiche fioriture e il tuo occhio acuto di cacciatore coglie la mia tristezza a stento soffocata. La tua segreta patina di luce resta calma – eterna indecifrabile nel tuo piccolo orto di spighe e melograni. Un crudele ottobre ti rubò alla mia vita. Ora posso solo ricomporti nel ricordo e riconoscerti dovunque in questo paese di perdute rotte. Mi siedo a volte e ti parlo con cadenze carezzevoli sotto l’albero di ciliegio che piantasti un giorno con amore
Da Tavernanova (1992)
perchĂŠ nelle future estati nei giorni braccati dal sole e dalla sete desse ombra e ristoro al viaggiatore.
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Sono nato nell’aprile del 1942, due giorni prima la festa del megalomartire San Giorgio, a Castelfrentano in provincia di Chieti. Passai i miei primi anni di vita con gli occhi inchiodati alle icone. Nella mia casa esse erano dappertutto, ma le più antiche erano collocate in una stanzetta speciale, lontane da occhi indiscreti. Le figure dei santi, della Vergine Purissima, del dolce Salvatore, mi sembravano vive, erano vive e credevo fermamente che si riposassero nelle tavolette dopo aver compiuto fatiche immani per il mondo. Spesso le vedevo scendere dai palchetti e giocavamo insieme. Tutta la mia famiglia era dotata di una forte visionarietà e di doti paranormali e tali sogni o eventi reali rientravano nella normalità e non meravigliavano nessuno. Fin da piccolissimo mio padre mi raccontava di una migrazione favolosa dei nostri antenati Vecchi Credenti o Raskolniki in Abruzzo avvenuta dopo la rivoluzione d’Ottobre. Poi, quando parlava della vecchia religione, sembrava che non fossero passati 268 anni dalla riforma attuata dal patriarca Nikon, era come se tutto fosse successo poco tempo prima. Ma ogni cosa, ogni memoria, ogni segno di una condizione diversa doveva essere taciuta e tenuta gelosamente segreta. Le ferite delle persecuzioni erano ancora troppo cocenti. La nostra anima e la nostra fede erano legate in maniera ferrea alle origini e alla Santa Madre Russia. Il nonno mi insegnò a cavalcare da piccolissimo perché un buon cosacco senza il suo cavallo è una nullità assoluta. Mi addestrava all’uso della sciabola e un giorno, nel furore dell’allenamento, rischiai di troncargli tutte e due le gambe. Al vedere tutto quel sangue mi sentii morire ma lui era felice, esultante: «Per la Bogoròdiza, xarašcó, da, da, così devi fare» urlava comprimendosi le larghe ferite, incoraggiandomi. Poi si passò all’uso delle armi da fuoco di cui divenni un esperto. Con la morte del nonno subentrò nella mia formazione la nonna materna che riuscì a darmi, oltre ad un amore incondizionato, una solida educazione religiosa. Ma io amavo la solitudine, i grandi spazi, il silenzio, e con i miei coetanei non mi trovavo e non mi ci capivo. Lo stampo mi era stato dato in maniera diversa. Ogni sera, si raccontava, come una byline, l’epopea esaltante, affascinante della nostra famiglia, frammischiata a preghiere, benedizioni ad Avvakum che era stato custode integerrimo delle vecchie tradizioni. Il tutto era completato con inchini alle icone che ci avevano sempre protetto nei tempi infelici. Così appurai che eravamo discendenti di atamani, della famiglia dei Demidov – ma da sempre, per celare la vera
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origine, onde evitare crudeltà ed incomprensioni, i cognomi e i nomi erano stati cambiati ed adattati ai diversi luoghi toccati, fino a quando quelli fittizi divennero reali. Un’estate fui affidato da mio padre, perché facessi esperienza, ad un addestratore di cavalli russo: Mikaijl Teodorov, che lui aveva conosciuto in un circo accampatosi a Lanciano. Mikaijl mi prese sotto la sua tutela e questo periodo, e l’educazione ricevuta dai vecchi, furono decisivi, incancellabili nella mia vita. Tant’è vero che non volli mai imparare a guidare la macchina. Mi faceva sempre specie immaginare un Vecchio Credente cosacco racchiuso in una scatola di latta e trasportato da quattro ruote di gomma. Quando pensavo a questa situazione, per me comica, mi si stimolava il senso del ridicolo provocandomi delle crisi di ilarità. Ad essere sinceri tuttora, in età matura, non riesco a concepire la vita senza avere un cavallo vicino. Il circo si disperse a Roma per un incendio e una storia d’amore finita tragicamente tra il russo e la figlia del proprietario. Tornato a casa, mia madre, donna intelligentissima e pratica, decise che era maturato il tempo per darmi un’educazione normale e inserirmi nella realtà e al diavolo le vecchie ballate, le favole, le migrazioni; ora vivevamo in altre epoche e situazioni diverse. Fui mandato di nuovo a Roma, questa volta dai salesiani in via del Mandrione. Con i cattolici fu un’esperienza atroce. Incontrai insensibilità, meschinità, umiliazioni. Solo un anziano sacerdote – don Ernesto Clavel, originario della valle d’Aosta, che era stato per lunghissimi anni missionario in India, – dimostrò interesse ed affetto per la mia persona. Dopo una lunga serie di ribellioni fui espulso dal collegio. Però dai salesiani appresi il metodo di studio e scrissi le mie prime poesie. Tornato a casa, trascorsi due anni, morì la mia cara mamma. Aveva appena quarant’anni ed era il 1959. Mia sorella ed io passammo dei momenti terribili ma avevamo vicino babuška, la nonnina, e batko, il babbo, che non volle mai riprendere moglie per non farci soffrire con una matrigna accanto. Tutti e due continuavano a proteggerci e a curarci con dedizione profonda. Proseguii gli studi e gli anni volarono e si dileguarono come in un sogno. Ci furono le esperienze giovanili brucianti e intense. Altre situazioni e circostanze della vita sembravano aver cancellato ogni ricordo per sempre dalla mia memoria. Ma qualche anno fa, in seguito ad una serie di accadimenti che portarono scompiglio nella mia vita, mi si sono risvegliate nell’animo immagini di quel passato favoloso: archetipi, tradizioni ataviche, fatti e situazioni che
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incisero in maniera assoluta il bianco libro della mia tenera età . Solo adesso mi rendo conto che scrivere questo libro è stato per me una terapia, è stato come fare un tuffo in una dimensione sfocata, lontanissima, ma familiare. Un desiderio ardente di ritrovare le fonti della vita e della poesia. Un voler tornare al tempo della mia lontana fanciullezza, quando osservavo ogni cosa con incantato stupore.
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Uspenij 1 Dorme la dolce Madre sul cataletto d’ombre. Sogna l’infanzia cristallina, silenziosa. La visita di Gabriele come un vortice, turbine di tempesta in un dorato giorno placido all’ombra delle rose. Le folle del Giordano, i mesi di rondini e colombi sulle tenere colline. Ricorda l’asinello zoppicante che la portò lontana col suo amato Bimbo in un paese ignoto a tutti. I discepoli la guardano atterriti nella suprema quiete. Raccolgono lagrime d’argento sul palmo della mano. Fumi d’incenso allargano le cime dei pioppi e degli ulivi. Arcani gesti compiono i santi, pascolano fino a tardi gli armenti tra le nuvole. Il diletto Figlio prende in braccio la sua pura anima di bimba e va per la via lattea – silente. Un posticino le ha preparato tra le stelle: una casuccia linda, un pane dorato, un orticello di piante fresche 1
Dormizione della Madre di Dio.
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rugiadose. La luna si curva per accogliere l’ospite divina. Si discioglie il cielo come un manto. Compongono canzoni gli angioletti con vocette squillanti di letizia. Nel rigido silenzio dei defunti belano sperduti gli agnellini, non hanno piÚ colei che tenera li accarezza sulle testine inermi nella quiete intensa del meriggio dove la felicità era una casta mano di gigli profumata che tendeva trepida e puntuale foglie di lattuga saporita
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Segreti I miei vecchi, mi insegnarono fin da piccolo, a comprendere le forze che governano il mondo. Pochi gesti, alcune frasi arcane, dette al momento giusto, erano necessarie alla salvezza. I riti notturni con le icone riempivano il mio essere di sgomento mi si ammutiva il sangue nelle vene, il respiro compiva tragitti rarefatti ma raffiche di energia mi colpivano la testa come un terremoto e riuscivo a capire connessioni occulte, astratte formule. «Il bimbo è attaccato da forze estranee. Gratta un po’ di colore dalla tavoletta dei Santissimi Cosma e Damiano, dall’Arcangelo Michele, prendine un po’ anche a San Nikita ma con cautela e faglielo mangiare in mezzo al pane. Un po’ di sale l’aiuterà a cacciare il male dal midollo. Spas Preobraženija1 1 La festa della Trasfigurazione che cade il 6 agosto. In questo caso si allude all’icona della Trasfigurazione.
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trasfiguraci nella luce. Rimetti nonna le tavolette sulla božnica,2 chiudi le orecchie al piccolo con cera d’api sul Kurgàn3 ha cantato il gamajún4 e il suo grido porta la morte a chi l’ascolta. Inchinatevi tutti ora dirò l’orazione segreta che ci ripara da forze tenebrose. La parola scagliata con potenza trapassa la roccia, libera le anime, il vento, il temporale. Spezza sotto il suo calcagno le intenzioni nere». I miei vecchi mi addestrarono con pazienza all’antica arte vedendo la mia predisposizione naturale a manovrare forze ignote, capovolgere inevitabili sfortune. Avere conoscenza innata delle cose non fu sempre un bene nella mia vita ma il linguaggio del destino era scritto a chiare lettere per i miei occhi attenti. Nei giorni tutto seppi intuire e penetrare con acume ma non riuscii mai a tenere a freno e a catturare i moti più segreti del mio cuore. Il luogo dove si tengono le immagini sacre – di solito l’angolo più bello della stanza. Sono antichi e grandi tumuli delle steppe. Il nonno intendeva la collina. 4 Uccello delle favole, ha artigli di ferro e il volto di donna. Presso il popolo il verso del gamajún predice morte e sventura. In questa situazione mio nonno alludeva alla civetta e al suo canto. Invece il mitico uccello Sirin predice buona fortuna ed abbondanza. 2 3
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Ad Anatolij Arkhipov
La lettera Ricorderò sempre quel tempo con parole struggenti, quella notte di assalti, battaglie di ombre nella vecchia dimora. Dalla finestra si affacciavano foglie aggrinzite, gatti spaventati, stelle coperte di ghiacci. Eravamo tutti insieme sagomati da un tormento muto. Figure di antichi dolori, pesanti come macigni, ci gravavano addosso con una morsa mostruosa. Si rilesse lentamente – a bassa voce – la lettera di Fëodor: «Nel Friuli, in Carnia1 è morta la stirpe cosacca. Armaghedon, disfatta, Cosacchi del Don, del Terek, del Volga, del Kuban, dell’Amur, dell’Ussuri, del Caucaso, del Bajkal, della Circassia, del Turkestan, 1 Qui si fa riferimento e si ricorda il massacro dei cosacchi nella Valle della Drava nel Maggio del 1945 operato dalle democrazie liberali per compiacere Stalin. Il più abietto e atroce tradimento mai consumato da un esercito vincitore verso uno sconfitto.
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spazzati via. Nessun libro di storia farà giustizia. Nessuna byline canterà le nostre gesta…» Queste le notizie di Fëodor – perito anche lui –. Quel foglio, macchiato di sangue e paura, era arrivato per misteriosi passaggi, strade segrete, dall’oltretomba a casa nostra non si sa come. Fu innalzato un altare con candele e fiori. Spruzzammo acqua santa sul Redentore ripetendo insieme «Chi vive in Lui non troverà la morte, non conoscerà il suo morso amaro». Era finita davvero! Le sacre immagini vennero tutte imprigionate e sepolte nel cassone mentre il nonno leggeva un brano sulla Passione e Morte del Signore. «Da oggi in poi, per la nostra famiglia, Dio Padre sarà l’azzurro del cielo, il prodigioso risveglio dei campi. Lo Spirito Santo il vento che impollina i fiori.
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88 Il Cristo il sole vittorioso adagiato sulle erbe smeraldine. Lui rinascerà ancora e ancora ogni stagione nella frutta, nel grano d’oro. Noi ci comunicheremo ogni volta mangiandoLo nei prodotti della terra. Il Natale si festeggerà ad ogni nascita felice. Non avremo più la Pasqua, le tombe sono sigillate sulla terra e neppure i Santissimi Angeli saprebbero ritrovarle…» Ognuno di noi tracciò un segno nero col carbone su una sbrindellata cartina della Rus’ poi annientata nel fuoco del camino. Quei gesti assunsero il nitore di una profezia. Da allora sapemmo con certezza che non saremmo più tornati indietro. La Storia procede con crudele follia, senza legge, dimenticando la verità degli uomini. Confini, generazioni non rappresentano nulla per i suoi piani occulti pieni di ferocia e sputa indifferente sui nostri cuori affamati di vita, di speranze vane.
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Doppia anima, sorella! Immagini lontane si accampano nella mente, siedono ambigue nei miei occhi stanchi. Significati occulti annegano in nere riflessioni. Si alternano ruoli inafferrabili. Danze simboliche, scudisciate attaccano la memoria bloccata in una sospetta giostra di opportunità perdute. Nella buia stanza barbe attorcigliate, bianche e nere, tefellìn, dondolio di spalle, brusìi di parole. Vecchi con lo sguardo inclinato su piani sconosciuti, libri talmudici aperti, meditazioni astrali, pagine infuriate traboccanti scritture arcaiche, lettere di fuoco, alfabeti sacri. Zohar che porta alla follia, all’improvvisa distruzione. Curvi nella stanza buia
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90 vecchi davanti alle icone. E ancora barbe profetiche, bianche e nere, colori assoluti, splendori eccelsi, paradisi d’incenso avviluppante. Preghiere sommesse, preghiere calde di sole, d’infantili baci scivolavano leggere su tavolette enigmatiche. Ricchezze sfumate rapide al primo sogno dell’infanzia. Dualità mutevole mai ricomposta nei giorni e negli anni che vivemmo e ci furono implacabili nella loro parzialità funesta. Solo il tempo ha la capacità alchemica di trasformare materiali puri in ciechi grovigli di dolore.
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Sascia Era gennaio, vuoto granaio prima di appendere il porco alle stelle. Ci impedì il cammino nei campi, nella vita che si appressava, una mancanza d’amore. Sciami di corvi agonizzanti, sospinti dal vento, si adagiarono sulle cannizzate. In fila, in fila si mettevano corvacchiando, neri preti, gra, gra, gra, tremanti oh come tremanti dure sciagure. Per fortuna il babbo sparò loro e fu la liberazione da una brutta sorte predisposta per atterirci. Alcuni caddero come stracci inzuppati a terra e amen «Così imparano a romperci le scatole» Altri volarono non si sa dove con una strizza evidente nello sciangottìo dei becchi e delle ali vorticanti. «Ma son troppo duri – imprecò il vecchio – da masticare e digerire». Tornati dentro: una legna non fa fuoco e due legne ne fanno poco, tre legne un focherello, quattro legne un fuoco bello… Il tempo passò in una sonnolenza di filastrocche, calde ceneri
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92 e braci rubinose – metafisiche. Il cane Malùk, usimando per la stanza, con la coda alta pisciò sulle patate ammucchiate all’angolo «Figlio di puttana, mangiapane a tradimento» il nonno gli scagliò contro una còcola pesante faceva da fermaporta ed era la pietra del suo ultimo anno di vita. Lo colpì in testa con una precisione notevole che meravigliò un po’ tutti i presenti «Ora va dal pope e confessa i tuoi peccati!» Un guaito sensazionale l’accompagnò per il viottolo. Alberi fulminati dal gelo giumente con il lungo pelo, cieli scivolosi, nuvole ondose, scorrere di giorni Sull’altare dell’inverno il freddo è un vescicante, lucida geloni, strangola passioni. La vita fuggì sgorbiata, imbrunita da perdite e dolori e toc, toc, toc, Sascia sulla porta si affacciò, le sue stampe in terra rovesciò potopò, potopò, potopò. San Giuseppe col bastone sempre in fiore il dolce Bambinello sul suo cuore. Santa Lucia l’inverno è per la via. San Rocco stanco e ferito la piaga si tocca col dito e i bambini in coro «Il cane gli ha rubato il pane!» «Non è il cane nostro» strillò la nonna
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dallo sgabuzzino. «O Sascia, Sascia brutto vagabondo dove hai nascosto le sante icone? Dove le hai lasciate? Dimenticate?» E lui aprì le mani: racchiudevano lumache, erbe e fiorellini. «Le hai perdute brutto scemo?» Ma Sascia è vecchio e stanco di girare, il violino si mette a suonare. Ricama l’aria di ballate, lune inzuccherate, coriandoli. Disegna suoni e notti stellate. Che brividi nel petto! Dentro l’anima sbirciano i ricordi ai suoni irresistibili. Sulla pelle corrono stagioni e toc, toc, toc, Sascia suonando il suo violino piano piano se ne andò… Negli anni che vivemmo ancora, quando lo sguardo si posava sulle vecchie stampe polverose, ci assaliva violento e triste il ricordo del viandante sparito nell’inverno di vacche appena munte sotto il cielo acquoso di gennaio. Allora la religione era paura del Signore. La vita ignoranza senza redenzione e la gioia un suono chiaro spruzzato dentro l’aria. O fanciullezza immemore! Fata armoniosa che giocavi assorta, racchiusa in un piccolo spazio domestico sottratto solo per un attimo a dure pareti di fango.
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Prokhoro Mochnine1 Notte dentro le cose, dentro gli alberi, nel cuore della terra, occhi persi in un tempo dilatato nel futuro. Sognavano i quattro elementi e si strinsero tra loro tutte le figure raccattate intorno. Il pane sognava nella madia steli battezzati di rugiada, un sole giovane ricco d’amore. Le noci sognavano nel cesto l’albero della vita in cima al colle e le mele sul graticcio il rosso liquido di tramonti antichi. La pozzanghera nell’orto sognava il fresco azzurro e di essere frammento di cielo caduto sulla terra.
1 [Prochor Mošnin è il nome del santo monaco eremita Serafino di Sarov (1759-1833), tra i più importanti mistici della chiesa ortodossa russa. A diciannove anni un’icona della Vergine gli salvò la vita. Vedeva angeli, parlava con gli animali: un orso gli obbediva. Praticò l’esicaismo per tre anni. Durante un incendio la sua anima salì al cielo.]
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Il bimbo sognava solo la Santa Madre. Andava ramingo in giorni rarefatti. Le strade raccontavano l’avventura della vita, negli angoli imbiancati dal soffio dell’estate. Sentiva nei boschi odori di altri mondi nelle foglie tremanti sul suo capo racconti di tempeste spirituali. Poi a sera, palpava il tepore della stanza imbottita d’assicelle resinose. Passò il tempo e le stagioni che vennero contemplarono il fanciullo raccogliere ranuncoli nei prati, pietruzze colorate sopra i greti, baci di piogge, risa di gazze. Farfalle variopinte portavano lontane notizie di profumi. E fu l’inverno. Il vento della steppa bussava furioso alla sua isba. Jèroska, con la voce sonnolenta e greve, diceva pacato:
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Passarono gli anni, Prokhoro restò bimbo nell’anima e nel cuore finché il fuoco dello Spirito gli incendiò il sembiante, il corpo luminoso e puro. E fu pulviscolo di stelle, angelo di gioia, Serafino… Un giorno lontano a Sarov suonarono le campane della Pasqua mentre nel cielo la Madre Santa imbandiva una Sacra Mensa per il fanciullo che tornava a Lei dalla greve terra per rivederLa ancora nell’eterno spazio e saziare per sempre l’antica nostalgia.
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«Cristo è così forte da salvare e perdonare tutti». Protopop Avvakum
ƂOЛB Bol – dolore Dolore è l’uomo accucciato tra gli sterpi lo sguardo accanito a scoprire grafie, lettere nella disposizione arcana delle siepi. Contorte siepi, nere d’inverno ed è l’inverno. Ci sarà pur qualcosa un segno un alfabeto segreto nei grovigli sfioccanti dei canneti che dimostri un labile indizio alla sua vita ormai consunta sospinta lontana negli anni. Traccia misterica, fragile foglia, corolla avventata che osò schiudersi tremante al vento d’Aprile. Inutile sforzo, immaginazione furente tesa a carpire la sostanza delle cose perché ogni disposizione è mistero nella natura – non casuale il distribuirsi dei mondi.
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Enigma è il cane sepolto nella paglia frusciante, il sasso è mistero e la zolla, mistero la tensione rampicante dell’edera, mistero il lavorio incessante dell’ape che innesta paziente un’arcana sinfonia di profumi lanciando una rete vorticante sul caprifoglio appena schiuso. E questa è saviezza, comunque. Dieduška,1 nella cadente baracca, ingrassa i finimenti, ogni tanto controlla se han bevuto i cavalli. Abbiamo atteso troppo a lungo un segno di partenza ed eravamo pronti ma aspettare tra vermi e taccole, sole bruciante e fatiche insensate, non è facile. Il libro della vita per noi conteneva solo la parola «Bol» – dolore, dolore che ci riempì la breve, fiammeggiante stagione della giovinezza. Anni raccolti in giro, sassi buttati via con sprezzante incoscienza verso il cielo immoto. Attendemmo pazienti, fermi, dimenticati. Sacchi pieni di terra nera 1
Nonno.
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100 in quest’angolo di mondo. Vanghe piantate al suolo per scongiurare il lampo. Termini minerali posti ad impedire l’avanzata della tragedia che si consumò nella notte delle mele cadenti quando i morti impazzavano ai quattro cantoni della casa fino a che l’ultimo di loro, nello smarrito silenzio delle tenebre, rovesciò lumi e piatti a terra, intrecciò criniere ai cavalli per darci un segno di vitalità che travalica il vivente. Fuggì prima dell’alba ubriaco di fumo del camino ridendo oltre la palizzata fra gli spazi vuoti della nostra esperienza umana pur sempre limitata. Novembre rimestò sinfonie sugli ulivi, nelle staccionate, nei solchi, sul vino di San Martino dolciastro nelle panciute brocche, sui cavalli che raccattavano lungo i pascoli le teste pencolanti fra le gambe. Si accesero candele a placare la passione mai sopita dei defunti per le cose che appartennero al reale. Scricchiavano le icone. I santi, costretti nelle tavole, atterriti dalle nostre follie,
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ci facevano eterni gesti di pacificazione. Dieduška lanciava sassi contro i corvi: razzolavano, predoni astuti, le sementi appena sparse ed erano i suoi anni, raggrinziti anni a volare insieme ad essi e volarono straziati; velenose matasse intrecciate contro un cielo che li divorò inerte. Fu il più lungo novembre della vita. Si accasciò intero sulle terre dove uomini muovevano ansimando trascinando carrette di letame liberato dalle fosse. Sospettosi come ladri si guardavano intorno e intorno il nulla. Uomini disfatti di fronte a questo squallore immenso che una mano mostruosa modellò invano. Il Natale ci raccontò meste meraviglie ma per noi arrivò il sette gennaio. La nascita, agognata lungo tutto l’anno, fece posto a misere preghiere, immaginazioni spente, un gran fastidio di bambini mocciolanti si ingozzavano – avidi struzzi –
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di mele e tarallucci. Perduta la passione, l’incanto dei racconti sacri ci restavano in eredità mani sporche di terra, inguantate di geloni. I Magi erano tre vecchi pellegrini, bussarono all’antica porta cercando l’elemosina accattando lamentosi qualche tozzo secco, dei caracini,2 un sorso di vino inacidito. Eppure, nell’ora più profonda, il Bambinello mandò bagliori nella grotta. Gli animali scorticati dalla fame fremettero ma fu un istante solo e se venne l’angelo, arrancando per la strada, noi non c’eravamo per accoglierlo oppure «Cosa cerca? Cosa vuole questo alato? Ci aiutasse almeno a caricar la legna che il freddo ci vomita addosso il suo nero fiato». Il vento mosse a lenti passi da Nord-Est. Arrivò nel vallone del Feltrino3 ribaltando rami, nuvole e pensieri. Il suo unico sogno
Fichi secchi. [Breve corso d’acqua che nasce sulle colline di Castel Frentano. Nel monitoraggio condotto tra il 2000 e il 2002 deteneva il triste primato di «fiume più inquinato d’Abruzzo».] 2 3
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era sconnetterci la casa o almeno scardinarci qualche finestra, devastarci l’orto. Eppure le ragazze ridevano scannando polli con ferme mani: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Sbattevano le ali i poveri pennuti davanti all’anno nuovo che si avvicinò guardingo come un ladro – tra nuvole di piume. «Si è svegliato alfin si è mosso il Don placido e ortodosso» Canticchiava il padre attraversando il magro ruscello. Pensava ai parenti morti in Carnia distesi in buche senza nome: parti integranti di tutte le miserie pagarono a caro prezzo una visione. Nessun vivente sa calcolare l’immensità del tempo che ci separa dalla festa dei santi dalla possibilità di una Resurrezione. Il Paradiso è il sogno dei poveri dove si attende inermi la mano salvifica di un Dio che ci stronca. Ricordava il padre la grande famiglia del Grebegn, le cronache dei tempi passati quando il principe Vladimir ci fece tutti cristiani
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104 «O lucente di luce, ornata di ornamenti terra russa! Di tutto sovrabbondi terra cristiana ortodossa» Lui, figlio di Atamanski,4 uomo dai molti mestieri, si placava annusando la tarda passione degli ortaggi il silenzio racchiuso in ogni cosa. Si scrollò di dosso la stolta morale come un falco spaventato nel riverbero acuto di un giorno estivo e lui solo sapeva che è il cuore stesso a dettarci le risposte. Dall’oltretomba, fatta di nebbie eburnee, i cavalli dello zio volgono lo sguardo verso noi non riconoscendoci e sui biancospini il pettirosso tende il collo davanti al giorno che si appiattisce sulla casa trascolorando in spiccioli di luce. Gennaio entrò nell’aia senza un sussurro dai boschi circostanti; espose i suoi ricami intorno con una certa maestria. Lavorava bene i ghiacci ridondanti giù dai tetti, sui vetri opachi delle tarde albe, fra le ombre del crepuscolo 4
Corpo speciale di cosacchi che vigilavano sull’incolumità dello zar.
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che piegavano verso il corso della notte. Restammo a contemplare il vuoto vagante tra gli attrezzi: la vanga arrugginita, l’erpice, la zappa, il vomere. Cose affioravano a fatica sui nostri occhi, disadorne cose nella penombra triste. Idoli muti, segnali di altre epoche, pesanti lapidi da toccare con timore perché parlavano un linguaggio accecato dalla morte, un linguaggio di rimprovero all’anima. Santo Antonio abate picchiava il suo porchetto grufolante con una lunga canna affinché la smettesse di sguazzare in mezzo al fango. Sempre la stessa storia: il male e il bene avvinti da una sola melodia e i nostri pii desideri sono pietre con le quali verremo lapidati. Alla fine anche l’inferno dona sollievo alle nostre continue avventatezze. «Nessun albero ci darà frutto o gioia né ore liete scorreranno ancora…»
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106 Mi disse mia madre sospirando un giorno lontano. Mia madre, enigmatica bellezza, luce orientale, spiraglio di poesia sottratto alla mano del Signore. Io solo potevo aprire con un tocco leggero quel cuore ma un ritegno atavico, spietato con i sentimenti, sigillò le mie labbra. Mia madre, combinazione di forze fluenti ritornerà viva nella sua casa ancora una volta. Alito soave, fiore concepito da un angelo per darci dimestichezza con la morte, per insegnarci che la morte non è nient’altro che mancanza d’amore. Gennaio bifronte, frammento di un poema martoriato. Infinite crepe tagliavano la pelle delle mani. Ferite rispettabili suturate col grasso compatto del maiale. Gennaio sognava di estinguere la fiamma della vita con artifici arcaici finché venne soffiato via e morì nel suo stesso gelo impotente a rovinarci ancora. Ma noi amavamo il suo rigore, la sua mente fredda e lucida che dona riposo ad alberi e persone.
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Febbraio ci rincorse con un carrettino di ghiaccioli, uno sberleffo, un sorriso astuto sulle labbra, breve, finché infiacchì e stette in mezzo ai viottoli raggrinzito e vizzo come una rossa mela che nessuno volle per l’asprigno succo. Febbraio fu maligno, sbirciava le nostre mosse attento. Monello incomprensibile aspirava il fumo dell’arrosto dentro il forno e lagrime talvolta e riso scintillante in frammenti minuscoli, cangianti gettava nei ruscelli. S’infilava rapido, improvviso, nelle ampie gonne a turbare il primo mestruo di fanciulle gelate da un impaccio muto assorte in una cieca volontà di generare vita. Le maschere ci portarono presagi, demoni, fatture. La Presentazione al Tempio fu un momento di bellezza: Gesù con le braccia aperte al mondo, la Vergine Purissima, il casto Giuseppe, la profetessa Anna, il santo Simeone vestito a festa
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108 danzante sulla soglia della morte. Ma non si trovavano i fiammiferi per accendere candele e la tavoletta-icona fu portata vicino al fuoco del camino perché venisse illuminata dalle allegre fiamme e partecipasse – almeno una volta l’anno – al nostro pasto. Le offrimmo latte, pasticcini e miele, infine, sazi davvero, tutta la brigata brindò a lei con ortodosso ardore. E i figli raccontavano alla madre la spinta irresistibile dei crucci attorcinati nella mente. Giorni traditi su per il sentiero dove strillavano le volpi. Sogni che già al sorgere Hanno la ruggine della menzogna. D’un tratto capimmo folgorati: il futuro è un’abitazione vuota, attende spietata il nostro sangue vivo. Le prime farfallucce di marzo passarono a visitarci nell’esistenza grama. Il nonno domò un puledro turbinoso «Jùnaša5 o si torna a cavallo in Patria o si va al catasto a fare l’impiegato». Il vento gli gonfiava la camicia ampia e il suo sguardo fiero 5
Ragazzo.
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Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000)
mi scaldò il volto rinnovato. Passarono le salme in processione verso il pozzo per attinger acqua nel dì di festa degli erbosi campi. E i fiori! I narcisi urlavano il giallo e le ginestre lanciavan sguardi alle gambe di fanciulle in cerca dell’amore. Un altr’anno ancora oscilla nella brezza e la luna nella notte larga augurò felicità ad alberi e folletti. Una canzone: nacque la sorella. Nella culla sapeva già ridere e cantare e quando apriva la bocca per mangiare le uscivano fuori marionette, briose si nascondevano tra pecore e caprette. Poi vagammo a lungo per strade sparpagliate nella realtà di gente inconsapevole che guarda con attonito stupore alle meraviglie e ai capricci della vita. I campi lavorati da demoni ossuti porgevano segnali di trame ultraterrene. Questo ci raccontò il marzo ansioso, con beffarda improntitudine, svolazzante e frivolo su tegole e mimose. Dio ci aspettò sulle pagine del Vangelo alla luce di un lume sfrigolante. I fedeli pieni di sacro zelo
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saltavano fuori dalle case buie: caverne preistoriche, ossari, espandendosi a grappoli e viluppi nei luoghi reputati benedetti. È l’ora per accogliere i doni dello Spirito, di una vita ascetica contornata da celestiali voglie. È l’ora delle palme, di acque lustrali, dell’arrivo del dolce Salvatore, di una redenzione al fuoco della Pasqua, di un aprile di messi spirituali. Sulle labbra della nonna scivolavano preghiere mentre sfidava con aceto e fine sabbia lo sporco di padelle aperte come tombe. E c’era vigore nelle ossute mani, un vigore religioso raccolto dentro l’essere. Il rame tornò a brillare al sole nuovo con sinfonia di campana sfavillante, lo Spirito Santo si librò gioioso nel ronzio del bruno calabrone. «Vorrei morir nella stagion dell’anno quando l’aria imbruna il ciel sereno, quando le rondinelle il nido fanno e di nuove erbe s’orna il terreno…»6
6 [Sono i primi versi (l’ultimo modificato) della romanza Vorrei morire (1878), con testo di Leonardo M. Cognetti e musica dell’ortonese Francesco Paolo Tosti.]
Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000)
Spesso declamava la vecchietta nelle verdi sere. Ricordo il giorno in cui la nonna con stanca, flebile voce, se ne andò nella maestà dei cori eterni. Vide tutta la notte sfilare nella stanza i fantasmi domestici, ombre avevano lo spessore di una realtà crudele. Ascoltò rotolare pietre scure sul lenzuolo, lingue borbottare a vuoto dell’enigma perenne della morte. Che tipo di vento accarezzerà ora la sua tomba? Che fiori vi cresceranno sopra? Che terra alimenterà il suo fragile corpo? Quali canzoni culleranno il suo immemore sonno? Ascolta, – ripete la voce interiore – negli umili, semplici elementi, nel loro candore abbagliante si cela il principio di ogni religione. Abramo, Mosè, Elia giacciono dentro una goccia d’acqua, nell’odore del concime, nel fruscio dei topi sul piancito. Pascolarono vitelli nel deserto agli inizi di maggio in una santa processione ma sempre legati al cordone ombelicale della terra e nella terra conobbero la verità di Dio
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112 e alla fine del viaggio capirono che Dio non è un’astrazione per sapienti. Estate. Calore che striscia dappertutto, in ogni crepa, in ogni minimo dettaglio di una natura attonita. Serpente smisurato lanciato dal cielo alla terra con una volontà perversa. Giugno bruciante fin dentro il petto, ospite gravato da un’incalcolabile secchezza. Il cardo, le foglie di mentuccia intisichite, il cane che s’incunea nel canneto al richiamo di una minima frescura sono simboli di un purgatorio che ci assedia ogni anno. Durò per settimane un silenzio astrale, metafisico. Un’arsura empia cacciò gli uccelli oltre la soglia dell’estate. I maghi accesero un cero nel fondo di una buca scavata nell’argilla. Ma non ci fu né pioggia, né alito di vento, né un accenno di un possibile ristoro fino a luglio, quando dieduška, rivoltò una vecchia preghiera nella memoria stanca:
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Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000)
«O Signore del mondo apri le Tue porte, le Tue sante acque donaci benevolo». Si sciolse il tuono e si affrettò a piovere. Un temporale soffiava nella valle – un baleno – e ci fu tregua. Nelle notti frantumate dalle rane il lupo mannaro annusava la piena luna salutandola con urla sensitive, invocava sollievo al disumano male. Intanto, l’ubriaco e zotico vicino dormiva capovolto nel recinto dei maiali. O sere dal grido acuto delle civette! Soffice svolazzare di ali ignote verso una stagione che trascolora. Aliti segreti, brividi sormontavano i cascanti corpi, le disarticolate braccia, gli occhi in preda al sonno trionfante. Nell’oscurità ingrandiscono paure, odi, desideri. Dal sottosuolo il pozzo attinge la sua acqua e nel profondo della nostra mente nascono passioni: alimenteranno funeste i giorni da venire. Settembre si sposò con l’uva e il vento.
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114 Si mise a parlare agli alberi di quercia e gli uccellini si stringevano attorno ai rami come scolaretti pronti a imparare. Ottobre snocciolò parole arcane, formule astratte su lunari gialli, incustodite attese. Negli angoli segreti della casa radio Mosca parlava ancora della guerra, di mercato nero, di una vita sciupata tra le sbarre, di una grande depressione, del pane del maltempo fatto di crusca e segatura. E la notte bussarono alla porta: erano i soldati morti chiedevano di entrare, ma entrò solo il buio, qualche foglia secca sospinta lieve dal fiato delle piante. Addio mia gente, persone care. Addio mia casa crocevia impervio di lingue e di culture. Ben venga il Cristo a sostenerci ora e di tutti questi anni, stagioni, mesi, giorni, di volti amati resta polvere incessante, turbinio di fredda cenere sul cuore inconsolabile. Fummo impotenti a frenare le menzogne
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Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000)
che ci aiutarono comunque a non dissolverci. Di nuovo l’inverno fa traballare il tetto e l’uomo è ancora accucciato tra neri sterpi a cercare un segno del destino. La stalla è chiusa, i cavalli hanno seguito il nonno nella fossa. Desolati campi. Le vacche in menopausa, lungo il confine aspettano la scure che le liberi, darà riposo al ruminar perenne. Nessun ritorno, nessuna partenza. Molte sedie sono vuote – troppe. I materassi avvolti come covoni troneggiano sui letti sconsolati. Sculture antiche, lacerate dai nostri corpi grevi, lavorate in anni bui da inquieti sonni. Nessuna speranza, nessun freno a questo dolore atavico che si aggira folle su macerie di radici e sentimenti. Buio messaggero, angelo dannato vagolante intrepido in questo pezzetto di terra squallida e meschina che in un attimo di disperata nostalgia chiamammo Rus’ per soffocare la pena di un amore irrevocabile in un effimero inganno – consapevole.
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«Alto, più in alto la corona di Maria…» La nonna
Mai più si aprirà la burrasca all’orizzonte mostrando i lampi della primavera, i fiori benigni della malva, la gioia dell’infantile calabrone. Noi coglieremo solo tracce di vecchi calendari con la memoria in frantumi e spine di rovi sulla lingua ormai appassita in dolorosi racconti. Ritornerà la visione dell’infanzia luminoso turbine, tumulto di colori prima che la morte venga a proteggerci dai giorni delle lagrime.
Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000)
Ricordo l’autunno passato, le umide ombre del bosco. Tardò molto la necessità del ristoro per noi uomini stanchi, gravati da reumi e catarri. Il calendario diceva dei morti che avanzano fra il cielo e la terra con passo composto finché il pallore del giorno riesce a fugarli. Il vino, nelle notti di veglia, giocò un’alleanza col sonno. E noi ci perdemmo col bicchiere nel pugno in un oblio stentato. La luna sognava – tra nuvole rade – un accordo furtivo col fieno un legame terreno sicuro specchiandosi a tratti nel pozzo diruto. Si fecero visibili i nemici del miele, le muffe perverse, radici divelte. Storie straziate di una goffa vecchiaia diventata risonanza remota, reliquiario sbiadito di inutili suppliche, struggente rosario di date sconfitte. Che si spanda la calce ora sul poco che resta.
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Da noi, Da noi uscivano parole dal gusto amaro, acuminati accenti. Sussurravano i salici del fossato nel vortice di una fredda primavera. Nessuna rivelazione ci è più data; ora il miracolo è il segreto trasmutarsi nelle cose per poi divampare singoli elementi al suono di una innocente salmodia. Mormora la rugiada al primo sole una preghiera colma di passione. Tutta la natura si affraterna, sottomette la sua forza al Creatore. A lungo, molto a lungo udii l’Eternità nei giorni adolescenti mescolarsi stordita al profumo di mentuccia. Trasfigurai. Dovunque vada avrò le mie icone sopravvissute alle rovine, al tempo-boia.
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Porterò il richiamo dei morti, la poesia ereditata da una razza migrante ed arcana – incendiata nella sapiente follia dei cromosomi. Mi accompagneranno misteriosi caratteri cirillici racchiusi in qualche lettera, la stupidità di vecchie abitudini sdraiate nella mente, un girovagare inquieto nella stanca rappresentazione del reale. Atavismi: cani feroci dentro il sangue. Sempre più lontano riluce il segno di una cometa. Fulgori celestiali rapiscono l’inesplorato turbamento di un’invisibile essenza. Il mio desiderio – unico, implacabile – è custodire il cuore puro contro la volontà degli uomini, del tempo, di una vita irripetibile confusa e scompigliata da un arido destino. Nell’abbraccio di tempeste, di abissali forze riposino i nostri giorni, la nostra mortale solitudine. I campi hanno raccolto nel proprio grembo il buio. Preziosa terra nuda,
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120 spossata terra sogni l’immagine del Padre levigata dalle mani di un angelo invisibile il cui respiro ci trafigge nella carne. Svegliati stella della sera, partorisci faville, sobbalza nell’oro, riluci nel palmo liscio del cielo raccontaci della sorte, che futuro ci attende, se vivremo, assoggettati come siamo alla collera del tempo che ci fece diventare immagini taciturne della morte, custodi volontari delle tenebre.
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Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000)
Certi giorni, staccandomi dalle cose, passo al setaccio perdite e dolori, un’esistenza bizzarra e malinconica. Si spezzò ben presto la rete degli affetti nel mio indifeso tempo. Non giustificavo gli stupidi scherzi, i tradimenti, i vigliacchi assalti, le allusioni velate. Maschere grottesche mi trascinavano invano in pettegolezzi proibiti. Scorsero acque e stagioni, parole dette, fulgide passioni. Passarono storie, sacrileghi atti, malvagi impieghi. Non curavo né tagli e né ferite che lasciavo sanguinare impunemente al sole. O mia vita! Rotta crudele e solitaria verso un porto straniero da tutti rifiutato, illusoria parvenza. Stregato da vuote forme bivaccavo in terre ignote vegliando furioso scarni affetti. Ma ho amato le graziose amiche
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122 nel mio randagio incedere e solo questa colpa mi porto addosso perdendomi ancora, inerte prigioniero nel fragore incessante di effimeri legami.
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Si aprono e si chiudono i giorni, le stagioni inquiete, i crochi e il lillà, l’amabile giunchiglia. Cosa dire di noi amici? Forse dalla vita non abbiamo appreso niente e questo nulla ci fa inerti prigionieri di una segreta contesa, rissa inudibile ma spietata e la ragione non ci dà ragione in un tempo trascinato da un esercito morto di predoni che nutre la terra con il suo putrefarsi. Defunta è la radice del nostro canto eterno riposo. Una volta fummo uomini altrove. Colpevoli ma vivi affamati solo di candore, ladri inesperti di bellezza, aguzzini feroci della nostra carne, ma vivi. E vivi tu pure ancora poesia in altre bocche in un altro mondo tra schegge di vetro colorate, brezze tossiche, universi capovolti di miserie
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124 finchÊ la notte ti sommerga. Addio poesia! Nemica-amica onnipotente che ci hai sedotto l’anima con un lungo tradimento, una folle danza voluttuosa fino al punto di perderci per sempre col suono argentato di una misera parola.
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Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000)
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Il samovar La mamma piantò in un giorno di sconforto dei fiori di campo nel vecchio samovar, che aveva seguito, con inerte fedeltà, la mia famiglia nello strazio delle sue migrazioni. Dopo averlo guardato a lungo, lo dispose come ornamento all’ingresso della casa. In quei tempi non c’erano più soldi per il tè. Faceva uno strano effetto vederlo poggiato per terra – serbatoio panciuto di memorie cocenti. Sembrava un’urna, un cippo funerario, una piccola tomba domestica dov’era racchiusa tutta la nostra storia dolente. I fiori, lontano dalla terra che li aveva generati, seccarono – come appassì la nostra vita sradicata dalla Patria in un tempo remoto. Mia moglie, l’altr’anno, facendo le pulizie per la Pasqua in arrivo, lo ritrovò per caso, buttato in soffitta, tutto ammaccato e ferito. Era una magnifica primavera. La cara donna scese le scale con il suo trofeo, incoronata di ragnatele, fiera e regale e in quel preciso momento lei era la primavera. Indifferente al mio sarcasmo, incominciò a ripulirlo con cautela, lo lucidò a lungo, pazientemente. Sembrava che avesse ritrovato un figlio perduto da tanto tempo ed ora lo ninnasse e cullasse con insaziabile amore. L’ottone tornò a splendere e a brillare. Poi, delicata e decisa, accese il fuoco con delle pigne nel tubo interno del camino e riempì d’acqua il contenitore, dicendo a voce alta: – Riscaldati. Riscaldati un poco vecchietto. – D’un tratto nell’aria stregata si compì il sortilegio: l’acqua iniziò dolcemente a cantare come se un nuovo cuore si risvegliasse in esso e ricominciasse a pulsare e a battere di gioia dopo secoli di attesa. Il tempo era volato via. Il pomeriggio dorava la stanza in un sopore beato ed io non pensavo più a niente. Lei mi scosse da questo stato di assenza offrendomi il tè e dicendomi severa: – Ehi raskolniky, bevi! – continuando – ma mi domando e dico che razza di cristiano sei se non credi alla Resurrezione? Ebbi come una scossa elettrica per tutto il corpo e fu proprio allora che mente e cuore mi si schiusero. Finalmente capii come una legge più grande del nostro personale dolore, delle nostre passioni e miserie, misteriosa e sovrana regoli e governi la vita dell’uomo, e si può veramente risorgere riconquistando la propria coscienza primeva, la consapevolezza di appartenere ad una razza, ad un popolo al di là di ogni barriera di tempo e di sangue. Per quel giorno fu tutto. Ma un nodo
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antico finalmente mi si sciolse nell’anima, una sofferenza mai sopita da generazioni si placò nel mio essere. Trovai la risposta a molte domande e ricominciai a sperare.
Da Ritratti e notturni (2002)
Isús mladenec1 Il bambino con cui giocavo felice nei campi e sull’erba era Isús. La sera, che tristezza, quando il sole ritirava le reti d’oro sui monti e il giorno alla fine esalava il suo ultimo debole grido. Allora, il mio piccolo amico mi lasciava e volava invisibile nei suoi giardini stellati con campanellini d’argento tra i capelli. Restavo solo nella visione, solo davanti alla porta di casa. «Non piangere, figlio segreto d’Aprile – diceva la nonna – ti ha toccato la lingua di fuoco. Ma le nubi hanno coperto il pellegrino invisibile al tuo sguardo innocente e la strada per raggiungerlo 1 Isús mladenec. I Raskol’niki, Vecchi Credenti, così chiamano Gesù Bambino. Anche i miei familiari fin dalla più tenera età mi hanno insegnato a pronunciare il nome del nostro dolce Salvatore in questa antica maniera.
130 è troppo lunga per i tuoi piccoli piedi scalzi». Una volta da grande, rividi per caso tra le nubi Isús: il mio amico. Anche lui era cambiato Ma lo sguardo era sempre buono – quello fanciullo di un tempo. Ricordai il suo amore, la freschezza del cielo oltre le finestre socchiuse, il paradiso respirato nelle erbe e nei fiori di maggio. Meglio sarebbe stato conservare la benedizione dei campi natii e l’anima fanciulla per rifiorire con le stagioni proiettate nei movimenti del cielo, ascoltare la preghiera dei mesi che andare in giro in un mondo di uomini incompiuti, profugo di una storia senza approdi. Storia che soffocò sempre il grido dei deboli, il pianto dell’infanzia, il lamento della vecchiaia e il sogno di un ragazzo che fece amicizia sincera -in una sera lontana di primavera-, prostrato tra i cespugli di timo – con Isús dolcissimo bambino. Mentre i ciliegi selvatici E le strepitose amarene tuonavano
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Da Ritratti e notturni (2002)
bianche nuvole di fiori inquieti sulla porta di casa che, chiudendosi improvvisa, sotto la mano del vento, al tramonto del mite giorno vissuto, mi separò per sempre dal cielo.
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«Buonanotte!» disse il gufo e la casa cessò di esistere nel buio rarefatto. Diventò un sogno inquieto, un fluttuare d’erbe amare, una levitazione di lucciole stretta all’incerta sagoma dei muri. Le ore trascorsero veloci in un selvaggio vortice di topi e scarafaggi… E i morti continuavano ad entrare e ad uscire dalla porta lentamente fino a quando si svegliarono le piante rampicanti in un’alba tremante di mosche e di profumi.
Poesie
Da Ritratti e notturni (2002)
Ăˆ difficile trovare il cielo in questa notte ostruita da sacchetti di plastica. Le nostre finestre non ricordano il soffio delle stagioni e respingono l’oscuro orizzonte. In camere fumose scintillano ninnoli, bomboniere di matrimoni falliti, briciole di essenze aromatiche. Lo smarrimento del nostro destino ci conduce rimorsi brucianti e tempestose trame ripiene dei nostri peccati.
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Da Oscurità (2004)
Le erbe acclamano l’inizio del giorno ma la falce è già pronta. Sul ciglio della strada l’uomo dallo sguardo liquido passa con destrezza la cote sulla lama offerta con precisione alla morte del verde. Tranquille parole, gesti pacati seguono il rito della fienagione ma più spoglia diventa la terra intristita dal furto e vuoto il cielo senza il suo verde specchio vibrante di sommessi richiami. Ci sono ore del vento gitante dove nessuno ci riconoscerà nella luce precaria di un tempo abbandonato sui tetti muschiosi. Tornerà subito la notte su nere parole spazzate dagli angoli scuri della memoria e sussurrate nell’angoscia del ricordo di anni trascorsi senza riposo nel mondo silenzioso dei vivi.
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Da giovani amammo le lente giornate delle rose, il profumo del vino benedetto versato nel luogo dove si radunano le ombre. Niente poteva scalfirci allora‌ Ma una lettera listata a lutto inviata chissà da chi nell’ora solitaria pretese di interrompere il rumore dei vivi. Di colpo ci sorprese una tragica stanchezza. CosÏ dimenticammo il nome dei giorni, le parole che feriscono come spade o accarezzano dolcemente il cuore. Fu come sapere di dover morire e trattenere il pianto.
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PROSE
Da Gli anni delle tristi piogge (1988)
da BALLATA DEL CAVALIERE E DELLE OMBRE Così il passato dei mondi tremola nella perduta luce con immagini incerte, e l’avvenire si muove con le anime viventi, che l’ineluttabile destino forza a discendere nella martoriata carne… E. Schuré
Nei lontani anni della mia infanzia, le notti non finivano mai, specialmente quelle d’inverno e di gennaio quando fuori la neve è più dura dell’acciaio. Mia sorella ed io, prigionieri in casa per la stagione inclemente, infastidivamo tutti, ingaggiando furiose lotte infantili, dispetti, burle calmate solo dalla calda, amorevole voce di nonno Sebastiano. La nostra casa allora si trasformava in un luogo magico, di indescrivibile bellezza. Di colpo si spalancava la vecchia porta ed entravano coperti di neve e di stelle gli antenati cavalieri e briganti: Carmine D’Amico «el hombre», che fu gaucho nelle mitiche Americhe. Federico, il comandante. Radovan il mago che sapeva il segreto dell’eterno rinascere. Raissa la zingara slava di sfolgorante bellezza… Ed altri, ed altri, folli, eremiti in una processione infinita di gesta e miracoli. La voce del nonno gestiva commossa questo mitico, incredibile teatro di ombre e di glorie in un miscuglio di epoche presenti e passate, personaggi remoti e viventi. E quando il racconto taceva, per le basole, fuori, a volte si sentivano rumori di passi e di zoccoli – a Sebastiano si accendevano gli occhi più azzurri del cielo e in un soffio diceva – «Bambini, son loro che ritornano dalle notti infinite, dall’immemore buio. Ancora una volta i morti son venuti per sentirci parlare di loro, per nostalgia, da noi…».
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Prose
Ritornò negli anni… E ci fu gran silenzio nelle stradette fresche ed umide, dove il sole arrivava di nascosto e per poche ore e poi subito spariva dietro l’alta torre, i rossi tetti delle casette abbracciate tra di loro e costruite in pochi giorni dai forti paladini. I bambini smisero di giocare e si nascosero veloci nelle botole fangose, dietro i cantoni bui di muri antichi che mai videro la luce, al rumore metallico degli zoccoli che l’aria immota ingigantiva. In quegli anni ritornò dalla guerra, che Garibaldi aveva fatto in lontane terre, il comandante Federico, figlio di Sebastiano, avvolto in un mantello militare, lo sguardo un po’ folle e coraggioso di chi vide molte cose e seppe. Robusto, i capelli alla indio, superbo su un cavallo più scuro della notte, sua unica proprietà, unica ricchezza. Ritornò negli anni e i ragazzi ricordarono per molto questa apparizione; poi, divenuti uomini, raccontarono ai figli una storia strana di come, in un lontano giorno di primavera, uno straniero misterioso fosse passato al galoppo per le vie del paese e i fiori appassirono, ci fu la malannata, lu gele de lu verne che portò le pene de lu ‘nberne,1 e venne dalla parte di Orsogna un grande vento che tutto devastò e durò per mesi in inquieto turbine. Quando ormai, persa ogni speranza, ritornò la quiete, non riconobbero più né case, né strade e si perdevano per luoghi un tempo familiari di colpo dimenticando la lingua atavica, quella che padri e nonni ereditarono in tempi immemorabili dai cavalieri venuti dalle steppe. Il mondo allora era ancora giovane – i boschi sterminati ed ombrosi. Nei ruscelli situati dappertutto i pesci si prendevano con le mani. Gli uomini conoscevano la parola delle cose, i moti delle stelle, capivano le bestie e non c’erano confini. Di fronte, la montagna altissima brillava nell’aria trasparente e sulla sua cima abitavano le fate, eremiti e diavoli e quando in certi giorni chiari (a san Giovanni, nel solstizio d’estate, a san Pietro, all’Ascenza,2 a Santa Barbara, la Candelora e in tutti gli altri tempi quando
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Il gelo dell’inverno che portò le pene dell’inferno. Ascensione, riferimento alla festa.
Da Gli anni delle tristi piogge (1988)
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è punto di stella)3 giocavano tra di loro sul paese piovevano petali, fiori, gocce di rugiada, confetti e qualche marengo dimenticato nelle buche dai briganti. Ma al tramonto tutti dentro perché lupi e morti scorrazzavano per le strade, in preda alla follia, e se qualche malaccorto tardava un poco, lu Rifèro,4 nascosto dietro un angolo, lo prendeva a tradimento, lo catturava di sicuro e gli dava un male che portava all’impotenza. Bastava un cenno, uno sguardo solo…
Siòzza siòzza vàttene abbàlepe lu pozze se ssè bbòne statte se ssè cattive vàttene…5
Le case erano abitate da gatti, spiriti burloni, folletti, mazzemarielli 6 che si divertivano a nascondere posate, a fermare gli orologi, a tirare le coperte dei bambini, a intrecciare fili e giorni nelle allegre filastrocche che le nonne cantavano, per dar requie ai ninnilli più vivaci nelle quiete sere del ricordo, quando i morti, per acuta nostalgia, tornavano tra i vivi e bastava essere un poco attenti per sentirli a fianco come un alito, una carezza lieve sulla pelle, un improvviso brivido o un breve lampo davanti agli occhi che per un attimo restavano pensosi. Il comandante schiodò deciso le assi che sigillavano la vecchia porta, l’aprì ed essa si lamentò dolente sotto le sue mani. Si fermò un attimo incerto sulla soglia, poi entrò dentro, piano, in punta di piedi, con timore quasi, e un po’ di luce di soppiatto rischiarò finalmente quel regno dell’oblio e della polvere. Timido, si avvicinò alla parete di fronte dove, ricoperta da ragnatele, c’era una fotografia ingiallita. Soffiò via i papaciongi 7 e pulì la polvere dal vetro: un uomo ed una donna lo guardavano per sempre giovani, per sempre sorridenti, per sempre uniti in un giorno di calme brezze con la mano nella mano. Sentì un groppo alla gola, una saliva amara tra i denti. Riappese con delicatezza tenera il ritratto.
3 Punto di stella. Giorno particolare in cui bisogna evitare – secondo la mentalità popolana – qualsiasi attività fuori dal normale perché potevano succedere disgrazie. 4 Rifero, Spirito maligno. 5 «Singhiozzo, singhiozzo / vattene giù per il pozzo / se sei buono statti / se sei cattivo vattene». Filastrocca che si recitava ai bimbi per far cessare loro il fastidioso singhiozzo. 6 Spiriti di bambini morti senza battesimo. Vortici d’aria. 7 Ragnatele.
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Guardava commosso il misero mobilio, gli utensili umili della casa: un cucchiaio dimenticato sopra il tavolo, le sedie spagliate. Ogni angolo gli parlava: le ragnatele pendevano dal soffitto, i fucili appesi alle pareti, il cassone marcito pieno di vecchi abiti, il letto di ferro, la brocca del vino rovesciata, la conca mangiata dal verderame e gli parlavano con voce desolata da una lunga pena, di un abbandono straziante voluto dal destino. Impiegò ore, anni, in questo viaggio per le stanze. Compì gesti antichi, sopiti e ritrovati dentro il cuore e prima di uscire all’aperto, posò sul comò la gabbietta vuota del cardellino abbandonata a terra. Il suo volto aveva preso un colore metallico, lunare, stralunato ed assorto e lui era diventato una fragile ombra tra le ombre. Sistemò il cavallo nella stalla e non fu più visto in giro per molto tempo. Solo una notte sentirono il rumore degli zoccoli sulle basole e qualche curioso insonne spiò dalla finestra ma non seppe dire o raccontare se fantasma od uomo montava quel cavallo. Federico aveva riportato dai suoi viaggi interminabili un baule pieno di pergamene. Manoscritti indecifrabili di Cipriano il mago, di Cesare Maltesio, di Pafète, Zitone Boemo, Tritemio, Alberto il Grande, don Michele di Nostredame, la Clavicola di Salomone. Muffite mappe di terre sconosciute, di tesori e profezie; e trascorreva attento e tenace, mesi e stagioni nello studio delle ingiallite carte. Estant assis de nuit secret estude, Seul reprosé sur la selle d’aerain: Flambe exigue sortant de sollitude, Fait prospérer qui n’est à croire vain.8 […]
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«Stando seduto di notte in segreti studi…». Prologo alle Centurie di Nostradamus.
Da Gli anni delle tristi piogge (1988)
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LA PASSIONE Antonio aveva finito proprio allora di arrotare il suo coltello dagli infiniti usi quando incominciò la grande frana dell’81. Il terreno lentamente iniziò a sprofondare lungo i pendii della collina brulla portando dietro di sé, nel lento, ma inesorabile movimento, qualche alberello stento di querciolo cresciuto lì per sua disgrazia, fratte di biancospino, massi enormi color cenere e ferro smarriti su quel colle dai tempi degli inizi, polvere siderale argentata e fredda come ghiaccio, piovuta dal cielo nelle notti tristi per stanchezza, estremo sfinimento. Si fece sulla porta al rumore insolito, cupo, minaccioso e osservò con calma attenta il movimento inquieto – abituato com’era da sempre ai capricci di una natura avversa… Il paese trasalì e sussultò fin nelle sue più profonde viscere all’assalto delle ripetute scosse e le case della parte più alta cominciarono a staccarsi piano piano tra di loro e inabissarsi per sempre e senza scampo in un tempo di dimenticanza e di rovina, in una terra avara, nemica, senza più fiori né memoria… Il terreno cretoso, arido, scivolava via a valle lasciando scoperte per un’ultima volta, alla luce di un pallido sole declinante, grotte, cisterne, mosaici, resti di palazzi, disegni scolpiti sulla pietra dai primi popoli guerrieri venuti qui nei tempi delle nevi dalle terre senza nome che incominciarono la loro dura vita in questo angolo remoto prima del ricordo, e prima ancora che l’uomo cominciasse a raccontare le storie delle stirpi e delle dinastie… Antonio rientrò dentro pacato e assorto e levò da sopra il fuoco la pignatta con il decotto di erbe aromatiche che beveva ogni sera prima di coricarsi per purificare il sangue. Accese la lume1 delle oscure notti e delle lunghe veglie che illuminò fiocamente l’alta volta annerita dai fumi aspri del camino: la grande ciuminiera2 che bruciò e bruciò instancabile in anni innumerevoli interi boschi di olmi e di noccioli… 1 2
Il lume. Camino.
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E si sedette pensoso in un angolo ad ascoltare le voci della notte: i fruscii sull’assito, gli scricchiolii del misero mobilio, i respiri di presenze ignote, arréte a le curnècchie,3 il lamento del grillo che viveva da quasi un secolo nella sua cucina, dentre a na cavùte sotte a la furnacelle4 e di notte scorrazzava intrepido e curioso pe’ pizze e pe’ pentune.5 Intanto fuori era diventato buio pesto, nere gné lu gnòstre6 e quella sera la campana della torre che per secoli annunziò ai paesani la chiusura delle porte, non suonò l’ore de notte… Da lundane giungevano echi, urla soffocate, strille,7 pianti di persone che si mettevano in salvo e cercavano di sottrarre disperati almeno qualcosa: na tavule, cacche segge, nu vestite, na cùnele,8 dei preziosi, alla voragine impietosa, insaziabile, che tutto inghiottiva e nascondeva sbigottendo in una sepoltura violenta, prematura… Incominciò ad arrezzàrse9 un forte vento di garbino – stregato, maledetto – che portava in giro foglie secche, risonanze, creava vortici, cantilene, nenie desolate, rumori di ramaglia scardinata. Antonio riattizzò la legna e al bagliore improvviso della rossa fiamma scorse vicino al fuoco na serpe con una faccia minuta e graziosa di na cìtile10 che beffarda lo guardava: meravigliato e sbigottito rimase a fissarla a lungo… Passò del tempo interminabile e nella sua mente, davanti agli occhi si formarono immagini di giardini in fiore, perdute stagioni, profili di montagne inaccessibili, boschi impenetrabili ed infine una stella enorme che brillava posata sul Capezziello11 in mezzo all’erba umida di brina… Poi qualcosa lo distrasse: udì dei passi nelle camere di sopra – cadenzati, pesanti, strascicati, e come in un dormiveglia si mosse da estreme lontananze e salì a vedere nella prima stanza – quella da letto… Davanti alle immagini dei santi disposte in fila sul comò c’era la nonna che accendeva un cero con addosso l’abito nero di quando l’avevano seppellita, la coroncina tra le mani… «È il vento, non aver paura…» gli disse a bassa voce, «che fa sbattere le
Angolo. Dentro un buco sotto la fornacella. 5 Dappertutto. 6 Nero come l’inchiostro. 7 Strilla. 8 Un tavolo, qualche sedia, un vestito, una culla. 9 Ad alzarsi. 10 Una bambina. 11 Colle di Castel Frentano dove ora è situata la villa comunale. 3 4
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porte e spegnere i lumi, che trascina petali e respiri lontano pe’ le ‘ngotte12 e fa cadere i santini nella polvere. Domenica sono andata alla messa del Rosario e ho portato i fiori che colsi ai miei vent’anni in una fresca mattinata di settembre dietro la cannizzata13 dell’orto di zà Cole14 quando annegò in una peschiera15 a lu Futrine16 il figlio dello zingaro cantore – e da allora son rimasta vigile in questa stanza davanti alle immagini dei santi per tenerli in ordine, non farli cadere, spiegazzare… a cercare di accendere i lumi sulla scia delle tenebre e questi picciarelli scrillati17 mi sono serviti a passare tutto il tempo dell’oblio, i lunghi anni… Ma ora non trovo più le mie pianelle consumate e non posso camminare. Ho visto sotto il letto, dentro l’armuà,18 dappertutto… Ma niente… Mi hai lasciata sola nella casa grande per tutto questo tempo e dai rumori di passi per la strada attendevo il tuo ritorno. E tu lo sapevi che ero sola nella stanza, seduta davanti alla finestra in attesa trepida – ma mai riuscivi a ritornare, ad entrare dentro, a vedermi, a salutarmi…». La nonna mise uno scialle viola sulle spalle, si legò la mandusìna19 alla vita e pose il fazzoletto sopra il capo forse per uscire – incominciare un viaggio – e sul suo viso delicato c’era qualcosa come un desiderio di pianto, una fosforescenza dorata di meriggi estivi trascorsi davanti alla porta a sferruzzare, a cercare nella solitudine dell’ora un fruscio tra gli alberi d’acacie, un disegno delle foglie, un’immagine sui rugosi tronchi che le dessero un segno, una rivelazione del suo destino doloroso di madre e di donna… Antonio si ritrovò bambino fra l’erba della frana – a correre leggero sui sentieri fino a Cacabbùnde,20 a guardare attento i nidi sopra i rami, a cercare di catturare lucertole col cappio. Lo seguiva il suo cane ricciuto, basso, il più brutto fra i cani del paese e il più amato. Da lontano un suo compagnuccio con il volto accaldato e le mani piene di ciliegie gli urlava Aspiette nu mumente! Nen corre accuscì forte! Damme na mane! 21 Luoghi assolati dove i contadini di solito piantavano la vigna. Recinzione fatta con canne. 14 Zia Nicoletta. 15 Vasca piena d’acqua che veniva utilizzata per annaffiare ortaggi. 16 Feltrino. Ruscello che scorre a valle di Castel Frentano. 17 Fiammiferi strofinati. 18 Armadio. 19 Grembiule. 20 Soprannome di un contadino. 21 «Aspetta un momento! Non correre così forte! Dammi una mano!». 12 13
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Quel giorno dormì a lungo sulla paglia della stalla in un tanfo dolciastro di orina, mosche, belati teneri e sonnosi. A mezzogiorno cessò la gran calura e avvertì dentro le nari un odore di muschio, di pioggia… In lontananza un sentore di burrasca batteva su una terra avara, riarsa… Una voce lo chiamava accorata ma lui non riusciva più a tornare. La sera avevano portato via i mobili da casa; rimanevano poche cose: delle sedie, un candeliere, qualche ritratto appeso alla parete dei parenti perduti per le Americhe – e gli restò un rimpianto, una nostalgia che lo seguì per tutta la vita di quelle poche cose misere, perdute: l’odore di farina che aveva lo stipo, il rumore dei tarli nell’armadio – il profumo delle mele e delle noci racchiuse nella madia. In un pomeriggio in cui correva felice a scompigliare i fiori gli avevano portato via una piccola musica domestica fatta di scricchiolii, di aromi, colori ineguagliabili… La nonna esclamò sovrappensiero: «Ora devo andare. Se ce la farò, tornerò nella mia vecchia casa ammonde pe’ la terre.22 Tieni in ordine la stanza. Chiudi la notte le finestre ché la luce della luna fa ammalare, diventare lupi, dolere le ossa, fa avere visioni di santi e comete. Quando tornerò – se tornerò – ti racconterò le storie di una volta. Va’ a vedere ora cosa fa tua madre nell’altra stanza, se ha bisogno di qualcosa…». Rimase un po’ ferma nel riquadro della porta esitando, mormorando una preghiera tra le labbra, una confusa frase come chi sta china su un bimbo addormentato… Dal soffitto cadeva una polvere leggera di primavera tenera, una muffa verde di astri in estinzione… E si avviò piano per la scala esterna come se non pensasse più a lui, a lu quatràle23 che spartì con lei i giorni della vita, i mille segreti, le paure, i palpiti di un essere ansioso e indomito… Antonio, confuso, si recò nella stanza a fianco e qui vi trovò la madre che perse da ragazzo immersa nelle faccende quotidiane. «Ci sarà una trasformazione in tutto, sposteremo i quadri, il buffè il controbuffè, cambieremo posto alla specchiera, non far caso al disordine, ai topi, ai rumori che si sentono dovunque…». Gli disse: «Finirò di mettere in ordine una buona volta». Sistemava le sue cosucce dentro una scatola di cartone con scritto sopra SEA MAIL. Spazzolava il bell’abito festivo di velluto azzurro pieno di trine e naftalina. «Mi sono addormentata un poco e i giorni sono volati via, e gli anni, così sono rimasta ad aspettare…». Dal balcone semiaperto, sotto la loggia, si sentivano le rondini chias22 23
Anticamente così era chiamata a Castel Frentano via Orientale. Bambino.
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sose che facevano il nido… «O primavera che hai tremato un poco sui mandorli in fiore e sei arrivata ridente nella stanza a sommuovere le tende di broccato… A far volare il mio leggero corpo dalla nera terra finalmente lontano da formiche e bruchi neri…». Così andava dicendo sua madre e lui la guardava con un nodo alla gola, un tremito profondo per le membra, dentro il suo essere… «Ora va’ a chiamare tuo padre nella vigna» gli disse, «è l’ora di riunirci e stare un po’ insieme, devo fare dei dolci e tarallucci per la Pasqua, lucidare le tijèlle de rame,24 le formette pe’ le fiadòne.25 Non c’è stato tempo per niente, la pioggia dell’inverno ha sconquassato il cimitero e i trapassati sono tutti al sole ad asciugarsi e questo odore è il loro odore di oscurità profonda, di umida stagione. Ma tu non stai a sentire mai, non impari niente!». Lentamente Antonio si spostò; nella cameretta a fianco adibita a ripostiglio all’ombra di una quercia trovò il padre seduto sopra na prèula26 che attento preparava le cartucce e poi accorto le disponeva nella cartuccera… «Lo zero per la lepre, il quattro e il cinque vanno bene per le starne, il dieci per storni e tordi… Prima di morire ho fatto un sogno strano», gli disse. «Eravamo in tanti ad attraversare una cieca acqua tumultuosa. Con me c’erano tutti gli antenati: mammine, mammucce, tatà, sciori, tatoni,27 ed avevo paura. Un grande uccello sconosciuto mi volava intorno cercando di spingermi nel vortice oscuro… E ti chiamavo, figlio mio; con te vicino sarei stato più tranquillo, avrei avuto meno timore. Capivo di cadere lentamente in una voragine di tristi lontananze, in un oscuro rumore; intorno c’erano piante marcite, serpi verdi, e tante gallerie sotto le paludi. Volevo prendere qualcosa prima di annegare: il mio basco, il 1628 che tuo nonno riportò dall’Argentina, mangiare nu mòcciche de pane29 ma non ci riuscii… Domani andremo a potare gli alberelli in fondo al fosso, l’aria diventa calda e fuori si incomincia a stare bene… Dovrò preparare anche la rola,30 mi serve quel tuo letame buono di cavallo… Forse riuscirò a terminare la
Tegami di rame. Dolci confezionati con formaggio e uova in occasione della santa Pasqua. 26 Sgabellino basso con tre gambe. 27 Levatrice, nonna o anche mamma, padri, nonni, bisnonni. 28 Calibro di fucile. 29 Boccone di pane. 30 Vivaio. 24 25
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paiera31 ma ho bisogno di un po’ d’aiuto per alzare i pali. Ecco, dimenticavo una cosa che volevo da sempre dirti: dentro le mura della casetta i briganti hanno nascosto una conca di pietra e in mezzo alla cama32 riposano tanti marenghi d’oro. I briganti vivevano in quei posti, il tuo bisnonno fu uno di loro e morì in carcere perdendo la sua mappa del tesoro, la sua parte…». L’aria diventava azzurra – dietro i vetri appannati delle case qualche figura incerta, tremula vacillava ai riflessi caldi, dorati de la spera33 e suo padre parlava sereno. Sul suo volto pacato, bello, si stendevano le prime ombre del crepuscolo come un presentimento estremo, una tranquillità di erbe e di radici, una beatitudine profonda, misteriosa, fatta di odori, acque chiare, pampini di vigna, semi celati nella terra oscura ma pronti a germogliare, al primo sole… Una voce chiamò concitata Antonio. Era il nonno Sebastiano, alto, robusto che si stagliava sulle prime ombre. «I cavalli hanno rotto lo staccato34 e sono scappati abbàlle a le pingiàre.35 Dobbiamo riacchiapparli quei dannati…». Andarono veloci, non c’era nessuno in giro. Le strade deserte. Correvano affannati per le accorciatoie tagliando diritti in mezzo ai campi coltivati a grano saraceno; sfiniti arrivarono al vallone della selva dove, giù in fondo, si erano riparati i cavalli. C’erano tutti: lo stallone nero, le cavalle storne e baie, le roane… Alla loro vista il nonno si tranquillizzò e disse: «Sediamoci un po’ a riprendere fiato, me tené a scì l’àneme da ‘mbètte».36 Dopo qualche minuto, calmato il fiatone e contento per le bestie ritrovate, cominciò a raccontargli dei giorni errabondi, delle fiere, di come una notte la tormenta lo sorprese a Tulète37 e dovette fermarsi a dormire in una grotta… «Ero molto giovane allora, portavo una trentina di cavalli, finimenti ed altra roba di selleria ad un amico di mio padre a Napoli. Il mio garzone mi parlava spesso di un tesoro nascosto in una grotta e mi indicò il punto sul monte Amaro, ma non volle seguirmi nella cerca per paura perché a guardia dei marenghi stazionava notte e giorno un diavolo mostruoso così temibile che nessuno era mai uscito vivo dall’impresa. Mi fermai in una locanda, c’erano donne allegre, cibo buono e vino. Deposito per foraggio. Cassula, rivestimento dei semi di cereali. 33 Lumino a olio. 34 Steccato. 35 Case povere. Costruite con terra e paglia. 36 «Mi stava uscendo l’anima dal petto». 37 Ateleta. Paese di montagna in provincia di Isernia. 31 32
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Restai a ballare e a bere fino a mezzanotte. Il cantiniere, vista l’ora tarda, dovette chiudere la bettola per via dei Riferi38 e dei ladroni che giravano di notte in quelle zone ad impaurire i cristiani, aggredire i poveri viandanti… Uscito fuori radunai i cavalli e mi avviai per il bosco cantando una canzone, quella del figlio del re ucciso a tradimento, che ti insegnai da ragazzo, quando ad un tratto un tuono orrendo fece tremare l’aria, il cielo si spaccò in due e uscì nu silùstre39 che si trasformò in un uomo altissimo, verde. Puzzava di zolfo e ammoniaca. Aveva un mantello nero, le scenne gne nu scarapenge,40 un paio di belle corna d’oro sulla testa. Io era così ‘mbecate41 che non capivo niente. Pensai di rubargli le corna scintillanti. Lanciai il cavallo e l’afferrai per esse. Di colpo con un boato si trasformò in un veccio42 nero; lo legai rapido al collo con una fune e lo trascinai appresso a me per i valloni. Il caprone si lamentava e piangeva e mi diceva pietoso: Famme ì’, famme ‘sta grazie. Se m’asciuòie te facce ricche.43 E io: Daràs da me44 crapòne, brutta bestie. Dumane ze ne parle… Quella notte attraversai il bosco e il giorno dopo ammazzai il veccio – lo feci arrosto – ma la cosa più strana fu che quando lo spaccai a metà non trovai il suo cuore. Nel petto c’era un buco con una pietra nera dentro. Ma a mangiarlo era buono, na licchinìzie,45 anche se un po’ cognoso46 per l’età. Dopo questa mia avventura lasciai perdere il tesoro e continuai il viaggio… È ora di riavvicinarci a casa. Prendi Rondella47 per la capezza, gli altri seguiranno…». E così fece. I cavalli incominciarono a seguire docili; i loro zoccoli affondavano sul terreno soffice e una fragranza di menta e di giunchiglie si sparse intorno a loro. In quella sera di marzo camminavano insieme nonno e nipote sotto le prime stelle, come un tempo lontano, in una brezza di dimenticanza e di abbandono. Dopo un bel tratto di strada compiuto in silenzio si parlò di nuovo di fiere e feste dove uomini si attorcigliano serpenti al collo e alle mani. Delle fate che rubano i cavalli nelle stalle per portarli al loro ballo Spiriti maligni. Lampo. 40 Le ali come un pipistrello. 41 Ubriaco. 42 Caprone. 43 «Fammi andare, fammi questa grazia. Se mi sciogli – mi liberi – ti farò diventare ricco». 44 Forma di scongiuro. Via da me. 45 Leccornia. 46 Stopposo. 47 Nome di cavallo. 38 39
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e intrecciano le code e le criniere. Degli antichi abitanti del paese che possedevano un cappello che rendeva invisibili e conoscevano un’erba che faceva restare sempre giovinotti. Come una volta in una tenda a Castalnóve48 uno zingaro esponesse un cane con tre teste: Cèrebo, che sputava fuoco e lampi dalle bocche… A poco a poco si riavvicinarono a casa, rimisero i quadrupedi al sicuro nello staccato… «Entriamo dentro, domani dovrò spandere alle Morge49 le pelli di vaccina. Ci sarà da fare. Entriamo…». Entrarono. Attraversarono la cucina ampia e si diressero verso la camera da pranzo da dove veniva un vociare, un rumore di posate e di bicchieri. Nella enorme sala illuminata da lumi e da candele c’era una gran folla seduta dietro alla tavolata. Incredulo, Antonio guardò intorno e vide tutti i morti intenti a banchettare: la mamma, la nonna, papà Nazzareno, Radovan lo slavo, Raissa, Federico il comandante, Cristina la bisnonna, zio Giuseppe morto a venti anni, Carmine D’Amico il gaucho temerario, un bambino di due anni che giocava con un cardellino appollaiato sopra un dito, zì Peppe de Bbriéle, zè Peppe de la Guardie, le cugine della nonna Ada e Maria, Zia Assunta, zà Fluména, nonna Carmela, Camille lu ferracavalle… Il nonno Sebastiano andò a sedersi tra di loro mentre Dante il compare teneva desta la compagnia raccontando con la sua bella voce sonora una storia di antichi naufragi, di battaglie perdute… Alla fine i convitati alzarono i bicchieri per brindare e lo zio Gildo – come in segreto – da sotto la sua ampia giacca di bandista cacciò il clarino. Nonno Domenico prese la ddù botte50 appesa al muro e incominciarono la musica… Lentamente i suoni si sparsero in giro per l’aria ferma immota. Prima flebili, incerti, poi più decisi, affiatandosi tra loro in un saltarello squillante, turbinoso… Dopo un po’, quasi bruscamente, i musicanti cambiarono ritmo, tono. Dagli strumenti uscirono delle note in minore – cupe, dolorose e la voce di zio Giappe cominciò ad intonare la passione:
Padre nostre piccirille va cantènne Bonatrille
Castel Frentano. Località di Castel Frentano. 50 L’organetto. 48 49
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Bonatrille va cantènne Jesù Criste va murenne…51
Una passione arcaica, struggente, dolorosa.
Va murenne pe’ la mercè che ce libbère da ste pene Da ste pene vulème ‘scì’ ‘Mbaradise vulème ì’… Lu Paradise è na bella cose chi ci va ci-à repose…52
Parole strazianti che sarebbero andate e venute dalla terra al cielo fino alla fine dei secoli
A l’Umbèrne a l’Umbèrne ce va la mmàla gente e nen serve arependì dope ch’entrate ‘nze po’‘scì’…53
Fino a quando il verdetto finale verrà emesso dal più alto Tribunale ad accordare il premio o il castigo alle inquiete anime errabonde…
Padre nostro piccolo e grande fu acchiappato da li bbriganti a trentatré anni fu acchiappato e sulla croce fu inchiodato… Sopra alla croce chiama gende Chiama Giuvanne ch’è suo parende
51 «Padre nostro piccolino / va cantando Bonatrille / Bonatrille va cantando / Gesù Cristo va morendo». 52 «Va morendo, e per la sua grazia / chiediamo che ci liberi da queste pene / da queste pene vogliamo uscire / in Paradiso vogliamo andare / Il Paradiso è una bella cosa / chi ci va ci riposa…». 53 «All’inferno, all’inferno / ci va la mala gente / e non serve pentirsi / una volta entrati / non si può uscire».
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San Giuvanne stà pe’ ì’ Iesù Criste stà a murì’…54
Antonio sentì in quella voce fluttuante, in quei suoni disorientati nell’aria stregata, qualcosa di irrevocabile, fatale. Ebbe come un pugno in mezzo al petto, una scossa, una folgorazione e di colpo capì com’essi fossero rimasti in attesa, come avessero continuato la loro vita al di là della vita. Come vagassero per sempre in un cieco universo nostalgico. Come aleggiassero ancora tra le persone, nei luoghi da loro amati, cercando di squarciare almeno una volta, per un breve attimo, la loro intensa, suprema solitudine. L’organetto e il clarino continuavano la sarabanda funebre in toni sempre più acuti, lamentosi, stravolti. I morti si alzarono dal tavolo, si presero per mano facendo circolo e con voci dissonanti, in coro tra loro, recitarono:
‘Mbaradise vulème ì’ da ste pene vulème ‘scì’…55
Mentre la casa cominciò a sgretolarsi dalle fondamenta, la frana lentamente inghiottì quella danza, le parole, l’acuta passione dei defunti per le persone amate, per le cose lasciate nel tempo dei vivi. E tutto si confondeva sempre più con il selvaggio, rauco strepito del vento, rimasto definitivamente solo a danzare sulle ossa del paese devastato in quella lontana, triste notte di cento anni fa.
54 «Padre nostro piccolo e grande / fu preso dai briganti / a trentatré anni fu catturato / e sulla croce fu inchiodato / Dalla croce chiama gente / chiama Giovanni ch’è suo parente / S. Giovanni sta per ire / Gesù Cristo sta a morire». 55 «In Paradiso vogliamo ire / da queste pene vogliamo uscire…». La Passione – Canzone che trattava della Passione di Cristo e veniva cantata nelle nostre campagne nella settimana santa. Accompagnata dal suono della ddù botte (l’organetto). Di solito i cantori erano contadini poveri che, con le offerte ricevute (sempre in natura), riuscivano a portare qualcosa da mangiare alle loro famiglie. Quindi questa «Passione» diventava l’emblema anche della loro passione, della loro condizione di gente misera e sfruttata. Da qui l’accento di profonda, drammatica, straziata commozione che aleggiava nel canto.
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SCIANGAI L’inverno era stato particolarmente rigido e nevoso in quei lontani anni delle eclissi e sembrava non dovesse avere mai fine. Per le strade silenziose e deserte da giorni non passava anima viva, solo l’alito freddo di un vento polare ammucchiava davanti alle porte, in mezzo alle strade, refle1 di neve così alta che gli abitanti rinunciarono ad uscire fuori per spalarla, aprirsi un varco… Il primo sabato di gennaio, la mattina, un sole malato ed anemico occhieggiò un attimo tra i tetti delle casette del paese che rischiavano di sfondarsi per l’eccessivo peso della bianca coltre ma randagi fiocchi cristallini tornarono subito a coprirlo. Gli amici di sempre, fattisi coraggio e usciti fuori, si riunirono alla cantina di ‘Ndonie de Cunzìe ammònde pe’ la terre,2 per parlare un po’, farsi qualche bicchiere, abbrustolire ceci nell’enorme camino sempre acceso. La cantina era composta di un solo stanzone con le volte a botte, lunghi tavoli di legno e panche, una fila di vascelli di rovere lungo le pareti e mille ripostigli. Davanti la porta, fuori, c’era sempre una frasca di ulivo sventolante e due bottiglie appese all’architrave con vino bianco e rosso dentro. Inoltre, era luogo fascinoso, teatro di gioie e di tristezze. Quanti racconti nei dimenticati giorni si innalzarono nell’aria fumosa, satura di vino! Quante canzoni e pianti di ubriachi! nostalgie di mondi lontani, di vite perdute… In quella cantina così rinomata si usavano fare pure i pranzi funebri, lu cunzòle.3 I parenti dei defunti, dopo averli accompagnati per l’ultimo viaggio al cimitero, al ritorno vi si fermavano affondando il loro dolore in piatti di brodo grasso e bollente, in bicchieri enormi di vino, arrosti profumati; e si consolavano veramente davanti a tanta pappatoria. A tarda sera, riuscivano rinfrancati per le vie dopo un banchetto così sostanzioso,
Neve alta ammucchiata dal vento. Anticamente così era chiamata a Castel Frentano via Orientale. 3 Pranzo funebre. 1 2
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spesso accennando qualche motivo di speranza perché: Chi more va in pace e chi reste ze dà pace…4 Intorno al grande fuoco erano riuniti Sebastiano, suo padre Federico, Giuseppe de Bbriéle, Rasciato e qualche altro amico e tra un bicchiere e l’altro parlavano del fieno che era finito, delle bestie che strillavano per la fame e rompevano le capezze, di come i cavalli sfondassero le porte delle stalle e poi storditi dal biancore ai aggirassero per le are5 a raspare increduli la neve con il muso e gli zoccoli spaccati; e si chiedevano perplessi fino a quando potesse durare ancora quella neve, quella disperazione bianca, senza fine. Federico che fino allora era stato silenzioso disse che per saperne qualcosa di più a riguardo bisognava interpellare Rocco l’astrologo mendico che viveva a Pretarossa6 e così fecero. Uscirono nella tormenta alticci per il vino bevuto, irritati per l’incessante, freddo turbinio: Nenghe fitte fitte povere e isse le puviritte…,7 escalmò zè Peppe de Bbriéle; gli altri non ebbero nemmeno la forza di rispondergli. Dopo un bel tratto di cammino percorso bestemmiando e inciampicando nella neve alta fino alle ginocchia arrivarono alla casupola del veggente e cosa strana trovarono l’uscio aperto. Entrati dentro videro Rocco seduto in un cantuccio davanti al caminetto spento con su le gambe il libro del Potere.8 Chiamatolo e non ottenuta nessuna risposta incominciarono a dirgli: Te sé rentanàte dentre gne nu cuccuvìcchie? Che fié, duòrme ritte gne lu cavalle? Liègge a uòcchie chiuse?...9 Ma lui non poteva più rispondere alle facezie degli amici, né sentirli; ormai allontanatosi per sempre in un mondo segreto di ghiaccio e fredde stelle. Lui, che aveva previsto sempre con precisione tempeste e terremoti, il destino di tanti nati del paese non aveva saputo leggere sul grande libro della sorte il suo ultimo viaggio, la sua morte. Non potettero seppellirlo, né cavargli un fosso al cimitero per la terra ghiacciata, diventata dura come il ferro e gli amici lo lasciarono così seduto davanti alla soglia della sua pingiara10 a vegliare le terre intorno, gli alberi contorti, «Chi muore va in pace e chi resta si dà pace». Detto popolare. Cortili delle case di campagna. Aie. 6 Pietragrossa. Località di Castel Frentano. 7 «Nevica fitto fitto poveri loro i poveretti». Detto popolare. 8 Libro del Potere o del Comando. Libro magico antico che il popolino riteneva fosse in possesso dei maghi. Conferiva loro poteri incredibili. 9 «Ti sei rintanato dentro come un ghiro? Che fai, dormi in piedi come un cavallo? Leggi ad occhi chiusi?». 10 Casa povera costruita con terra e paglia. 4 5
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le silenti distese innevate, come la statua di un vegliardo antico messo a guardia davanti la porta di un sepolcro. Come Dio volle passò quel lungo periodo di pena e di sconforto dove spauriti banditori, usciti dalle cripte, annunciavano l’ira dei lupi discesi a far razzie e legnaiuoli esuli portarono notizie, fabule tristi di boschi in fiamme, orsi infelici, agnelli dispersi nelle forre, perduti negli anfratti. Intorno era già rinata tutta l’erba nuova, le bestie tornarono ad ingrassare e la muta rassegnazione iemàle11 aveva fatto fatto posto sui volti della gente ad un’allegria pacata, salita faticosamente dai segreti meandri dell’anima. I gesti fino a qualche giorno prima torpidi, esausti, avevano ripreso una vivacità inattesa, un’elasticità infantile, briosa. Ora, in quel tempo avvenne che Ulevio il vecchio riportò da Napoli dieci tavole icone acquistate da Enrico Kemper mercante di Odessa per due pezzi d’oro e quando, tornato una sera all’improvviso e riunita tutta la famiglia alla luce di lumi e candele, svolse le pezze di lino che proteggevano i dipinti, fu come un miracolo improvviso: un fulgore unico, accecante invase la stanza e riverberò bagliori d’oro sulle vecchie mura. I familiari attoniti guardarono quelle antiche tavole uscite dalle mani dei maestri russi: c’era l’Arcangelo Michele, S. Giorgio sul suo cavallo che trafiggeva il demone, Cristo pantocratore, S. Anna, ma la più fulgida di tutte era quella dolcissima, misteriosa, purissima raffigurante la Vergine Maria con in braccio il suo ricciuto Figlio che la fissava e la fissava per l’eternità intera con infinito amore. A tale visione le donne caddero in ginocchio in preghiera: Raissa, Cristina, Maria, Assunta avevano le lagrime agli occhi. Gli uomini di casa fissavano ammutoliti, esterrefatti i santi, la loro segreta patina di luce. Occulto luccichio del passato, tepore di lampade votive, recinto per le anime domestiche, umile speranza nell’abbaglio di stagioni approdate in fossi di calcina… Sebastiano ricordò per sempre nella sua breve vita quella sera tarda di primavera quando, nella sua casa, arrivò il nonno con un carico misterioso, arcano che sembrava rubato agli angioli del cielo e come poi, affacciatosi fuori, sentì l’aria profumata di mentuccia e vide la luna dei matti giocare a rincorrersi nel cielo con bianche nuvolette più soffici di un respiro di un bimbo appena nato. Le sante immagini furono disposte in bell’ordine nella sala grande e lumi e candele ardevano davanti ad esse giorno e notte e una gran pace, una benedizione divina sembrava esser scesa sulla famiglia patriarcale.
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Invernale.
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Intanto si avvicinava la fiera di aprile, la più grande dell’anno, quella del Buon Consiglio. In paese incominciarono a rizzarsi le prime bettole.12 Arrivò un girovago che esponeva nella sua tenda un vitello con sei zampe e due teste. In un’altra tenda un cantastorie mostrava ai bimbi affascinati il diavolino di Cartesio che dava responsi, la pianeta – ed andava su e giù instancabile dentro un cilindro di vetro trasparente e pieno d’acqua. In uno steccato c’era uno strano essere metà uomo e metà cavallo trasformato così da un angelo di Dio per aver malmenato la sua vecchia madre. Donna Ilenia la spagnola arringava e invitava giovani e vecchi al suo casottino di legno color verde marcio col grido stridulo e allusivo di: «Virginia al bagno, Virginia al bagno. Tutti a vedere Virginia al bagno…». Quando i primi gruppi di curiosi entrarono nella stanza quasi buia, rischiarata fiocamente da un puzzolente lume a petrolio, vi trovarono al centro una vasca di zinco piena d’acqua con dentro galleggiante calmo e solitario un sigaro Virginia, lasciato lì come un segno, un messaggio, un prodigio strano che irrideva feroce le speranze erotiche dei vaccari, dei mediatori vestiti a festa, dei giovani ardenti e scomposti come gli asini a maggio quando tornano in amore. All’uscita nessuno parlò della beffa e così il via vai frenetico nel casottino verde continuò fino a sera: quando il donnone esausto chiusa la porta, con voce rauca disse a tutti: «Salute e buonanotte. Virginia ora va a dormire!». E si allontanò per sempre in altre ionosfere. Nell’animo di molti rimase un disagio, un subbuglio. Si parlò per molto ancora di questa Virginia seduttrice esperta, donna chimera, come di un essere vivo e palpitante dalle movenze di giovenca, dai fianchi voluttuosi e i dolci occhi. L’inganno durò cosciente, ostinato tra i paesani per tutta la vita e il racconto della Virginia al bagno che un giorno videro nella loro giovinezza fu tramandato ai figli con le memorie di famiglia. Sorte diversa ebbe il venditore di polvere per pulci che aveva messo la sua bancarella al largo della Concezione con scritta sopra a bei caratteri gotici di un rosso fiammeggiante ARNOLFO MEDICO DI VETERINARIA ANIMALE E UMANA ALCHIMISTA IN PROPRIO. Vendeva le sue scatolette con dentro una polvere biancastra, farinosa 12 Tende che si alzavano all’aperto in occasione di fiere paesane; sotto di esse le persone potevano rifocillarsi mangiando fagioli con le cotiche, porchetta, rane ecc. e bere abbondantemente vino brindando a turno per tutti i presenti e, quando alla fine le menti erano inebriate, l’ultimo brindisi veniva lanciato in coro: «Alla salute della madonna del Buon Consiglio». In questa occasione era costume mangiare le mènele tose cioè mandorle fresche.
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ma, quando gli chiedevano: «Come z’adòpre?», lui rispondeva con la sua bella parlantina dell’alta Italia: «Poi ve lo dico». Alla fine, esaurita tutta la mercanzia, ad un’ennesima domanda rispose: «Quando vi sentite pizzicare, catturate la pulce, apritele ben bene la bocca e velocemente fatele cadere dentro un po’ di polvere. Questa morirà subito fulminata. Senza soffrire. L’effetto è garantito». Il pubblico dei mugicchi e dei cafoni, privo di spirito, sentendosi imbrogliato, deriso ingiustamente nel suo reale, doloroso problema di parassiti e affini, catturò lo sfortunato dottore alchimista e gli fece mangiare tanta di quella polvere per pulci che non si sa se in seguito sia morto avvelenato perché fuggi velocemente dal paese e non vi fu più visto da nessuno… Così andavano le cose in questi infelici luoghi, in questa contrada ostinata ed antica perduta tra frattoni di ortiche, muraglie di spinosi, in errabondi anni di volpi e di ghiandaie… La vigilia della fiera arrivò Solander il re degli zingari con un carico di cavalli così belli da far ammattire i paesani amanti degli equini; ma su tutti i quadrupedi spiccava superbo uno stallone bianco di razza araba: pare fosse stato di proprietà dei discendenti del Profeta. Era così bello che una vera folla faceva a gara per vedere i suoi appiombi perfetti, il garrese giusto, il collo muscoloso, la testa finemente cesellata. Solander era un vecchio alto, dai lunghi capelli bianchi e gli occhi come due tizzoni accesi sul volto bruno, demoniaco. Decantava le lodi del destriero, le mille virtù, le capacità miracolose. Di come il cavallo fosse in grado di capire la lingua degli umani e sapesse rispondere a tono con gli zoccoli alle domande poste. I paesani concitati ponevano mille questioni, incomprensibili problemi, rilievi astuti e Solander beffardo li cucinava a fuoco lento. Tra gli spettatori c’erano pure Sebastiano, il padre, il vecchio Ulevio e tutta la sua tribù di parenti ad ascoltare. Il re degli imbonitori beveva come un dromedario il vino da una conca13 ed instancabile parlava nella sua strana lingua esotica, frastiera14 quando in mezzo a tanti notò quel giovane con lo sguardo temerario. Preso da un impulso irresistibile, dal suo amore per il gioco e per la sfida urlò, convinto che era impossibile farlo, a voce alta ed ebbra: «A chi è capace di caregar questo cabaio sulla schiena, di sollevarlo dalla tierra puede tenerselo 13 14
Vaso di rame o di terracotta di forma cilindrica, per portare e tenervi l’acqua. Forestiera.
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senza cacciare un baiocco né un dinero!».15 Sebastiano sentì il sangue tremargli nelle vene, un buco nello stomaco. Lentamente, in silenzio si fece largo tra la folla che di colpo ammutolì. Molti conoscevano la sua forza e il suo coraggio. Suo padre Federico cercava di trattenerlo sapendo come il destino si accanisca a volte e spezzi e muti il tempo delle cose ma non ci fu niente da fare. Arrivato vicino al re gli disse a voce alta: «Tu le sé ditte ‘nnànze a tutte e ‘ndé pù aremagnà la parole».16 Solander beffardo gli rispose: «Yo tiengo una palabra sola, però se perdi questa apuesta verrai con migo a farmi el servitore».17 «Queste dapò ze vede…»,18 pensò tra sé Januccio19 ed avvicinatosi al cavallo gli si mise di fronte e lo guardò negli occhi. La bestia fremente abbassò le orecchie come volesse morderlo; lui le sussurrò sul muso: Mó te faccia avvedé chi cummann’! 20 Rapido le tirò un terribile pugno sulla testa: la bestia fulminata ondeggiò per l’aria, stava per cadere a terra come uno sterpo, una labile cometa. Il giovane veloce le si ficcò sotto la pancia e l’alzò sulle poderose spalle reggendola per le zampe e con il cavallo intontito addosso si avviò verso la sua casa. Con la coda degli occhi intanto seguiva in cielo un aquilone che una fanciulletta scalza, moccolosa inviava dietro una primavera tenera di lane e pallide giunchiglie. Verdi scarabei ronzavano dispersi nei valloni sazi di muschi e bucaneve. Ascoltò allora il vento portare intorno un piccolo fogliame verdolino. Vide le mazzemarielli 21 girare fino alle porte delle case che lasciavano segni a terra di perduti estuari, radici secche, cenere, pezzi di carta azzurra braccati fino alle ortiche che crescevano nelle crepe solitarie. Odorò aromi, balsami di un’effimera stagione caduta esausta nella densa polvere pirica della fiera. La gente restò stupefatta a tale azione e non si udì parola. Lo zingaro sul momento non capì più niente ma non appena si rese conto di aver perso la scommessa cominciò ad ululare come un lupo, a mordere 15 « A chi è capace di caricarsi questo cavallo sulla schiena può tenerselo senza cacciare un soldo». 16 «Tu l’hai detto davanti a tutti e non puoi ritirare la parola data». 17 «Io ho una sola parola ma se perdi questa scommessa verrai con me a farmi il servitore». 18 «Questo si vedrà poi». 19 Diminutivo di Sebastiano. 20 «Ora ti faccio vedere chi comanda». 21 Vortici d’aria. Spiriti folletti.
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chi gli era attorno. Si strappò i capelli, gli abiti di dosso. Cominciò a tirare testate sulle pietre e fu preso da un delirio così furioso e travolgente che dovettero legarlo con le funi ad un palo conficcato a terra per impedirgli di ammazzare qualcuno tra i presenti e quella notte stessa, come raccontano i vecchi, morì di crepacuore. Da quel giorno la vita di Sebastiano cambiò radicalmente. Ogni suo pensiero, ogni momento, ogni attimo della sua esistenza era rivolto al cavallo incantatore d’eccezione, ma la cosa che più lo tormentava era quella di non riuscire a trovargli un nome adatto. Dopo tanto rimurginarci sopra – non avendo nessuna cognizione di geografia – decise di chiamarlo Sciangai, credendo in buona fede che quello fosse il nome di qualche antico re guerriero. L’amore, l’affiatamento tra il cavallo e il giovane era intenso, profondo. Sembravano essere plasmati da una stessa materia nobile e pulsante, che avessero lo stesso sangue, che li animassero instancabili traiettorie da compiere come misteri ereditati sui viottoli di terra. Un soffio vitale veniva lontano da secoli e millenni ad accomunarli, a renderli fratelli. Avevano le stesse visioni di praterie immense, di boschi tenebrosi, ignoti spazi, di stelle tremolanti in mezzo ad un cielo appena nato, appena uscito dalle mani di un dio generoso. Sebastiano sapeva un solo racconto che gli narrò il patriarca Ulevio quand’era bambino una notte in cui era malato e stava per morire in preda alla febbre altissima del vaiolo. Questa favola parlava di un re greco di nome Lesàndre22 e del suo cavallo Bucéfo23 che aveva un corno d’oro in mezzo agli occhi; quando questo re perì in battaglia, Bucefo volò in cielo con lui in groppa e lo consegnò alla dimora degli dei. In cuor suo sperava di avere un giorno, la stessa sorte, uguale destino. Esisteva anche una canzone che si divertiva a cantare quando era in sella: 22 23
Alessandro. Bucefalo.
Dalla Maielle ie arrive apre la porte belle ca sò gióvene e vive. Da lu Gran Sasse i’ venghe mia bella spóse e tózzele a la porta té
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ma tu t’arepuóse… Duòrme a nu giardine de fiure e ièrva fine e ie a ècche fore aspètte la matine…24
E il cavallo sembrava danzare a volte al suono della sua voce calda, giovane e commossa. Nelle sue scorribande con Sciangai lungo la traccia di giorni sereni accesi dal garbino, odoranti di lavanda, di pane croccante e tiepido, di frasche di robinie (piccoli prodigi serbati dalla sorte), spesso si fermava presso la casa dell’astrologo che era rimasto lì, dimenticato da tutti, seduto sulla soglia senza che nessuno più l’avesse seppellito. Il corpo di Rocco si era tutto mummificato e rattrappito. Dagli occhi cavi come due cavorze25 spuntavano erbe e fiori di pervinca. I suoi piedi avevano messo radici a terra, l’edera gli avviluppava le caviglie e sulla sua testa era cresciuta una fratta enorme di biancospino. Aveva un aspetto così fantastico, irreale, mitico, come un essere di altri tempi, come se fosse piovuto dallo spazio. Era diventato nel tempo la divinità selvaggia ed enigmatica di quei luoghi. Reggeva ancora il libro del Comando26 tra le mani ormai muschiose, scheletriche, ma le pagine erano state tutte rosicchiate da le surge,27 scacazzate dagli uccelli. Una sera mentre si attardava a rimirare quella composizione vegetale, quel corpo che un tempo gli fu amico ebbe come un doloroso presentimento, una fitta al cuore. Sentì ad un tratto un freddo per le ossa, gli gricilò la vita:28 una civetta lo chiamava nell’aria cristallina. «Caccamiau, caccamiau,29 passa la morte, da un pezzo è segnata la tua sorte!». Provò un brivido estremo. Nel crepuscolo dorato c’era qualcosa di oscuro, impenetrabile. Sentì di colpo come quei giorni liberi, innocenti presto sarebbero finiti: «… Caccamiau, caccamiau!». Nel luglio del 1926 in paese doveva arrivare il principe ereditario e 24 «Dalla Maiella / sul mio cavallo bianco / io arrivo / apri la porta bella / ché son giovane e vivo. / Dal Gran Sasso / io vengo mia bella sposa / e busso alla tua porta / ma tu riposi. / Dormi in un giardino / di fiori ed erba fine / ed io qua fuori / attendo il mattino». 25 Cavità, buche. 26 Il libro del Comando (vedi prima). 27 Topi. 28 Rabbrividì. 29 Suono onomatopeico che cerca di riprodurre il verso della civetta.
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nelle case, per le vie, dappertutto c’era una frenesia di addobbi, di pulizia per onorare tale storico evento, il viandante eccelso. Angiolino Lupi costruì un arco di trionfo in cartapesta a grandezza naturale e fu un lavoro così ben riuscito da sembrare proprio vero – «Come quello sito a Roma» – andava dicendo Euclide il porcaro pieno di esperienza ché una volta, tanti anni prima, era stato nella capitale a vendere maiali. L’illusione era perfetta. La mattina della festa, una giornata luminosa della piena estate, Sebastiano preparò con cura il suo cavallo. Dopo che ebbe mangiato una coccia30 di cipolla con un po’ di pane secco e abbeverata la cavalcatura, si diresse calmo al trotto lungo la via Nazionale per vedere la sfilata e il giovin signore. La folla variopinta era trabocchevole. Un centinaio di fanciulle, quasi tutte vergini, con ghirlande di fiori in capo e biancovestite stazionava ai lati della strada, inebetite e torpide come mucche al pascolo, abbagliate per sempre dalla grande luce bianca di un’estate antica al suo fulgore estremo. In mano reggevano stari31 enormi, pieni di petali di rose da buttare e buttare sotto i regali piedi. La ciambotta32 del paese, parata a festa, suonava le note della marcia reale che si spandevano solenni nell’aria elettrica, profumata. Il principe passò trionfante sotto l’arco su una carrozza tirata da una pariglia di bianchi lipizzani seguito dalle prime macchine rombanti. (Maria di Carràfa – una giovinetta ingenua – alla vista dell’erede al trono se ne innamorò perdutamente e si perse, da quel giorno, dietro un sogno irrealizzabile che l’avrebbe resa folle per tutta la vita). Egli sorrideva agli applausi, alzava la sottile mano per placare un po’ i fedeli che nel loro delirio ammirato, irragionevole, rischiavano di capovolgere l’attacco.33 Ad un tratto qualcosa lo distrasse: un cavaliere gli passò davanti tagliandogli la strada e mai aveva visto nella sua sfarzosa vita regale animale più bello. Disse agitato ai consiglieri che gli sedevano vicino: «Quello, quello, solo quello è un cavallo da re. Lo voglio!». Alcuni messaggeri regali il pomeriggio si recarono alla casa di Januccio, sepolta da macchioni di ginestre, brulicanti di ranuncoli sul tetto e fecero la richiesta dicendogli che per quel cavallo il principe l’avrebbe reso ricco, era disposto a tutto. Sebastiano rispose che il loro avido padrone poteva andare ad annegarsi in una peschiera34 e che, seppure gli avesse dato tutto Testa. Canestri. 32 Piccola banda di paese, in senso dispregiativo. 33 Si dice di carrozza tirata da cavalli. 34 Vasca piena d’acqua che veniva utilizzata per annaffiare gli ortaggi. 30 31
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il regno, non gli avrebbe mai ceduto il suo Sciangai. Quando il principe seppe la risposta, irato, pieno di disappunto, di furore autentico per questo plebeo rifiuto cominciò ad imprecare con parole poco consone alla sua sacra figura, dimentico dei petali di fiori lanciati dalle quasi vergini al suo passaggio, dell’arco di trionfo in cartapesta, della marcia reale suonata con tutta l’anima dalla ciambotta in estasi. Fece sapere da alcuni fidati messi ai paesani che mai più sarebbe passato a far vedere la sua fulgida figura a quei pezzenti, pecorai di castellini.35 Passarono gli anni, venne dalle montagne l’autunno del 1936, per le vie del paese il polverone della transumanza si era riapposato, i fuochi erano spenti. Le mandrie erano partite a svernare nelle Puglie e gli uomini con loro. Il paese era svuotato. Quell’inverno morì Ulevio il patriarca, poi Raissa e tanti altri del paese. I commerci andavano male e ci fu miseria. Grigie polveri del tempo oltre i tumoli disfatti. La mesta cantilena delle piogge. Aurore boreali sopra gli orti dei pianori freddi di pietrame e giorni grevi. Sebastiano aveva sentito dire da alcuni suoi compagni che in Ispagna – una grande terra di acque e di sorgenti, di giardini pensili, frutteti, nevai, necropoli di chitarre ed amuleti – c’era la guerra civile e chi ci andava volontario veniva pagato. Così decise di partire, di prender parte alla lotta fratricida, bere l’acqua dalla coppa amara della vita per aiutare il padre, la famiglia. E si ritrovò lui piccolo cavaliere di paese in terra straniera a combattere in una guerra che non capiva, di cui non sapeva niente, nella sierra ostile, lontano dal suo mondo, dai suoi affetti come un solitario beduino in cerca di pozzi antichi tra le dune. Con le tasche piene di fossili, lumache, friabili erbari della lontana infanzia in una quaresima di notturni geli – tremiti, flagelli dove conobbe lame e dardi, proiettili di fuoco, vigilie serbate a lungo nel segreto dei lunari, in un’allegoria di fratte di mortella, in epigrafi di boschi e fortunali. La vigilia di Natale mentre riposava a stento nel vento delle tenebre ebbe la visione della Vergine purissima dell’icona riportata a casa da suo nonno. La Madonna gli apriva le braccia come una tenera madre. Due lagrime Le solcavano le guance e gli diceva qualcosa che non riuscì a capire perché la voce era troppo flebile, lontana. Il giorno dopo all’alba grigia con i suoi compagni di plotone vide in lontananza tra le brume un cavaliere solitario su un andaluso nero ed osservava la misteriosa scena attento quando un proiettile gli trapassò il 35
Abitanti di Castel Frentano.
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petto. Sentì un forte urto ma non provò dolore. Cominciò ad avere un grande sonno come in quei tempi in cui era bambino in preda alla febbre alta del delirio. Risentì dentro le orecchie la voce profonda, carezzevole di sciò sciò36 Ulevio che narrava: C’ere na vote lu rré Lesàndre, tené nu cavalle che ze chiamé Bucéfe e quande a na guerre l’hanne accìse, lu cavalle l’ha purtate ‘ngiele…37 Allora in preda al dormiveglia si ritrovò in groppa al suo Sciangai che volava sull’erba alta della sierra, oltre i monti, in mezzo alle stelle, dentro un cielo di oscura cenere e poi ritrovava sicuro i sentieri che riportavano alla sua casa. Dopo giorni interminabili il cavallo si fermò sfinito davanti all’uscio della dimora avita: il vecchio casolare che si sgretolava dolente sotto le meste ombre della sera. Solo allora Sebastiano si lasciò cadere dalla sella stremato, esausto e si addormentò per sempre. Il vecchio Federico non poté pranzare il giorno di Natale per il baccano che faceva Sciangai nella stalla. Galoppava da fermo, nitriva, era così ’nzuppàte38 di sudore da mettere paura. Sembrava impazzito, non riuscì a calmarlo e capì che in quel santo giorno qualcosa di ineluttabile, fatale era successo. Appoggiò la testa al muro pregando e piangendo con la voce rotta disse: «Dolce Bambino nato, Signore e mio padrone allontana da me questo presagio, questo calice di fiele, questa mano fredda che mi preme il cuore…». Dopo una settimana ricevette la notizia della morte del suo unico bene, l’unica ricchezza, dell’amato figlio carne della sua carne caduto in una battaglia sanguinosa a Guadalajara… Il cavallo in quel periodo aveva circa tredici anni e senza il suo padrone diventò intrattabile. Federico era invecchiato prima del tempo per il dolore, ormai stanco non ce la faceva più a governarlo e, anche perché la bestia gli ricordava troppo il figlio, la vendette quasi per niente a un carrettiere. Passarono ancora stagioni, persone, transumanze, fuochi di bivacchi. Soffiò il vento del Nord nelle fessure delle misere casupole, nei passi di montagna, sopra i torrenti impetuosi, tra le querce… Si tagliò il fieno, il grano. Un pomeriggio di giugno, alla controra, Federico stava seduto al fresco degli alberi davanti alla sua porta ormai quasi cieco, sulle soglie del baratro estremo. Quando si sentì chiamare da una voce amica: era il
Nonno in senso affettuoso. «C’era una volta il re Alessandro che aveva un cavallo chiamato Bucefalo; in una battaglia l’uccisero e il suo cavallo lo portò in cielo…». 38 Zuppo, bagnato. 36 37
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poverello di Palena39 che gli si avvicinò per stare un po’ con lui, fare un trascorso e riposarsi dalla calura all’ombra delle acacie. Prima di andarsene e lasciarlo solo ai suoi pensieri il pellegrino gli raccontò che il cavallo del figliolo era finito a tirare la macina in un mulino, ma che dopo qualche giorno si era lasciato morire di fame e di sete senza spiegazione. Federico stette sovrappensiero per molto mentre le rondini compivano prodezze, solitari giochi sopra il suo capo curvato dagli assedi dell’ultimo solstizio che fa più matura l’aria dell’estate, poi nella nebbia della sua mente senile si formò questo pensiero: che suo figlio e Sciangai si erano ricongiunti nella terra degli avi in un mondo perfetto di verità ed amore dove potevano od avevano finalmente trovato la pace. Loro erano vissuti come un silustro40 che saetta e brilla solo una volta illuminando l’aria e i lampi sferzano il cielo anche se è immutabile: «Questa è la mia consolazione, il mio conforto». Si disse: «Così passa la vita trascinata dal suo stesso fluire, traghettata altrove dal mistero della sua fiaba antica, tenera, dolorosa che durerà e durerà eterna finché ci saranno uomini a viverla, a raccontarla…». Con la voce rauca, tremula, rotta dalla commozione, quasi sillabando le parole incominciò a cantare l’antica canzone dei Rom41 della tribù di Radovan: il motivo funebre dei nomadi… Perduti anni Eilan stagioni della dimenticanza del silenzio solo il mio cavallo m’accompagna nell’estremo limite solo il suo respiro forte mi riscalda. Il rumore degli zoccoli possenti rintrona nella notte buia sul sentiero che ai vivi non è dato calpestare. O destino! Tempestoso fiume. Eilan Qui i morti scongiurano i viventi Paese di montagna nella provincia di Chieti. Lampo. 41 Appellativo con il quale si chiamano gli zingari tra loro. Equivale ad uomo, popolo libero. 39 40
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e vietano il passaggio al viaggiatore. Eilan A poco a poco le parole si spensero in un soffio perdendosi per sempre nella immota, arida, deserta aria estiva quasi a suggellare quel giorno ormai al termine. Un epitaffio struggente, arcaico, fiorito improvviso su labbra ormai fredde – sorto dall’abisso di un’anima affranta, dalla polvere di secoli immemori ed oscuri che nei giorni a venire mai nessuno avrebbe più ascoltato, ricordato, né cantato. Quella notte del giugno 1940 per la strada echeggiarono i passi cupi e cadenzati delle prime truppe tedesche. Dopo un po’ che il campanile ebbe battuto per l’ultima volta i cento colpi passarono carrarmati e camions. Rumori di aeroplani e rossi bagliori solcarono il cielo… E una bufera, un impetuoso vortice di morte e di tragedia devastò per sempre il piccolo paese, l’Europa tutta…
Da Il fuoco della Gehenna (1998)
CON AMORE ETERNO L’inverno aveva finito il suo corso a Castelnuovo, nonostante un vento rabbioso accampato ancora sui tetti scoperti, i rimasugli di neve nei botri, e per i campi la disperazione dei tronchi d’ulivo scoppiati dal gelo. Si intuiva, dallo spostarsi delle ombre a mezzogiorno, un arco più lungo di luce, un giro del sole più ampio e più vicino alla terra. Ad ogni ora, ma specialmente al tramonto, per le viuzze del paese, strette, misteriose di aliti, guizzi, respiri, i lamenti delle prefiche ricordavano che la morte più volte aveva bussato sulle porte marcite da anni di intemperie e di come si fosse introdotta furtiva a carpirne le anime più deboli, inermi. Tutto spirava desolazione ed abbandono: le strade fangose, i muri scrostati, la chiesa, ormai senza porta, che dava rifugio a civette e a qualche cane randagio, il campanile senza più campana distrutto una volta da una folgore improvvisa, scaturita dal cielo sereno come un monito, un presagio di ben più gravi sciagure. Padre Demetrio era arrivato giovane, pieno di buona volontà e di spirito riformatore in queste contrade pagane, ma – con il passare degli anni – la sua anima si era ingrigita, la sua grande energia affievolita a contatto con l’abulia ancestrale, la demenziale progenie, e la sua fede aveva subito un’irrevocabile metamorfosi. I suoi discorsi domenicali dal pulpito alle poche anime vaganti e torpide tra le navate cadenti non erano più legati ai testi sacri evangelici o alle rivelazioni profetiche, ma improntati ad un panteismo fantastico. Spiegava, in un tono ispirato, di un universo agreste popolato di dei e demòni, apparizioni di anime morte dannate, di silfidi e geni abitatori di acque. Passava le sue eterne giornate a parlare con gli alberi che gli davano a volte responsi, oracoli sui raccolti dell’anno, sul destino degli ultimi nati, o ad accudire con pazienza materna i suoi gatti grandi e pelosi, che lo seguivano dovunque, con andare levigato e indolente, più fedeli della sua ombra. In occasioni funeste, persone degne di fede raccontarono che avessero parlato e profetato di eclissi e comete, della fine imminente. Le antiche famiglie erano state sommerse dai nuovi arrivati: falascià africani, buzzurri, culachi di tutta Europa primitivi e violenti che turba-
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rono le regole del posto, rendendo la vita impossibile. Si erano spostati in seguito a guerre, pestilenze e miserie scoprendo questo angolo intatto, ritenendolo buono. Nessuno riuscì a contrastare la loro avanzata, l’aggressione incessante. Dei primi abitanti sopravvivevano ancora Flegetanis lo zograf, il pittore di icone, Munevera, votata alle arti magiche, forse al demonio, e sua figlia Alkemar, di grande bellezza ma di cervello malfermo. Dormiva fin da bambina nella stalla – tra capre e mucche – la madre non riuscì mai a convincerla, nonostante punizioni crudeli, a coricarsi in un letto decente o a portarla dentro casa. La fanciulla per tutta la vita si cibò – con avidità di animale erbivoro – di biada e cicoria selvatica; e Jeremias Israel, l’ebreo arrivato qui dalla lontana Polonia, cacciato via dai pogrom, da carestie e da tutto ciò che di oscuro e malefico perseguitò la sua stirpe da sempre. Flegetanis era un grande vecchio. Si presentò in giorni lontani di un pomeriggio di luglio con due cavalli carichi di tavole e bauli e quando Rocco, il banditore, lo vide sbucare alla prima curva, suonò il suo corno d’ariete, gettando in subbuglio la gente. Gli uomini uscirono per la strada principale, baccaiando, alzando nuvole di polvere: chi afferrò un tragno1 per riempirlo d’acqua credendo che il paese andasse a fuoco, chi raccattò falce e bidente per respingere un ipotetico attacco… Altri, bestemmiando, impugnarono torce infuocate da gettare contro le cavallette, se si fossero presentate ancora a distruggere il sofferto raccolto. Le donne starnazzarono come anatre, non sapendo che fare, esclamarono con voce acuta, gemendo a più riprese, gli occhi rivolti al cielo silente: «Ohi mamme! Ohi mamme!». La frenesia si placò quasi subito all’apparire dello strano personaggio. La curiosità fu breve. «È un astrologo che passa per vendere pianete!» – esclamarono delusi e lo lasciarono indifferenti al proprio destino. Abbandonarono gli attrezzi per strada e continuarono a sognare, nel meriggio di luglio, di fate che ballavano sotto l’albero di noce e di caproni che si rincorrevano lascivi nell’ora funesta del panico estivo. Padre Demetrio udì, nel dormiveglia agitato, un rumore di zoccoli sotto il balcone. Si alzò come un sonnambulo dal suo catafalco, si affacciò sudato, stupito, inerme, la tonaca aperta sulle cosce bianche e pelose, e lo interpellò audace, con un tono che voleva essere austero: «Viandante, nel nome di Pan, signore dell’ora, chi sei? Perché disturbi le cicale che gemono? Sei uomo o spettro vagante?». Flegetanis non lo degnò di nessuna 1
[Secchio da pozzo.]
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risposta e proseguì imperterrito per il suo cammino pungolando le bestie. Il prete credette di aver avuto un’apparizione a causa di una lenta, faticosa digestione dovuta agli asparagi cotti con l’uovo; e se ne tornò ebetemente sconcertato, vacillando a tentoni a svaccarsi sul letto, borbottando tra i denti «Libera nos a malo!». Qualche settimana più tardi alcuni ragazzi raccontarono in giro che il vecchio viandante – l’astrologo – aveva costruito ai pantani una pingiara di paglia e argilla, lavorando giorno e notte, e si era stabilito in quei luoghi malsani dopo aver venduto, con una breve trattativa e a un miserevole prezzo, i suoi magnifici cavalli a Markos lo zingaro cantore. Gli anziani dedussero quindi, dopo gutturali – Che mmó, Che d’è – ed altre arcaiche esclamazioni di commiserazione, che lo straniero non aveva più intenzione di ripartire per proseguire il suo viaggio. Invece la comparsa di Jeremias Israel avvenne in maniera più teatrale e inquietante, durante l’eclisse solare prodottasi nel giugno del 1770. I mugicchi e i cafoni stavano tutti riuniti all’aperto. Quel mattino si era cominciato presto a mietere il grano con buona volontà, nel caldo terribile. Verso le nove, dopo aver mangiato pane e cipolle e bevuto a sazietà vino oppiato, ci fu una sosta. Si sdraiarono come caméli un attimo a terra sotto una grande quercia fronzuta per riprendere fiato. Il più vecchio, alzando lo sguardo al sole per stabilire l’ora del giorno, notò quasi per caso che andava scurendosi e ne mancava un bel pezzo. Il terrore fu grande, la fuga precipitosa, irragionevole, cieca, chi si pisciò addosso, chi si nascose in mezzo al letame, chi nei pagliai, chi si buttò nel pozzo. Nel cielo apparvero le stelle. Le galline tornarono a dormire sul trespolo, i cani ulularono all’aria con la bava alla bocca. I buoi sconcertati si coricarono di nuovo, pesantemente, sui loro liquami. Zì ‘Ndonie, malato dalla nascita e posseduto da dieci spiriti ostili, cominciò ad urlare dalla sua finestra: «Ha menùte la fine! La cataratte de lu ciele z’à chiuse! Povere e nnù! Povere e nnù! Pietà!». E si buttò in mezzo ai maiali. Quando le stelle impallidirono e un po’ alla volta il sole, intatto e salvo, tornò al suo fulgore estivo, gli scampati alla momentanea fine del mondo, bianchi come stracci, tremanti, sbandati e perduti come pecore, udirono una voce alta e acuta innalzarsi per l’aria immobile e rovente: «Benedetto Tu, Signore Dio nostro, Re del mondo, che formi la luce e crei le tenebre; fai la pace e crei ogni cosa. Tu illumini la terra e coloro che vi abitano. Tu rinnovi ogni giorno, sempre, l’opera della creazione…». E videro in mezzo alla grande ara uno straordinario personaggio: alto, con addosso un caffettano di colore scuro, stinto dal tempo, il volto giallo, sulfureo, la barba
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nera e lunga, i riccioli laterali. Furono presi di nuovo dal panico; credevano che quell’essere strano, magico, fosse scaturito da fiamme infernali, fosse un messaggero occulto, terribile di Sarganapol, il duce del male. – «Iddio benedetto, dotato di grande conoscenza, ha disposto e fatto splendenti i raggi del sole…» – continuava la benedizione. Non osavano avvicinarglisi. L’uomo pronunciava lo Joser Or con toni cantilenanti e voce forte, scuotendo il corpo avanti e indietro. Lo guardavano con attonito stupore e per tutta la vita furono convinti che Jeremias Israel, lo studioso del Talmud, rabbino una volta, nella lontana Polonia, fosse scaturito per una strana magia dalle viscere della terra, in quell’attimo eterno di buio in cui il sole per motivi ignoti, incomprensibili, arcani, era annegato e risorto da tenebre estreme, da un oscuro terrore. «Sia tu benedetto, Signore Dio nostro nei cieli, e in alto sulla terra quaggiù, per l’eccellenza dell’opera della Tua mano e per i luminari che hai formato; essi Ti rendono gloria…». Gli trovarono un’abitazione abbandonata da anni, una casa di pietra massiccia con le ampie volte annerite dal fumo e lì il rabbi concluse i suoi giorni tre generazioni più tardi studiando la Kabbalah, curando gli infermi, circondato da venerazione e rispetto generale per la sua presunta origine ultraterrena, luciferina. Transitò un altro anno, la primavera si riaccese per i campi con ricami di fiori, voli di rondini che scrivevano traiettorie ignote nel cielo di cobalto, le giornate più lunghe. Una relativa calma era tornata dappertutto. Qualche fiera portò un momentaneo clamore. Il lavoro dei campi proseguiva tra incertezze e apprensioni per gli scarsi raccolti. Poi ci fu la torrida estate con una spettacolare invasione di formiche alate. Durò dieci giorni il flagello. Dappertutto si trovavano gli insetti molesti: nel cibo, che annaspavano nell’acqua, nella culla dei bimbi, dentro i letti. Gli esorcismi non sortirono effetti. La gente era costretta a rimanere rintanata al chiuso notte e giorno e a bruciare in grandi bracieri di rame erbe, stracci e tutto ciò che di repellente, disgustoso si trovasse a portata di mano, per allontanare almeno un poco l’aggressione cieca e continua. Dentro casa il fumo delle combustioni faceva soffocare, fuori un solleone crudele spaccava la terra. Sembrava l’inferno: «Un castigo di Dio» sostenevano in molti. Se qualcuno, per sua sfortuna, era costretto ad uscire, doveva coprirsi fino ai piedi con un lenzuolo che ben presto diventava nero, brulicante di vita avida e frenetica. Intanto si avvicinava la grande festa dell’Assunta e padre Demetrio era mortalmente angosciato, preoccupato come non mai nella sua vita visionaria e indolente perché tarme, topi e formiche fameliche in lavorio incessante, scrupoloso, avevano talmente devastato e dissacrato la
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statua lignea della Madonna che essa riposava nella nicchia centrale della chiesa in un mucchio di polvere e detriti. Non poteva più essere esposta, né tanto meno trasportata a spalle o sul carro tirato da buoi per le viuzze dei quartieri, come la consuetudine voleva. E i suoi sonni erano agitati, inquieti, popolati da esseri alati, deformi. Funerali infiniti gli si snodavano davanti agli occhi. Nani, serpenti, arpie seguivano il feretro trascinato da un asino gigantesco, deforme. Procedeva veloce il somaro con tante zampe quanto il millepiedi ed era difficile tenergli dietro. Nella cassa da morto c’era sempre lui, incapace di muoversi, di urlare. Al mattino non sapeva più se era morto o vivo. Giaceva allora, per molte ore, sdraiato supino sul pavimento, in cerca di frescura, incapace di intendere e di volere, in un bagno di sudore bollente e appiccicoso. Più volte interrogò in cerca di consiglio i sacri alberi, i suoi gatti. Pregò in ginocchio davanti all’altare maggiore, con insistenza, devozione, le lacrime agli occhi, il centauro Chirone, amico e maestro di Eracle, ma non ebbe risposta sul da farsi, su come procedere. Alkemar in quel tempo ebbe un bambino straordinario, non si sa come e da chi. Il nascituro aveva zoccoli al posto dei piedi, coda e corna di bue. Il miracolo fu grande. Alcuni dissero che la ragazza, a furia di giacere con i buoi, si fosse accoppiata col toro e il frutto del loro amore bestiale era questo mostruoso infante muggente. Tutti andarono in pellegrinaggio alla stalla, anche da luoghi lontani, a portare doni e a visitare il prodigio. Bellissima giaceva la donna nella mangiatoia, beata, trasfigurata dalla maternità improvvisa, e mostrava ai presenti in ginocchio, riverenti e rapiti dinnanzi a lei, con gesto regale, il frutto incredibile delle sue giovani viscere. Poi incominciò a parlare, a rivolgersi agli astanti e ai devoti in una lingua misteriosa, sibillina che conteneva i germi, secondo padre Demetrio, di messaggi arcani di abitanti del cielo, degli dei regnanti nell’inaccessibile Olimpo. Il prete era fermamente convinto che il putto fosse la reincarnazione di un satiro o addirittura del dio Pan protettore dei campi. Fulmineo prese una decisione. Intanto, nella sua pingiara isolata dal mondo, Flegetanis aveva quasi ultimato l’Iconostàs. Cristo troneggiava al centro, mirabile sul trono di gloria. Ai lati, nell’atto di supplica, c’erano la Madonna, Giovanni il precursore rivestito di pelli, Pietro e Paolo con le fronti alte, stempiate, spiranti sapienza, la chiave e il libro chiuso tra le mani. Poi l’Arcangelo della buona novella, Gabriele, con la tunica mossa e la verga della rettitudine, del comando nella mano forte. Mancava l’Arcistratega Michele, condottiero delle milizie celesti, e su di esso lo zograf
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lavorava da mesi, attento, tenace, concentrato fino allo spasimo, cibandosi solo d’acqua per non dar peso al corpo nella purificazione estrema. Passava le ultime pennellate, gli ultimi colpi di luce sul volto radioso, divino. E pregava con la mente, le labbra, il corpo, il pennello: «O santo Arcangelo, conduttore delle celesti milizie, allontana da noi il Nemico, o tu con il volto terribile, meraviglioso dello Shabbaoth, distruttore del male, prega per noi…». Era la vigilia della Dormizione della Madre di Dio, dell’Assunta, in agosto a Castelnuovo. L’iconografo ricordò l’evento. Si alzò come in un sogno. Ieratico, solenne, baciò e mise sul Proskinetarion2 l’icona del giorno che l’aveva sempre accompagnato nei suoi sofferti viaggi, nelle sue migrazioni per contrade straniere alla ricerca estenuante, testarda, del venerabile velo con impresso sopra i santi lineamenti dell’immacolato volto del Maestro divino, inviato, in tempo remoto, al governatore Abgaro per guarirlo dal suo male. L’antica tavola, scritta dallo ieromonaco Daniele il nero, gli era più cara della vita stessa. Onorata da generazioni di suoi antenati col cuore e l’anima, gli stava ora davanti, piena di verità, di fascino celestiale. Accese le candele votive e recitò lo Stichirà3 dei Vespri: «O Immacolata Theotòkos, Tu che vivi sempre col vivificante Re e Signore…»; così pregando, ricominciò a dipingere, a miscelare i colori sul palmo della mano, a dare velature sempre più leggere, diafane, trasparenti. D’un tratto, i santi cominciarono a guardarlo con fissità estrema. La luce nella capanna divenne più intensa, insostenibile. Flegetanis aveva le lacrime agli occhi. Tutto successe in un attimo: il sommo Maestro, irradiante mistero, si alzò dal suo trono e uscì lentamente dalla tavola. Lo seguivano i discepoli e i probi benedetti che gli si disposero dietro adoranti. Poi, fecero cerchio intorno al pittore. Il vecchio sentì il cuore spaccarsi in due e l’anima strapparsi dal corpo. Il Redentore lo prese per mano e lo condusse con dolcezza e autorità fuori dalla pingiara. Era giunta l’ora di intraprendere un altro viaggio, in compagnia questa volta dei Beati di Dio. Lo zograf capì finalmente che tutto era giusto e concluso. Provò inconoscibile gioia, felicità inspiegabile come quella di un bimbo innocente, leggerezza immemore. E fu per sempre luce, fulgore divino in mezzo alle stelle. °°° °°° °°°
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[Leggio o edicola per l’esposizione delle icone.] [Inno-preghiera.]
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Padre Demetrio autoritario nei suoi paramenti consacrati, con piglio sbrigativo e frettoloso, fece vestire Alkemar col manto azzurro della Madonna. Le mise un filo di ferro attorcigliato malamente come un’aureola sul capo e con il figlio in bella mostra sul braccio ordinò al volgo che venisse condotta in processione su un carro trainato da fanatici forzuti e devoti per le strette vie del paese, nel santo giorno festivo. La folla era grande, rumorosa, ebbra di vino e porchetta. Dappertutto si espandeva assordante un suono di banda. Erano venuti da tutte le contrade, anche le più lontane e selvagge per onorare la nuova vergine dell’Assunzione in carne e ossa, così miracolosa solo a guardarla. I contadini dei paesi vicini con occhi bui sulle facce cotte dal sole, voci da orchi, irsuti come gli orsi marsicani, si spintonavano feroci tra loro, facendosi largo a forza di braccia, di ginocchiate tirate a casaccio. Qualche bambino fu calpestato nella calca fittissima. Nessuno voleva perdere neppure per un attimo il privilegio della taumaturgica apparizione: unica e sola opportunità offerta al deserto della loro vita. Al suo passaggio solenne, chi le baciava i lembi dell’azzurra veste, chi i piedi scalzi, chi raddrizzava con riverente timore l’aureola di filo di ferro, che, malamente posta sul capo della santa vivente, tendeva a scivolarle in basso sopra le spalle nude, a causa degli scossoni e dei movimenti traballanti del carro. C’era inoltre chi buttava petali di rose, fiori di campo, foglie di quercia e d’alloro e chi appendeva monete, per ricevere grazie improbabili, sulla coda del figliolo, l’irrequieto cornuto che guaiva, belava con stridori acuti, davvero diabolici. Il carro, parato con festoni di carte variopinte, coperte ricamate, pampini di vigna, procedeva lentamente tra fumo di incenso e arrosti, in mezzo alla folla inebriata, esaltata davanti a tale portento. Ma quando padre Demetrio, visibilmente soddisfatto dell’andamento del corteo, di questa processione così sacra, approntata magistralmente da lui, messa in opera dal suo talento religioso e per ispirazione divina, con voce alta e vibrante intonò il «Mira il tuo popolo o bella Signora…» – si udì uno schianto nell’aria, un boato infinito come di tuono. Il cielo repentinamente divenne livido, basso, color del piombo. Dapprima qualche goccia vagante, appiccicosa, calda, batté sul viso, sulla testa degli oranti che proseguirono indifferenti, poi le cateratte dell’acqua si aprirono. Un diluvio estremo, melmoso, buio si abbatté sul paese, nei vicoli, per tutte le terre. Fu un ciclone di inaudita violenza, di tale potenza devastante che si risvegliarono persino i morti nelle tombe. Spazzò ogni cosa. Insieme alla pioggia, dal cielo cadeva sangue, rotolavano per terra pesci, rane, serpenti. La processione si sbandò, il carro fu abbandonato.
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Molti vennero travolti e annegarono nel fango, senza avere il tempo nemmeno di meravigliarsi, tentare una fuga. Lo stesso prete che urlava invasato: «Fermatevi o Menadi, baccanti di Dioniso. Procedete con calma!» non trovò scampo. Poi dall’aria scura color della pece uscirono, veloci e inattesi, dei bagliori rossastri che colpirono al petto Alkemar. E all’improvviso, in un’opaca caligine metallica, ella fu rapita con il suo nato dal carro distrutto, e scomparve. Allora su tutta questa desolazione si alzò un grido, un canto, una straziante preghiera: l’Ahabhat Olam di Jeremias il rabbino Con amore eterno hai amato hai amato la casa d’Israele… E il fango, la pioggia continuavano a cadere. Le rane gracidarono al tramonto ma non ci fu tramonto. Tenebra si aggiunse alla tenebra.
Il tuo amore non allontanare da noi in eterno, Benedetto Tu, Signore, che ama il suo popolo Israele…
Anche la voce del rabbino divenne più fievole, acquosa, palustre. Si fece lontana, remota, estrema e tacque per sempre. Dal paese distrutto uscì lentamente Dumah, l’angelo della morte, strascicando le grandi ali. Assorto e triste chiuse il grande libro, senza girarsi indietro.
Le spose (2003)
La luce che cadeva sul libro di favole riposto tra le mani del nonno era una luce dorata, luce di un pomeriggio invernale. Fuori della casa campeggiava un cielo sereno, di un azzurro violaceo e per le campagne la neve copriva i segreti più profondi della terra e un vento, caduto su alberi spogli di quercia e di olmo, slegava i nodi dei rami spruzzando intorno una polvere bianca… Nella cucina il camino acceso, annerito da anni di intenso lavoro, apriva la bocca piena di fuoco e le fornacelle rivestite di azzurre ceramiche emanavano aromi intatti di feste lontane, sapori di veglie, silenzi notturni su mensole e madie ricolme di provviste, silenzi più eloquenti di qualsiasi fracasso. E ricette fatate parlavano con la voce dei giorni d’attesa, delle vigilie, con la suoneria di campane d’argento, di nascite e morti relegati in un territorio ormai assegnato al ricordo. Un girotondo di sapori si apriva nell’aria: giostra di ombre rannicchiate in uno spazio dove cucinare era compiere un rito alchemico quotidiano, con le sue trasmutazioni dorate di sformati e pasticci. Nei giorni remoti della mia infanzia sapori violenti, aspri, dolci occupavano la mia bocca per lunghi momenti, prima che cominciassero ad uscire di nuovo parole farcite di peperoni piccanti, rosmarini, di salvia salutare ed agli medicamentosi. Le vie dei miei sogni infantili erano cosparse di erbe aromatiche appartenenti al tempo senza tempo di insaziabili e repentini appetiti. Il pomeriggio del mio ricordo si avviava verso il crepuscolo e il nonno mostrandomi le illustrazioni della favola diceva con voce cantilenante e profonda: «Questo libro viene da lontano. Parla molte lingue: la lingua dell’uva dorata, del ribes, del ciliegio selvatico. Ha attraversato i confini del grano prima di arrivare tra le nostre mani. I suoi caratteri sono antichi, perché alle parole piace viaggiare e poi, stanche di tanto girovagare, amano riposare al calduccio di una cucina amica dove possono saziarsi con gli effluvi dei cibi cotti da trascorse generazioni; effluvi che ancora aleggiano tra le mura segnate dal tempo…». Il nonno riponeva il libro sul ripiano del camino e osservando fuori della finestra imbrinata andava dicendo: «Il giorno esala i suoi ultimi respiri e la notte cavalca le ombre degli alberi. L’aria va raffreddandosi, la terra gela, ora ti faccio le spose» e come un antico sacerdote, con gesti lenti e ieratici prendeva una nera padella appesa al
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muro, la spalmava con un filo d’olio d’oliva, poi spostava la legna in fondo al camino, preparava la brace in uno strato uniforme e vi disponeva sopra un trepiedi per reggere la frizzora benedetta con un’amorevole mano. Da un cartoccio, riposto in una polverosa nicchia del camino, estraeva come un prestigiatore una manciata di chicchi di granoturco e li spargeva, mescolati a del sale, nel fondo della padella ormai calda. Nell’ultimo sospiro del giorno ormai al termine si compiva il sortilegio: dopo un lieve sfrigolare, i gialli chicchi esplodevano in una bianca luce… «Le spose! Le spose!» diceva il nonno felice togliendo dal fuoco, alla fine del rito, la frizzora rovente. Poggiava sul tavolo il frutto della magica mutazione e con un sorriso ineffabile mi invitava all’assaggio. Incominciavo a mangiare lentamente, assaporando il vento, la pioggia, la neve, la terra, le stelle sparse nel cielo dalla mano di Dio, il lavoro dei giorni e degli uomini, le canzoni perdute ed era come un comunicarsi portentoso, rigenerante con tutti gli elementi vitali. «Le spose!»… In quella bianca luce mi persi per sempre una sera lontana nella cucina di casa, nel paese innevato, seguendo il tepore di un messaggio sussurrato da un semplice chicco di mais. Mi persi in ere, dove furono scritte molte lettere della mia giovane storia e ogni lettera riempiva gli angoli più segreti del cuore.
Da L’arte divina. L’icona: viaggio nei luoghi dell’anima in collaborazione con Luciana Ceroli
(2009)
TECNICA DELL’ICONA Le icone vengono dipinte (tra l’altro si dice scrivere l’icona, non dipingere…) su tavole di legno, generalmente di larice, abete o tiglio o di legni locali ben stagionati, immerse in un bagno di prodotti tossico-velenosi, come ad esempio l’arsenico, per eliminare gli insetti e per non permettere ad essi di attaccarne le superfici. La tavola rappresenta il legno della croce, il lino che si stende sulla tavola il sudario che avvolse Cristo e la gessatura bianca il mondo prima della creazione quando è tabula rasa. Per gli ortodossi la tavola di legno non rappresenta solo il legno della croce, ma simboleggia anche l’arca dell’alleanza. La tavola viene incisa e incorniciata da un piano rialzato a delimitare l’immagine, che invece risulta su un piano incavato. La cornice rappresenta l’arca dell’alleanza che racchiude le icone. Spesso sulle cornici vengono raffigurati i santi protettori della famiglia, quelli a cui si è devoti o quelli di cui si porta il nome. Su questa tavola viene stesa ed incollata una tela, con colla di coniglio o di pesce a caldo, che poi viene ricoperta da diversi strati di gesso di Bologna o polvere di Meudon a sua volta sciolta a caldo in mezzo a colla di pesce. Si danno fino a sette strati, si lascia asciugare ogni strato prima di riprendere a stendere il gesso, anche il giorno dopo; una volta asciugati perfettamente tutti gli strati, la tavola viene accuratamente levigata con carta vetrata e poi si incide o si ricalca su di essa il disegno. In seguito, con una procedura che richiede grande perizia, delicatezza ed attenzione, su di una terra rossa chiamata bolo, viene applicato l’oro. L’iconografia richiede una grande preparazione tecnica e spirituale. Il pittore si prepara appositamente per creare l’opera, atto che permette di entrare in stretto rapporto con il divino e per questo esige una purificazione mentale, spirituale e fisica. Dopo aver pregato e aver raggiunto l’auspicato equilibrio interiore, si poggia per terra la tavola e quando il primo raggio di luce vi cade sopra, si passa al dipinto, alla scrittura dell’icona, stendendo i diversi strati di colore. Prima di tutto si dipingono i volti, utilizzando i colori dal più scuro al più chiaro; si procede, quindi, a schiarire gradualmente i volti; questo
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procedimento rappresenta simbolicamente il passaggio dall’oscurità del peccato alla rivelazione della fede e alla conoscenza del divino. Tale tecnica viene chiamata illuminazione ed è fondamentale soprattutto nell’esecuzione dei volti perché indica il cammino dell’uomo verso la nuova creatura, la creatura nella luce di Dio. Non a caso il tema centrale dell’icona è costituito dalla luce e dall’oro, che non è un colore, ma viene chiamato lo stesso luce dell’illuminazione divina che trasfigura la realtà. La luce dell’icona rappresenta simbolicamente la gloria divina, increata. È per questo che in una icona la luce non proviene da un punto posto all’interno del dipinto, essa non proietta ombra, perché viene da tutti i lati insieme. Al pittore di icone non interessa imitare la realtà, ma svelarne la sostanza; per questo le proporzioni vengono alterate e la prospettiva è invertita; si segue un determinato canone ricco di significati simbolici. Nel linguaggio della pittura iconica il volto si chiama sguardo (lik), cioè volto trasfigurato e trasformato che ha abbandonato la dimensione delle passioni terrene ed è totalmente inserito in quella spirituale, al di là del tempo e dello spazio; il resto (corpo, vestiti, alberi, palazzi) si chiama riempitivo. La tradizione pittorica antica si avvale anche della tempera all’uovo, che a partire dal XV secolo trovò ampia diffusione e si mantenne intatta fino al XX secolo in particolare in Russia, nei Balcani e nell’Europa orientale. Il pittore per sciogliere le tempere di terra adopera il tuorlo d’uovo mischiato all’acqua benedetta, al kvas, all’aceto o ad una bevanda forte per evitare che l’uovo imputridisca. Il tuorlo d’uovo così miscelato forma un’emulsione stabile che non solo nell’immediato conferisce un ricco colorito alle tinte, ma nel tempo garantisce la conservazione della loro vivacità. Inoltre metaforicamente l’uovo rappresenta l’interezza, la pienezza e la perfezione del cosmo e il kvas rappresenta lo spirito divino che non fa imputridire nulla. Talvolta Gesù viene rappresentato nella mandorla, un ovale, simbolo cosmico e dell’eternità. Il desiderio che tutto sia «autentico» nell’icona, che contraddirebbe se stessa se contenesse in sé elementi di «illusione», spinge gli iconografi ad usare materiali naturali: legno, gesso, oro, pigmenti minerali, vegetali, rifuggendo dai prodotti artificiali la cui efficacia simbolica risulterebbe indebolita. Dovendo attenersi rigorosamente alla tradizione e ai prototipi, tutte le icone sono sottoposte al controllo della Chiesa. I custodi (i santi padri)
Da L’arte divina. L’icona: viaggio nei luoghi dell’anima (2009)
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vigilano sugli iconografi perché si attengano ai canoni originali, e non ci siano alterazioni di sorta, né cambiamenti dal modello originale. Quindi, quando l’opera è compiuta, viene avallata dalla Chiesa da una benedizione che ne certifica l’adesione al prototipo. Inoltre ogni icona deve avere inscritto il nome di ciò che rappresenta; solo così essa acquista compiutamente il suo carattere sacro, la sua dimensione spirituale. Con l’inscrizione l’icona è legata al suo prototipo, di cui è stata fatta la rappresentazione. Le lingue liturgiche bizantine usate per queste iscrizioni sono greco e slavo ecclesiastico. Tocca al pope o al papas, cui l’icona è presentata per la benedizione finale, verificare l’esattezza del nome inscrittovi in corrispondenza alla pittura, se tutto è conforme all’antica, buona tradizione, egli pronuncerà le preghiere che ne faranno oggetto di culto per i fedeli. Come in tutte le raffigurazioni sacre, i colori assumono un’importanza fondamentale e ogni colore ha un valore simbolico: Il blu rappresenta il colore della trascendenza, mistero della vita divina. Il rosso e il porpora sono indubbiamente i colori più vivi presenti nelle icone: simboli di divino e di regalità. Il verde è simbolo terrestre. Il marrone simboleggia la penitenza e l’umiltà. Il bianco è il colore dell’armonia, della pace, il colore del divino che rappresenta la luce che è vicina. L’oro non è un colore, ma raffigura la luce divina. I colori adoperati per le icone sono di origine minerale (carbonati, silicati, ossidi) o organici (tratti da sostanze vegetali e animali); queste terre assicurano stabilità negli anni, poiché non si alterano mai, invece i colori ad olio, nel tempo, subiscono mutazioni chimiche, si ossidano e necessitano di ripulitura. Le lettere dipinte sull’icona assumono un particolare valore: le icone del Cristo presntano sempre la dicitura «IC XC» (forma greca abbreviata di Jisùs Christòs) e anche «O ΩN» («Colui che è»; le lettere sono generalmente inserite nell’aureola). La Vergine Maria invece presenta la dicitura «MP ΞY» (forma greca abbreviata di Madre di Dio – Miter Theou). Altro elemento importante è la prospettiva.
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Nella pittura occidentale il punto focale è in fondo al quadro e quindi per dare il senso della profondità in primo piano vengono dipinte le immagini più grandi che mano a mano rimpiccioliscono; nell’icona, invece, la prospettiva è inversa: il punto focale è davanti come se noi fossimo dentro l’icona. Infatti la prospettiva inversa contribuisce a quell’armonia dell’insieme propria dell’icona: le linee prospettiche non si incontrano in un punto di fuga posto dietro al dipinto, ma in un punto posto davanti. Le linee di forza escono dall’interno dell’icona verso lo spettatore; la scena o la figura rappresentata manda raggi verso colui che si apre per riceverli. Nell’icona l’avvenimento rappresentato è in primo piano e i personaggi nel fondo; almeno in alcuni casi, sembrano essere sullo stesso piano con quelli davanti. Lo spazio sull’icona è poco profondo; non c’è illusione, né corpo a tre dimensioni. Assieme alla prospettiva inversa, talvolta elementi di architettura ed oggetti sono disegnati in assonometria (diversità di misura o proporzione o orientamento in oggetti che dovrebbero avere le stesse parti uguali) e le rocce e i paesaggi sono rappresentati con il medesimo principio del movimento in avanti. Grazie a questi sistemi di rappresentazione la linea di forza va dall’interno dell’icona verso lo spettatore.
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Introduzione di A. Sana Una volta fummo uomini altrove. Un cosacco in Frentania . . . . . . . . . . . 7 POESIE Da La stirpe di cenere (1978) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 I ragazzi del manicomio videro la primavera . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 Ricordo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 Erano gli inverni del rifiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 Ci fu un giorno in cui partii . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 Ritorno nei piccoli luoghi dove nessuno mi ricorda. . . . . . . . . . . . 35 La sera ci accompagnò alle fredde sorgenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 C’erano giorni così chiari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 Sentiremo ancora le primavere giovani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Ricordo l’inverno… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 Da Tavernanova (1992). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 Tavernanova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 da Canzoni dei giorni incompiuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 Il paese da sempre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 Per noi la giovinezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 Molte stagioni passarono. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60 Bastava il tepore di un piccolo sguardo . . . . . . . . . . . . . . . . . 62 da Malastagione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 Ci fu un giorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 …Ed in questa solitudine di mattoni sbrecciati . . . . . . . . . . . 66
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Indice
Concerto dell’estate dal paese dell’esilio . . . . . . . . . . . . . . . 67 da Computo dei mesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71 da Agosto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71 Segreta forza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71 da Settembre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 Non sapemmo mai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 da Ottobre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74 Padre, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74 Da I cavalieri di neve – Icone (1996-2000). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 Sono nato nell’aprile del 1942, .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 Uspenij . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82 Segreti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84 La lettera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86 Doppia anima, sorella! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 Sascia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91 Prokhoro Mochnine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 Bol – dolore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 Mai più si aprirà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116 Ricordo l’autunno passato, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Da noi, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 Certi giorni, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 Si aprono e si chiudono. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123 Il samovar . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 Da Ritratti e notturni (2002) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 Isús mladenec . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 «Buonanotte!» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132 È difficile trovare il cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 Da Oscurità (2004) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135
Indice
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Le erbe acclamano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 Da giovani amammo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138 PROSE
Da Gli anni delle tristi piogge (1988) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 da Ballata del cavaliere e delle ombre . . . . . . . . . . . . . . . . . 143 Ritornò negli anni… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 La passione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 Sciangai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157 Da Il fuoco della Gehenna (1998). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171 Con Amore Eterno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173 Le spose (2003). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181 Da L’arte divina. L’icona: viaggio nei luoghi dell’anima (2009) . . . . . . 185 Tecnica dell’icona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187
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