Una volta fummo uomini altrove. Un cosacco in frentania (2016)

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Introduzione Una volta fummo uomini altrove Un cosacco in Frentania «Mi hanno salvato le icone», ha recentemente dichiarato Antonio Allegrini a chi scrive questa nota. L’affermazione di natura soteriologica, contemporaneamente e apparentemente fuori moda, fuori misura e vagamente esotica, si spiega invece con le vicende biografiche e letterarie dell’autore dei testi che qui proponiamo. Anche la vita di Allegrini, come quella di miliardi di individui e ­migliaia di artisti, è stata segnata da una ferita originaria. E all’origine del trauma è la sorte di un’intera stirpe incenerita, una stirpe nomade, dispersa e disgregata come tante altre, i cui destini hanno raccontato monumenti, libri, miti. Ma nemmeno in tale tragica circostanza sta la sua singolarità. Il singolare destino dello scrittore abruzzese è quello di essere da una parte uno degli ultimi eredi e forse l’estremo cantore, almeno nella nostra penisola, del sentire dell’eroico e bistrattato popolo cosacco, quello dei vari Taras Bulba, Sten’ka Razin, Emel’jan Ivanovič Pugacëv, Ivan Stepanovič Mazeppa spesso celebrati nella letteratura russa;1 dall’altra il praticante di un credo religioso singolare in occidente, originario dei padri, quei Vecchi Credenti (noti da noi per i romanzi dostoevskijani e il racconto leskoviano L’ angelo sigillato) che, guidati dal celeberrimo protopop Avvakum, si opposero nella seconda metà del XVII secolo alle riforme del patriarca Nikon, dalla chiesa ortodossa russa si separarono da scismatici (raskol’niki) e da scismatici furono trattati, perseguitati, uccisi, esiliati. Ed è una sorte di esilio e di perdita (della terra madre, del legame con i correligionari) 1 Del primo narra le vicende il famoso omonimo racconto gogoliano. Il secondo, fondatore nel 1670 della Repubblica Cosacca e sostenitore dell’uguaglianza sociale, fu catturato, torturato e squartato dalle autorità zariste; lo celebra il canto popolare Il sogno di Stepan Razin (Oj, to ne večer). Del terzo, la celeberrima guida della grande insurrezione contro Caterina II, scrisse Puškin ne La figlia del capitano. Il quarto, atamano dello Stato Cosacco, si schierò contro Pietro il Grande: i fatti che lo riguardano furono descritti dallo stesso Puškin, da Byron e da Hugo, la sua figura esaltata da alcuni componimenti musicali di Liszt e Čaikovskij. Del mondo kazak del Terek scrisse Tolstoj ne I cosacchi. Altre celebri imprese cosacche in prospettiva filorivoluzionaria narrarono Isaak Babel’ (L’armata a cavallo) e Michail Šolochov (I racconti del Don).


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quella che condusse gli antenati dell’autore (il cui cognome originario è Demidov) dalla Russia a cavallo attraverso l’Europa (presumibilmente tra Polonia, Boemia, Germania e Austria) in Abruzzo, in un indescrivibile e doloroso viaggio di privazioni e di fame. La storia del popolo cosacco fu spesso caratterizzata dall’insofferenza nei confronti del potere costituito: seminomadi da sempre, talvolta si accordarono con i detentori del potere, ma frequentemente si ribellarono di volta in volta ai grandi feudatari, agli zar, ai vincitori della Rivoluzione d’Ottobre. Lo scalcinato piccolo clan giunto in Abruzzo (forse originario della Siberia, di Novosibirsk)2 era una reliquia di quei gruppi che, appoggiata inizialmente la rivoluzione, passarono ben presto e in massima parte con le forze antibolsceviche ‘bianche’; e a partire dal 1919 in Unione Sovietica si verificò uno dei primi veri e propri genocidi staliniani (la cosiddetta «decosacchizzazione»): i bianchi furono spazzati via, molti cosacchi vennero uccisi o andarono in esilio. «Tutte le cose diventano fatali alla mia razza», scrive Allegrini. Gli avi di Anton Nazarovič (questi il nome e il patronimico russi dell’autore) trovarono definitiva sistemazione in quel di Castel Frentano (Chieti).3 Il paese, in un passato non troppo remoto, era noto nella zona per la presenza settimanale di un importante mercato equino: e un cosacco senza cavallo è nulla, ricordava nonno Sevastjan, figlio di ataman. La dolce conca valliva su cui l’abitato affaccia – dominato dal massiccio della Maiella, la montagna madre degli abruzzesi, primitivizzata e mitizzata oltre misura dall’imaginifico Gabriele – fu dolcemente cantata come tèrra d’ore nei bei versi dialettali di un amico del vate pescarese, il sacerdote

2 Piccole comunità vecchiocredenti vivono ancora sparse in Siberia, ad esempio attorno al lago Baikal, nella valle di Ujmon sugli Altai o in Buriazia, una regione nel sud-est del paese ai confini con la Mongolia. Starovjery, oltre che a Mosca, si ritrovano anche in Estonia, Lettonia, Romania e, nel nuovo mondo, perfino in Alaska. In Italia la comunità più consistente si trova a Torino. Come primo approccio allo staroobriadčestvo si veda Hans-Dieter Dopmann, Il Cristo d’Oriente, ECIG, Genova 1994, pp. 77-91. 3 La Frentania è una consistente porzione del territorio chietino che comprende zone marittime (dalla tostiana Ortona, alla dannunziana San Vito, a Torino di Sangro) e interne (Lanciano, la valle del Sangro-Aventino e il versante orientale della Maiella). Fu abitata da un popolo italico di lingua osca (i frentani) strettamente affine ai sanniti. Su Castel Frentano (fino al 1864 Castel Nuovo) si vedano segnatamente le raccolte documentarie di Michele Scioli (Gli atti preliminari del catasto onciario di Castel Nuovo, Castel Frentano 1995; Documenti per la storia di Castel Frentano, ivi 2007 ss., 14 voll.) e il volume di Matteo Del Nobile Da Guasto Inferiore a Castel Frentano. Un’esposizione storica, ivi 2011. Del borgo è originario lo scultore di fama internazionale Mario Ceroli (1938), amico dell’autore.


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letterato Cesare De Titta.4 I membri del clan, portatori di un’inevitabile alterità, cercarono di mimetizzarsi in un clima da perenne medioevo (secondo l’opinione di Allegrini); il cognome venne mutato a ricordo di un benefattore,5 e forse anche a causa delle conseguenze di buone bevute. Il piccolo borgo collinare, dopo la perduta grande madre Rus’, diventa il secondo fuoco della parabola esistenziale del poeta, natovi nel 1942: «il paese dell’esilio» (come intitola una rilevante sezione della raccolta La stirpe di cenere), amato/odiato «paese dell’anima» e «paese della notte», contemporaneamente «paese dei nemici» e «dei miei morti più cari», russi per parte di padre e abruzzesi per parte di madre. Intanto, altrove in Italia e nella ex Jugoslavia, in Carnia e sulle rive del fiume Drava, sul finire della seconda guerra, per una parte del popolo cosacco si consumava un altro dramma: dopo essere divenuti improvvidamente alleati dei nazisti per opposizione all’odiato bolscevismo sovietico e nella speranza di rifondare da qualche parte una utopica Kosakenland, inclusi nei ranghi della Wehrmacht e delle Waffen-SS, i kazaki furono impiegati in azioni militari contro le formazioni partigiane della regione giulio-isontina nella cosiddetta Operazione Ataman. Arresisi ai britannici alla fine del conflitto, vennero rimpatriati dagli alleati, con la forza o l’inganno, in Unione Sovietica: molti di quelli che rifiutarono tale sorte nel maggio del ’45 finirono suicidi annegati nelle acque della Drava; altri vennero fucilati o impiccati dai russi, o furono internati nei gulag.6 L’arrivo, la permanenza e la tragica fine delle sgangherate truppe a cavallo, oltre che in tesi di laurea e libri di storia,7 sono stati 4 Il De Titta (Sant’Eusanio del Sangro 1862-1933) fu insegnante liceale, poeta trilingue e traduttore nella koiné chietina delle Elegie romane e de La figlia di Iorio dell’illustre corregionale. La raccolta dialettale che celebra i dintorni del paese nativo (nei pressi di Lanciano) si intitola appunto Tèrra d’ore (1925). Oltre che di altre sillogi poetiche il De Titta fu il compilatore di due note grammatiche scolastiche, latina e italiana, che con­ tri­bui­ro­no alla fortuna commerciale del tipografo ed editore lancianese Rocco Carabba. 5 A. Allegrini, I cavalieri di neve – Icone, Edizioni Orient-Express, Castel Frentano 2000, p. 248. Della casa editrice dal significativo nome è titolare lo stesso autore. 6 Negli stessi anni, ma per altri motivi, visse e descrisse la realtà dei gulag sovietici Aleksandr Isaevič Solženicyn, anch’egli di origini cosacco-ucraine per parte di madre. 7 P.A. Carnier, L’armata cosacca in Italia, 1944-1945, Mursia, Milano 1993; P. Stefanutti, Novocerkassk e dintorni: l’occupazione cosacca della Valle del Lago (ottobre 1944 - aprile 1945), IFSML, Udine 1995; A. Dessy, I cosacchi di Krassnov in Carnia e loro forzata consegna ai sovietici (tesi di laurea), Università degli Studi di Padova, a.a. 2003-2004; P. Deotto, Stanitsa Tèrskja. L’illusione cosacca di una terra, Gaspari, Udine 2005; R. Rossa, Venti cammelli sul Tagliamento. L’avventura cosacca in Friuli dal 1944 al 1945, IFSML, Udine 2007; L. Zanier, Carnia, Kosakenland. Racconti di ragazzi in guerra, Forum, Udine 2010.


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Introduzione

narrati dal friulano Carlo Sgorlon nel romanzo L’armata dei fiumi perduti, vincitore del Premio Strega 1985. «Nel Friuli, in Carnia / è morta la stirpe cosacca. / Armaghedon, disfatta.», scrive il poeta russo-castellino in un componimento incluso nella presente antologia, rammentando la eco della notizia di quei fatti giunta tra lo sparuto drappello dei kazaki abruzzesi. L’adattamento dei Demidov/Allegrini fu solo parziale: già stranieri in patria per schiatta e per la rigida ortodossia, mantennero ostinatamente anche in Abruzzo l’attaccamento a idee, pratiche, oggetti, usi linguistici, narrazioni orali, tradizioni e rituali. In un manoscritto dell’anno 1919 firmato da Nikolaj Alexandrovič Demidov, gelosamente conservato dalla famiglia di Antonio e da lui pubblicato, si leggono tra le altre le seguenti affascinanti e coercitive raccomandazioni: «A mio figlio […] Questi precetti che ti lascio sono anche per i tuoi figli. […] Non dimenticare la lingua, le nostre tradizioni, soprattutto l’antica fede e tutto questo ti comando di tramandare alla nostra discendenza. Non dimenticare la patria, le usanze nostre, le byline e le starine, i priskazki e le konkovki, le canzoni e il vero cognome nostro che è Demidov. […] Tieni sempre a mente l’antica religione. […] Rammenta il codice dell’onore cosacco: sii coraggioso senza spavalderia ed al momento opportuno. Retto nel giudizio, fedele alla parola data, deciso nella vendetta. Continua a vivere per quanto ti è possibile alla maniera della steppa. […] Tieni con te dei cavalli. I cavalli ci hanno salvato la vita. Essi per noi sono simbolo di gioia e di libertà. Ogni volta guardandoli ti ricorderai della nostra provenienza».8 Tra i poveri oggetti d’uso quotidiano trascinati dalla Russia fino al borgo chietino, spicca al contrario un tesoro: si tratta di alcune antiche icone che rappresentano la Vergine purissima, il Salvatore e i santi della tradizione ortodossa. Anche a questo proposito le parole di Nikolaj Alexandrovič risultano inderogabili: «Per quanto riguarda le icone rimasteci esse sono sacre […] in esse è racchiuso un potere divino, indicano una strada di conoscenza. Sono state testimoni del nostro errare, delle gioie e dolori della nostra famiglia. Esse sono vive». Chi ha letto anche il solo Le porte regali di Pavel Florenskij comprende perfettamente il senso di queste parole: l’icona, materialmente e spiritualmente preparata dalle mani e nell’animo dell’artista, scritta (e non dipinta) secondo tradizione, benedetta ‘all’antica maniera’, collocata su mensola in alto nell’angolo migliore della casa (‘l’angolo rosso’), fiocamente illuminata dal fuoco delle candele, riverita dalla famiglia e da essa pregata durante le ricorrenze liturgiche del calen8

Allegrini, I cavalieri cit., pp. 248-249.


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dario giuliano, costituisce l’ingresso verso l’altra dimensione e l’egresso da quella a questa: è la manifestazione epifanica che squarcia il buio del nostro mondo. Attorno alle tavole dorate i Demidov si raccoglievano spesso; nel brano introduttivo in prosa de I cavalieri di neve (qui antologizzato) Antonio si rivede fanciullo «con gli occhi inchiodati alle icone», presenti ovunque nella sua casa: da lì Maria, Isús (il nome vecchiocredente del Bambino) e i santi scendevano nella stanza e prendevano parte ai suoi giochi infantili. Una delle caratteristiche più evidenti della scrittura di Allegrini è l’accesa visionarietà:9 come ha scritto molti anni fa Vittoriano Esposito recensendo La stirpe di cenere, appare inesauribile lo sfolgorio delle sensazioni e delle immagini sulla pagina tanto del poeta quanto del narratore.10 È una caratteristica di famiglia, scrive Antonio; e in età infantile egli soffrì, o piuttosto ebbe dono, di coloratissime e «interminabili allucinazioni visive»: «azzurri impossibili, bianchi abbaglianti, arcobaleni di fuoco in cui i colori dell’iride scintillavano a lungo nel cielo, nuvole di un prodigioso arancione in equilibrio sull’oro antico del tramonto».11 Fu da bambino, e certo per il tramite delle figure iconiche, che egli ebbe certa sensazione di una realtà parallela che si incrocia continuamente con quella quotidiana, tanto da trascorrere poi «tutta la vita… in uno stato irreale e in un mondo inesistente per i più, ma reale e concreto» per lui e altri come lui:12 la vera patria perduta, propria di tanta tradizione orientale, di cui la Rus’ – tante volte rievocata nostalgicamente dai racconti dei parenti – rappresentava il corrispettivo nel nostro universo. Guardare oltre produce risveglio spirituale e fa acquisire un sapere che terrorizza (la consapevolezza della morte), per sostenere il quale è necessario diventare guerrieri. Con queste premesse si può immaginare che i primi anni di Antonio si divisero tra gioie e sofferenze intense: «l’infanzia trascorse felice»13 ma 9 Lo hanno rilevato in più occasioni Franco Di Carlo (La poesia in Abruzzo, Forum/ Quinta Generazione, Forlì 1984, pp. 32-33), Mariella Bettarini (nella prefazione ad A. Allegrini, Ritratti e notturni, Edizioni Orient-Express, Castel Frentano 2002, pp. 5-6) e Giovanni Casoli (Novecento letterario italiano ed europeo. 2, Città Nuova, Roma 2002, p. 165). 10 V. Esposito, Note di letteratura abruzzese, Edizioni dell’Urbe, Roma 1982, p. 110. 11 A. Allegrini, L. Ceroli, L’arte divina. L’icona: viaggio nei luoghi dell’anima, Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2009, p. 131. 12 A. Allegrini, Sciamanski. Un viaggio nella realtà magica, ivi 2006, p. 10. Se si presta fede alle parole dell’autore, nel volume si registrano anche sue capacità taumaturgiche, sparizioni misteriose e una vera e propria resurrezione. ‘Sciamanski’ era il nome segreto con cui il futuro scrittore veniva chiamato dai familiari. 13 Ibid., p. 11.


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nella miseria della realtà del dopoguerra, tra le umilissime cose che tanta parte hanno nella sua produzione letteraria, gli insegnamenti dei familiari (il nonno, il padre dai mille mestieri, la madre amatissima), la presenza della sorella più giovane, i cavalli, i giochi, le scorribande per le campagne, e le byline narrate ogni sera; ma amando «la solitudine, i grandi spazi, il silenzio – egli scrive – con i miei coetanei non mi trovavo e non mi ci capivo. Lo stampo mi era stato dato in maniera diversa».14 Anche la parte abruzzese della famiglia influì fortemente sulla formazione del ragazzo: da essa assimilò segnatamente il gusto per il racconto orale, parallelo a quello, fondamentale, della parte russa che tanta rilevanza ha nella sua produzione narrativa. L’adolescenza fu travagliata: a Roma si segnalano la precoce esperienza lavorativa in un circo come inserviente e la frequenza di un collegio salesiano (durante la quale si registrano i primi tentativi poetici) risoltasi con l’espulsione; nel Natale del ’59 morì quarantenne la madre. Dopo gli studi magistrali a Lanciano, iniziò la sarabanda degli anni più irrequieti: il periodo universitario al Magistero di Urbino, l’amicizia con Francesco Valli e Carlo Bo, gli spostamenti frequenti a Bologna, Firenze, Roma, i molti precari lavori (assistente universitario, insegnante di arti marziali, rivenditore ambulante di apparecchi televisivi ed enciclopedie), le occupazioni (allevatore di cavalli, cani e uccelli, pittore di icone). La morte del suo mentore, il professor Valli, marca l’abbandono degli studi: l’ormai ultimata tesi di laurea sui trovatori provenzali e le tradizioni popolari abruzzesi fu letteralmente buttata al macero. Venne incrementata invece quella che, per sé, Italo Calvino una volta definì ‘dromomania’; almeno fino al ’73 quella dello scrittore fu una continua nomade vita di strada – punteggiata da frequenti ritorni al paese – dentro e fuori i confini nazionali, talvolta ai limiti della legalità: in Francia, Germania, Olanda, Belgio, Danimarca, Tunisia, Turchia, Stati Uniti. Innumerevoli gli incontri e le amicizie; si segnalano almeno quelli con l’iconografo e monaco ortodosso Grigorij Krug al monastero parigino della Trinité, con Pier Paolo Pasolini,15 col poeta giramondo Irving Stettner,16 che lo mise in contatto Allegrini, I cavalieri cit., p. 12. L’intellettuale friulano aveva espresso ammirazione per i versi del poeta abruzzese e pare che, poco prima della morte, ne avesse caldeggiato la pubblicazione. 16 Irving Stettner (1922-2004), «l’ultimo poeta beat», newyorkese apolide e dissidente, pubblicò per decenni la rivista indipendente «Stroker», sulla quale trovarono posto, nel 1976, anche traduzioni di alcune poesie di Allegrini. Fu pure editore di Henry Miller. La sola antologia poetica esistente in italiano dal titolo Hurrah! è uscita a cura di D. Argnani ed E. Sughi, Edizioni del Foglio Clandestino 2012. 14 15


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con Henry Miller: e con l’autore di Tropico del cancro Allegrini tenne una folta corrispondenza, con reciproco scambio di disegni e acquerelli; fu perfino suo ospite per alcuni mesi a Pacific Palisades, sull’oceano.17 Nel frattempo presero corpo molti componimenti poetici, alcuni dei quali stampati.18 Tre lunghe poesie vengono pubblicate nel volume palermitano della sesta edizione del premio CE.SI (1972); parecchie compaiono nell’antologia in appendice al saggio Gli ultimi poeti della strada (1973) di Rolando D’Alonzo; nello stesso anno e nel successivo escono due plaquettes e una raccolta (Non dormono non ascoltano sono solo morti, 1973; Ultima stazione e Quaderno per un ricordo del sole, 1974). I componimenti di Non dormono… risalgono ai primi anni ’60; quelli di Ultima stazione, secondo Vera Passeri Pignoni, al ’64.19 In tutti si riscontra un impotente senso di rivolta in anni da apocalisse e fine del mondo: occorrono con frequenza immagini e realtà di solitudine, percezione di incombente decadenza (il sud è definito «terra di ginepri, serpi e morte»), scomparsa della luce, consapevolezza di un’imperdonabile colpa: l’abbandono dei boschi, pianeti perduti, a favore della stritolante modernità incarnata dall’asfalto delle città. Ricorrono molte espressioni del campo semantico religioso e biblico, invocazioni o bestemmie, spesso in linea con gli enunciati negativi («fuoco della Geenna», «Armaghedon», «dies irae», «Kyrie», «Amen»). I versi sono lunghi (versi-prosa) ma fratti: ossessiva la presenza dei trattini, di probabile vaga ascendenza beat, che quasi maciullano l’andamento prosastico. In tanta distruzione si fa largo tuttavia sempre più una «attesa di luce», un’antica promessa di un ordine più grande: dopo l’ultima stazione (l’ultima osteria, l’ultimo casello ferroviario, l’ultima stazione della croce di Cristo) sembra rifarsi possibile il «ricordo del sole». Compare già in queste prime raccolte uno dei temi più cari all’autore, che tanta parte ha nella produzione successiva: quello della potenza e della necessità 17 Dell’amicizia con lo ‘scandaloso’ romanziere americano e del rocambolesco viaggio per raggiungerlo ha dato conto lo stesso Allegrini nel ricordo intitolato Incontro con Henry Miller, «I fiori del male» 50 (2011), pp. 8-13. 18 Un’intera raccolta, Il sentiero di Numa, andò perduta. 19 Il vol. del sesto Premio di poesia CE.SI. è a cura di M. Camilucci (A. alle pp. 151162); il libro di D’Alonzo (A. alle pp. 91-104) e Non dormono… uscirono presso Cinque Punti (Chieti), come il Quaderno, incluso in Nuove proposte di poesia e teatro (seconda ed. a sé: Gabrieli, Roma 1987); Ultima stazione, Premio Pier delle Vigne 1973, fu pubblicato dal Centro d’arte e cultura L’Airone (Capua): sull’anno di composizione si veda Il peso della speranza. Antologia della poesia religiosa degli anni ‘70, a cura di V. Passeri Pignoni, Forum, Forlì 1977, p. 153 (ma alcuni componimenti della raccolta risalgono certamente ai primi anni ’70).


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della memoria. La memoria è «striscia bianca di luce / lo scarabocchio sul muro», scrive il poeta in Ultima stazione: anche se «è duro ricordare il buio dell’origine», dimenticare è impossibile perché «il mio corpo – la mia anima sono completamente mescolati / a tutte le cose che vennero distrutte e che risorgeranno» (Non dormono…). Nell’oscurità, nel silenzio completo è possibile ritrovarsi e perdersi. «Non dimenticare», scriveva Nikolaj Alexandrovič al figlio. Allegrini scrive parole e non dimentica, nemmeno gli oggetti e i giorni meno degni di attenzione: la muffa, lo sterco di cane, gli inutili anni. A dispetto della sua fama di regione periferica, isolata e primitiva (un mito coltivato spesso dai suoi stessi figli, D’Annunzio e Croce in primis),20 l’Abruzzo negli anni ’60 e ’70 fiutò il vento del cambiamento anche in ambito letterario. Figliastri della neoavanguardia, del Gruppo 63 e dei Novissimi furono i poeti (Renato Minore, Renzo Paris, Sergio De Risio i più noti) che a Pescara, a Chieti, a Gessopalena, si autodenominarono Quinta Generazione: alfieri della rottura e del rifiuto della tradizione, sperimentatori linguistici. A questo nutrito contingente si contrapposero altri poeti e artisti, definiti da D’Alonzo «Gli ultimi poeti della strada»: tra loro i migliori furono Allegrini, la sorella Pina, Clemente Di Leo (morto ventiquattrenne), Tommaso Tozzi. Essi opponevano agli alambicchi intellettualistici e ai componimenti da laboratorio dei Novissimi e di Quinta Generazione una poesia sull’uomo calato nella storia, poesia come atto vitale, ben piantata in quella terra sulla quale ancora sapevano coltivare pomodori e zucchine: D’Alonzo li denominò pure «poeti zappatori» (con riferimento colto, non tanto ai succitati ortaggi quanto a un omonimo gruppo democratico della storia inglese postcromwelliana). Nel ’72 alcuni degli «zappatori» (Antonio e Pina Allegrini, D’Alonzo stesso) diedero vita al Gruppo dell’Est, che raccolse consensi e adesioni anche fuori regione:21 pubblicarono diversi numeri di rivista (i «Quaderni della malora», dal ’76)22, indirono un convegno (in sintonia con le posizioni del New York 20 Per la Frentania hanno sfatato la leggenda gli studi storici di Corrado Marciani (raccolti in gran parte in Scritti di storia, Carabba, Lanciano 1974 [seconda ed. ivi 1998]), che ha dimostrato i secolari significativi rapporti della regione con il resto della penisola e la costa orientale dell’Adriatico. 21 Tra le figure più note il poeta operaio mestrino Ferruccio Brugnaro e il trevigiano Agostino Contò, oggi bibliotecario a Verona. 22 Fino al 1978 ne uscirono alcuni numeri a stampa o ciclostilati. La rivista alternava manifesti letterari, testimonianze ‘dal basso’, traduzioni (in ispecie di poeti americani come Stettner e Ferlinghetti), poesie del Gruppo o di altri (segnatamente dei membri del


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Poets’ Protest Day), opposero al disimpegno una lotta morale ancor prima che politica, e che legasse poesia e vita contro ogni cultura libresca. Nel primo componimento della silloge per il Premio CE.SI Allegrini scriveva: «La poesia nasce / come una prova di vita […] La poesia nasce da un universo oggettivamente inafferrabile come vita – / morte – pensiero abbagliante – / la poesia nasce nel rischio di vivere…». Le peregrinazioni finirono (e dal 1978 Allegrini acquistò casa in una isolata contrada castellina), la poesia no. Sulle pagine dei «Quaderni» vennero elaborati i nuclei di almeno due raccolte successive, La stirpe di cenere (Forum/Quinta Generazione, Forlì 1978)23 e Tavernanova (Solfanelli, Chieti 1992), entrambe prefate da Giorgio Barberi Squarotti. Esse distillano le esperienze personali fuori dal comune degli anni precedenti e insieme marcano il segno della differenza tra presente e passato, individuale e collettivo (della «stirpe»). Nella prima silloge (nella quale Barberi Squarotti avverte un rimbaudismo autenticamente rivissuto) inconsolabile appare il senso di perdita che ne deriva dal confronto con l’oggi dell’infanzia e gioventù passate («Abbiamo giocato le carte migliori / perdendo»; «il mio tempo migliore si ferma per sempre / su questa pagina bianca» è la quasi epigrafe del libro), delle generazioni andate, dei perduti anni; irrefrenabile la necessità della memoria («Ricordo l’inverno…») e del recupero dell’unico vero sé, quello del passato («qui / una volta siamo restati fermi all’infanzia»; «Sarò vissuto per tornare in questo posto») continuamente e inutilmente rimetabolizzato («E qui resterò per sempre murato e ignoto»; «So che non troverò mai più quello che cerco / e che nessuno ricorda»); passione metafisica per il marginale e il rifiutato, si tratti di uomini (ragazzi del manicomio, prostitute, emigrati, zingari), animali (la gallina, la formica, il grillo, il topo, il serpe), cose (il borgo franoso, gli orticelli, le stalle, i piatti sgretolati). «Ritorno nei piccoli luoghi dove nessuno mi ricorda», «sarò sempre lo stesso ragazzo»: il ritorno a Castel Frentano rompe la frenesia dei viaggi materiali ma fa irrompere totalmente la presenza di un altrove temporale, uno ieri continuamente ruminato senza cedere all’idillio (Barberi Squarotti). Il mondo di ieri, non bello («Ebbi un’infanzia triste / e bussarono alla porta troppo presto»), è comunque rimpianto, come ha definitivamente insegnato il favoloso giovane di Recanati; e ricosiddetto Antigruppo siciliano – fondato a Trapani dall’italo-americano Nat Scammacca e su posizioni analoghe agli «zappatori» – come Crescenzio Cane, Gianni Diecidue e lo stesso Scammacca). 23 Uscita nella nota collana di poesia diretta dal benemerito Giampaolo Piccari.


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manda forse a un altro ieri, quello del «grido dei Padri» della terra cosacca. I versi della Stirpe, anche se spesso più brevi di quelli giovanili, hanno acquisito maggiore respiro: la memoria è un flusso. Il poeta è fermamente intenzionato a recuperare e non solo a gridare. La copertina del libro (un disegno dell’autore) lo ritrae quasi in vesti sacerdotali su uno sfondo innevato dove un cane e un diavolo si fronteggiano, e altri animali veri o fantastici assistono alla scena: una sorta di rappresentazione simbolica di un rito sciamanico che interessa il cosmo. Nel paese dell’esilio, «di bruchi e flagelli» (mentre la patria si andrà definendo precisamente più tardi), Allegrini per anni fece il maestro di scuola elementare, e con l’infanzia (anche sua, supponiamo) fu quotidianamente in rapporto. Nelle lunghe composizioni di Tavernanova (raccolte sì all’inizio degli anni ’90 ma composte in maggior parte tra la fine degli anni ’70 e la prima parte degli ‘80)24 il poeta rimesta ostinatamente nel mondo e nel sentire delle sue età passate, infanzia e giovinezza. La poesia eponima oscilla tra «il terribile viaggio nell’Ade di tutta l’Europa, conoscenza totale della solitudine e del dolore; i lunghi inverni del Nord» (come si ricava dalla introduzione di Ultima stazione) e i dolci ricordi dei «libri di ragazzo / perduti nei cassoni che odorano di mele / bruciati per far fuoco e luce nelle più buie notti»: da una parte i viaggi randagi e oscuri nelle stazioni, nelle strade nere e nelle città «appestate dallo sterco dei padroni», nelle camere delle prostitute, nelle taverne, nelle bische «laddove inizia il buio»; dall’altra flash di partenze e arrivi in paese dei lupi di un circo. L’infanzia la fa da padrone ne La controra, in cui compaiono «le cose care ed inutili che ci fecero felici», accompagnate da animali, piante, spaventi («lu Rifero», lo spirito maligno delle campagne; «la Pantafica», incubo notturno), condizioni miserabili («i pidocchi pellini in fila sulle assi / che aggrediscono i bambini nella culla / rabbiosi / pieni di roffa e merda secca», «il muro / mangiato dal salnitro»), i morti. Nel futuro «nessuno sarà ad attenderci… ci ritroveremo nella piazza vuota / come pezzenti»; e sarà un futuro di «Malora. / E tutto è stato detto / compiuto / consumato / niente da fare / triste profezia / enigma / storia narrata da una stanca bocca / dimenticata 24 Il componimento eponimo era già comparso nell’84 in Poeti d’Abruzzo, a cura di G. Lasca e B. Sablone, Forum/Quinta Generazione, Forlì; Le quattro strade in Codex figurarum, Solfanelli, Chieti 1986 ma con indicazione di luogo e data «Castelfrentano [sic] gennaio del 1978», e, con il titolo 1978, ne «Il bel paese» 7 (1989); una delle Canzoni dei giorni incompiuti in Poesie e prose scelte. Premio L’Aquila-Zirè d’oro 1988, Edizioni dello Zirè, L’Aquila 1989; parte di Computo dei mesi (che porta come data di nuovo il 1978) ancora ne «Il bel paese» cit.


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per sempre / nel tempo del destino». E ancora le due età si intrecciano, inesorabilmente perdute, ne Le quattro strade, tra i ricordi della scuoletta dei «piccolini /ormai dimenticati» ma chiamati per nome e soprannome e colloqui disperati con gli zingari «gente strana / orgogliosa / pieni di sapere e di poesia», tra crescite miracolose («per scommessa quasi / come topi nelle caverne buie / grotte o stalla / magri / sbilenchi ed acidi / dentro abiti più grandi») e le osterie di «un lungo viaggio inconsolabile / sempre uguale sempre diverso». Le Canzoni del tempo perduto, qui ampiamente antologizzate, insistono sul «breve, atroce inganno della giovinezza». In Malastagione, dedicata al docente universitario urbinate Francesco Valli, la struggente autobiografia porta il marchio dell’esclusione fin sul limitare della vita. Al Concerto dell’estate dal paese dell’esilio, che manifesta la consapevolezza che «il destino di ognuno di noi è segnato fin dall’inizio» (e le citazioni di diverse filastrocche infantili a quell’inizio rimandano), segue Alberi, siepi e piante, composta perlopiù di un elenco degli antichi e nuovi sodali. Infine nel Computo dei mesi (in cui prose poetiche precedono i versi dedicati ai mesi), tra inappellabili prese di coscienza («non dimentico niente», «ora posso solo ricomporti nel ricordo»), la putredine delle cose e l’indifferenza dell’universo, la fine di una razza («la stirpe di gente semplice / autorevole / si perde per sempre»), la sapienza dei vecchi sconfitta, si avverte che nel mondo c’è posto anche per un progetto metafisico: «credo esista un disegno inavvertito / nelle piccole cose che vediamo…» e per una professione di fede nella irresistibilità della parola: Segreta forza che mi spingi a raccontare tutto ciò che ricordo con voce amorevole piccole storie di un mondo perduto di erbe – stagioni luci che ritornano con scansione precisa in un paese ormai solo della memoria Anche Tavernanova, come la Stirpe, si compone di «perfetti poemetti» (Barberi Squarotti) e componimenti più brevi. Tre delle otto sezioni principali del libro riportano in esergo citazioni veterotestamentarie che parlano di erranza (Isaia), ferite (Zaccaria) e del breve tempo all’uomo concesso (Salmo 144), a testimoniare certo l’eterna e dolorosa vicenda umana, ma anche l’accoglienza in misura sempre maggiore dell’insegna-


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mento dei Padri e, in ultima istanza, della dimensione religiosa; e i padri tornano, nella figura del nonno, con considerazioni di sapienza popolare, in altre due citazioni in esergo (la prima tra stoicismo, scetticismo e fede: «Ora che tu hai capito tutto / e sai il gioco / non t’arrabbiare, stai zitto e buono, / getta la tua carta e non fiatare»). Dalla fine degli anni ’70 a oggi Allegrini dunque non ha più compiuto significativi spostamenti geografici ad ampio raggio. Ha coltivato come sempre le amicizie, che si sono arricchite via via di nomi nuovi e prestigiosi, quali quelli di Umberto Bellintani, Dario Bellezza, Mario Rigoni Stern, Raffaele Crovi e Lawrence Ferlinghetti,25 ad esempio. Tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80 il poeta, forse memore delle sue ricerche per il lavoro della tesi di laurea, certamente per un interesse in lui da sempre presente,26 attraversò più volte a cavallo le montagne dell’Appennino abruzzese-molisano con lo scopo di raccogliere canti, testimonianze, usi, proverbi della civiltà pastorale in estinzione: lo scopo, l’ossessione evidente, è ancora quello di tentare di conservare i lacerti del passato.27 Nascono in questo periodo i due libri di novelle, Gli anni delle tristi piogge (Solfanelli, Chieti 1988) e Il fuoco della Gehenna (Carabba, Lanciano 1998),28 e un volume sulle tradizioni popolari del paese natale (Castelnuovo. Racconto di un mondo scomparso, Solfanelli, Chieti 1988). È lo stesso autore, come avviene frequentemente, a far cenno alle multiformi origini del proprio raccontare. In primo luogo «l’alternarsi delle stagioni, le fasi lunari, i mutamenti delle ore e dei giorni furono i primi grandi libri aperti ed inesauribili» che gli narravano «storie favolose e strane», comprensibili a lui solo.29 Poi, per parte russa, le byline 25 Crovi pubblica del nostro ampi stralci di due poemetti di Tavernanova sul periodico da lui diretto Il bel paese cit. Ne ricorda l’eccentrica figura in Diario del sud, Manni, San Cesario di Lecce 2005, p. 55. Dell’amicizia e dell’incontro (a Castel Frentano, nell’89) con il poeta statunitense, mentore Nat Scammacca, narra lo stesso Allegrini nel ricordo L’incontro con i grandi della Beat Generation: Lawrence Ferlinghetti, «I fiori del male» 47 (2010) pp. 18-19. 26 Nel racconto a sfondo autobiografico Antùn Tunias (Gruppo dei Solstizi e degli Equinozi, Castel Frentano 2012) il protagonista, avido di storie dalla più tenera età, diventa un maestro di favole: gira il mondo con il suo cavallo e il suo carro di libri incantando i bambini che lo ascoltano, come incantati per il vero Antonio erano i pomeriggi trascorsi ascoltando il nonno narrare (si veda qui il breve Le spose). 27 L’ultimo libro pubblicato ad oggi di Allegrini, Pastori della Maiella (Gruppo dei Solstizi e degli Equinozi, Castel Frentano 2014), riusa e rielabora parte del numeroso materiale allora raccolto. 28 La composizione dei racconti del volume risale al periodo in esame. 29 Allegrini, Ultima stazione cit., p. 9.


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serali raccontate davanti al focolare e la tradizione degli skaziteli, fabulatori orali spesso vaganti, da cui la famiglia discende, che erano in grado di imbastire vere e proprie saghe favolose in cui il complesso intreccio e gli innumerevoli personaggi delle vicende non facevano mai perdere il senso dell’unità diegetica;30 per parte latina, certo i nonni materni e le immense miniere del folklore e della favolistica abruzzesi, vivi fino a pochi decenni fa e oggetto di studi a partire dall’800.31 Si aggiunga anche l’influenza di due singolari e reali figure, due «sopravvissuti alla morte»: l’ebreo Elias Eruslàn, sfuggito ai campi di concentramento ed emigrato con fortuna negli Stati Uniti, e il parente cosacco Dimitri Demidov, scampato al massacro della Drava, ritornato in Russia alla fine degli anni ’50 senza lasciare più tracce, entrambi affascinanti cantastorie dell’infanzia dell’autore.32 La mescidanza delle tradizioni induce Allegrini alla creazione di un universo narrativo singolare: sullo sfondo di una mitica Castel Nuovo del tempo incerto, sempre sui bordi di un’immane apocalittica frana33 negli «anni delle tristi piogge», ma verosimilmente tra ‘700 e primo ‘900, si muovono figurine tragiche o più spesso grottesche, reali e fantastiche al contempo, in una dimensione dove morti e vivi convivono fianco a fianco: il comandante garibaldino Federico, Radovan lo slavo, Raissa la zingara, nonni, re, plebei, iconografi russi, rabbini, pastori, sacerdoti più pagani che cristiani, lupi mannari, uomini trasformati in donne, angeli, diavoli, girovaghi, negromanti, emigranti, promesse spose defunte. Eventi e personaggi si accavallano a ritmo frenetico (segnatamente nel Fuoco), creando una sorta di narrazione stratificata apparentemente caotica dove episodio rimanda a episodio, figura a figura, come nei più classici svolgimenti favolistici. Ma tutto si tiene in questo strano universo, per il quale più di un lettore avvertito ha colto affinità, quasi certamente casuali, con la Macondo di Gabriel García Marquez o l’opera di Isaac Bashevis Singer.34 I vivi e i morti vagano spesso in 30 Un esempio di bylina, sia pure in prosa, sul mitico eroe Ilja Muromski riporta Cristina Allegrini in Fiabe dell’antica Russia, Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2004, pp. 17-23. 31 Assai noti i nomi e le opere di tre demologi abruzzesi pionieri in questo campo, Antonio De Nino (1833-1907), Gennaro Finamore (1836-1927) e Giovanni Pansa (18651929). 32 Allegrini, Il fuoco della Gehenna cit., pp. 206-207. 33 Il territorio castellino subì più volte nei secoli disastrose frane di terreno; la più catastrofica (è anche il centro narrativo di un racconto di Allegrini) si verificò il 31 luglio 1881, per cui si veda Del Nobile, Da Guasto Superiore cit., pp. 239-270. 34 Si vedano l’introduzione di Anna Ventura a Gli anni cit., p. 8, e Casoli, Novecento letterario cit., p. 166.


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un universo parallelo nostalgico (la nostalgia riempie le cose di spirito, ha detto qualcuno): i primi per le cose misere perdute dell’infanzia (l’odore di farina, il rumore dei tarli), i secondi sospesi e in pena, in una dimensione legata alla vita ma da cui vogliono uscire. Nel mondo-paese fanno la loro apparizione figure spesso singolari: zingari, stranieri sapienti, infanti mostruosi e diabolici, stregoni. C’è chi ritorna: emigranti solitari ombrosi o innamorati, morti nel momento della catastrofe, diavoli. C’è il legame delle steppe uomo-cavallo. C’è il destino affascinante e tragico degli uomini. In un singolo racconto della metà degli anni ’80, Il Sacro Visindù,35 in un tono da fiaba senza tempo l’autore fa uso di un’ironia più pronunciata e della tecnica dei racconti nel racconto, ma per ribadire serissimamente che la ricerca di qualsiasi Sacro Graal coincide con il desiderio di conoscenza della propria e della comune sorte, che mai ci sarà interamente svelata. Pure il libro su Castel Nuovo non si sviluppa come un saggio accademico, ma è svolto anch’esso come una sorta di narrazione per aneddoti e personaggi: restano impresse le pagine sul commercio equino nella zona (per i castellini, scrive l’autore, il cavallo è l’unica ragione di poesia e di vita), sull’avo Federico, già mitica figura degli Anni, su Carmine il gaucho, su Ianuccio (anch’egli negli Anni) e i suoi commerci nei Balcani, sulla nonna Maria autrice di una affascinante narrazione che si snoda tra otto e novecento, e su altre figure minori (come Sem il pittore) della piccola comunità. Fino al 1996 Allegrini non pubblica altre raccolte poetiche, ma nello stesso 1988 scrive (e tiene nel cassetto) un feroce divertissement intitolato I poeti, edito solo nel 2005 (Edizioni Orient Express, Castel Frentano, con prefazione di G. Barberi Squarotti), un poemetto nel quale con toni sarcastici descrive l’escrementizio mare nel quale la genia dei falsi poeti è costretta a navigare negli anni. L’opera si chiude ancora su toni nostalgici nella rievocazione dei venti che accompagnarono, consolarono o contribuirono a maturare l’esistenza dell’autore dall’infanzia in poi. Il ritorno, deciso, alla primeva vocazione lirica avviene con la consistente raccolta Icone (Noubs, Chieti 1996), rifusa poi in seconda edizione, e completata delle parti a suo tempo escluse nella prima, con il titolo di I cavalieri di neve – Icone (2000), nella collana Doppia anima della casa

35 Scritto nell’86, pubblicato dapprima sulle pagine di Rivista abruzzese 53, 3 (1999) e poi a sé nel 2009 (Edizioni Orient Express, Castel Frentano).


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editrice dell’autore. Come scrive Anatolij Arkhipov36 nella prefazione al volume, si tratta di un vero e proprio «ritorno ai cosacchi» verificatosi nella piena maturità dello scrittore, che così lo giustifica: «qualche anno fa, in seguito ad una serie di accadimenti che portarono scompiglio nella mia vita, mi si sono risvegliate nell’animo immagini di quel passato favoloso: archetipi, tradizioni ataviche, fatti e situazioni che incisero in maniera assoluta il bianco libro della mia tenera età».37 Nella redazione definitiva il volume si compone di cinque sezioni (Icone; Incensi e penombre; Il custode dei campi; I cavalieri di neve; Congedo)38 e una breve prosa finale. Nella prima si manifesta netto il richiamo dell’altra dimensione («L’eco di invisibili sponde / rimbalzava / nei giardini primaverili / pieni di intramontabile stupore») che la «doppia anima» del poeta concreta nelle abitazioni delle sue due patrie («Datemi un’izba, una pinciara, / un tetto d’erba / dove riposare alfine incolume»). Avviene un’identificazione con le immagini della tradizione russa, il cui appeal è ormai perduto negli anni («Nessuno si ricorderà più di noi / irripetibili bagliori / vite perse / enigmatiche icone obliate / su palchetti polverosi»). Tuttavia i santi, la Vergine (Uspenij è lirica eccelsa), il piccolo Gesù, i pellegrini, gli angeli, i demoni, i defunti («senza requie… nelle case spoglie sepolte dalle piogge») tornano a mostrarsi ai «profughi migranti» condannati «ad una perenne sconfitta» (il poeta e la sua razza) perché «il mondo va per altre strade». Inesorabile nel «sangue ardente / di tutti i cosacchi» devoti alla «dolce ortodossia» si annida una malattia mortale che segue «la pista di gente per generazioni, simile a un nero, accanito segugio». La rivoluzione del poeta, un tempo urlata, prosegue, ma ora «per avere un pezzetto di cielo». Nella seconda sezione, introdotta da versi in russo che tradotti suonano «Anelante al cielo è l’anima / abitatrice di altri campi», l’intento del poeta si fa ancora più scoperto. Dominanti appaiono la dimensione della perdita e del dolore, e proprio a quest’ultima perenne realtà viene intitolato il poemetto più lungo e complesso del libro (che riportiamo integralmente) che chiude Incensi e penombre. Anche se «misere stanze trattengono ancora per poco / un tepore finora inviolato», la terra è «ricolma / di perdizioni», Intellettuale, scrittore e traduttore russo morto misteriosamente a 47 anni nel 1997. Allegrini, I cavalieri cit., p. 13. 38 Rispetto alla prima edizione vengono aggiunte le corpose sezioni terza e quarta. La più emozionante recensione all’opera è quella di Vittoriano Esposito, Antonio Allegrini e le sue Icone (2001), ora in Penultime note di letteratura abruzzese, Noubs, Chieti 2004, pp. 121-125. 36 37


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il mondo uno strazio, un «convito delle perdite»; la vita «ci beffò crudele / trascinandoci / in questa contrada di spiriti adulti. / Ci trafissero / con leggi crudeli / rivelazioni sinistre»: l’età matura è una desolazione, «la vita fece di noi / quello che voleva / fu necessario ogni tormento, / ogni dolore giusto». Evidentissimo lo scollamento tra le due parti di sé in una delle liriche centrali della raccolta: «Dualità mutevole / mai ricomposta nei giorni e negli anni / che vivemmo…». Si riscontra ancora la necessità del ricordo e della parola, ma, segnatamente nella memoria della storica strage cosacca sulla Drava de La lettera, la consapevolezza tragica è altra: «Da allora sapemmo con certezza / che non saremmo più tornati indietro». La dolce ortodossia, capace di ritrovare nonostante tutto l’armonia nelle e tra le cose, compare nella figura del santo Serafino di Sarov, la cui figura viene misticamente tratteggiata nella delicata Prokhoro Mochnine: nel beato fanciullo che torna alla Santa Madre (la Vergine) è avvertibile «l’antica nostalgia» del poeta per la Rus’, perduto e incantato paradiso. La realtà, nei mesi, negli anni, dopo la morte in Carnia della «grande famiglia» cosacca del Grebegn, è quella di uomini «disfatti / di fronte a questo squallore / immenso» di Bol-dolore (con titolo significativamente bilingue): il poemetto, fortemente visionario, ha inizialmente un respiro cosmico. Al dramma non c’è soluzione, e sarcasticamente Allegrini fa dire al nonno: «o si torna a cavallo in Patria / o si va al catasto a fare l’impiegato». Ciò che rimane dell’antica religione, ormai impraticabile secondo i precisi riti di un tempo, il suo principio, si può comunque riscontrare negli «umili, semplici elementi… dentro una goccia d’acqua, / nell’odore del concime, / nel fruscio dei topi sul piancito». Nella terza sezione il poeta si muove ancora tra destino di un popolo e destino individuale: il nuovo paese non sarà mai l’antica patria, e i suoi campi sono «luoghi di magie e perdizioni, / luoghi amari che rendono abietti / gli uomini e le cose […] L’anima qui si perde, / diventa rustica, meschina / nel seguire la logica dei semi…». E di nuovo, apocalitticamente, arriva la condanna. «Nessuna speranza su queste colline / che appartengono alla frana»: che non è solo quella reale del 1881, ma quella universale del tracollo di un’intera stirpe travolta dalla storia. Al poeta a nulla sono valse le fughe giovanili dal borgo: «… noi fuggimmo lontano / e fuggimmo negli anni, / nel tempo smisurato / per poi ritrovarci / in questo teatro di vecchi, / profughi della storia / a recitare / la parte del rimpianto…». Nonostante l’assenza di ulteriori rivelazioni, la salvezza – si diceva all’inizio – è rappresentata da una presenza dorata: «Dovunque vada / avrò le mie icone…». Esse costituiscono una sorta di parziale ma autentica cer-


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tezza: non solo reliquie del passato, ma eterni passaggi di comunicazione con l’altra dimensione. Una consapevolezza negativa definisce il nucleo della quarta sezione, una sorta di ovvia ma tragica profezia di esilio eterno: «Non sono mai partito per il mio paese», «I cavalieri di neve oramai riposano / in pascoli stranieri», «Morirò e non vedrò la mia Patria / l’immensa terra dalle guglie d’oro…». Solo la morte potrà interrompere la lontananza; ma la riconquista della Rus’ allora non potrà che essere l’approdo alla dimensione dell’altrove, il vero paradiso perduto e forse riacquisito. Il poeta si congeda due volte, superando in qualche modo l’apocalisse:39 la prima, nella quinta sezione, ricordando che la sua passione per il vero, il bello, il santo «fermò la vita in un tempo bambino» dove egli rimase per sempre non tocco dalla metamorfosi dell’età adulta, affamato «solo di candore»; la seconda con un apologo à la russe: la piccola storia del vecchio samovar che, dimenticato in soffitta e dato per defunto, torna vitalmente a sbuffare. Che cristiano è chi non crede nella risurrezione? La raccolta si chiude così in crescendo dopo aver segnato un inevitabile nadir di perdizione: è una caratteristica che ritorna anche in altri scritti successivi di Allegrini. Le raccolte pubblicate nel nuovo millennio, Ritratti e notturni (Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2002), Oscurità (ivi 2004) e Poesie da un modesto abisso (ivi 2008), sono accomunate nei titoli da una tenebrosa atmosfera. In realtà Allegrini riesce spesso prodigiosamente a trarre linfa vitale dalle cadute più aberranti. I Ritratti sono dedicati «a Isús» e si dividono in due sezioni: la prima composta da poesie che portano come titoli i nomi di molti amici,40 la seconda – ancora e insistentemente – ai morti, alla giovinezza perduta, al bimbo che si è stati. Ne svelano il carattere alcuni versi dell’autore apposti in esergo a un componimento intitolato a Italo Di Nardo:

La storia, la nostra storia è nostalgia di età lontane diventata inganno,

39 A proposito della quale A. Arkhipov non esita a suggerire paragoni con l’opera e il nome, oramai ben noti, di Vasilij Rozanov. 40 Tra gli altri Anna Ventura, Maria Grazia Lenisa, Mario Ceroli, Marcello Camilucci, Anatolij Arkhipov, Giorgio Barberi Squarotti, Mariella Bettarini, Mario Rigoni Stern.


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flebile suono, proiezione di inquieti fantasmi accampati davanti alla porta di vite in frantumi

L’altra storia, quella del resto degli uomini, ha strappato il poeta alla sua e a quella dei suoi; quest’ultima ritorna verso sera, quando giungono di nuovo a visitarci i defunti e «si svegliano / le perdute cose / raccolte / dal tempo dell’infanzia / lasciate / per un’incuria adulta / nel castigo / di dimenticanze / incomprensibili». Il destino del poeta è stato deciso molto tempo prima, sotto l’influenza della lattea luce lunare. Da allora, «antenati di noi stessi», spazzati dal vento «porta dell’inferno / adulto / a noi predestinato», il tentativo è stato quello di allineare parole in onore di uomini, animali e cose da tutti abbandonati: «E la vita, l’unica, la nostra / ha gli occhi neri delle notti / in cui sposammo gattini abbandonati / e topi rognosi / in pattumiere senza fondo / dove volarono inganni…». Nella prosa finale del libro il poeta rilancia coraggiosamente una speranza, negata «in questa epoca di fervida ignavia»: «Se ci sarà il chiarore della redenzione si trasformerà nel suono armonico di un pacifico respiro di fanciulla, nella parola della pioggia che recita sommessa il primo canto della primavera o nel fardello leggero di un sorriso amico». Oscurità è un breve libro la cui qualità poetica il prefatore, ancora una volta Giorgio Barberi Squarotti, non esita a definire «altissima». L’autore giunge a un punto di non ritorno: colpisce l’esorbitante numero di termini connotati negativamente e continuamente affioranti nei testi. Non solo tutto si rivela sotto le specie di un generale naufragio, fatto di anni perduti, di «viaggiatori espulsi dalla storia», non solo «Tutte le cose finite, / ammonticchiate nel cuore / costruivano con maestria / un domani di dolore, / una profonda ferita mai sanata / dagli esseri umani / che non ci insegnarono l’amore / con la loro paura / di scoprirsi deboli / davanti alla pena degli altri», ma anche la memoria sforna ormai «infernali legioni / di ricordi-vampiri» nei quali è impossibile trovare salvezza. E così «La civetta ci chiama / dolorosamente / sulle piste del vespro / a ricordarci il commiato / dalle verità svanite / nelle finzioni / del quotidiano inganno»; la mente produce storie con radici nella morte «fin da quando / la verde scorza / assaporò la luce del sole». In questi «anni cellofanati» Dio si è ritirato dalla terra. Eppure, come nota ancora Barberi Squarotti, la poesia


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di Allegrini diventa paradossalmente «una creazione mentre proclama il nulla»: il poeta ricorda, parla, scrive, affida ai segni sulla carta il messaggio della bottiglia nel diluvio. La patria è diventata la «madrepatria del silenzio»; tuttavia, nel cuore del libro, due versi riaccendono per un istante una minima ma intensissima luce: Per fortuna il Signore sopravvive alle nostre miserie. E sopravvive anche là dove più turpe e più laida si fa la vita, o ciò che ne resta. L’ultima raccolta di Allegrini è intitolata a «un modesto abisso». Modestissimo: quello di un giovane Rimbaud (o Dino Campana) in sedicesimo alle prese, tra anni ’60 e ’70, con amori e amorazzi nei cosiddetti luoghi di decenza, convinto da una parte che la «puzza di sterco e urina… racconta il pungente / odore della nostra putrefazione», e dall’altra che «la mano di Dio, / il suo amore silenzioso / ti raggiunge comunque / in ogni luogo / anche in una latrina puzzolente / nella defezione di uomini / che hanno tradito ogni morale, / la vita, i sogni / e senza speranza aspettano solo / il grande Sconosciuto». I componimenti sono dodici, dodici stazioni di un reale calvario della degradazione. Più in basso di così non è possibile andare. Senza violenza, come fecero Saba, Baudelaire e Kavafis – ricorda ancora Barberi Squarotti – nell’abisso si ritrova Dio, in una sorta di discesa nell’abiezione, che, come sanno i mistici, può essere il confine della rinascita. Il dodicesimo e ultimo componimento chiude così:

Sovente non riesco a ricomporre il puzzle della mia vita. Penso che un giorno incontrerò il Padrone e Lui severo mi guarderà in faccia sentirò la gravezza del mio vivere, l’inutilità di giorni spesi nel pattume. Ma non avrò rimpianti. Poi, Dio, il Padrone o Padreterno potrà cancellarmi pure con uno sputo ma sa anche che nelle fogne dove mi sbrodolai come un porco, un verme, un pestilenziale ratto c’era sempre un posto per Lui


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nel mio cuore, un luogo inaccessibile nella mia anima dannata.

Cosacco fino alla fine, senza sfumature: la tradizione ortodossa ci ricorda che il dolce Gesù è misericordia, e che il Padre è il Padrone. Nel momento in cui scriviamo questa nota abbiamo notizia che Allegrini sta preparando un’altra raccolta di versi in tre sezioni: nella prima, Le stanze delle voci, racconterà la sua esperienza in una casa di cura per malattie mentali; la seconda si intitolerà Lettere dai morti; la terza Versi randagi. Il titolo collettivo sarà identico a quello della prima parte.41 Oltre che in poesia, negli anni Duemila Allegrini si è dedicato all’auscultazione dell’altrove anche con volumi che genericamente potremmo definire saggistici, sospesi tra rievocazione di tradizioni popolari, istanze religiose e un certo esoterismo.42 I giorni dell’attesa e della rinascita (Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2001) dà conto delle usanze natalizie delle sue due patrie; Le sorti (ivi 2003) consiste nell’edizione a stampa di un vero e proprio antico manuale di divinazione ebraico in possesso della famiglia dell’autore, capace di scorgere almeno dei «frammenti del futuro»; Sciamanski (ivi 2006) raccoglie insegnamenti superstiziosi e pratiche magiche familiari dimenticati e dissotterati, con l’aggiunta in appendice di due trattatelli esoterici (Il libro di Alzother e Le virtù dei Salmi di Davide); Fantasmi (ivi 2008, in collaborazione con Pietro Verratti) narra di «storie verosimili» (anche autobiografiche) di apparizioni e spettri nelle credenze popolari; L’arte divina (ivi 2009) è un trattatello sulle icone, con belle immagini della produzione sua e dell’amico Alberto Di Fabrizio; di Pastori della Maiella (2014) abbiamo già riferito. Antonio Allegrini vive con la moglie e la figlia, circondato dagli amati animali e dalle icone, in quella che egli ha battezzato «casa del cosacco». Di fronte, la Maiella. A causa della salute malferma si rammarica di non poter tenere con sé, oltre ai cinque che già possiede, un numero maggiore di cavalli. Alberto Sana 41 Un’anticipazione e una scelta della nuova raccolta è stata pubblicata ne «I fiori del male» 62 (2015), pp. 66-73. 42 Si è provato a comporre anche nel dialetto castellino un lavoro teatrale umoristico dal titolo Lu pressepie vivente (Edizioni Orient Express, Castel Frentano 2002).


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