ALDO ROSSI
“Vivere sotto l’imperio di leggi ignote cui abbiamo obbedito perché ne rechiamo, in noi, l’insegnamento, senza sapere chi le abbia formulate. Quelle leggi in cui si ravvicina qualsiasi lavoro profondo di intelligenza e che rimangono invisibili e non soltanto agli sciocchi.” Marcel Proust
Aldo Rossi nasce a Milano il 3 maggio 1931. Nel 1941 a causa della guerra si trasferisce con la sua famiglia sul lago di Como. Nel 1949 si iscrive alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. In questi anni comincia la sua militanza nel Partito Comunista Italiano e scrive alcuni articoli riguardanti l’architettura e il design industriale per il giornale “Voce comunista”. Chiamato da Ernesto N. Rogers, nel 1955 intraprende la collaborazione con “Casabella-Continuità”: dal 1950 al 1960 è fra i membri del Centro Studi della rivista, insieme agli architetti Luciano Semerani, Francesco Tentori e Silvano Tintori; fino al 1958 è collaboratore saltuario e nel 1961 diventa redattore, fino all’allontanamento di Rogers dalla direzione nel 1964. Nel 1956 comincia l’apprendistato da progettista come assistente negli studi di Ignazio Gardella e di Marco Zanuso. Si laurea con relatore Piero Portaluppi presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano presentando una tesi dedicata alla progettazione di un teatro e di un centro culturale nella stessa città. Nel medesimo anno inaugura la collaborazione con la rivista “Società” di Milano ed è chiamato a Roma nella redazione de “Il Contemporaneo”. Nel marzo del 1960 è tra gli architetti presenti nell’esposizione “Nuovi disegni per il mobile italiano” promossa dall’Osservatore delle arti industriali di Milano, curata da Vittorio Gregotti e Guido Canella con un’allestimento ideato da Gae Aulenti.. Costruisce una villa ai Ronchi insieme all’architetto Leonardo Ferrari: l’edificio, in stile razionalista, è il primo realizzato da Rossi. Nel 1961 partecipa al convegno intitolato Quindici anni di architettura in Italia, promosso a Roma dalla rivista “Casabella-Continuità”; successivamente è invitato nella Repubblica Democratica Tedesca dal direttore della Deutsche Bauakademie di Berlino. Nel 1963 comincia la carriera accademica come assistente di Ludovico Quaroni alla Scuola Urbanistica di Arezzo e come ricercatore insieme a Carlo Aymonino presso lo IUAV – Istituto Universitario di Architettura di Venezia.
In previsione della carriera universitaria, Rossi si impegna nella ricerca: partecipa al “X Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica” a Trieste e il suo intervento, scritto in collaborazione con Emilio Mattioni, Gian Ugo Polesello e Luciano Semerani, è pubblicato negli atti con il titolo Città e territorio negli aspetti funzionali della pianificazione continua. Nello stesso periodo pubblica L’architettura della città: la seconda edizione, introdotta da una nuova prefazione in cui l’autore sottolinea il successo dell’edizione precedente, esce a soli tre anni di distanza, nel 1968. La casa editrice Marsilio di Padova gli offre la direzione della collana Polis – Quaderni di Architettura Urbanistica; nella sua attività di direttore editoriale, Rossi pubblica testi di Carlo Aymonino (Origini e sviluppo della città moderna e L’abitazione razionale. Atti dei congressi CIAM 1929-31), Etienne-Louis Boullée (Architettura. Saggio sull’arte, per cui scrive la prefazione), Carlo Cattaneo (La città come principio), Paolo Ceccarelli (La costruzione della città sovietica 1929-31), Giorgio Grassi (La costruzione logica dell’architettura), Eugène Hénard (Alle origini dell’urbanistica: la costruzione della metropoli), Ludwig Hilberseimer (Un’idea di piano), Hannes Meyer (Architettura e rivoluzione), Ludovico Quaroni (La torre di Babele, per cui scrive la prefazione), Brian Richards (Città futura e traffico urbano). E’ nominato professore incaricato di Caratteri distributivi degli edifici presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e la facoltà di Architettura dell’università di Pescara gli affida l’insegnamento di Composizione architettonica per l’anno accademico 1966-1967. Nel dicembre del 1965 si sposa a Zermatt con Sonia Gessner e nel settembre dell’anno successivo nasce il figlio Fausto. Il 19 giugno dell’anno successivo comincia la redazione dei Quaderni azzurri: Rossi vi annota sia appunti di lavoro sia brevi cenni a viaggi e ad aspetti più personali della sua vita, continuando a redigerli con costanza fino ai primi anni novanta. Dei quarantasette quaderni, circa la metà è stata donata dall’architetto al J. Paul Getty Research Institute di Los Angeles, mentre la serie completa è stata pubblicata nel 1999 dalla
ALDO ROSSI
“Vivere sotto l’imperio di leggi ignote cui abbiamo obbedito perché ne rechiamo, in noi, l’insegnamento, senza sapere chi le abbia formulate. Quelle leggi in cui si ravvicina qualsiasi lavoro profondo di intelligenza e che rimangono invisibili e non soltanto agli sciocchi.” Marcel Proust
Aldo Rossi nasce a Milano il 3 maggio 1931. Nel 1941 a causa della guerra si trasferisce con la sua famiglia sul lago di Como. Nel 1949 si iscrive alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. In questi anni comincia la sua militanza nel Partito Comunista Italiano e scrive alcuni articoli riguardanti l’architettura e il design industriale per il giornale “Voce comunista”. Chiamato da Ernesto N. Rogers, nel 1955 intraprende la collaborazione con “Casabella-Continuità”: dal 1950 al 1960 è fra i membri del Centro Studi della rivista, insieme agli architetti Luciano Semerani, Francesco Tentori e Silvano Tintori; fino al 1958 è collaboratore saltuario e nel 1961 diventa redattore, fino all’allontanamento di Rogers dalla direzione nel 1964. Nel 1956 comincia l’apprendistato da progettista come assistente negli studi di Ignazio Gardella e di Marco Zanuso. Si laurea con relatore Piero Portaluppi presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano presentando una tesi dedicata alla progettazione di un teatro e di un centro culturale nella stessa città. Nel medesimo anno inaugura la collaborazione con la rivista “Società” di Milano ed è chiamato a Roma nella redazione de “Il Contemporaneo”. Nel marzo del 1960 è tra gli architetti presenti nell’esposizione “Nuovi disegni per il mobile italiano” promossa dall’Osservatore delle arti industriali di Milano, curata da Vittorio Gregotti e Guido Canella con un’allestimento ideato da Gae Aulenti.. Costruisce una villa ai Ronchi insieme all’architetto Leonardo Ferrari: l’edificio, in stile razionalista, è il primo realizzato da Rossi. Nel 1961 partecipa al convegno intitolato Quindici anni di architettura in Italia, promosso a Roma dalla rivista “Casabella-Continuità”; successivamente è invitato nella Repubblica Democratica Tedesca dal direttore della Deutsche Bauakademie di Berlino. Nel 1963 comincia la carriera accademica come assistente di Ludovico Quaroni alla Scuola Urbanistica di Arezzo e come ricercatore insieme a Carlo Aymonino presso lo IUAV – Istituto Universitario di Architettura di Venezia.
In previsione della carriera universitaria, Rossi si impegna nella ricerca: partecipa al “X Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica” a Trieste e il suo intervento, scritto in collaborazione con Emilio Mattioni, Gian Ugo Polesello e Luciano Semerani, è pubblicato negli atti con il titolo Città e territorio negli aspetti funzionali della pianificazione continua. Nello stesso periodo pubblica L’architettura della città: la seconda edizione, introdotta da una nuova prefazione in cui l’autore sottolinea il successo dell’edizione precedente, esce a soli tre anni di distanza, nel 1968. La casa editrice Marsilio di Padova gli offre la direzione della collana Polis – Quaderni di Architettura Urbanistica; nella sua attività di direttore editoriale, Rossi pubblica testi di Carlo Aymonino (Origini e sviluppo della città moderna e L’abitazione razionale. Atti dei congressi CIAM 1929-31), Etienne-Louis Boullée (Architettura. Saggio sull’arte, per cui scrive la prefazione), Carlo Cattaneo (La città come principio), Paolo Ceccarelli (La costruzione della città sovietica 1929-31), Giorgio Grassi (La costruzione logica dell’architettura), Eugène Hénard (Alle origini dell’urbanistica: la costruzione della metropoli), Ludwig Hilberseimer (Un’idea di piano), Hannes Meyer (Architettura e rivoluzione), Ludovico Quaroni (La torre di Babele, per cui scrive la prefazione), Brian Richards (Città futura e traffico urbano). E’ nominato professore incaricato di Caratteri distributivi degli edifici presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e la facoltà di Architettura dell’università di Pescara gli affida l’insegnamento di Composizione architettonica per l’anno accademico 1966-1967. Nel dicembre del 1965 si sposa a Zermatt con Sonia Gessner e nel settembre dell’anno successivo nasce il figlio Fausto. Il 19 giugno dell’anno successivo comincia la redazione dei Quaderni azzurri: Rossi vi annota sia appunti di lavoro sia brevi cenni a viaggi e ad aspetti più personali della sua vita, continuando a redigerli con costanza fino ai primi anni novanta. Dei quarantasette quaderni, circa la metà è stata donata dall’architetto al J. Paul Getty Research Institute di Los Angeles, mentre la serie completa è stata pubblicata nel 1999 dalla
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casa editrice Electa, con il benestare degli eredi dell’architetto e in collaborazione con l’istituzione americana. Il 20 marzo, al Politecnico di Milano, presenta la ricerca sulla distinzione tra analisi e progetto e a giugno diventa professore ordinario di Composizione architettonica nella medesima università. Vince la cattedra di Caratteri distributivi degli edifici presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo ed è subito chiamato a insegnare al Politecnico di Milano. Il 7 gennaio 1971 comincia a preparare il progetto di concorso internazionale per la costruzione del Centre Georges Pompidou di Parigi, che scade il 25 giugno. Nella notte tra il 13 e il 14 aprile, durante un viaggio in Jugoslavia, rimane coinvolto in un incidente a Slavonski Brod ed è ricoverato all’ospedale locale. Durante la convalescenza non disegna, ma legge e annota le sue impressioni sugli scritti di Pierre Drieu La Rochelle, Louis-Ferdinand Céline e James Joyce, sull’Amleto di William Shakespeare e The Crock of Gold di James Stephens. Anche a causa dell’incidente, è costretto a rinunciare al concorso per il museo parigino vinto da Richard Rogers e Renzo Piano. Rossi inizia la prima opera di fondazione del Gallaratese e il 5 agosto ritira il bando di concorso per il cimitero di San Cataldo a Modena: la consegna del progetto avviene il 2 novembre e il 23 settembre dell’anno successivo è nominato vincitore del primo premio. A Milano, nel febbraio del 1973, visita la personale che Palazzo Reale dedica a Mario Sironi, nella quale ha modo di studiare le fotografie e i progetti dell’artista per la “V Triennale di Milano” del 1933, anno in cui la Triennale diventava ente autonomo e la manifestazione veniva trasferita da Monza nei nuovi spazi del Palazzo dell’Arte di Milano, appositamente progettati da Giovanni Muzio. Scrive e dirige il film Ornamento e delitto, per la regia di Luigi Durissi. Il titolo è tratto dall’omonimo saggio di Adolf Loos pubblicato nel 1908 (in tedesco: Ornament und Verbrechen), in cui l’autore sottolinea l’utilità sociale della produzione di oggetti, anche architettonici, di forma semplice e funzionale. Il film, costruito sull’alternarsi nel montaggio del girato originale, con scene di film, da Rossellini a Visconti, e immagini tratte da diversi documentari, riprende l’oggetto della discussione di Loos in una chiave contemporanea e politica. Nel gennaio del 1975, insieme a Rosaldo Bonicalzi, comincia a ordinare tutti i suoi scritti per l’edizione della raccolta intitolata Aldo Rossi. Scritti scelti sull’architettura e la città. 1956-1972. Dal 10 al 28 marzo 1976 si trova negli Stati Uniti, dove tiene un ciclo di conferenze presso la Cornell University School of Architecture di Ithaca, presso la Cooper Union for the Advancement of Science and Art di New York e presso la University of California di Los Angeles. Da quest’anno cominciano assidui rapporti di collaborazione con le principali università americane. Il 28 marzo, presso l’Institute for Architecture and Urban Studies di New York inaugura la mostra personale “Aldo Rossi in America”; il catalogo, con un testo di Peter Eisenman, è pubblicato durante la seconda edizione della mostra, nel 1979. Nel 1978 realizza il Teatrino Scientifico: un piccolo teatro in legno e lamiera con scena mobile, concepito come una macchina per esperimenti architettonici. Il primo riconoscimento per il suo lavoro di progettista giunge a maggio, quando è nominato accademico dall’Accademia Nazionale di San Luca, istituzione che ha lo scopo “di adoperarsi per la valorizzazione e la promozione delle arti e dell’architettura italiane”.
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A Venezia l’11 novembre 1979 il Teatro del Mondo viene portato su una chiatta alla punta della Dogana. Il teatro “galleggiante” a pianta centrale, costruito in legno su uno scheletro di tubi Innocenti in ferro, è realizzato da Rossi per i settori Architettura e Teatro della Biennale in occasione dell’esposizione “Venezia e lo spazio scenico, su invito di Paolo Portoghesi, direttore del settore Architettura di quella edizione della mostra internazionale. Nel 1981 Rossi ottiene il primo premio al concorso internazionale ristretto, promosso dall’Internationale Bauaustellung Berlin, per il progetto dell’isolato tra Kochstrasse e Friedrichstrasse a Berlino, che termina nel 1988. Passa l’estate del 1989 in Grecia e, nel mese di ottobre, partecipa all’inaugurazione complesso alberghiero Il Palazzo di Fukuoka. Ancora in Giappone, dove ha di recente avviato uno studio insieme all’architetto Toyota Horiguchi, realizza lo Yatay di Pinocchio in occasione della “Japan Design Expo 1989” di Nagoya: un’architettura mobile che rilegge la tradizionale architettura dello yatay (chiosco), contaminata con la cultura italiana impersonata dalla figura di Pinocchio. Il 16 giugno 1990 a Palazzo Grassi riceve il Pritzker Architecture Prize. La motivazione espressa dalla giuria del premio, composta da J. Carter Brown, Giovanni Agnelli, Ada Louise Huxtable, Ricardo Legorreta, Kevin Roche e Jacob Rothschild, tiene conto del talento di Rossi e insieme della sua solida base teorica, della sua influenza e del “contributo al miglioramento del mondo attraverso la sua pratica dell’architettura”. Continuano i riconoscimenti per il suo lavoro: nel 1991 Rossi vince l’American Institute of Architects Honor Award per l’Hotel Il Palazzo, grazie al quale ottiene anche il premio della città di Fukuoka per la migliore architettura. L’anno successivo gli sono conferite due nuove onorificenze: la Thomas Jefferson Medal in Architecture, dalla omonima fondazione in collaborazione con la University of Virginia School of Architecture, e il titolo di Campione d’Italia nel Mondo per l’Architettura, da parte della Presidenza della Repubblica Italiana. Nel 1992 si dedica soprattutto all’unità abitativa nella Schützenstrasse di Berlino, di cui comincia la progettazione. Rossi è nominato membro onorario dell’American Academy of Arts and Letters di New York e riceve dalla presidenza del Consiglio dei Ministri il premio speciale Cultura 1996 per il settore Architettura e design. Il 29 gennaio 1996 un devastante incendio doloso distrugge il teatro, temporaneamente chiuso per lavori di manutenzione. Il rogo impegna i vigili del fuoco per tutta la notte. Il mondo intero piange la perdita di uno dei teatri più belli, dalla straordinaria acustica e protagonista da sempre della vita operistica, musicale e culturale italiana ed europea. Dal dolore della perdita nasce la volontà di ricostruire lo storico teatro ispirandosi al motto “com’era, dov’era”, ripreso dalla ricostruzione del campanile di San Marco. Il 7 settembre viene pubblicato il bando di gara cui partecipano dieci imprese italiane ed estere, giudicate il 30 maggio 1997. Dopo alcuni ricorsi, la A.T.I. Holzmann si aggiudica l’appalto con il progetto di Rossi. Aldo Rossi muore improvvisamente a Milano il 4 settembre 1997.
I PROGETTI E LE OPERE ARCHITETTONICHE Come sappiamo l’opera architettonica di Aldo Rossi è vastissima. Per quello che riguarda l’indagine che mi sono prospettato di portare a compimento mi avvarrò di una selezione ridotta di progetti, scelti per la sostanziale eterogeneità , ma anche per alcune caratteristiche tipologiche e per il rapporto speciale tra le architetture e le città dove si collocano spazialmente. Molte descrizioni appartengono all’autore delle opere stesse, cosa che ci permette di comprenderne meglio la genesi. Il primo progetto significativo di Aldo Rossi è la sistemazione della piazza del Municipio e il monumento ai Partigiani a Segrate realizzato nel 1965. Il progetto è costituito da diverse parti, una di queste è un muro che chiude la piazza e la divide dalla campagna. Nel muro sono aperte delle porte. I confini della piazza sono anche segnati da elementi cilindrici, come frammenti di altre costruzioni. L’elemento principale è costituito dal monumento ai Partigiani: questo e formato dalla sovrapposizione di diversi elementi e pezzi d’architettura. La piazza e il monumento costruiscono un’architettura delle ombre; le ombre segnano il tempo e il passaggio delle stagioni. Il monumento è concepito come una fontana da un lato e un podio dall’altro: il podio è rivolto verso la piazza che sale sul fondo con un’ampia gradinata.
Nel 1966 Rossi esegue il progetto per un’unità residenziale al quartiere San Rocco a Monza, nella situazione di degrado che caratterizza la periferia milanese, dove anche i tipici riferimenti del paesaggio industriale si sono persi, il progetto per il quartiere San Rocco a Monza ha essenzialmente due significati: 1) la possibilità di fissare una forma esatta e riconoscibile nella miseria e nella confusione della periferia industriale milanese; 2) porsi come alternativa architettonica ai tipi edilizi prodotti dalla speculazione o agli edifici dell’edilizia “sociale”. Il progetto del quartiere si configura come un complesso residenziale basato sull’idea della Corte. Esso trova i suoi riferimenti come forma e dimensioni, in esempi antichi e moderni, in una continuità formale che va dai chiostri dei conventi e delle cascine lombarde fino alle grandi Höfe del movimento moderno di Berlino o Vienna. Riferimenti che attraversano la storia dell’ architettura e della città ma che si confrontano sempre con i caratteri popolari e locali di un modo di costruzione secolare in Lombardia. Sempre in ambito residenziale possiamo descrivere l’unità d’abitazione al quartiere Gallaratese di Milano realizzato nel 1969-70 con Carlo Aymonino. Per tale progetto Rossi descrive: Questo edificio, insieme al progetto per il quartiere San Rocco, rappresenta la mia
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scelta nel campo della tipologia d’abitazione. Mentre la tipologia del San Rocco è basata sulla corte, qui e costituita dalla galleria o ballatoio. Tutta la costruzione si sviluppa lungo questo passaggio orizzontale. La forma tipologica del ballatoio è molto importante nella architettura moderna, essa significa una strada interna sopraelevata. D’altro canto, insieme alla corte, è uno dei tipi più diffusi tradizionalmente in Lombardia. Il taglio che corrisponde alle colonne coincide con il giunto di dilatazione; ho attribuito una grande importanza a questo aspetto tecnico della costruzione. Le quattro colonne che corrispondono a questo taglio o spacco hanno un diametro di 1,80 m pari alla misura dei casseri metallici. I quattro cilindri, o colonne, sono in cemento. In questo punto tutto l’edificio, sia in pianta che in alzato, presenta il momento di maggior tensione valendosi degli aspetti tecnici e della differenza di quota del suolo. L’edificio fa parte di un più vasto complesso residenziale progettato da Carlo Aymonino. E costituito da un corpo di fabbrica lungo 182 m e profondo 12 m. Il piano terra porticato si trova su due livelli collegati da una scala. Il portico e formato da pareti profonde 3 m e pilastri profondi 1 m. Pilastro e parete-pilastro hanno lo spessore di 0,20 m. Ogni 16 pareti-pilastro si trovano i gruppi scala: la prima rampa e sopraelevata di tre gradini rispetto al piano terreno. L’accesso alle scale può avvenire sia dal portico che dall’esterno. La parte sopraelevata rispetto al piano terreno presenta le stesse caratteristiche: solo che sul portico si affacciano negozio spazi per attività commerciali. I gruppi scala portano direttamente al ballatoio; esso è costituito da un percorso continuo largo 1,85 m, aperto con continuità sulla parte esterna, mediante tagli quadrati nella muratura di 1,50 m di lato. Gli appartamenti proposti sono principalmente di due locali più servizi; ogni appartamento possiede una o due logge sulla facciata. (A. R.) Tra il 1971 e il 1978 avviene il progetto e parte della realizzazione del Cimitero di San Cataldo a Modena. Il cimitero, come edificio, e la casa dei morti. All’origine la tipologia della casa e della tomba non si distinguevano. La tipologia della tomba e delle costruzioni sepolcrali si confonde con la tipologia della casa, corridoi rettilinei, spazio centrale, terra e pietra. Solo le forme più antiche univano nelle grotte il culto dei morti con il culto dei non vivi. La
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Unità d’abitazione al quartiere Gallaratese di Milano. In alto: disegno del prospetto Al centro: Piante e prospetto Sulla destra: Vista del percorso interno
morte esprimeva uno stato di passaggio fra due condizioni i cui confini non si erano precisati. Da allora il riferimento del cimitero si pone dell’architettura del cimitero, della casa, della città. Questo progetto di cimitero non si discosta dall’idea di cimitero che ognuno possiede. La forma tipologica del cimitero è caratterizzata da percorsi rettilinei porticati; lungo lo sviluppo di questi sono ordinate le salme. I percorsi porticati sono perimetrali e centrali; essi si svolgono sia al piano terra, sia ai piani superiori, sia interrati. Questi edifici sono costituiti principalmente dai colombari; si accede ai piani inferiori dai portici perimetrali. Al piano interrato i colombari si sviluppano secondo un disegno reticolato che forma grandi corti; le corti sono costituite dalla terra delle quadre di inumazione. Ai lati delle corti stanno le salme. Rispetto alla tipologia della casa a corte il rapporto e rovesciato. Al centro dell’area sono collocati gli ossari con successione regolare iscritta in un triangolo; questa spina Centrale, o vertebra, si dilata verso la base e le braccia dell’ultimo corpo trasversale tendono a richiudersi. Alla estremità di questa spina Centrale si trovano due elementi con una forma definita: un cubo e un cono. Nel cono, e al di sotto di questo, si trova la fossa comune; nel cubo il sacrario dei morti in guerra e delle salme trasportate dal vecchio cimitero. Questi due elementi monumentali sono collegati alla spina Centrale degli ossari mediante una configurazione osteologica. Solo il loro rapporto dimensionale è monumentale: qui monumentale significa il problema della descrizione del significato della morte e del ricordo. Questi elementi definiscono la spina centrale.
Il primo progetto architettonico in ambito educativo consiste nella Scuola elementare a Fagnano Olona del 1972. L’edificio è composto da: nucleo delle aule normali; nucleo delle aule speciali per attività collettive e interciclo divise da setti mobili; servizi generali costituiti da direzione didattica, studio medico, sala insegnanti, mensa, cucina e servizi; nucleo di integrazione, attività culturali, associative e sportive. Le diverse parti si organizzano attorno a una piazza centrale posta su due livelli collegati da una scala. A piano terreno, aperti sull’atrio, si trovano gli uffici della segreteria, direzione, sala insegnanti. Lo studio medico ha attesa, servizi e ingresso indipendenti. Alla mensa si accede direttamente dall’atrio mentre la cucina presenta ingresso separato. Dall’atrio si accede alla sala interciclo con soppalco per biblioteca. La sala interciclo misura 78,50 mq ed e illuminata dall’alto mediante cupola vetrata apribile a comando elettrico. Tutte le aule e la sala interciclo danno su uno spazio aperto interno articolato su due livelli mediante una grande scala a gradinata. Questo spazio si presta sia alla attività didattica all’aperto sia a rappresentazioni teatrali didattiche per gli scolari. L’accesso alla palestra e alle aule superiori si articola su due spazi autonomi con ingresso indipendente. Il progetto per una casa dello studente a Trieste del 1974 è costituito da quattro corpi che seguono la inclinazione del terreno e si riuniscono nella parte superiore attraverso un ponte ballatoio che costituisce l’elemento di collegamento.Il ponte ballatoio conduce all’edificio della vita collettiva che riunisce le attività della vita associata degli studenti. Questo edi-
ficio per la vita associata è concepito come un grande spazio unitario dove i piani superiori sono i piani perimetrali che si affacciano nel grande spazio centrale; il modello di questo edificio si può trovare in numerosi esempi dell’ architettura moderna e particolarmente in quegli edifici destinati alla vita collettiva e a funzioni pubbliche. Gli esempi principali si possono riportare al grande Lichthof o corte illuminata dall’alto dell’università di Zurigo di Karl Mosen alla Borsa di Amsterdam di Berlage come alla Galleria del Mengoni a Milano. Questo tipo di edificio rappresenta la tendenza verso un grande spazio di carattere urbano dove interno ed esterno, città e edificio, si confondono e si costruiscono vicendevolmente. Lo studente, il visitatore, il cittadino di Trieste si incontrano nell’edificio collettive vivendo nello spazio centrale l’esperienza della vita associata. A questo spazio collettivo si accompagna l’indipendenza della costruzione dei corpi delle camere degli studenti; anche questi sono caratterizzati dal rapporto con la città nel ripetere su strade e prospettive di strade, su incroci aerei e su portici, che seguono la pendenza del terreno, il rapporto verticale della architettura di Trieste che sale dal mare verso il Carso. Ai piedi di questi grandi corpi aerei, che costituiscono le camere degli studenti, un portico degradante segue il profilo della collina, scandito dal ritmo dei grandi ed esili pilastri che sostengono i corpi aerei delle camere. La casa dello studente è in questo progetto soprattutto una città costruita secondo gli elementi canonici della città; strade, gallerie, piazze, geografia e topografia come costruzione fisica del suolo urbano.
In Alto: progetto del Cimitero San Cataldo di Modena Al centro: Scuola elementare as Fagnano Olona A destra: Progetto per una casa dello studente a Trieste
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Nel 1977 Rossi realizza il Progetto per il centro direzionale di Firenze. Segue la sua descrizione del progetto. Questo progetto sviluppa il tema del concorso <<progettazione di un’area direzionale>>, nel senso della progettazione o previsione di una parte di città non tanto alternativa quanto collegata spazialmente a Firenze. Per noi l’unica possibilità nell’accettare il concorso è vedere nella città contemporanea - nella sua stessa disfunzione - la realtà. Così la ricerca del positivo dell’architettura funzionalista è rovesciata: la necessità dell’intervento sembra sospesa. Gli urbanisti, trasformatisi in cauti amministratori, continuano in realtà a sognare atti chirurgici: ma di una chirurgia delicata e semplicemente correttiva - quasi un’operazione di plastica. Cosi i centri storici conservati con sensibilità, gli interventi discreti dei vari Iacp nelle periferie tanto discreti da essere quasi invisibili ai senza casa e infine il riutilizzo del patrimonio esistente. In questo caso il progetto, nella sua totalità, è la ricerca di un’immagine composta o composita: non nel senso di una città analoga a Firenze (in quanto ogni analogia qui si riassume nei singoli edifici), ma nel tentativo della progettazione come unità di pezzi precostituiti, che al massimo possono deformarsi alla fine dell’operazione. Alcune cose sono semplicemente osservate a Firenze attraverso le mediazioni che abbiamo con la tradizione: la riproposizione del Davide in piazza della Signoria e successivamente a piazzale Michelangelo ha un significato urbano che va oltre la bellezza della soluzione fiorentina per affrontare, in modo ben più ampio, l’uso degli elementi consolidati nella città - compresa la bellezza per creare la città. A sua volta tutto il pezzo di città progettato si ripropone come una parte da cui si sviluppa la città da Monaco di Baviera a Brasilia la città progettata rimane un frammento o una parte, in ogni caso un elemento con particolari capacità generative. La ricerca consiste nell’aver applicato anche al progetto di una parte di città - In questo caso il Centro direzionale – il principio che la città non può essere realizzata con un unico linguaggio figurativo. (A. R.)
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Il progetto per il teatro del Mondo o chiamiamolo per questo teatro Veneziano si caratterizza da tre fatti: l’avere uno spazio usabile preciso anche se non precisato, il collocarsi come volume secondo la forma dei monumenti
Progetto per il centro direzionale di Firenze: planimetria e assonometria Il Teatro del Mondo: prospetto e vista a Venezia
veneziani, essere sull’acqua. Appare evidente come essere sull’acqua sia la sua caratteristica principale, una zattera, una barca: il limite o confine della costruzione di Venezia. E all’acqua, non solo a Venezia, le città affidavano compiti diversi. I barconi che scendevano dal Ticino nella nebbia lombarda si trasformavano nelle barche del carnevale; le costruzioni sull’acqua segnano le incisioni delle città gotiche del nord. La Limmat, il fiume che attraversa Zurigo, era irta di case o torri che erano mulini, depositi ma anche luoghi misteriosi, di malaffare, posti cosi tra l’acqua e la terra. Le citta orientali erano e sono contornate da questo mondo di barche. Proprio l’immagine di Venezia, sintesi di paesaggi gotici e nebbiosi e di inserti o trasposizioni orientali, ne fissa la capitale della citta sull’acqua. E quindi dei possibili passaggi, non solo fisici o topografici, tra i due mondi. Anche il ponte di Rialto è un passaggio, un mercato, un teatro. Queste analogie del luogo nel progettare un edificio hanno per me un’importanza decisiva, se ben lette sono già il progetto. Anche se si tratta di un edificio dal tempo prevedibilmente breve esso non e solo un capriccio Veneziano. Non so se e come questo teatro o teatrino Veneziano sarà costruito ma esso crescerà nei miei e negli altri disegni perché ha come un carattere di necessità: la sua limitata capienza permette la possibilità di spettacoli diretti, di tipo vario e soprattutto in un luogo centrale della città. La sua struttura non poteva che essere in legno e non certo solo per il tempo della costruzione, ché il legno è materiale solidissimo e forte nel tempo. Ma perché legato all’architettura di questo teatro non in un senso funzionalistico (anche e certamente), ma perché esprime questa architettura: le barche di legno, il legno nero delle gondole, le costruzioni marinare. Queste sono le poche note su un mio progetto, indipendenti dalla possibilità della sua costruzione e dal suo uso. Ma certamente non indipendenti da una costruzione Veneziana, da un modo di progettare che cerca solo nel reale la fantasia. (A. R.) Il primo progetto di una certa rilevanza che l’architetto Rossi realizza a Berlino sono gli edifici d’abitazione nella Südliche Friedrichstadt, IBA, nel 1981. Così lo descrive: La lettura dell’architettura di Berlino, per la sua impostazione, indica le principali caratteristiche del progetto. Si tratta principalmente, come si e detto all’inizio, di una costruzione a
Edifici d’abitazione nella Südliche Friedrichstadt, IBA
Scala urbana dove la comprensione della città costituisce la premessa o parte della progettazione. L’errore di molta architettura moderna e di non avere costruito lungo gli assi stradali togliendo vivacità e compattezza alla città: la strada è l’elemento urbano per eccellenza soprattutto nei punti più densi della città. Gli esempi delle città d’Europa e di New York sono fin troppo evidenti: in Francia, in Italia e in Spagna si sono costruite gallerie che attraversano parti della città. La galleria Vittorio Emanuele di Milano, criticata dagli architetti
del Movimento Moderno, e oggi universalmente riconosciuta come uno degli esempi più significativi di unione tra la città e l’architettura; essa è appunto un’architettura urbana. Il primo punto del progetto e stato quindi quello di rispettare l’allineamento stradale costruendo gli edifici lungo il perimetro dell’area e ricostituendo cosi la Friedrichstadtz dove non si è seguito questo principio il risultato e sempre stato negativo. Proprio a Berlino lo Hansa Viertel lo dimostra e non valgono le buone architetture a riscattare l’errata im-
postazione urbanistica. A Le Havre è avvenuto il contrario; la costruzione della città per viali e portici è positiva anche se l’architettura non e tra le migliori di Perret. Questo principio di costruzione significa anche la possibilità di valorizzare gli edifici esistenti ponendo con continuità il vecchio e il nuovo. La facciata continua lungo la strada non significa la non permeabilità tra esterno ed interno: essa anzi permette, attraverso l’uso delle aperture o spacchi, di rendere visibile il verde all’interno. Questo avveniva anche nei palazzi e negli isolati della città antica; la corte diventa un giardino protetto e la bellezza del giardino può essere ammirata da chi passeggia per la strada; nella grande città il concetto del verde pubblico e del verde privato deve trovare questa mediazione, esso è un verde, per così dire, architettonico. Lungo la Wilhelrnstrasse, di fronte all’Anhalterstrasse, la facciata si apre con un grande portale; altri punti le piante rompono l’edificio e spacchi calcolati permettono di vedere i lati degli edifici, le pareti di mattoni che sono caratteristiche di Berlino. D’altra parte tutta questa composizione mi sembra esprima il carattere di Berlino; le piante, come nei disegni dei romantici tedeschi, hanno un valore complesso ed esprimono anche ciò che l’architettura non dice; nell’espressione grafica abbiamo usato qui per questo, a modo di collage, le piante di una incisione di Schinkel. Gli edifici del garage rifiutano la funzione dell’autosilo e permettono con le torri dei servizi di realizzare una parte chiusa e più monumentale (con una lontana citazione di un progetto di Adolf Loos) mentre la costruzione dell’edificio per spazi liberi che si possono dedicare alla scuola ripropone come un mistero ironico “la casa tedesca”, o “la scuola tedesca”. Tutto questo è racchiuso dalla continuità dell’architettura residenziale che è sempre porticata a piano terra e aperta sul giardino e gli edifici interni; è costituita da mattoni e vetro, da tetti di rame verde, segnati dalle torri degli ascensori come guglie. Il riferimento ai maestri berlinesi (Mies e Schinkel), ai lunghi edifici proiettati nel disegno del Belle-Alliance Platz, a certi modi di intendere la città e diventato un’architettura unitaria. Questa architettura ai due estremi della Wilhélmstrasse e segnata da due grandi colonne; esse hanno il valore del riferimento urbano, possono essere intese come la colonna del Filarete a Venezia, come un obelisco, come un punto caratterizzante della città. (A. R.)
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essere concepito e giudicato in base a una cultura europea e a una cultura nuova e progressiva rispetto al destino della città. Sono state pietre miliari dell’avanzamento, opere progressive nella storia della città le grandi cattedrali, la cui presenza ha superato la stessa religiosità da cui nascevano per renderle simboli urbani civili e religiosi a un tempo, i palazzi municipali dei liberi comuni, le costruzioni della città borghese dell’illuminismo fino ad alcune opere della citta moderna. Tra le opere della città borghese, quella moderna ha ereditato in modo singolare il teatro: dalla Scala di Milano all’Opéra di Parigi, dal Bolscioi di Mosca allo Stadttheater di Vienna. Nelle città d’Italia questi teatri, con la loro vita ma anche la loro presenza fisica e architettonica, hanno una grande importanza. A Genova il teatro Carlo Felice del Barabino è stato ed è un simbolo ed una tessera del mosaico urbano: la bellezza e l’importanza della sua architettura sono tali, dal punto di vista della storia dell’arte, che è inutile richiamare i valori. E’ invece importante sottolineare la massa rilevante di pietra del teatro, che con il suo grande pronao costituisce un monumento urbano il quale, contrapposto ed unito a palazzo Ducale, costituisce l’emergenza principale della nuova città al centro del tessuto edilizio popolare e aristocratico. Per queste ragioni, prima ancora che per altri motivi della cultura contemporanea, che vedremo brevemente, la sua ricostruzione è necessaria. Questa volontà di ricostruzione dell’esterno del teatro del Baraloino e il punto da cui parte questo progetto; e lo consideriamo un punto di forza. (A. R.)
Lo sviluppo della città bassa di Perugia è avvenuto in base a un processo di accrescimento che ha tenuto poco conto dei valori urbani tradizionali: questo sviluppo, spesso caotico e avulso dalla storia della città, è stato comune a molte città italiane. Interpretando la volontà dell’amministrazione, che intende trasformare l’area del piano, dove si trovano edifici inutilizzati e in degrado della società IBP nel nuovo Centro della città, il progetto degli edifici pubblici, teatro e fontana nell’area di Fontivegge ha cercato di costruire una parte della città, un centro urbano dove gli edifici pubblici e pratici siano integrati, non solo seguendo uno schema sociologico, ma ripetendo la sostanza di vita quotidiana e di antica pietra di cui la città umbra è costruita. In questo senso Perugia può essere considerata città italiana per eccellenza nel rapporto tra strada e piazza, monumento e residenza, commercio e pubblica istruzione: dalla città medievale, nascosta e segreta nella rocca Paolina, alla città umanistica, segnata tra palazzo dei Priori, la cattedrale, il corso, i vicoli, il tribunale, Perugia e quasi il modello ideale della città d’Italia. Ma se questa città può solo esistere nella storia delle idee, essa esiste concretamente in questa parte storico-geografica dove la umanistica concordantia Aristotelis et Platonis si è verificata in un momento preciso della sua storia. E’ questo il modello del piano, che è solo un riferimento, anche se in questa tensione trova lo spazio della propria possibilità o esistenza. La costruzione di questa parte di città, o comparto, ha il suo centro in una grande piazza che segue la pendenza naturale del terreno, come e caratteristico delle piazze dell’Italia centrale.(A. R.) Il progetto di ricostruzione del Teatro Carlo Felice è concepito per Genova, una delle grandi “capitali” d’Europa, al di fuori di ogni retorica nazionale o locale. In particolare Genova ha necessità di una grande struttura teatrale non solo per tenere viva la propria tradizione ma in funzione di esigenze vitali, economiche e culturali, proiettate in un futuro sicuramente in espansione: questo significa che la costruzione del Nuovo Carlo Felice trascende i singoli, progettisti e amministratori, per investire tutti i cittadini. Non può perciò essere giudicato, e, ovviamente, progettato, solo con obiettivi municipalisti o riferendosi a mere questioni tecnologiche. Deve
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In Alto: progetto di edifici pubblici e teatro a Fontivegge, Perugia Al centro: Intervento al Teatro Carlo Felice di Genova In basso: Progetto del palazzo d’uffici “Casa Aurora” a Torino
Il progetto del palazzo d’uffici “Casa Aurora” nuova sede del GFT a Torino contiene precisi segni di interpretazione dell’architettura torinese: nella planimetria che segue l’isolato romano e il reticolato, nei materiali (il mattone e la pietra locale), in una nuova cultura architettonica. Questa cultura respinge lo “stile internazionale”, magari esaurito in falsi materiali moderni, per ritrovare il senso delle nostre città. A New York, centro della tecnologia, indipendentemente da altre considerazioni, come a Houston o a Dallas, gli ultimi grattacieli sono di granito o di mattone perché ancora non vi è materiale che li possa sostituire. Questa è l’autentica modernità di questo edificio, una struttura razionale dal punto di vista statico, una distribuzione chiara e semplice che permette diverse modificazioni
Hotel “il Palazzo” a Fukuoka in Giappone Vista, Pianta e Disegno preliminare
funzionali e nel contempo, come valore primario, l’elemento storico e la comprensione dei valori urbani. Il GFT vuole offrire alla città di Torino un edificio moderno, tradizionale e coerente alla cultura, all’arredo urbano torinese. (A. R.) Rossi ha costruito numerosi progetti anche in Giappone; per riassumere i caratteri interpretativi che l’architetto applica al caso giapponese ho pensato di riportare la descrizione che Rossi fa del suo Complesso alberghiero e ristorante <<Il Palazzo>> a Fukuoka del 1987. In una fantastica analogia tra il Giappone e l’Europa, come un gioco di corrispondenze e riflessi, Fukuoka potrebbe appartenere a una famiglia di, città come Napoli, Marsiglia, Barcellona. E non solo e ovviamente per il mare, il porto, i canali e quindi la loro situazione geografica, ma proprio per quella vita misteriosa, febbrile, notturna che le caratterizza. Credo sia impossibile conoscere Fukuoka se non si passeggia la notte lungo gli illuminati bordi dei canali dove si svolgono i più diversi giochi (con il fuoco, i pesci, gli animali); giochi o spettacoli che appartengono a un mondo di finezze orientali spesso per noi incomprensibili. Ma tutto questo è reso possibile da
quello che un nostro grande poeta ha definito <<la calda vita>> parlando proprio di un’altra singolare città di mare: Trieste. Fukuoka inoltre, come altre città del Giappone, possiede molti yatai. Lo yatai, anche se ha un suo corrispondente nella tradizione europea, e di per sé intraducibile: direi che e una piccola casa, essenzialmente mobile e in qualche modo dedicata al commercio: sempre lungo i canali di Fukuoka vi sono molti yatai che sono in realtà dei piccoli ristoranti specializzati in qualche particolare tipo di cibo. In Italia mi ricordo (era quasi l’infanzia) di piccoli banchi posti lungo le strade statali dove si fermavano prevalentemente i ciclisti e qualche camionista, vi si servivano usualmente “le granite” che erano poi ghiaccio tritato grosso a cui si aggiungevano, colorandolo, incredibili sciroppi; incredibili per il colore e il misto di dolcezza e vernice, verde menta, granatina, acido limone, oscuro e denso tamarindo. Questi colori contrastavano con i corpi polverosi dei ciclisti, ma si accompagnavano alle loro maglie gialle e azzurre. Quale relazione vi è tra tutto questo e <<Il Palazzo>> di Fukuoka? Un palazzo non può sorgere nel vuoto o almeno e tanto più ricco quanto più è circondato dalla vita quotidiana, immerso nella calda vita di cui parlava il poeta. O forse, come nelle fiabe
antiche, vi era nel colore di quelle granite il colore dell’elisir che permette di elevarci in mondi diversi. Il palazzo di Fukuoka è solcato da un verde acido, minerale e arboreo come di pietre abbandonate nei parchi e coperte di una malsana naturalezza, e questo verde attraversa la pietra rossa, arancio variegata dell’impero più antico: la Persia, porta dell’Oriente e madre dell’Occidente. Così sorgeva il progetto di Fukuoka e come tutti i grandi progetti si riferiva ad altre esperienze, altre dimensioni, altre voci. Quali voci? Forse solo a quelle dell’architettura: al demone dell’analogia che può unire il battistero di Parma al tempio del Budda di Gifu, i canali di Trieste a quelli di Fukuoka. Ma anche voci più profonde, richiami, battute teatrali, oggetti dimenticati e questo crescere cercando nei punti cardinali l’assoluto come se si trattasse di un mostro singolare, il sud, il nord, l’occidente, l’oriente. E ciò che in esso vi è di estremo, precipizio del tempo e significato, perché il giro non debba più a compiersi. Ma il giorno continua e lo segniamo con queste opere che solcano soltanto un percorso, ma che vorremmo segni di un percorso non umano. Con l’unico orgoglio di scoprire noi stessi, i nostri reperti archeologici. (A. R.) Per quello che riguarda Verbania e quindi l’ambito progettuale del Tecnoparco, Aldo Rossi ha realizzato altri due progetti, uno di questi consiste nella ristrutturazione di villa Alessi a Suna di Verbania del 1989. La villa sorge sui resti di una casa del dopoguerra quasi totalmente distrutta. Rimane il vecchio muro del giardino che sarà in parte restaurato e consolidato. L’architettura della villa ha per me un interesse particolare, perché per la prima volta mi è stato possibile ispirarmi e in qualche modo imitare lo stile romantico. Di questo stile, che unisce i caratteri locali con elementi classici o storici, il lago Maggiore e il Iago di Como (come altre località lombarde) presentano esempi molto belli. Sul Iago Maggiore e in Valsesia la costruzione in scaglie di granito a vista (da cui la denominazione “scagliola”) era popolare per usare i resti della lavorazione del granito di poco o nessun valore. Nell’Ottocento tale lavorazione fu ripresa introducendo elementi di cotto ispirati alle forme storiche locali. Se l’impianto di questa casa è assolutamente libero e personale, l’uso di queste citazioni
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stilistiche lega intimamente la costruzione all’ambiente. Vi è in questo anche una mia personale e autobiografica citazione per la mia educazione lacustre, ma vi è anche la ricerca delle diverse vie che l’architettura può percorrere oggi nelle diverse situazioni o luoghi in cui si realizza. (A. R.) La nuova sede del Bonnefantenmuseum a Maastricht in Olanda è il rifiuto della stoltezza museale tradizionale. Il foyer è il primo spazio che si incontra: caratteristico nella sua forma a cannocchiale. Il cannocchiale è un tipico esempio di “Lichtraum” il cui precedente si può trovare nel “Lichthof” dell’università di Zurigo; d’altra parte questa soluzione non è tipicamente nordica, ma è il maggior punto di contatto tra la grande architettura castigliana e il mondo delle colonie. Per questo, un filo sottile unisce il mondo fiammingo alla Spagna, Vermeer a Zurbarén. La luce delle case e dei conventi fissa nel monumento l’effimero della vita quotidiana e della vita religiosa. Dal foyer si entra direttamente nella parte viva e vivente dell’edificio: a questa vita si accede con timore e tremore all’essenza del museo. Difficile, quasi impossibile, è definire quale sia questa essenza; è il museo una raccolta di ricordi della vita, è esso stesso parte della nostra vita? La nostra stessa architettura sospende e rimanda a un giudizio più generale questa domanda. Del mondo dell’ antica tradizione olandese abbiamo cercato di rappresentare l’essenza geometrica, sapendo che oltre alla geometria vi è solo il naufragio. La cupola trova la sua grandiosità in due motivi principali: il primo è il suo legame con la più pura tradizione architettonica dal mondo Classico fino al torinese Alessandro Antonelli, il secondo è che essa è principio e fine dell’Olanda, tra il fiume e il mare un segno altissimo della condizione della topografia olandese. Ma ora, come se percorressimo il belvedere, vediamo il museo nella sua unita, forse un’unita perduta che riconosciamo solamente per quei frammenti della nostra vita che sono anche i frammenti dell’arte e della vecchia Europa. Forse ricordiamo che tra i corpi principali del museo si trova il “labidarium romano”. Bene, sappiamo come solo una lapide, frammento tangibile, sia preziosa testimonianza di qualsiasi passato. (A. R.) Considerando ora un tipo architettonico come vedremo di “importanza strategica” quale è l’aeroporto, segue quanto Rossi afferma a
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riguardo, nello specifico si tratta del progetto dell’ampliamento dell’aeroporto internazionale di Milano Linate. Potremmo dire allora che l’aeroporto è la porta della città; la sua stessa radice è mutuata dal porto e questo porto del cielo è certamente il più vasto e il più legato alla città. I poeti antichi parlavano dei confini del cielo e il cielo è uno spazio sempre più abitato e vissuto. Gli aeroporti sono quindi le città, le basi di questo spazio. I nostri tecnici conoscono le necessità crescenti di queste città che spesso accolgono per lungo tempo grandi folle con diverse esigenze. L’Italia è carente di queste strutture. Noi siamo convinti che in poco tempo potremmo passare a una situazione migliore e quasi di privilegio. Tralasciamo l’aspetto tecnico e organizzativo che non e di nostra competenza, ma che ovviamente è oggi allo stesso livello in tutto il mondo, salvo eccezioni legate a situazioni differenti nei vari paesi. Ma l’Italia deve offrire la propria immagine (come ogni paese) in modo autonomo. Ricordiamo i bellissimi hangar di cemento realizzati per l’aeroporto di Firenze e che sono poi passati alla storia dell’architettura. Altri esempi e interventi che per anni posero l’Italia come un riferimento in questo Campo. Il progetto di massima e controllato (in senso statico ed estetico) da una maglia di pilastri che nella loro razionalità diventano elementi di un lungo colonnato la cui uniformità è spezzata dalla porta d’ingresso e d’uscita, dai ponti dove passano i bagagli e dalla grande superficie vetrata a più piani. E’ importante notare come sia stata nostra maggiore preoccupazione quella di non interferire con le opere edilizie nella vita già convulsa dell’aeroporto. Da qui, ma anche per motivi estetici, la grande facciata che permette l’uso dell’edificio attuale. L’impostazione delle facciate principali è necessariamente di vetro, ma dove il vetro diventa la finestra della casa o del laboratorio. E il privilegio di una grande struttura che i nostri ingegneri hanno studiato valorizzando e potenziando l’architettura. Grande e magnifico edificio diventerà sempre più l’aeroporto; grande e magnifico per quel potere di accogliere la gente in grandi strutture e trasformare le grandi strutture in luoghi di vita diversa e variata. Era il sogno di grandi ingegneri del secolo scorso e diventò la realtà delle città moderne nelle stazioni, nei porti e nei metrò. Stranamente in quei luoghi dove la gente si spostava.
In Alto: ristrutturazione di Villa Alessi a Suna di Verbania
Nuova sede del Bonnefantenmuseum a Maastricht in Olanda Prospetto e sezione A lato: Piante
Aeroporto di Linate a Milano A lato: porzione di pianta e prospetto Sopra: vista dellâ&#x20AC;&#x2122;aeroporto
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Sono sempre stato colpito dalla frase di Marinetti che affermava di scrivere bene la scrittura futurista sentendo sferragliare i tram milanesi. Oggi questa frase è antiquata, eppure la possiamo intendere ancora in senso ambiguo; la città moderna non necessità di nuovi rumori (ne ha troppi) ma nel contempo ha bisogno di quegli stimoli che ne rappresentano il progresso. Sono convinto che l’aeroporto sia oggi uno di questi stimoli. E anche l’uso delle pareti interpretate dall’architetto Vercelloni come nuove figure aperte verso la città può essere un elemento affascinante. D’altro canto le immagini al neon prospicienti il duomo di Milano sono esempio di quanto sia possibile rappresentare il nuovo. (A. R.)
truisce per la gran parte l’edificio esistente, completando il fronte stradale con elementi in ferro, vetro e altri materiali della moderna tecnologia che cercano di inquadrarlo come in una cornice. Considerando tutto il progetto come un collage architettonico si propone anche una parte del fronte, rispondente a una precisa tipologia interna, con la citazione di un palazzo romano. Questa idea del progettare usando in modo diverso citazioni diverse si può trovare, d’altronde, in due grandi maestri dell’architettura berlinese, come Schlfiter e Schinkel, che anche per questo sono oggi tra gli architetti più studiati e più interessanti dell’ architettura contemporanea. E certo che questo progetto è fondato sul “blocco”, cioè su una porzione di terreno, limitata dalle strade urbane che costituisce una parte della città. Berlino, come ci indicano gli storici della città, era caratterizzata dalle grandi corti. L’Hof, nel male e nel bene, era ed è un luogo, pubblico e privato, che partecipa dell’interno come dell’esterno fino ad essere un internoesterno. L’Hof come le galeries descritte da Walter Benjamin a Parigi, costituisce quindi un elemento di paesaggio: attraversa la città, collegando i vari blocchi In questo progetto si è cercato di ordinare lo spazio interno e, senza ripetere ciò che si è perduto, di ricreare questa vita interna del blocco. Percorsi, porticati e un giardino nel passaggio principale: il giardino non è un hortus conclusus ma, al contrario, un filtro per collegare le diverse costruzioni e rendere più vivo l’interno. Il blocco presenta l’unità di gronda, cioè un limite in altezza continuo, sottolineata dalle gronde e dalle cornici: da questa linea spuntano le torri, in due punti, e, in poche costruzioni, i tetti a mansarda. Non è un tentativo di ricostruire la città gotica, attraverso le sue vicende storiche; ma sicuramente di offrire alternative alla pratica edilizia comune, con una varietà di tipologie piuttosto che di forme. Le diverse tipologie suggeriscono una possibilità di funzioni diverse: dalla residenza agli uffici dai negozi alle gallerie d’arte, e così via.. (A. R.)
Secondo il mio punto di vista emblematico è il Progetto per il Museo nazionale di Scozia Edimburgo del 1991. Il progetto è stato elaborato in occasione del concorso per il museo nazionale scozzese a Edimburgo. L’edificio, che ha l’aspetto di un grande mausoleo, entra in rapporto diretto con la storia complessa della città, con i riferimenti lontani che hanno contribuito a costruirne la forma urbana, con le caratteristiche più particolari del terreno e con l’adiacente Royal Museum di Robert Adam. Gli spazi espositivi, le stanze di studio, le strutture di servizio sono disposti lungo una galleria a spirale che si svolge lungo i sei piani d’altezza ed è illuminata dal grande lucernario Centrale. L’ultimo dei progetti realizzati da Aldo Rossi del quale mi vorrei soffermare è l’edificio residenziale e a uffici in Schutzenstrasse a Berlino del 1992. Questo progetto rivela un particolare interesse per due aspetti della ricostruzione della città di Berlino: da un lato, la ricostruzione e il restauro degli edifici storici e caratteristici dell’edilizia del passato; dall’altro, la costruzione di edifici completamente nuovi a essi congiunti. In questo progetto si trova, infatti, un edificio probabilmente di non alto valore storico-artistico ma nel contempo caratteristico di una visione di Berlino quale era prima della guerra e che possiamo studiare nei libri di storia. Tale edilizia caratteristica di Berlino e di altre parti della Germania era costituita da un disegno che proveniva sia dalla viva tradizione schinkeliana, sia dai modelli Beaux-Arts. Quindi, questo progetto non cerca particolari spunti originali ma restaura e ricos-
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In Alto: progetto per il museo nazionale di Scozia Edificio residenziale e a uffici in Schutzenstrasse a Berlino
L’EVOCATORE DI FORME Avanti a tutto, il Perseo a brandire con la destra la spada e a sollevare con la sinistra il capo mozzato della Gorgone pietrificante, benché il volto spaventoso di Medusa si risolva nell’arruffio dei tratti di penna. Appena arretrato il cavallo, la cui anatomia egli sta studiando con passione, sulla scorta dei pittori manieristi di palazzo Te a Mantova: la coda, le zampe, la groppa, il collo, la criniera e lo spaccato anatomico della testa con la visione delle scheletro. Come nel monumento equestre, il purosangue sorregge l’opera vera e propria, cioè l’architettura del teatro Carlo Felice di Genova, ormai ricostruita per merito di Aldo Rossi e di Ignazio Gardella. Particolare niente affatto trascurabile, al vertice del frontone dell’ingresso del principe, al nunzio angelico, o genio dell’armonia, subentra ancora il Perseo nella posa classica: decapitante il sedicente disarmonico, il presunto dissonante. Al lato del portico del principe, la facciata dell’hotel il Palazzo a Fukuoka, disposta a modo di quinta scenica come quella di un palazzo della Strada Nuova genovese. Si tratta di un disegno di Rossi del 1990, pubblicato da Morris Adjmi e Giovanni Bertolotto in Aldo Rossi Drawings and Paintings, New York 1993; riprodotto come logotipo del convegno di oggi (e poi di questo libro). Iconograficamente, una stesura grafica intensa, “tirata via” e appena colorata sopra alcuni fogli incollati e sovrapposti. Iconologicamente, un’allegoria del trionfo dell’architettura, dovuto al Perseo e all’angelo nelle diverse metamorfosi - per accogliere il suggerimento interpretativo di Stefano Fera, un tempo collaboratore di Rossi. Nel passaggio saliente del suo capo-
lavoro letterario, Autobiografia scientifica, Rossi ritiene che si possa, anzi si debba scordare l’architettura, qualora l’architettura risulti il puro supporto della vita cui l’edificio è destinato; ciò che conta davvero è lo svolgersi della vita, come azione teatrale sul palcoscenico immobile, contro la scena fissa. Anche il suo primo libro, L’architettura della città (Padova 1966, AC), primo della serie che ne comprenderà cinque o sei, in realtà dovrebbe chiamarsi Dimenticare l’architettura della città. Infatti, Rossi lo scrive nell’incipit, l’architettura della città possiede carattere di esistere nel tempo, e in effetti, Rossi lo dimostra pagina dopo pagina, l’architettura della città permane, sussiste non solo nella materia ma anche nei principi tipomorfologici nelle regole formative, nelle esigenze costruttive; - inoltre, si trasforma nella culla di quella specifica vita avente per nome la progettazione architettonica. Presto, nella fenomenologia rossiana, l’analogia diventa la figura esattamente psicologica, il vero tramite del sistema espressivo dell’interiorità. Anzi del sistema inespressivo, poiché, a badare a Carl G. Jung: “il pensiero “logico” è il pensiero espresso in parole, che s’indirizza all’esterno come un discorso. Il pensiero “analogico” o fantastico è sensibile, figurato e muto, non un discorso ma un ruminare materiali del passato, un atto rivolto all’interno. Il pensiero analogico è arcaico, inconscio e non espresso, e praticamente inesprimibile a parole», sicché l’inespressività fredda e l’inventività calda sono estremi che si toccano. Invero: nessuna transizione vera e propria, tanto meno nessuna svolta secca dal logico all’analogico. Da Rossi tale
processo viene denominato della città analoga e praticamente consiste nello stabilire il piano che si avvalga di similitudini generiche si, ma soprattutto di peculiari traslazioni e di specifiche relazioni analogiche fra aree, situazioni, oggetti. Benché a rigore il metodo non sia ancora esplicitato, e decodificabile come progetto maturo di citta analoga quello del 1971 in vista dell’ampliamento del cimitero modenese, con questi ingredienti: i prelievi delle architetture dai diversi contesti, le astrazioni, le geometrizzazioni, le simbolizzazioni, le traslazioni nel sito assegnato in modo da create, al limitare della pianura padana, l’accampamento della morte, la cittadella della vita abbandonata dalla vita, analoga alla città padana reale, in una con la propria vita, sacra e pagana, pubblica e privata, festiva e feriale. Durante il viaggio inaugurale, scorrendo da Fusina lungo il canale della Giudecca fino alla Punta della Dogana a Venezia, combinando la propria realtà e la propria immagine con la realtà e l’immagine dei celebri brani urbani Veneziani, sarà anche lo strumento rivelatore delle venezie analoghe. Molteplici venezie, fatte di trasferimenti e di accostamenti, nell’insieme la Venezia città analoga per eccellenza. Tanto è vero che, dopo simile dimostrazione e dopo l’esito tanto felice, il metodo della città analoga si cristallizzerà all’interno della forma mentis dell’architetto dei tre quarti del secolo e nessuno si sognerà di rimuoverlo; malgrado la delicatezza concettuale, l’affascinante complessità intellettuale, il metodo resterà a disposizione della ricerca progettuale - dell’autore e di altri. Dopo la lenta incubazione che meriterebbe la registrazione meticolosa,
nel cuore della fenomenologia rossiana si innesta la poetica del frammento, poetica e non teoria, ma le implicazioni teoretiche sono affatto presenti, mentre le valenze teoriche non sono assenti per nulla. La prima manifestazione è alquanto passiva ed estetizzante; ma il frammento non si identifica con ciò che l’autore formalista denomina dettaglio, particolare estenuato di un’architettura assai superficiale. Strappato all’architettura della città mediante il ricordo, intriso di nostalgia del tutto, il frammento può stare immobile nel disegno e, all’improvviso può rendersi mobile; effettuare strane imprese, fluttuazioni, levitazioni; allestire contaminazioni; inscenare inganni ottici. Si consideri il grafico del 1982, partecipe del progetto del palazzo dei congressi di Milano; ne è isolato il grandioso frammento a scala metropolitana, e questa torre, illuminata da dietro, sa proiettare sopra il fondo omogeneo, con ambiguità sorprendente, l’ombra del Teatro del Mondo. Il frammento viene a qualificarsi per elemento tipomorfologico, sempre scisso dal paesaggio, non più nostalgico però, semmai anelante al congiungimento. Non c’è simbolo in Rossi, esso è dissolto nella potenza espressiva dell’archetipo. Archetipo è Facultas praeformandi forma preformata dalla memoria collettiva, dalle condizioni, dal degradarsi che inferisce e dal reciproco dissolversi, e, in egual misura, dal conoscere. Vibra ferma in tutte le sue opere la forza eristica, una rete sottile e capziosa, della cosa in sé, che diventa gioia euristica, teorematica, quando si accetti la forza ferma dell’esistente. Vi e un profondo portato ontologico, e tautologico, nella architettura di
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Rossi, vige in essa il so-sein, cosìezza, sucness, l’essere-cosi della cosa in sé è l’essenza della monumentalità di questo teorico. Come in una carta del cielo, la disposizione, in Rossi è radura, cerchio quadrato, sospensione immedesimante, consenso empatico: “Non invento, ricordo”, dice Rossi. Afferma anche: “L’Architettura è per sua natura collettiva”. La sua laconicità - muta eloquenza - il suo ridondante ermetismo, soggiacciono, determinandola, alla fascinazione totalitaria implicita nell’architettura, al suo bisogno di esprimere contenendo, al suo carattere intimamente celebrativo: il sacro recinto del limite. La necessità, il freddo dolce mondo incrociato del Weissenhof e del Pantheon, dei pilotis e dei Cenotafi. Il Mondo Minimo della Necessita e il Mondo Massimo della Sfera Perfetta. Il suono del silenzio in Rossi, lo stesso che aleggia in Loos, situa l’architettura al confine fra la malinconia e il suo limite intrinseco. “Arcaico e agitato silenzio”, fatto di programmate esclusioni, spoliazioni e rinunce, in una “nudità che costringe a inventare”. Il silenzio in Rossi è il mondo in
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cui forma e costruzione risiedono, sedate, senza conflitto. Strepitoso silenzio, che fa accettare alle forme la loro ragione riducente. Una metafisica del1’inventario, tratta da Durand e Guadet, porta Rossi a fondare le condizioni teoriche per catalogare, classificare e misurare, come farà Grassi ne La costruzione logica dell’architettura (Padova 1967), o a rapportare in felici schemi mentali la morfologia urbana e la tipologia edilizia. Quanto vi e di fantasmatico, di spettrale nell’arte di Rossi, deriva dalla sua urgenza di una liberazione dalla forma e di una sua eventuale restituzione come semplice apparenza: una attitudine mnestica generata da una “geometria della memoria” la quale ha come fine il canone e come metodo il legare l’esperienza interiore con quella esteriore. Questo prismatico razionalismo calcolante incorpora la astrazione delle finalità in un pathos della firmitas, ed è propriamente ciò che ha fatto di Rossi, da subito, un classico. Quello di Rossi non è un razionalismo convenzionale né un razionalismo esaltato; la sua Ratio, che in realtà è un pensiero poetante con il vezzo rigoroso della scientificità, lo porta a un razionalismo animato,
e denso di dottrina, formatosi nei repertori classici. L’arte di Rossi è imitazione della legge, che dà radice al senso compiuto di una naturale permanenza. La forma è un faticoso e non copioso distillato, quintessenza di un esperimento alchemicio compiuto sempre con gli stessi elementi, impercettibilmente variati in una sapiente, ed a tratti allucinata, ars combinatoria: vi è un numero finito di elementi, come le ruote o i quadranti di un orologiaio. Oggetti d’affezione, strumenti, questo il famoso “mondo rigido e di pochi oggetti». L’architettura di Rossi è senza dettagli, senza ornamenti ma è centrata sul quale della qualità. E’ l’incompreso assoluto, lo spessore spirituale di ogni opera architettonica, il senza peso di ogni edificio che, nondimeno, si inserisce nel “cunicolo preciso del rito”, si addentra, attraversando la tholos ipogea, nel sottomondo inviolabile, immateriale radice di ogni fondamenta. Là dove la verità è la norma, l’Ordine e Identità. Tutto questo agire rimemorante dove l’invisibile è il massimo, avviene nella luce della tradizione: il
tradendum che Rossi dissoda dal passato è il Testimone di cultura immagine costruita e stratificata di una storia civile. C’è molto in Rossi, i cavalli di Giulio Romano, Piero, Giotto, David, Kandinsky, Sironi, Morandi, De Chirico e Poussin, il tragico, lo stoico, l’eroico, la firmitas che stringe la venustas.
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Il parco tecnologico costruito sul lago Maggiore possiede un valore che lo caratterizza in modo significativo: la bellezza del luogo. Un paesaggio insolito, chiuso nella pianura di Fondo Toce dove domina il Montorfano che fiancheggia il lago di Mergozzo, il percorso dell’autostrada per Milano e Alessandria con i suoi imponenti manufatti; il luogo è poi delimitato dalla statale per Gravellona, inoltre si accede facilmente al lago nella fascia tra Baveno, Feriolo e Verbania. Questa parte del lago è nota per le pietre che portano appunto i nomi delle singole località; il granito loianco e rosa di Baveno o del Montorfano, il verde di Mergozzo e più a nord la beola e il marmo di Candoglia. Se quest’ultimo è la pietra che nei secoli ha costruito il maestoso duomo di Milano, graniti e beole sono state la materia prima della città ambrosiana che ha sempre avuto il vanto delle strade interamente lastricate in granito. Queste osservazioni ci avvicinano alla qualità architettonica del progetto: il progetto si inserisce nel paesaggio e si costruisce con la stessa pietra delle montagne circostanti; non in una costruzione mimetica ma esaltando la qualità di queste pietre che costituiscono un’arte senza tempo. In Alto a sinistra: F. Gibelli, Fondotoce; In Alto a destra: F.Gnecchi,Lago Maggiore Viste di Fondotoce
In Alto a sinistra: Schizzi di studio per il progetto Subito sotto: Particolare della camera degli spso affrescata da Mantegna In Basso: Schizzi di studio degli elementi architettonici
Così tutto l’impianto, come un reticolato romano che divide i singoli laboratori all’interno di una limitatio regolare e flessibile, e percorso da un Viale Centrale, come il corso la calle mayor, che conduce al centro servizi e serve i diversi laboratori tecnici. Per proseguire nell’analogia urbana potremmo vedere il centro servizi come l’edificio pubblico per eccellenza: il municipio, la chiesa, o qualunque altro elemento di importanza primaria. La struttura dei laboratori diventa la continuità dell’impianto urbano: grandi pilastri di cemento segnano la strada e il percorso e costituiscono la struttura degli edifici per la ricerca. Essi segnano anche i punti centrali della limitatio. Il progetto vede dunque come aspetto essenziale la composizione per parti, la stessa scansione tra i pilastri ne accentua le caratteristiche, stabilisce una catena dove gli elementi costituiti appunto dai capannoni sono così tenuti insieme, a formare una continuità; una sequeanza architettonica. Il valore della ripetizione come chiave di un disegno totale. Sono importanti da individuare i singoli componenti di cui sono costruite le architetture; ogni componente ha indubbiamente delle riconoscibilità forti, possiedono tutti una loro sostanziale autonomia. Passiamo dai Piloni, alle parti della parete in cemento prefabbricata, così come l’inserimento delle finestre per quanto riguarda la strada, mentre per il centro servizi possiamo chiaramente distinguere la composizione in cinque parti, di cui quattro uguali. Quella centrale, gerarchicamente diversa è rappresentata dalla torre dell’orologio, che per il suo aspetto arcaico dalle forme pure ricorda un obelisco egizio mentre gli altri quattro volumi ricordano in facciata delle piramidi a gradoni. Le immagini e i rimandi progettuali emergono sin dagli schizzi, un eco alle presenze monumentali immerse nel contesto naturale per costituire la fondazione della città proprio a partire da quegli stessi elementi, questa estetica da sempre è occasione di espressione artistica, intesa come manipolazione di forme per determinare dei chiari fatti appartenenti alla cultura della civiltà classica.
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Nello scizzo di destra Rossi definisce l’elemento primario del progetto, il centro servizi appunto. E’ da notare il fatto che la torre dell’orologio abbia cambiato altezza, per determinare con forza la propria importanza gerarchica e forse come principio ordinatore e fissatore dei volumi di cui è costituito l’edificio. Nello schizzo appena sottostante invece vediamo una proposta di ampliamento della parte retrostante del complesso, le volumetrie del Centro servizi, con le proprie forme, diventano gli elementi genera-
In Alto a sinistra: Disegno del centro servizi
In Alto a destra: Ampliamento retrostante il centro servizi
A lato: Idea preliminare complessiva dell’intero complesso
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Fasi di lavorazione del cantiere In Alto a sinistra: posizionamento dei Piloni ; A Sinistra: Vista sui piloni ultimati Sopra: Costruzione dei laboratori
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In alto a destra: schizzo dei piloni
I lavori di cantiere sono cominciati con i piloni in cemento armato prefabbricato. I blocchi che costituiscono i piloni sono stati posizionati uno sopra l’altro in successione. Durante questi lavori sono state gettate le fondazioni e costruita la struttura dei capannoni laterali. Per ultimare l’involucro di questi ultimi sono stati inseriti i moduli prefabbricati di facciata dei capannoni, e solo una volta ultimato questo processo si è passati alla costruzione del centro servizi. Dalle foto possiamo vedere che durante i lavori per il centro servizi soltanto quattro dei sei e successivamente degli otto capannoni disegnati nel progetto preliminare erano stati realizzati. In questa seconda fase dei lavori si sono costruiti anche i laboratori più piccoli che affiancano il centro servizi. Solo una volta terminati tutti gli edifici si è passati all’inserimento delle travi in acciaio, interpretata anche in costruzione come elemento di congiunzione tra le parti.
In Alto a sinistra: ultimazione dei Laboratori. A Destra: Costruzione del centro servizi; Fasi di ultimazione del complesso Sopra: Vista della fuga prospettica dal centro servizi
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Il centro servizi, che consiste nell’ elemento gerarchicamente più forte si pone a chiusura della grande prospettiva del Viale d’ingresso. E’ costituito da due grandi corpi simmetrici rispetto alla torre centrale che caratterizza sia l’impianto che l’edificio, e che è l’immagine rappresentativa del parco tecnologico. Al centro dell’edificio si trova una grande hall che distribuisce ai servizi del piano terra e agli uffici ai piani superiori. Il prospetto principale è caratterizzato dall’uso del granito bianco di Montorfano, mentre la sezione strutturale dell’edificio e messa in evidenza anche in facciata da un “ordine sovrapposto” di portali in ferro verniciato come una sorta di decorazione costruttiva.
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Foto del cento servizi Piante del centro servizi, dal basso verso lâ&#x20AC;&#x2122;alto: P. terra, primo e secondo
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Prospetti principali del centro servizi
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Sezioni del centro servizi
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I fianchi del centro servizi sono composti dalle navate contenenti gli uffici divise in tre parti vetrate da due contrafforti completamente ciechi in cemento nei quali sono ubicati i servizi igienici, gli impianti di risalita e le scale. Le parti vetrate sono costituite da pannelli di cemento prefabbricato, nei quali sono inseriti i serramenti in ferro o alluminio verniciato, sormontati da delle travi di bordo anch’esse in cemento prefabbricato sagomato e raccordate nei punti in cui l’edificio si rastrema da falde in lamiera preverniciata. L’edificio è coronato da un lucernario in ferro e vetro. Il prospetto posteriore del centro servizi è caratterizzato da una seconda torre centrale, più semplice e più bassa di quella della facciata principale, in cemento lisciato. Anche i due corpi laterali sono finiti con lo stesso materiale e sono caratterizzati da delle piccole finestre quadrate e da due portali in ferro verniciato al piano terra.
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Viste e Particolari del centro servizi
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Viste interne del centro servizi
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Parallelamente al centro servizi sono ubicati i laboratori; questi edifici sono composti da una testata (maggiormente caratterizzata nellâ&#x20AC;&#x2122;architettura) e dal capannone vero e proprio realizzato con elementi prefabbricati in cemento. La testata è rivestita in blocchi di ceppo
Vista del capannone adibito a laboratori
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Pianta dei laboratori costeggianti la strada
fino allâ&#x20AC;&#x2122;altezza del portale in ferro verniciato ed è completata nella parte superiore dagli stessi pannelli prefabbricati in cemento usati per i fianchi del centro servizi. Il Viale di ingresso
e caratterizzato dai grandi pilastri in cemento verniciato alti 15 metri e collegati superiormente da una trave in cemento prefabbricato sagomato. Lâ&#x20AC;&#x2122;ordine regolare dei pilastri e seg-
nato da campate chiuse con pannelli in cemento prefabbricato al cui interno sono inseriti dei serramenti metallici; tali parti chiuse costituiscono il volume fabbricato dei capannoni sulla strada.
In Alto a destra: prospetto del fronte A Lato: Particolare del Pilone e della trave; Ingresso laboratori Sopra: Interno dei laboratori Sotto: prospetto laterale
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In Alto: Prospetto laterale laboratori
Pianta del primo piano
Pianta del piano terra
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In Alto a sinistra: prospetto frontale;
Sopra: Dettaglio delle finestre
Viste dei laboratori In Alto: tipo 1, con rivestimento della parte inferiore in pietra In Basso: tipo 2, con rivestimento della parte inferiore in mattone
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Bibliografia: -Aldo Rossi, Lâ&#x20AC;&#x2122;architettura della cittĂ , 1966 -Aldo rossi :Opera Completa a cura di Alberto Farlenga Electa 1996 -Fondazione Aldo Rossi -Per Aldo Rossi, a cura di Salvatore Farinato, Marsilio 1998 -Alberto Farlenga, Aldo Rossi: tutte le opere Milano Electa 1999
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