QUINDICI ANNI CON TOMMASO DA OLERA
A volte succede. Anche senza tirare in ballo la solita serendipità, accade che qualcosa di buono capiti senza cercarlo; o meglio: che, alla vaga ricerca di qualcosa, ti capiti proprio quella cosa, ma un po’ diversa da come la pensavi tu. E la tua vita cambia. È successo anche a me, quindici anni fa. Dopo una laurea in lettere e un dottorato in teoria e analisi del testo, cercavo altro: le storie che trovavo nei libri non mi appassionavano più come un tempo e mi lasciavano l’amaro in bocca e un certo senso di vuoto. Ma cominciamo dall’inizio. Ho sempre amato leggere, e leggere è anche il mio lavoro: faccio l’insegnante di italiano e latino. Negli anni mi sono anche provato a mettere a frutto quel poco o tanto che ho imparato all’università pubblicando qualche saggio letterario e qualche edizione di testi. Mi attraeva soprattutto un secolo strano come il Seicento, e all’università (ho frequentato i corsi a Pavia) avevo ricevuto una formazione storico-filologica piuttosto rigorosa: non si fa critica senza accertamento testuale, filologia e critica devono procedere appaiate. Contini dalla città dei collegi universitari (che conserva le spoglie di sant’Agostino e Boezio) non era passato invano, e neanche Dante Isella. C’erano Maria Corti e Cesare Segre. Carlo Dionisotti era venerato come maestro de lonh. Io mi sono laureato col bergamasco – come me – Franco Gavazzeni (figlio del celebre Gianandrea), che, con altri docenti pavesi come Cesare Bozzetti e Luigi Poma, ha insegnato a molti alunni la tecnica del ‘piccolo punto’: la verifica del particolare è un passo, sia pure minuscolo, verso la verità. Nella preparazione della tesi di laurea, e per tramite di Gavazzeni, ho avuto modo di incontrare insegnanti che mi hanno dato consigli preziosi e le cui personalità hanno lasciato in me più di una traccia. Il napoletano Giorgio Fulco mi ha suggerito l’argomento della ricerca e ha sciolto molti miei dubbi; il ticinese Padre Giovanni Pozzi – insieme a Isella l’allievo più brillante di Contini – mi ha periodicamente fornito indicazioni di lavoro e di metodo; il modenese (ma romagnolo di nascita) Martino Capucci ha creduto fortemente nelle mie proposte e ha accolto sulla sua rivista (“Studi secenteschi”) alcuni miei saggi. Tutti a modo loro maestri e persone di valore, oggi tutti nel mondo dei più; e mi trovo spesso e nostalgicamente a pensare a loro come a dei padri, accanto a mio padre, anch’egli da vent’anni scomparso. Verso la fine del dottorato di ricerca (avevo ventott’anni) la crisi: di ciò che avevo scritto per la dissertazione conclusiva di quel ciclo di studi (romanzo greco e rielaborazioni barocche) mi importava poco o nulla. Ero stato irresistibilmente attratto da altro: per caso su Avvenire ero stato incuriosito da una recensione a un libro di Maurizio Blondet (Gli Adelphi della dissoluzione) che citava Nietzsche e Guénon. Nietzsche l’avevo letto un po’ al liceo (e, mea culpa, non mi aveva entusiasmato), Guénon non sapevo nemmeno chi fosse. Da quel momento e per qualche anno qualunque libro vagamente esoterico che avesse a che fare con scienza sacra, tradizione, induismo, taoismo e sufismo divenne mio pasto, mio solo pascolo: avevo scoperto un mondo. Nel mio perenne provincialismo mi ero quasi convinto di essere una sorta di eletto. Vivevo a qualche metro da terra e aspettavo una quale che sia apocalisse prossima ventura. Fondamentalmente (e lo riconosco sorridendo) divenni un adelphiano in pectore, un chiliaste in sessantaquattresimo. Cattolico praticante da sempre, ho continuato ad andare a messa la domenica (come dicevano i miei vecchi), ma in quel periodo ero infatuato di problemi come questo: in che modo conciliare il creazionismo delle religioni monoteistiche con l’emanazionismo orientale? Oppure: davvero tutte le religioni non sono che le ramificazioni dell’unica vera e primitiva? Questioncelle, come si vede. A quei tempi non avevo alcuna informazione su figure come Panikkar o Le Saux; Eliade arrivò dopo. Ho passato anni a leggere e a studiacchiare, senza tuttavia mai conseguire una seria e solida preparazione teologico-filosofica in merito. Sia come sia, la dottrina esoterica della ‘crisi del mondo moderno’, del ritirarsi della vera Tradizione (con la t maiuscola) in oriente e cose così, creò in me una frattura. Non riuscivo più a 1
trarre alcun piacere dalla lettura di romanzi, poesie e critica letteraria, fui pervaso al contrario da una profonda tristezza: per non riuscire ad arrivare a nulla, nonostante la tumultuosa ricerca, e per la netta sensazione che quello a cui compulsivamente mi abbeveravo mi facesse più male che bene. Ancora oggi non so dire in cosa consistesse quella semiconsapevolezza, ma sentivo che c’era qualcosa che, invece di risollevarmi, mi stava tirando giù. Probabilmente la tentazione dell’abisso. Spaventato, smisi di imbevermi di Guénon e gnostici vari, e decisi di rifarmi alle fonti, cioè ai testi sacri delle principali religioni e poi a quelli dei mistici (per Guénon il misticismo è inferiore alla cosiddetta Scienza Sacra). Scoprii i renano-fiamminghi, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, ma anche al-Hallaj (per il tramite di Louis Massignon), Rumi e Attar. Lessi il corroborante Pavel Florenskij. Avevo addirittura progettato di recarmi in Albania alla ricerca di qualche maestro bektashi (in Albania ci andai davvero, ma per altre ragioni). Il contatto con le sacre scritture (e non con le loro interpretazioni) e con i mistici mi fece bene e mi disintossicò. Paradossalmente (ma nemmeno troppo) questi ultimi mi riportarono con i piedi per terra. Rinfrancato, verso la fine di un lungo lavoro editoriale condotto seriamente con l’amico Sergio Bozzola (l’edizione parziale di un’opera del secentesco Francesco Fulvio Frugoni) per una collana diretta da Padre Pozzi e Isella, ricevetti una telefonata. Si trattava di un frate cappuccino veneto, Padre Rodolfo Saltarin. La conversazione mi prospettò la possibilità di una nuova curatela, quella delle opere di un certo Tommaso da Olera, meglio noto con il nome di Tommaso da Bergamo, un frate laico cappuccino vissuto a cavallo tra cinque e seicento tra Italia e Austria, la cui santa vita era da anni oggetto di una possibile beatificazione (Padre Rodolfo ne era il vicepostulatore) e nei cui scritti si respirava un’alta aria ascetico-mistica. Il nome non mi diceva nulla: mai sentito. E pur essendo bergamasco non avevo mai nemmeno sentito parlare di Olera, un paesino all’imbocco della Valle Seriana. Ma tre parole mi attirarono da subito e irresistibilmente: seicento, mistica, Bergamo. E il personaggio in questione era un frate cattolico. In più, mentre mi si chiedeva di condurre un’edizione critica dei suoi scritti, tornava un’altra parola a me cara: filologia. Non ricordo se accettai immediatamente l’incarico, ma dentro di me si accese certamente la scintilla che mi spinse a incontrare Padre Rodolfo per capirci di più. Ma perché Padre Rodolfo, in rappresentanza dei cappuccini della provincia veneta, aveva contattato proprio me? Si capisce che ero contento della proposta, ma come mai mi conoscevano? Padre Saltarin rispose che il mio nome gli era stato segnalato da Padre Pozzi in una lettera che ho letto e riletto nel corso degli anni e del cui testo ancora mi vergogno: in essa mi si definisce “perfettamente all’altezza” del compito da assegnarmi e perfettamente dotato delle tecniche necessarie per l’edizione. L’edizione di Tommaso l’ho portata a termine, ma ancora oggi ho seri dubbi di essere stato davvero all’altezza dell’impresa affidatami. L’incontro con Padre Rodolfo puntualmente avvenne qualche tempo dopo. Venne a casa mia accompagnato dall’olerese Doriano Bendotti, l’altro grande motore delle iniziative riguardanti Tommaso. Naturalmente accettai di fare l’edizione, con parecchio entusiasmo e – devo confessarlo ora – senza una precisa idea (allora) circa l’organizzazione del lavoro. Parlammo anche degli sbocchi editoriali: chi avrebbe potuto pubblicare le opere di un quasi ignoto fraticello bergamasco semianalfabeta? Certo, Tommaso aveva svolto la sua missione anche presso grandi personaggi, gli arciduchi d’Austria e Tirolo e l’imperatore; ma chi si sarebbe assunto l’onere della stampa di una ponderosa edizione, critica per di più, e dunque con apparati che avrebbero allontanato anche i pochi lettori più ben disposti? Fummo fortunati: al secondo tentativo trovammo casa presso l’editrice Morcelliana di Brescia e il suo direttore Ilario Bertoletti, che diede fiducia all’impresa. Ma, ancora prima, in tre (Padre Rodolfo, Bendotti ed io) ci recammo a Lugano da Padre Pozzi, che ci diede preziose indicazioni sul da farsi. Nel frattempo avevo cominciato a compulsare i manoscritti di Tommaso. Scoprii che gli originali erano conservati in Austria, a Innsbruck e a Vienna, dove mi recai più di una volta per consultarli e dove il frate aveva svolto gli ultimi anni del suo umile e straordinario apostolato. Scoprii che aveva scritto molto, soprattutto per imposizione dei suoi superiori. Scoprii che il critico Giovanni Getto lo riteneva un autore ascetico di prim’ordine, e che papa Giovanni XXIII si fece 2
leggere pagine di Fuoco d’amore (la raccolta a stampa delle opere) perfino sul letto di morte. Scoprii anche la deliziosa Olera. Mi misi mentalmente a organizzare la futura edizione degli scritti (due stampe erano già state pubblicate nel Seicento, ma il testo risultava inaffidabile): decisi che erano necessari tre volumi distinti per venirne a capo. Stesi il progetto, che fu approvato da Padre Rodolfo, dagli oleresi (tra cui l’allora parroco don Antonio Gamba) e dalla casa editrice. Mentre procedevo nella lettura, mi resi conto di avere a che fare con un personaggio quanto meno singolare: pastore analfabeta fino all’adolescenza, frate laico e questuante poi, animato da un tale fervore amoroso verso il suo Dio da lasciare senza fiato. Gli scritti erano linguisticamente scorretti, ma profondi e ispirati. Da subito si profilarono naturalmente anche le prime questioni filologiche da affrontare e risolvere. La prima fu la seguente: i testi manoscritti che mi trovavo davanti non erano autografi, ma trascrizioni che altri (confratelli?) di Tommaso avevano compilato, trascrizioni che in molti casi Tommaso non aveva nemmeno rivisto. Qualcuno in seguito (chi? quando?) aveva corretto molti passi. Quale redazione offrire al lettore di oggi? Più riflettevo, più mi convincevo che era necessario mettere a testo la scrittura più antica, segnalando le varianti successive in apparato (predisponendo cioè ciò che si definisce tecnicamente una edizione critica ‘evolutiva’ e non ‘genetica’ degli scritti del frate). Ed è quello che ho fatto. La seconda questione riguardava due delle opere più rilevanti dell’intero corpus: sia la Selva di contemplazione (un devoto manuale per principianti) sia la più impegnativa Scala di perfezione (una serie di veri trattatelli ascetici) presentavano una duplice redazione. All’inizio nei manoscritti si leggeva la stessa opera, ma da un certo punto in poi i testi divergevano clamorosamente. Di nuovo la dimostrazione che la fase finale dell’assemblaggio e della stesura non era autografa. Che fare? La decisione era una sola: fornire del doppio testo della Selva e della Scala due testi separati per entrambe, segnalando dove e quando le sezioni coincidevano e dove no. E così feci. La terza fu stabilire quale posto assegnare alle due stampe secentesche (1682 e 1683) degli scritti di Tommaso. Riuscii a dimostrare che i testi editi erano successivi e molto rimaneggiati rispetto ai manoscritti, e che quindi non avevano alcun valore filologico; importanti per la diffusione che le opere ebbero nei secoli, furono dunque messi da parte per l’edizione critica. La quarta fu quella di stabilire la versione a testo e l’apparato per un paio di trattatelli del terzo volume che presentavano anch’essi una duplice redazione assai simile: scegliendo ancora il criterio ‘evolutivo’, diedi il testo della redazione più vicina allo stile di Tommaso. La quinta in realtà si presentò da subito, ma fu anche quella meno ardua: stanti i manoscritti pieni di solecismi e sgrammaticature, quale testo pubblicare per il lettore odierno? Decisi per una soluzione salomonica e moderatamente conservatrice: evitare le scrizioni etimologiche o pseudoetimologiche (“huomini”, “hauere”, “cerchano”, “Giesu”) modernizzando (“uomini”, “avere”, “cercano”, “Gesù”); mantenere al contrario le particolarità del testo (“il qualle” invece di “il quale”) e le oscillazioni (“maraviglie”/”meraviglie”). Il lavoro procedeva lentamente e intanto Tommaso mi accompagnava anche nelle mie altre occupazioni di vita: la cura filologica dei testi mi induceva a inventare poco e a prendere decisioni, a essere il più possibile preciso e operativo. Mi stavo occupando di un autore che proponeva un metodo ascetico: àskesis in greco significa ‘esercizio’, e io stavo facendo esercizi sugli scritti di Tommaso, dando grande attenzione a quello che trascrivevo o scoprivo, come quando al liceo procedevo lentamente traducendo le versioni di greco e di latino o quando compilavo temi (ricerche, più che temi tradizionali!) per il mio beneamato professore di italiano don Giuseppe Arnoldi. Anche Tommaso da Olera mi faceva esercitare nella pazienza, e gradualmente (come per una specie di lunghissima scala da salire gradino per gradino) prendevano forma il primo, il secondo e il terzo volume dell’edizione. Lo stile con cui Tommaso argomenta è spesso ripetitivo (io lo avevo definito spiraliforme) e i suoi temi preferiti (la devozione per Gesù, Maria e il Sacro Cuore; l’amore puro e non ‘mercenario’) non molti: c’era il rischio che mi annoiassi, che perdessi la concentrazione necessaria, che fossi meno 3
attento. Ma Tommaso mi riportava sempre a sciogliere questioni riguardanti quel ‘piccolo punto’ di cui ho scritto prima. Il fraticello di Olera, che elemosinava il pane per i confratelli, che in convento lavava i piatti di tutti e che nelle fredde valli del Trentino e del Tirolo portava a tutti, scalzo, la sua parola consolatrice ed esortatrice, era a suo modo un ‘duro’, e imponeva a chi lo incontrava una regola severa. Io, che l’ho incontrato secoli dopo attraverso le sue parole, sono stato da lui preso al laccio e non me ne pento. In qualche modo mi ha imposto di seguirlo e, invece di grandi e vuote elucubrazioni senza fine, mi ha indicato una strada, ancora quella dei miei padri: quella della serietà, della costanza, dell’attenzione, della fiducia, del combattimento spirituale. I tre volumi dell’edizione che ho pubblicato hanno lasciato tracce profonde in me, e per motivi diversi. Il primo, uscito nel 2005, riporta, come ho detto, la duplice versione della Selva di contemplazione: il testo ripercorre le fasi della vita di Maria e Gesù con grande devozione. È un libro ‘semplice’ scritto per i semplici. Ma l’affetto che il frate cappuccino vi riversa è immenso: egli ‘vede’ letteralmente l’immacolata concezione, la nascita, la fuga in Egitto, la passione e la morte del Salvatore, e ne comunica tutta la bellezza e tutto il dramma. Tommaso non è un teologo ma un innamorato, e come tutti gli innamorati non si sazia di contemplare, di amare, di parlare del suo oggetto d’amore. Sono stato colpito profondamente dal testo proprio là dove poteva risultare noioso: l’inattualità del sentire e del ripetitivo dettato, se si dà fiducia al testo del frate, avvolge con volute inebrianti. Ci si accorge presto che – come scrive Tommaso – l’esperienza amorosa per Gesù Cristo lo penetra nelle più profonde fibre. Il secondo volume uscì nel 2010. È il più ponderoso dei tre perché vi compare la doppia versione della Scala di perfezione: il testo del manoscritto conservato a Innsbruck e quello del codice di Vienna (inedito fino a quel momento). In entrambe le redazioni il fraticello diventa ‘il maestro di color che sanno’: non certo per sapienza umana, ma per dono divino. Il percorso di ascesi proposto è quello classico delle ‘tre vie’, ma si avverte che, man mano che si procede nella lettura dei diversi piccoli trattati che compongono l’opera, con l’orazione mentale si avanza pure verso la contemplazione, la presenza di Dio, gli stati superiori che culminano nell’estasi: e tutto ciò avviene perché chi ne scrive ne ha avuto prova vera. L’itinerarium in Deum è dunque reale: l’autore fornisce gli strumenti che egli stesso, per speciale grazia e rigorosa applicazione, ha utilizzato. L’ascesa è la stessa vita: è questo l’aspetto che più mi ha impressionato delle indicazioni di Tommaso. Per salire in cima alla ‘scala’ della contemplazione il frate ha lottato strenuamente, è diventato atleta di Cristo: un messaggio ancora una volta opposto a quello, banalissimo, delle sirene della post-modernità. Mentre stavo ancora lavorando al terzo volume, a Tommaso è accaduto quod erat in votis: nel settembre del 2013, nella cattedrale della città presso la quale era iniziata la sua umana avventura, il lavapiatti fraticello laico cappuccino, noto anche nella valle dell’Inn con il titolo di Bruder von Tirol, è stato beatificato. Il suo indefesso e oscuro lavoro tra i contadini e gli artigiani delle Alpi lo indusse a combattere dolcemente ma fermamente l’eresia protestante: nel terzo volume della mia edizione, uscito nel 2016, compare infatti un’opera dal titolo Concetti morali contro gl’eretici. Con questo scritto Tommaso si inserisce nella vastissima area della pubblicistica controriformistica, ma lo fa a modo suo: con le sole ragioni della ragione – come scrive – e con la consapevolezza che i protestanti siano ‘fratelli’ traviati, ma pur sempre fratelli da ammonire e aiutare. Mentre il testo scorreva, non potevo fare a meno di immaginare il frate percorrere strade e montagne del Tirolo per parlare alle anime, e salvarle una per una. Se questa non è lotta, concretezza, convinzione, fede, non so cos’altro possa esserlo. Del tenace carattere di Tommaso sono testimoni di nuovo le lettere, molte autografe, conservate nell’archivio cappuccino di Innsbruck; della loro edizione si sta occupando Alessandra Bartolomei Romagnoli, docente alla Gregoriana, eccellente studiosa di mistica. Anche a un non grafologo la spigolosa scrittura di pugno del frate rivela un andamento coerente e costante, come se fosse sempre occupato a camminare. Ad andare verso Dio, ad andare verso i fratelli, secondo il comandamento evangelico. 4
Il fraticello di Olera ha suscitato il recente interesse anche di altri studiosi: Ilario Tolomio, dell’università di Padova, sta compilando l’indice degli argomenti delle opere di Tommaso; il teologo Marcello Neri dell’università di Flensburg ha dedicato un saggio alla presenza del cuore di Gesù nei suoi scritti; per Marco Vannini gli esiti cui il cappuccino giunge richiamano con precisione quelli di Fénelon; per Giacomo Jori le pagine del beato hanno un posto di assoluto rilievo nella produzione ascetico-mistica dell’età moderna. Tommaso da Olera sta ancora facendo breccia nei cuori. Ho scritto prima che la personalità e gli scritti di Tommaso mi hanno indicato la via della serietà, della costanza, dell’attenzione, della fiducia, del combattimento spirituale. Non so se ho acquisito almeno in parte qualcuna di queste caratteristiche. So che Tommaso mi ha accompagnato per più di quindici anni – un tempo non breve della vita. E so che gli devo molto. ALBERTO SANA
5