Alla mia famiglia
CAPITOLO PRIMO
“LA MIA FAMIGLIA ED ALTRI ANIMALI” “Cataclop, cataclop, eccolo che arriva. Puzza talmente, quel cane, che il suo odore si rifiuta di seguirlo: lo precede.” LA FATA CARABINA di Daniel Pennac
Nel lontano 1991, poco prima di sposarmi, dopo circa un anno di convivenza con il mio futuro marito, ho comprato e ristrutturato un terratetto, posto in una piccola corte, alla periferia della città. La mia famiglia, devo premettere, era, già allora, di per sè stessa, fuori dal comune in quanto, quando io e mio marito ci siamo messi insieme, avevamo con noi già una bimba, Esse, frutto di una precedente relazione di Bi. In questo modo, invece di partire da zero, come vorrebbe la tradizione, noi partivamo da tre. Anzi, ad essere precisi, da quattro, perché avevamo anche un cane. Quest’ultimo era un animale veramente particolare, che meriterebbe qualcosa di più di poche righe di presentazione. Si chiamava Cedric, nome che gli era stato imposto dalla compagna inglese di Bi, e che divenne, nel giro di poco, con una storpiatura maccheronica tipicamente italiana, tradotto e trasformato nel più plebeo Sederico. Era un bastardino di media taglia, figlio di una aristocratica Jack Russel britannica dal sangue blu e di un quadrupede italiano sconosciuto, rimorchiato dalla nobilcagna nel quartiere di Barbaricina. Aveva pelo bianco con macchie marroni, tipiche del mantello
materno. Era un cane estremamente intelligente ma con una personalità molto complicata, psicologicamente labile e con frequenti crisi di identità. Essendo cresciuto insieme a diversi gatti era rimasto un pò confuso circa il proprio gruppo animale di appartenenza, finendo, molto spesso, per comportarsi come un felino. Proprio a causa di questa sua fissazione mi ritrovai il tettino ed il cofano della Pandina 750 tutti imbarcati ed il parabrezza graffiato dalle sue unghie non retraibili. Vedendo, infatti, tutti i gatti godersi il sole sdraiati sulla mia auto, aveva deciso di emularli e si era fatto trovare sdraiato sul tettino, felice e soddisfatto dell’impresa appena compiuta. Sederico, inoltre, provava un piacere ineguagliabile nel rendersi sporco e puzzolente, si tuffava in fossi melmosi e putridi (riemergendo trasformato in un verro selvatico nero ed ispido), si rotolava nella polvere e sugli escrementi degli altri animali, con una spiccata predilezione per quelli di pecora (assumendo, in questo caso, un colorito verdognolo che lo collocava a metà strada tra un cane extraterrestre e il cane di Hulk). Se poi, disgraziatamente per noi, durante una delle sue zingarate in campagna, riusciva ad imbattersi in una carogna più o meno putrefatta, vi si sdraiava sopra ripetute volte affinché quell’odore mefitico gli penetrasse ben bene nella pelle, accompagnandolo così per giorni interi. Ho scoperto a mie spese che il puzzo di carogna non scompare neanche dopo tre bagni consecutivi, ahimè. Ricordo con un misto di affetto malinconico e terrore allo stato puro il giorno in cui Sederico ed il suo amico del cuore Rinti, fedeli guardiani della scuderia dove io e Bi lavoravamo, si presentarono, giulivi e fieri, dopo essersi
rotolati entrambi su di un qualche cadavere animalesco da loro stessi dissotterrato, seminando il panico tra tutti noi umani. Per giorni, nonostante fossimo all’aperto, l’aria restò irrespirabile. Bisogna, infine, aggiungere che Sederico era restato traumatizzato dalla separazione tra Bi e la sua compagna, e per questo soffriva di una sorta di complesso dell’abbandono che si manifestava con veri e propri attacchi di follia ogni qual volta veniva lasciato solo per un pò di tempo. Durante questi attacchi violenti sfogava la sua rabbia su ogni oggetto o cosa che si trovasse alla sua portata. Tra le sue vittime ci furono: entrambe le cinture di sicurezza ed i cavetti elettrici dello sbrinatore del lunotto posteriore della Panda, il sedile posteriore della stessa povera auto (che venne totalmente sventrato), una prolunga elettrica, un tubo di gomma per annaffiare l’orto, un cilindro di stoffa imbottito per parare gli spifferi, un paio di scarpe di B, ed altre cose più o meno utili. Sorvolerò sugli istinti sessuali estremamente confusi del sopracitato cane, che, nonostante la castratura, provò desiderio incontrollabile nei confronti sia di un gatto maschio dei vicini, di nome Blasco, sia di una capra nera, di nome Gilda, che divenne sua compagna inseparabile di giochi e zingarate. Sederico, inoltre, si presentava ogni pomeriggio al circolo Acli, dove disponeva di una sedia tutta per lui, per assistere alle partite di briscola e tressette degli anziani avventori, tra urla, litigi, moccoli e bevute. Pare seguisse con molto interesse ogni fase del gioco.
Io e B, nonostante ciò, poco dopo il trasferimento nella casa nuova, non ci siamo accontentati di possedere un così particolare animale, ma abbiamo voluto aggiungere, al nostro nucleo familiare, anche una gatta. Quando la prendemmo con noi aveva poco meno di un mese, era una specie di topino sgraziato con due enormi occhi verdi. Presto si trasformò in una gatta bellissima, grande, grossa e con un carattere terribile. Cattiva, asociale, viziata rispondeva al nome di Peppinedda, Peppa per gli amici. Era la vera regina della casa, ed io ero totalmente al suo servizio, lo confesso scientemente. Nei confronti di Sederico mostrava un qualche interesse soltanto quando lui emanava qualche nuovo odore: in questi casi, allora, lo ispezionava con solerzia, annusandolo centimetro per centimetro. Anche Peppa si era abituata a considerare il cane che viveva sotto il suo stesso tetto, come un mero ricettacolo di puzzi vari. A dimostrazione di questo posso riportare un episodio che si verificò poco prima di un Natale di molti anni fa. Dovendo ospitare numerosi commensali in casa nostra, pensammo di portare il cane alla “Toilette per Cani”, per renderlo presentabile almeno una volta nella sua vita. Quando però, tutto candido e profumato, fece il suo ingresso in casa, la gatta non lo riconobbe e, gonfia come un istrice, lo aggredì furiosamente. Non lo abbiamo mai più portato alla “Toilette per Cani”, da allora ci siamo limitati al solito bagno casalingo nella tinozza. Nella sua lunga vita anche Peppa collezionò decine di incidenti tragicomici: cadde nella vasca da bagno piena d’acqua bollente, rimase con la testa schiacciata nella porta blindata, si arrampicò
sulla persiana del bagno entrando in un buco d’areazione del sottotetto, insomma venne promossa a pieno titolo parte integrante del nostro nucleo familiare un po’ fantozziano. Due anni dopo il trasferimento nella nuova casa, evidentemente non ancora paghi, io e Bi creammo pure Enne. Ma questa è un’altra storia. Con queste credenziali la mia famiglia entrò a far parte di una comunità assai particolare e folkloristica, quella corte strampalata in cui tutt’ora vivo, una sorta di microcosmo a sé stante.
CAPITOLO SECONDO
“L’ARCA DI NOE’ “ “Partirà la nave partirà Dove arriverà questo non si sa Sarà come l’arca di Noè Il cane il gatto io e te.” L’ARCA DI NOE’ di Sergio Endrigo
Benché non sia semplice decidere a chi dedicare il secondo capitolo di questo piccolo affresco di varia umanità che è la corte dove vivo, per la forza della sua personalità e per l’affettuoso ricordo che nutro per lui, la priorità se la aggiudica sicuramente il vecchio T. Quando stavo ancora ultimando le trattative per l’acquisto della casa, il vecchio proprietario mi mise in guardia nei confronti del mio futuro vicino. Mi consigliò di non lasciarmi spaventare dagli atteggiamenti e comportamenti di quello strano vecchio, che poteva sembrare, di primo acchito, persona violenta e minacciosa ma che, una volta conosciuto meglio e fattoselo amico, si sarebbe dimostrato un vicino tranquillo. Mi raccontò, infatti, che quando lui aveva comperato la casa che adesso stavo per acquistare io, T ne era l’inquilino che rifiutava di andarsene e che, alla comunicazione dello sfratto, accolse i nuovi proprietari imbracciando il fucile. Adesso, invece, ogni Natale regalava loro un fagiano.
I miei primi incontri con lui, mentre lavoravo alla ristrutturazione della casa, furono assai superficiali anche perché io, lo ammetto, ero un pò impaurita dai racconti che mi erano stati fatti. Avrei voluto che il nostro fosse un rapporto di buon vicinato, ma non sapevo come comportarmi per fare in modo che questo iniziasse nel migliore dei modi, non volevo commettere passi falsi. Una sera lasciai i muratori con l’intesa che, il giorno seguente, sarebbe iniziata la costruzione di un casottino adibito a contenere l’autoclave e che avrebbe preso il posto nel vecchio forno comune, ormai da tempo crollato. Il pomeriggio successivo, quando mi recai a controllare lo stato dei lavori, mi accorsi che niente era stato fatto. E’ bene ricordare che a quei tempi non eravamo ancora nell’era delle comunicazioni ad oltranza e non esistevano ancora i telefoni cellulari. Chiesi ai muratori la causa di questo rallentamento e mi fu risposto che T aveva proibito loro di procedere, minacciandoli con il fucile e sostenendo che il pezzo di terra dove il casottino avrebbe dovuto sorgere non mi apparteneva. I due uomini erano terrorizzati e si rifiutarono categoricamente di riprendere il lavoro fino a quando io non avessi chiarito tutto, ma pure io ero terrorizzata!! Con il passare dei giorni, comunque, dopo mediazioni e compromessi vari, degni delle migliori trattative diplomatiche dell’ONU, i lavori ripresero e T si presentò ai muratori offrendo loro, in segno di pace, delle galline. La storia si ripeteva, tale e quale mi era stata raccontata.
T era un anziano di circa ottant’anni, con occhi acquosi e vacui, dotato di un fisico forte ma costretto a muoversi con l’aiuto di un bastone. Aveva un’espressione arcigna ed una voce imponente, sempre qualche tono troppo alta. Era un prepotente, lo era sempre stato, con un passato da guardia venatoria, una gran passione per le armi e la caccia. Devo dire che non è facile rendere l’idea di come fosse, nella realtà, quest’uomo, che pare uscito dalla sceneggiatura di un film. T viveva all’aperto, per i propri animali. In casa si ritirava solo per adempiere le esigenze vitali, ma la sua vera esistenza la trascorreva nell’orto. La parola orto non può, però, rendere l’idea. Cercherò di descrivere, alla bell’e meglio, questo appezzamento di terreno che confinava con il nostro. Un insieme labirintico di reti rugginose, tubi vari, reti da letto, cancelli vetusti, lamiere, il tutto legato ed inchiodato per formare il serraglio più incredibile della città. Dai numerosi animali che vi erano alloggiati si propagava un olezzo terribile, causa di scontento e lamentele da parte degli altri vicini. In questo assurdo zoo coabitavano tre cani, due da caccia ed una vecchia lupa, piccioni, merli e tordi, galline e galli, di cui uno al quale mal funzionava l’orologio circadiano avendo sempre cantato alle due di notte, conigli, anatre varie con un vecchio acquaio in granito come piscina, fagiani e, per un breve periodo, pure due pappagalli.
Per ultimi arrivarono i gatti: da principio una sola gattina tigrata assai striminzita, chiamata Camilla, che la figlia di T portò nell’orto piccolissima, poi , con il passare del tempo, i suoi vari figli. Infine, sbucato dal niente, proveniente dalla ferrovia, diffidente e selvatico, un maschio con una coda corta corta, Codamozza, appunto, che si aggiunse alla comitiva e si stabilì in corte divenendone il guardiano. Era un vero spettacolo vedere T, quando andava o tornava dall’orto, attraversare la corte, con il suo caratteristico passo strascicato, seguito da un corteo variegato di gatti che lo accompagnavano ovunque. I miei rapporti con lui sono sempre stati buoni, mi ero affezionata a quel vecchio scorbutico ed urlone che, dopo la nascita di Enne, mi lasciava ogni mattina, sul davanzale della finestra di cucina, le uova fresche per la bimba. T girava sempre armato. Portava con sé una piccola pistola, una scacciacani, che teneva nella tasca dei pantaloni. In estate, però, sopraffatto dal caldo, circolava liberamente per la corte in mutande, con la pistola avvolta in un fazzoletto ed infilata negli slip. Posso assicurarvi che questa visione era assolutamente impagabile. Dovreste immaginare la faccia di coloro i quali, venendo a farci visita, si trovavano di fronte questo peculiare personaggio. Mia madre deve tutt’ora riprendersi dallo shock. Alcune volte, invece, attraversava la corte imbracciando il fucile. Nell’orto sparava ai tarponi che proliferavano nel serraglio, ed ai piccioni, per continuare a vivere le emozioni della caccia. Conoscendo le pessime condizioni in cui versava la sua vista, mi domando ancora oggi come sia potuto succedere che non abbia mai ucciso, per errore, un gatto o, ancor peggio,
ferito qualcuno. Vero è che, quando lo vedevamo passare armato di fucile, tutti quanti ci rintanavamo in casa onde evitare di essere scambiati per qualche cinghiale. T possedeva una R4 color panna, vecchia e malconcia quanto lui. Poco dopo il mio trasferimento, però, i figli gli proibirono di guidare ancora (con gran sollievo di tutti i pedoni della città). Si narrava che, anni prima, ospitando nel proprio serraglio anche due capre, T, tutti i pomeriggi, le caricasse nell’auto per portarle a pascolare in qualche campo. L’idea è assolutamente fantastica, mi spiace solo non averla potuta osservare con i miei occhi. Durante le nostre chiacchierate, T mi ha raccontato molte volte di quando la sua macchina “profumava di sottana” (sue parole testuali), ovvero di quando, a sentir lui, caricava in auto due o tre amiche per compiere romantiche scampagnate. Diceva che a lui le donne non erano mai mancate, e mentre lo diceva si gonfiava come un tacchino che fa la ruota. Nonostante l’età, era assai attento alla sua persona. Era sempre molto pulito ed emanava un forte odore di alcool perché, sosteneva, frizionarlo addosso faceva molto bene alla pelle. Praticamente lo sentivi avvicinarsi a naso. Da molti anni T non c’è più, non lo sento più litigare nè urlare con i figli o con i vicini. Il suo appartamento è stato rimodernato per i nipoti che vivono in Svezia, i figli hanno ripulito l’orto, operazione, questa, che ha richiesto mesi di fatica e lavoro sovrumano. Non ci sono più animali.
Poco prima di morire, come se avesse avuto una sorta di premonizione inerente la sua prossima fine, mi chiese come sarebbero potuti sopravvivere i suoi gatti senza di lui ed io gli promisi che me ne sarei presa cura volentieri. Ed ho mantenuto questa promessa. L’ultimo che mi ha lasciata è stato Codamozza, con la sua diffidenza e paura degli esseri umani, con gli occhi velati di una tristezza antica e nei quali sembravano rivivere volti ed avvenimenti che non sono più. Per confermare il detto che la mela non cade mai troppo lontana dall’albero, potrei dirvi che, da anni, i figli di T tengono parcheggiata in corte una vecchia Opel Corsa 1.2 rossa, tutta opaca e malridotta, un’auto che nessuno vorrebbe neanche in regalo, ma che loro coprono, regolarmente, per tutto l’inverno, con un telo impermeabile che ne dovrebbe salvaguardare la carrozzeria, legato con chilometri di corda stile salame. Inutile aggiungere che, ogni qualvolta tira un refolo di vento, il telone si slega e sbandiera e rumoreggia a più non posso. Tutti noi ci auguriamo che, una notte di libeccio, il vento riesca a portarci via quel rudere, liberando un posto auto. Vedremo passare quella fantastica “testarossa” e la saluteremo con la mano, commossi. Ma questa è un’altra storia.
CAPITOLO TERZO
LA PIU’ BELLA DEL REAME” “Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?” BIANCANEVE dei Fratelli Grimm
In ogni comunità che si rispetti, piccola o grande che sia, ci sarà sempre il personaggio che interpreterà il ruolo del “bello” o della “bella” di turno, colui, cioè, che, sfruttando opportunisticamente la propria estetica, accentrerà su di sé le attenzioni degli altri. Ognuno di noi ha conosciuto, ad esempio, la “più bella della classe”, molto spesso una persona insulsa e scipita (insipida per i non toscani) che se la tirava fino a strapparsela. Rispettando questo cliché, come in una sceneggiatura scritta per qualche fiction televisiva di infimo ordine, anche nella nostra corte c’era una donna che rivestiva questo ruolo: M. Era una bella sposa non più giovanissima, di quelle che “fanno sangue”, con due enormi occhi verdi nei quali era impossibile non perdersi, ed un gran bel paio di gambe che, per la verità, si guardava bene dal tenere celate. Appariva, ad uno sguardo superficiale, come simpatica, allegra, amante del gioco e facile al riso ma, se solo si riusciva a guardare (e vedere) oltre l’involucro esterno, si rivelava donna
insicura, insoddisfatta, incapace di affrontare i grossi problemi familiari e fisici che la tormentavano. Era sposata, sebbene da anni, lei ed il marito, non si rivolgessero più neanche la parola e dormissero in camere separate. Aveva due figli: una femmina di una ventina d’anni, che aveva ereditato parte della bellezza della madre e che aveva con lei un rapporto di grande complicità, ed un maschio, di qualche anno più giovane, più legato al padre. A causa di questa complicata ed infelice situazione familiare, M ed il marito furono costretti a mettere in vendita la loro casa per poter, con la divisione del ricavato, rendersi indipendenti l’uno dall’altra e far si che diventasse definitiva, da un punto di vista legale, la loro separazione. M faceva l’infermiera all’ospedale, ma aveva dovuto subire, lei stessa, alcuni interventi chirurgici assai invasivi che l’avevano resa ancor più insicura ed infelice. Era, tuttavia, una persona strana, ambigua, camaleontica, che ti era amica intima dopo due soli giorni che avevi fatto la sua conoscenza ma che diventava una perfetta estranea il giorno successivo al suo trasloco. Ma, per il tempo in cui visse in corte, non mancò certo di apportare il suo tocco distintivo a questo luogo multi sfaccettato. Subito dopo il mio trasloco, come ho già accennato, M ed io diventammo amiche. Nel giro di pochissimo tempo lei arrivò ad invadere la mia vita in modo subdolo e soffocante, imponendo
sfacciatamente la sua presenza all’interno del mio nucleo familiare. Quando ci sedevamo a tavola, ad esempio, quasi ogni giorno, lei suonava alla porta per venire a prendere il caffè da noi. La sera si presentava a guardare la televisione a casa nostra. Molte volte, appena rientrava dal lavoro, entrava in casa sua, faceva la doccia e poi, con indosso il solo accappatoio, si presentava alla porta, soprattutto se anche B era rientrato dal lavoro. Capirete da soli che, ospitare una gran gnocca praticamente ignuda, sotto lo stesso tetto di un marito carico di testosterone non sia proprio il massimo, né cosa consigliata da nessun esperto di ménage familiare. Se poi la gnocca in questione invita il suddetto coniuge ad andare ad insaponarle la schiena quando farà la prossima doccia, è facile capire od immaginare come alla sottoscritta siano venuti innumerevoli istinti omicidi ed una gran voglia di prendere a calci il suo culo più o meno sodo. Ma ero giovane e timida e, come ancora adesso, troppo buona col prossimo. Nei lunghi pomeriggi estivi, quando mi sapeva sola, prese l’abitudine di venirmi a trovare, piazzarsi in cucina e rimanervi per ore. La sua presenza iniziò ad essere decisamente eccessiva, per i miei personali gusti. Non riuscivo più a svolgere le faccende di casa, a leggere un libro, a lavorare a maglia o all’uncinetto, a disegnare. Imponendomi la propria presenza mi privava di tutto il tempo libero e del piacere di decidere come sfruttarlo. Ma in realtà la cosa più snervante di tutte era un’altra.
Lei non veniva a fare conversazione con me. Lei veniva da me per impormi i suoi interminabili monologhi. Il ruolo che mi aveva assegnato era quello dell’ascoltatrice entusiasta, che doveva mostrarsi estasiata ed adulante e pendere totalmente dalle labbra dell’oratrice. Ci sono stati giorni in cui ho desiderato con tutto il mio cuore di diventare sorda. Perché gli argomenti di questi monologhi erano sempre gli stessi e non permettevano, in effetti, molti interventi da parte mia. Si trattava sempre e solo di un elenco interminabile di conquiste, di episodi in cui, uomini di ogni età, ceto, razza o credo, erano rimasti irrimediabilmente ammaliati e folgorati dalle sue grazie. Divenne consuetudine che ogni pomeriggio io venissi ragguagliata sullo stato della sua personale lista di pretendenti che, ovviamente, di giorno in giorno si faceva sempre più lunga. Praticamente ogni volta che lei metteva il naso fuori di casa, ogni uomo che si trovasse nel raggio di un chilometro quadrato, subiva la incontrastabile malia del suo fascino e diventava incapace di intendere e di volere. Mi sono stupita spesso del fatto che non rientrasse mai a casa con un codazzo di maschi cerebrolesi al seguito. Financo il vecchio T non restava insensibile al suo charme e, alla sua vista, un sorriso ebete prendeva il posto della solita espressione burbera ed arcigna. Tra le sue conquiste mi ricordo che erano annoverati: cuochi, pasticceri, medici, infermieri, autisti di autoambulanze, vigili urbani, vigili del fuoco, agenti immobiliari. In effetti, quando M mise in vendita la casa e si rivolse ad un’agenzia, l’agente che si presentò per il sopralluogo, dopo averla vista, lasciò
immediatamente la fidanzata che doveva sposare entro pochi mesi, e si dedicò, nei giorni seguenti, alla contemplazione venerante di questa moderna Grimilde. Povero lui. Chiedo a chi legge questa storia di usare la propria fantasia per cercare di immaginare come sarebbero state brutalmente calpestate e maltrattate la loro personalità e la loro autostima dopo aver subito questa prolungata cura ipnotica. Inutile dire che venni sopraffatta da un attacco depressivo terribile. Mai nella mia vita, neanche ora che peso tre volte tanto, mi sono sentita così brutta od insignificante, priva di ogni qualsivoglia fascino. Un mostro. Anzi, in due parole, un cesso. M era riuscita a trasformarmi nel suo peggior alter ego, la versione femminile di Mr Hyde. M possedeva una gatta tartarugata di nome Cherie, uno strano felino che, possedendo zampe che misuravano solo un paio di centimetri, invece che camminare, strisciava al suolo simile ad un verme. Le sue esplorazioni avevano un’autonomia di viaggio di pochi metri dalla soglia di casa. Siccome, però, in corte, praticamente tutti possedevano un cane, per emulazione M e sua figlia presero una cucciola simil pastore tedesco. Essendo totalmente inesperte ed incapaci di educare un cane, nei pochi mesi in cui Kira visse in corte regnò il caos più completo. La cagna riuscì, nel giro di pochi giorni, ad ammaestrare tutta la sua nuova famiglia senza riuscire ad imparare la benché minima nozione di educazione. Impose a tutti i suoi ritmi ed i suoi voleri. Nel giro di una settimana passò dal dormire in una
cuccia all’aperto, a trascorrere le notti comodamente sdraiata sul letto matrimoniale che madre e figlia condividevano. Riempì la corte di escrementi sempre più grossi senza che nessuno si degnasse di raccoglierli. Ogni oggetto lasciato provvisoriamente incustodito, veniva immediatamente distrutto, comprese le numerose piante in vaso. Se, disgraziatamente, riusciva ad introdursi in un orto, lo danneggiava irrimediabilmente. Insomma il suo arrivo fu come il passaggio di un tifone. Da moltissimi anni non ho loro notizie. Ci lasciammo con grandi promesse di amicizia. Io ero incinta di Enne quando traslocò. Ma una volta cambiata casa non si fece mai più viva. Evidentemente, nella nuova casa, M avrà trovato una nuova vicina con cui fingere amicizia ed ammorbare con i racconti delle proprie conquiste. O, forse, Kira ha preso il controllo totale della famiglia e fa dormire M nella cuccia in giardino. Propendo per la seconda ipotesi. La casa di M venne comprata da una coppia anziana la cui nipote divenne l’inseparabile compagna di giochi di Enne nei lunghi giorni estivi. Ma questa è un’altra storia.
CAPITOLO QUARTO
“NATA SOTTO UNA CATTIVA STELLA” “Arriva la bomba che scoppia e rimbomba ah ah si tratta di me dai reggiti forte che spacco le porte ah ah arrivo da te (...) ARRIVA LA BOMBA di Johnny Dorelli
“La Bionda”, come la chiamavamo, affettuosamente, io e B, era un vero e proprio ciclone. Quando ho conosciuto G, si stava separando dal marito, i suoi figli abitavano ancora con lei, Dago, il pastore tedesco a pelo lungo con il quale intavolava interminabili discussioni, era ancora vivo. Faceva la fruttivendola, gestiva un piccolo chiosco di frutta e verdura poco lontano dalla nostra corte che, ahimè, fallì. Si ritrovò, così, nello stesso periodo, senza lavoro, senza soldi, con lo sfratto esecutivo, sola con il suo adorato cane. E’ all’incirca in quel periodo che la nostra amicizia divenne più intima e, da una superficiale conoscenza tra vicine di casa che si limitano al buongiorno ed al buonasera quando si incontrano, passò ad una confidenza ed una complicità degne delle migliori amicizie di lunga data. La Bionda era fondamentalmente una donna sola, sfortunata, presa a schiaffi dalla vita con regolarità, costantemente
depressa. La sua difficoltà nello sbarcare il lunario, la costante mancanza di soldi, non la aiutavano certo a rilassarsi. In più, G, aveva una capacità tutta sua di rimaner coinvolta in incidenti, più o meno banali, dai quali usciva quasi sempre contusa e dolorante. Una sera, in seguito ad un mancamento, svenne, mentre era sola in casa, e batté la testa contro il termosifone, rischiando gravi conseguenze. Per fortuna, poco prima di perdere definitivamente conoscenza, riuscì a mettersi in contatto telefonico con una sua amica, che riuscì, a sua volta, ad avvertire noi. Scavalcato il cancello di casa sua, riuscimmo a portarle soccorso. Riportò , in seguito ad un incidente stradale, dei danni al collo e fu costretta, per un lunghissimo periodo, a far uso del collare ortopedico. Cascò, con il motorino, sul ghiaino della corte e si schiacciò una gamba che le era rimasta sotto al ciclomotore. Scivolò, in casa, sul pavimento lucidato e picchiò la testa contro l’armadio, procurandosi in vasto ematoma frontale. Questo è solo un breve elenco degli incidenti che le capitavano con regolarità, ma bastano a rendere l’idea di quale “capra” fosse, secondo il significato che, nell'argot parigino, ha la parola “chèvre”, ossia una persona caratterizzata da un misto di goffaggine e di sfortuna.
Io e G eravamo dirimpettaie. Quando, dopo aver accompagnato Enne all’asilo, rassettavo la mia camera, sbattendo lenzuoli o coperte fuori dalla finestra, lei faceva lo stesso e così, appoggiate al davanzale, ci facevamo la nostra bella chiacchierata mattutina, e, spesso, le nostre risate risuonavano per la corte. Se una di noi non stava molto bene, l’altra comprava il pane per entrambe. Quando io, in seguito ai miei problemi alle vertebre, restai allettata ed inferma per più di un mese, lei mi fece pure da infermiera, venendo a farmi le iniezioni quando non c’era B a potermele fare. Nonostante tutti i suoi guai, G era una persona molto divertente, un po’ pazza, una donna che non passava inosservata. Dava il meglio di lei nei suoi dialoghi col cane e nei suoi litigi con i figli. Non aveva un modo di esprimersi da educanda né, tantomeno, da frequentatrice di Oxford, ed al suo gergo colorito e popolare aggiungeva, soprattutto se alterata, una sequela di moccoli, improperi ed offese tali da far arrossire anche uno scaricatore di porto livornese. Le sue urla riecheggiavano per la corte, alcune di esse sono rimaste scolpite nella mia memoria perché assolutamente uniche e fantastiche. Come quella che rivolgeva al figlio maggiore, militare nell’Arma, e che risuonava, pressappoco, così: “Deh, va’ bè, se un’eri scemo mica eri andato a fa’ il Carabiniere!!”. Oppure quando si rivolgeva a Dago domandandogli: “Quello stronzo del tu’ padrone te l’ha portato da mangià?? Sieeeee, figuriamoci se sta’ a pensà a te!! Aspetta
che scendo e te lo porto.” O ancora, sempre rivolta al cane: “ Dago, certo che sei proprio duro, eh!!! Sei peggio del tu’ padrone.” G, però, amava profondamente i propri figli, forse anche più di tante mamme che non li offendono mai e che non perdono mai le staffe con loro. Ed i suoi figli adoravano lei. Nella sua vita La Bionda ha conosciuto solo difficoltà. Una madre morta quando lei era piccolissima, una matrigna che, come nella più classica delle favole dei Fratelli Grimm, non l’aveva mai accettata né trattata al pari della sorella, un padre con il quale non si parlava da anni e che, nonostante avesse grandi disponibilità economiche ed immobili, si era sempre rifiutato di aiutarla anche nei momenti più drammatici. Nei momenti più bui della propria esistenza G ha avuto sempre al suo fianco solo un amico fedele, sincero e disinteressato: Dago. Loro due si compensavano e capivano, si facevano compagnia e si amavano. Anche quando lei lo rincorreva per tutta la corte, brandendo una scopa od uno spazzolone, per farlo rientrare nel cancello, si vedeva che quello era un gioco tra di loro, che era un rituale stereotipato. Quando Dago è morto ho visto G piangere per giorni e non rassegnarsi alla perdita. Nell’ultimo periodo in cui ha vissuto in corte, però, sembrava che la ruota avesse, finalmente, iniziato a girare, per lei, in modo contrario. Trovò un compagno, un pò più giovane di lei, che le voleva bene sinceramente e che la aiutava economicamente (anche se lei non smise mai di darsi da fare,
magari andando a servizio per qualche ora). Si trasferirono a vivere in un bell’appartamentino fuori città e, dopo un po’, si sposarono. Perfino i rapporti con i due figli, dopo un periodo in cui si erano un po’ raffreddati, erano tornati buoni. Finalmente la vidi felice ed il mio cuore gli augurò che quella serenità non finisse mai. Poi la vita, come succede troppo spesso, ci ha gradualmente allontanate. Avrei voluto pensarla sempre così, ricompensata, almeno in parte, dei crediti che la vita aveva con lei. Purtroppo non è stato così. La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo. Pochi anni dopo esser diventata nonna, ha perso il figlio più grande. Il carabiniere. E questa, disgraziatamente, è ancora questa storia.
CAPITOLO QUINTO
“L’APPARTAMENTO STREGATO” Parte prima “Le suggerì, inoltre, di scrivere una testimonianza che un giorno potesse servire per portare alla luce il terribile segreto che stava vivendo, affinché il mondo venisse al corrente dell’orrore che avveniva parallelamente all’esistenza pacifica e ordinata di quelli che non volevano sapere (...)” LA CASA DEGLI SPIRITI di Isabel Allende
In corte c’era un appartamento “stregato”, ma non perché infestato da spettri o demoni, bensì perché furono proprio gli affittuari che si succedettero tra quelle mura, ad essere, per motivi diversi, delle “oscure presenze”. L’appartamento era posto sotto a quello della Bionda. Facevano parte di un unico grande terratetto, appartenente ad una sola proprietaria, che aveva messo tutto il caseggiato in vendita da tempo. Per tutti noi della corte era semplicemente “il 190”, quasi fosse il titolo di un film horror. Ed un po’ inquietante lo era davvero. Dopo anni ed anni in cui l’appartamento al piano terra era restato sfitto, la proprietaria, cercando di trarre sangue dalla sua rapa, apportò qualche piccolissimo lavoro di ripristino di quella topaia, giusto per renderlo appena appena presentabile, e trovò degli inquilini.
Apre la carrellata GL, ovvero “Babbacione”. Questo particolare individuo, inizialmente, si trasferì a vivere in corte assieme alla sua compagna. Era lui un tipo dall’età indefinita, separato dalla moglie e con un figlio già grande, lei una ragazza mora assai più giovane di lui. In pochissimi giorni lei riempì la corte di piante, fiori, vasi, vasetti e vasini ed, infine, tre gatti: un maschio rosso, una tigrata grigia ed una siamese. Presero pieno possesso della corte comune, senza porsi alcun problema di una eventuale invadenza o occupazione di suolo pubblico, ed iniziarono, complice la bella stagione, a condurre totalmente all’aperto la loro esistenza. Mangiavano fuori (organizzando anche cene con numerosi invitati), stiravano fuori, parlavano e litigavano in corte (cosa che accadeva anche assai spesso, ad onor del vero), e questo avveniva anche quando le loro discussioni avevano per argomento principale temi decisamente intimi e personali, deliziando così, tutti gli altri condomini, con particolari piccanti degni di un film di Tinto Brass. Mi sono sentita decisamente arricchita culturalmente ed intellettualmente nell’apprendere che lei non amasse una determinata pratica sessuale e che si rifiutasse, caparbiamente, di fornirla al richiedente. Forse proprio a causa di questo reiterato rifiuto, i due, ben presto si lasciarono, e Babbacione restò da solo. Essendo il suo amore per le piante e per gli animali decisamente minore di quello della sua ex, nel giro di poche settimane la maggior parte delle piante morì ed i poveri gatti vennero abbandonati sempre più a sé stessi. Io, ovviamente, cercai di fornire a quei poveri “orfani” tutto l’aiuto possibile, assicurando loro un pasto quotidiano e fornendoli un rifugio per la notte.
GL, dal canto suo, provava un vero interesse solo per un altro tipo di animale: una creatura dotata di un solo paio di gambe, possibilmente alta e snella, decisamente giovane. Questo miserabile individuo, che non svolgeva praticamente alcuna professione, amava le ragazzotte e si atteggiava, lui stesso, a giovane virgulto. Solo il suo quoziente intellettivo, però, dimostrava l’età di un bambino delle elementari. Si vestiva come un adolescente, viaggiava su una moto lussuosa e, per mia gran delizia, durante l’estate, si sdraiava in mezzo alla corte a prendere il sole con indosso un tanga rosso, facendo mostra del suo impareggiabile flaccido fisico buzzone. Arrivarono anche i festini notturni: musiche romantiche, luci soffuse, teli colorati posti alla bell’e meglio sulla porta a vetri della sua abitazione. Poi, da un giorno all’altro, Babbacione lasciò l’appartamento. Raccontò a tutti di aver trovato una casa con giardino molto più economica dell’attuale, ma, poco dopo il suo trasloco, iniziarono a fare la loro comparsa in corte poliziotti, carabinieri, vigili urbani e, perfino, finanzieri. Tutti cercavano GL. A chiedere sue notizie arrivò chiunque: quelli del Comune, quelli dell’Enel, quelli del gas e dell’acqua (vennero sigillati tutti i contatori), negozianti vari. Evidentemente l’idiota era scappato dopo aver lasciato debiti ovunque. Venne fuori che non aveva mai pagato neppure l’affitto. Si era volatilizzato, come se Pisa fosse stata New York. Francamente di lui me ne infischio, spero lo abbiano beccato tutti i suoi creditori. Ho pensato spesso, invece, in passato, a
Rossino, Botticella e Siamese perché gli animali, purtroppo, pagano con la loro stessa vita l’imbecillità dei loro padroni. Dopo questa poco felice esperienza, la proprietaria non affittò più l’appartamento. La casa intera, comprensiva dell’appartamento di G e di quello “stregato” venne venduta ad un unico proprietario, che, poco dopo la transazione, affittò nuovamente il famigerato 190. Questa volta vennero a vivere qui tre ragazze meridionali, studentesse, almeno sulla carta. Le tre fanciulle, riuscirono, in pochissimi giorni, ad inimicarsi ogni altro condomino, essendo totalmente prive della benché minima nozione di civiltà ed educazione. Non conoscevano le regole del vivere civile, se facevi loro qualche osservazione, si vendicavano con dei dispetti degni di un bambino dell’asilo. Ascoltavano musica ad un volume assordante tutta la notte, urlavano e giocavano nelle ore più incredibili, impedendo a chiunque di chiudere occhio. Durante le serate estive, in cui tutti dormivamo con le finestre aperte, ci potevamo deliziare tenendo il conto dei visitatori notturni che ricevevano. Ogni trenta minuti circa, infatti, arrivava un motorino od una bicicletta, qualcuno suonava alla loro porta, entrava e, dopo qualche tempo, quel qualcuno si riallontanava col proprio mezzo di locomozione. Non so se le due cose possano essere collegate, ma il bucato di quelle tre ragazze, esposto a bella vista sul filo tirato lungo il muro, era principalmente e quasi esclusivamente composto da tantissima biancheria intima assai variegata. Però è anche vero che io sono una persona assai maliziosa. Fatto sta che le soprannominai “Ladies slip”.
Ogni giorno che hanno passato in quella casa hanno fritto melanzane. La corte, ormai, era pregna di quell’odore, al punto da sentirsi sazi solo respirando. La mia amica G, che abitava proprio sopra di loro, non essendo riuscita, con le buone, ad ottenere da parte loro la benché minima comprensione, arrivò a mettere in atto alcune tecniche e strategie di vendetta. Visto che le “signorine mutanda” vivevano di notte e dormivano di giorno, diverse volte, prima di recarsi al lavoro, accendeva lo stereo a tutto volume, appoggiava le casse rivolte verso il pavimento, e se ne andava. Ormai la corte si era trasformata in un’enorme discoteca a cielo aperto. Poi, come GL, anche queste tre strane creature, sparirono nell’arco di un giorno. Si seppe in seguito che, come il loro predecessore, pure loro erano scappate senza pagare l’affitto. Siamo giunti solo a metà della storia riguardante la “casa stregata”, quindi mi vedo costretta a suddividere il capitolo in due parti.
CAPITOLO SESTO
“L’APPARTAMENTO STREGATO” Seconda parte “(...) Tutto il giorno con quattro infamoni briganti, papponi, cornuti e lacchè tutte l'ore cò 'sta fetenzia che sputa minaccia e s'à piglia cò me (...)” DON RAFFAE’ di Fabrizio De Andrè
Se credete che Babbacione e le Signorine Mutanda abbiano dato sufficientemente lustro all’ambiente circostante, vi sbagliate di grosso. Non pensate che un Night di periferia ed una Casa di tolleranza “de noialtri” possano assolutamente competere con ciò che è avvenuto in seguito. Da dei dilettanti allo sbaraglio si è passati a veri e propri professionisti del crimine, ahimè. Ma iniziamo dal principio. Dopo le tre ragazzotte mangiamelanzane, l’appartamento venne affittato a due tipi siciliani che guidavano una potente automobile rossa con targa tedesca. Sembrarono a tutti, inizialmente, due emigrati venuti a trascorrere le vacanze in Italia. Erano molto schivi, quasi sfuggenti, per cui nessuno prestò loro particolare attenzione. Dopo solo una settimana dal loro arrivo, un sabato, alle due e mezza di notte, fummo svegliati dai Carabinieri che suonavano alla nostra porta. Volevano informazioni su questi nuovi
inquilini, che erano stati appena arrestati. I militari stavano pure perquisendo la loro abitazione. Dopo tre giorni i due ragazzi tornarono nell’appartamento, trasferiti agli arresti domiciliari. Avendo, però, tutto quanto sotto sequestro e senza alcun parente od amico che potesse loro fare la spesa, noi vicini abbiamo dovuto provvedere al loro sostentamento per impedirgli di morire di fame. Chi portava loro un piatto di pasta, chi un pezzo di pane. Il tutto sempre, regolarmente, consegnato a filo-uscio poiché nessuno voleva né poteva varcare la soglia di quella casa né loro, tantomeno, mettere fuori anche solo il naso. Poi, fortunatamente, su invito degli stessi Carabinieri, la loro madre ed un terzo fratello furono fatti arrivare dalla Sicilia per potersi prendere cura dei due congiunti. Auto dei Carabinieri e della Polizia entravano in corte numerose volte durante il giorno e la notte per controllare che i due fratelli non uscissero dall’appartamento. Questi due splendidi personaggi erano due protettori (magnaccia o papponi a seconda del gergo) legati al mondo della prostituzione, con precedenti penali analoghi, definiti dagli stessi militari dell’Arma “pericolosi” e trovati, al momento dell’arresto, in possesso di alcuni coltelli. Potete immaginare lo stato in cui versava il morale dei vari inquilini della corte alla luce di queste nuove scoperte. Avevamo acquistato un gran bel paio di vicini, perbacco!!
Poi, finalmente, questi papponi sfruttatori di donne, ottennero la facoltà di scontare il resto della loro pena agli arresti domiciliari in Sicilia, a casa della madre, liberando la corte di una preoccupazione. Ma ogni situazione ha, a mio avviso, pure un lato comico, se lo sai cercare. Infatti, i due loschi figuri, nella loro superbia, si permisero di fare del razzismo gretto e di esternare e dare giudizi morali sugli altri. Come il bue che dice cornuto all’asino, hanno sparato sentenze sui marocchini, accusandoli di rapire le ragazze, e sugli albanesi, consigliando a tutti noi cortigiani di chiudere motorini e biciclette per evitare che questi ladri stranieri se li portassero via. Ma il vero primo attore di questa farsa si è rivelato il terzo fratello, quello giunto dalla Sicilia assieme alla madre. Con tutto il rispetto che nutro per i poco fortunati, posso affermare, senza ombra di dubbio, che a costui mancasse qualche venerdì. Si rifiutò di assumere un avvocato per curare gli interessi dei fratelli, sostenendo di essere molto più pratico ed esperto di legge lui di chiunque altro, conoscendo, a suo dire, a memoria tutto il codice (esimiamoci dall’interrogarci sul perché di questa conoscenza). Il risultato di questa bravata fu una serie interminabile di litigi furibondi con i fratelli, che lo accusavano di essere il responsabile della loro triste situazione che, dopo i suoi reiterati interventi, non solo non era migliorata ma, semmai, peggiorata. Devo, però, precisare che, quasi
sicuramente, lui e la madre erano realmente estranei alla presunta professione dei due emigranti e che entrambi erano sinceramente convinti dell’innocenza dei propri congiunti. Credevano pienamente alla versione dei fatti che era loro stata fornita. Questa è, almeno, la mia modesta impressione. Quello che certamente mi è piaciuto di meno di questa esperienza è stata la frase con cui, la sera della loro partenza per la Sicilia, uno dei due ragazzi si è accomiatato da noi: “Adesso sappiamo cosa è la giustizia italiana!”. Io, con tutti i miei dubbi e le mie incertezze, credo nella giustizia, e credo, soprattutto, nel diritto che dovrebbero avere tutte le donne di non essere costrette a prostituirsi nè, tantomeno, di essere sfruttate da individui squallidi come i miei ex vicini. Dopo i due papponi, sempre tramite agenzia, l’appartamento venne affittato da due donne dell’est europeo. Ogni giorno l’appartamento veniva invaso da giovani e giovanissimi di ogni etnia e colore, di cui molti, se non tutti, con indosso maglie di giocatori della nazionale di calcio del Brasile o dell’Argentina. Qualcuno pure con le maglie dell’Inter e della Juventus. Un via vai continuo e particolare. Spesso si tenevano feste molto alcoliche, con ragazzi e ragazze sbronzi che spisciacchiavano in giro per la corte come un’orda di cuccioli emozionati. La sera, la capoccia, quella signora polacca che tanto mi ricordava una Kapò, raccoglieva, in sacchi della monnezza da condominio, decine e decine di bottiglie
vuote. Trovai dei cucchiai nell’orto e smisi di portarci Enne a giocare. Iniziarono nuovamente le visite di Pantere della Polizia e di Gazzelle dei Carabinieri. Controlli di giorno e di notte, con decine di ragazzotti messi in fila lungo il muro e perquisiti. Ormai mi sentivo protagonista di un film ambientato nel Bronx. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. Iniziai ad avere un po’ paura, lo ammetto. Del resto ero tutto il giorno sola con Enne piccola, mi sentivo prigioniera in casa mia, mi sentivo sotto assedio. Poi, fortunatamente, la Kapò e la sua dama di compagnia se ne andarono, e con loro se ne sparirono feste, bagordi e ragazzotti. Per chi non lo sapesse, io l’ho scoperto solo successivamente, le maglie dei giocatori erano utilizzate, come segno distintivo, da una rete di spacciatori molto in auge in quegli anni. Un tossico che avesse voluto rifornirsi di merce, bastava che si recasse nei dintorni della stazione, ad esempio, e cercasse un tipo che indossava la maglia di Ronaldo. Semplice ed efficace. Se ne scopre sempre una, a tutte le età. Dopo qualche mese che la centrale dello spaccio si era trasferita, lessi sul giornale che, in città, era stata sgominata una rete di spacciatori molto ramificata che faceva capo ad una polacca molto pericolosa. Sono certa che fosse la Kapò. Due più due fa sempre quattro. Nessuno venne più a vivere in quell’appartamento maledetto, fortunatamente, anche perché, visto che ogni volta si era scesi
un pò più in basso nella scala morale, molto probabilmente il prossimo affittuario sarebbe stato Hannibal Lecter. La famiglia che aveva comprato l’intero caseggiato iniziò i lavori di ristrutturazione. I due appartamenti sono stati fusi e trasformati in una bellissima villetta con giardino. P e R vivono qui da più di dieci anni e sono due vicini presenti ai quali sono molto legata. Ma questa è un’altra storia. Durante la ristrutturazione, avendo riunito due abitazioni con due differenti numeri civici, ne è stato inglobato e cancellato uno. Per questo, dalla mia corte, è scomparso il numero “stregato”, il 190 non esiste più. Si passa dal 188 al 192. Ed è giusto così.
CAPITOLO SETTIMO
“IL CERCHIO DELLA VITA” (...) E' una giostra che va questa vita che Gira insieme a noi e non si ferma mai E ogni vita lo sa che rinascerà In un fiore che ancora vivrà.(...) IL CERCHIO DELLA VITA di Ivana Spagna
Questo viaggio nei ricordi e nella memoria sta per concludersi. Tutte le persone ed i fatti che ho dettagliatamente descritto sono assolutamente reali, e la dovizia di particolari non è dovuta ad una memoria da Pico della Mirandola (ormai ho un cervello più bucherellato di una forma di groviera svizzero) ma, bensì, al fatto che, avendo sempre adorato scrivere, già molti anni fa avevo redatto una sorta di “diario” della corte dalle cui pagine ho attinto a piene mani. La scelta del titolo, ovviamente, è dovuta ad un gioco di parole che potesse richiamare alla mente “la cour des miracles" di parigina memoria (letteralmente il cortile dei miracoli), ovvero uno di quei quartieri in cui brulicavano e convivevano ladri e pezzenti. Il periodo che descrivo è quello di poco successivo al mio trasloco, avvenuto, come già scritto, nel lontano 1991. In questi venticinque anni son cambiate molte cose. Innanzitutto io sono invecchiata, acciderbolina (sto
allenandomi per diventare una vera Lady, altrimenti avrei scritto “cazzo”!!). E pure ingrassata uno sbotto. La mia casa, che era stata appena ristrutturata, appariva la più bella della corte, di un bianco sfolgorante e con gli infissi nuovi di zecca. La mia famiglia rappresentava “la novità”, essendo l’ultima arrivata. Adesso la mia casa mostra tutta la sua età, molto peggio di me. Il verde bottiglia che la distingueva al momento dell’acquisto, sta riaffiorando prepotentemente, gli infissi risultano deformati e scrostati da anni ed anni di esposizioni al sole ed all’acqua. La costante mancanza di pecunia dalle nostre tasche rende difficoltosa la manutenzione. La mia famiglia, adesso, rappresenta il nucleo storico della corte, quello storicamente più anziano. Siamo i veterani di questo microcosmo. Dove la strada, prima di allargarsi nella corte vera e propria, forma un gomito, viveva un tenente dei Carabinieri in pensione con la moglie. Quest’uomo, grandissimo amante degli animali, non era per niente portato per i propri simili. Era un razzista un po’ troppo interessato alle vite degli altri. Adesso nella sua casa vive una buddista con frequenti scatti d’ira. Una contraddizione vivente. In estate ci allieta con le sue cantilene salmodianti oppure con gli urli e gli strepiti che indirizza verso il suo uomo. Un interessante alternarsi di emozioni. Pare che stia frequentando un corso per il controllo della rabbia e, in effetti, mi sembra che gli urli si siano diradati. Buon per lei, ma,
soprattutto, buon per lui Ha riempito gran parte della strada di vasi e vasetti con piante d’ogni tipo, mi ricorda un po’ la vecchia inquilina del 190, la fidanzata di Babbacione. Nella casa dove viveva M, la “bella del reame”, si trasferirono un energumeno peloso dalla voce baritonale e la sua gracile consorte. Era, questo gigante ipertricotico, un amante del cinema e della lirica. Peccato che fosse sordo come una campana e pure nottambulo. Diversi anni fa, noi ed altri condomini, pensammo di portare delle poltroncine in corte ed aprire un cinema all’aperto. Dormire non si sarebbe dormito lo stesso, ma almeno si sarebbe guadagnata qualche lira con i biglietti. Pochi anni fa anche lui ci ha lasciati, adesso è rimasta solo la gracile vedova, una persona che mi adora, che mi considera quasi una figlia acquisita. Peccato solo che tenga ad informarmi con solerzia sullo stato della sua regolarità intestinale. C’è l’aria fresca e nuova di E, che due anni fa ha allietato la corte con un bel fiocco azzurro. I passetti, le corse, gli urli ed i pianti di N hanno rallegrato tutti. Ci sono P ed R. Lui, uomo dalle mani d’oro, capace di trasformare legno o vetro in piccole opere d’arte, pescatore e gran cercatore di funghi. Compagno di scorribande micologiche di B, ci rifornisce di pesce fresco, di legna per il camino, di ogni cosa di cui entri in possesso in gran quantità. R, sua moglie, ormai nonna a tempo pieno, ogni Martedì Grasso ci porta frittelle o cenci appena fritti per le nipoti, senza contare tutte le altre leccornie che condivide con noi durante l’anno, magari in cambio di prodotti del nostro piccolo orto.
Molte persone ed animali son passati da questa piccola corte, molti altri ci passeranno, in quello che è il normale ciclo della vita. Io sono felice di aver potuto crescere mia figlia in un luogo come questo e non in un appartamento. Lei ha potuto avere, come compagni di giochi, cani, gatti, lombrichi, lucertole, uccelli, tartarughe, pesci. Ha potuto correre libera nell’orto ed in corte, aiutare il babbo a piantare pomodori, cipolle ed insalata. La vita della corte è bella, permette di conoscere ed amare (a volte anche odiare...) altre persone, si provano emozioni, si è costretti a rinunciare all’indifferenza verso il prossimo. Posso vivere come se fossi in campagna, con ritmi più rallentati e vivibili. Godo della condivisione con gli altri. Ogni Natale o Pasqua, con i miei vicini, ci scambiamo doni e piccoli pensierini, fossero anche biscotti appena sfornati. Non cambierei i miei vicini odierni con nessuno. In casa siamo rimasti in tre, S convive da anni, ha ormai la sua vita, in un’altra corte. Sederico e Peppa non ci sono più. Adesso ci sono la gatta Niki, paurosissima e fuori come un culo, e Rosita, la gallina girovaga e randagia che, da più di un anno, è la vera mascotte della corte e fornisce uova fresche a tutti coloro che ne hanno bisogno. E questa è la fine della storia. Per adesso.