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gennaio - aprile 2014 free press
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02 | PIERO MANZONI 1933 -1963 di Rossella Digiacomo
05 | LUCIANO FABRO E IL DISEGNO di Domenico Iaracà
08 | GALLERIA DELL’ACCADEMIA DI VENEZIA: CARLO SARACENI di Silvio Lacasella
10 | JULIO LARRAZ
AZZURRO INTROSPETTIVO di Michele Romano
12 | NELLE STANZE DI CALUSCA (L’INTERVISTA) di Ornella Fazzina
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1 25 | COVER 13
15 | UNA NUOVA GALLERIA A ROMA SPAZIO AQUADRO di Giovanna Caterina de Feo
17 | PIETRO MARCHESE
BESTIARIO CONTEMPORANEO di Ornella Fazzina
18 | GIOVANNI SOLDINI A VELE SPIEGATE di Davide Scandura
20 | IL RICONGIUNTO (CAPITOLO I) di Giuseppe Bella
22 | IL POTERE MORBIDO DEL CINEMA di Antonio Casciaro
26 | “RIG/RIGHT-DOWN” PER
ACIREWRITE DA NEWL’INK
di Rocco Giudice
30 | LIBRI IN FESTA
LA MAGIA DI RAGUSA
Redazionale
33 | COME NASCE UNA STELLA di Andrea Viscuso
36 | RIUSO COME OPPORTUNITà di Paola Pennisi
37 | L’ARTISTA
23 | IL IBRO 24 | I 3 CD
l’INDICE
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di Rossella Digiacomo
Sono trascorsi poco più di cinquanta anni dalla morte di Piero Manzoni e la sua opera è riconosciuta come una delle esperienze fondamentali dell’avanguardia del XX secolo. La mostra, prodotta dal Comune di Milano con Skira editore e nata in collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni, ne ricostruisce la carriera, seppur breve, in un percorso che documenta con opere primarie tutti gli aspetti della sua attività. Il percorso della mostra, curata da Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo a Palazzo Reale di Milano fino al 2 giugno, si apre con tre capolavori di Piero Manzoni nonché capisaldi della sua poetica: Linea di lunghezza infinita (1960), una tela della serie Achrome (1959 circa) e Merda d’artista n.53 (1961), l’opera indubbiamente più famosa dell’artista, stereotipo per eccellenza, osannata e criticata. Opere che riassumono la parabola artistica, sviscerata tra le sale con oltre 130 opere, del geniale Piero Manzoni. Avanguardista e radicale, Manzoni viene raccontato a partire dagli esordi nel 1956, quando debutta a Cremona con una serie di dipinti, tra cui Milano et - Mitologia, caratterizzati da impronte di oggetti ripetute sulla tela e da immagini informi di ascendenza propriamente surreale - in quel
periodo egli guarda all’arte nucleare di Enrico Baj e allo spazialismo di Lucio Fontana. È un’operazione artistica che consente a Manzoni di indagare sullo stato dell’opera stessa, intesa esclusivamente come frutto di una pulsione pura e spontanea, e che esiste in quanto presenza. Manzoni stesso dice:
Alludere, esprimere, rappresentare sono oggi problemi inesistenti, sia che si tratti della rappresentazione di un oggetto, di un fatto, di un’idea, di un fenomeno dinamico o no: un quadro vale solo in quanto è, essere totale: non bisogna dir nulla: essere soltanto. Partendo da questo presupposto passa da quadri scuri fortemente mateIN ALTO
< Piero Manzoni
SEGUE
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Achrome | 1962 circa pacco in carta da imballo, cm 60 x 80 Fondazione Piero Manzoni, Milano (Foto Bruno Bani, Milano)
f Piero Manzoni Linea 7200 m | 1960 inchiostro su carta, cilindro di zinco ricoperto da fogli di piombo, cm 66 x 96 (d ) HEART Herning Museum of Contemporary Art, Herning (Danimarca) k Piero Manzoni Alfabeto | 1958 inchiostro e caolino su tela, cm 25 x 18 Collezione privata A PAGINA 3
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rici con impasti di olio, catrame, smalto e oggetti, a quadri bianchi con rilievi plastici e ombre, con stesure grumose di gesso spatolato che poi definirà Achrome. Il quadro adesso, tende a farsi oggetto: presenza concreta ma desolata e vuota. Questo concetto dell’essenziale è dipanato in maniera straordinaria nelle Linee: un segno continuo d’inchiostro è tracciato su un rotolo di carta e conservato in un cilindro di cartone sigillato, di cui un’etichetta dichiara il contenuto. Vincenzo Agnetti, storico compagno di Manzoni, dice: Di fronte a queste opere scompaiono tutti i discorsi riguardanti la pittura, le transizioni e i cari ritorni: scontati sono il fascino mnemonico delle cose celebrate e la didascalia storica tanto cara agli imPIERO MANZONI 1933 - 1963 PALAZZO REALE
26 marzo | 26 giugno 2014 Piazza Duomo, 12 Milano Mostra a cura di Flaminio Gualdoni Rosalia Pasqualino di Marineo Catalogo Skira
INFO tel +39 02 88453314 +39 02.89415532 elenamaria.conenna@comune. milano.it lucia@luciacrespi.it
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Orario lunedì: 14.30 - 19.30 mar, merc,ven, dom: 9.30 - 19.30 giovedì e sabato: 9.30 - 22.30
balsamatori. In assenza dell’esperienza fisica dell’opera, allo spettatore è richiesto un atto di pura condivisione intellettuale; Manzoni pone il pubblico nella condizione di dover accogliere l’autorità dell’artista sul piano prettamente fiduciario: è un’opera d’arte perché è eseguita da un artista. Sul filo del paradosso e della riflessione critica sulle convenzioni, Manzoni progetta Base magica e la sua estremizzazione: Socle du monde, piedistalli incisi della firma dell’artista sui quali ciò che è retto diventa automaticamente un’opera d’arte, dalla persona fino alla terra stessa. La sacralizzazione dell’artista, della sua identità e anche del suo corpo è uno degli aspetti dell’artistico che fanno più riflettere Manzoni.
E così tra uova, impronte digitali e ancora Achrome evolutisi in cotone e fibre sintetiche, il percorso della mostra continua fino al capolavoro che lo ha reso celebre nel mondo: Merda d’artista. È l’estremo epilogo della sua poetica: Manzoni si chiede chi sia mai questo eroe che lui stesso si trova ad incarnare: l’artista al quale basta firmare qualcosa per renderlo eccezionale, rivelatore, capace di trasformare pezzi di mondo come in un procedimento alchemico. Ma in fondo Piero Manzoni voleva dirci che essere artisti significa trasformare tutta la propria vita in arte, comprese le proprie scorie. Perché l’arte da sempre ci spinge a pensare, a riflettere, a meditare sulla nostra contemporaneità e sulla nostra ci-
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viltà, anche dinanzi al capolavoro dell’artista che altro non fece che esporre le proprie feci. IN SENSO ORARIO
P Piero Manzoni
Corpo d’aria n. 28 | 1959-1960 scatola in legno, contenente palloncino in gomma, tubo per gonfiare e piedistallo cm 4,8 x 42,7 x 12,4 Fondazione Piero Manzoni, Milano (Foto Giovanni Ricci/Annalisa Guidetti) Piero Manzoni firma una modella trasformandola in Scultura vivente, durante le riprese per il filmgiornale S.E.D.I., Milano 1961
Uovo scultura n. 21 | 1960 uovo in scatola di legno cm 5,7 x 8,2 x 6,7 Fondazione Piero Manzoni, Milano (Foto Bruno Bani, Milano)
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di Domenico Iaracà Fino al 4 maggio prossimo, il CIAC, Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno, in Umbria, ospita la mostra Luciano Fabro, Disegno InOpera. Sebbene le mostre dedicate a quest’esponente dell’Arte Povera non siano una novità, vista la sua lunga carriera e il suo prestigio internazionale, questa esposizione realizzata in collaborazione con il GAMeC di Bergamo ha un taglio decisamente innovativo e non solo per il fatto di presentare opere per lo più inedite, quanto piuttosto per l’aver selezionato prevalentemente disegni di quest’artista noto soprattutto come scultore. Ciò potrebbe farci credere che i disegni siano schizzi preparatori delle opere, ma la deduzione risulterebbe riduttiva nei confronti di una produzione varia ed articolata. I disegni possono infatti essere suddivisi in più nuclei. Oltre a quelli progettuali, preparatori di opere scultoree, ce ne sono altri concepiti già in partenza come opere su carta. Esemplare, in questo nucleo, il lavoro Ogni ordine è contemporaneo ad ogni altro ordine. Quattro modi di esaminare la facciata del SS Redentore a Venezia (Palladio), del 1972. In quest’opera Fabro esegue, per così dire, alcune variazioni sul tema, se volessimo utilizzare una espressione mutuata dal lessico musicale. Sono variazioni della facciata dell’edificio approntate per valutare i rapporti tra le forme che lo compongono. Collegato contenutisticamente con questo gruppo ce n’è un altro in cui le opere, indifferentemente su carta o su altri materiali, portano avanti una riflessione incentrata non su quanto viene rappresentato ma sul rapporto tra quello che compare e quello che manca nell’opera, tra i vuoti e i pieni e dove il ruolo principale è costituito paradossalmente da quello che l’artista toglie e non da quello che lui apporta. Potrebbe stupire di trovare una didascalia che recita Foro su ritaglio di rivista, ma il titolo Foro O 4 mm e la datazione al ‘68 concorrono a dimostrarne l’esattezza. Sono infatti gli anni in cui la comunità artistica prova a rispondere ai quesiti posti da Fontana con le sue opere. E sono appunto Fontana e
f Luciano Fabro L’alba | 1994 acrilico e grafite su cartoncino, cm 78 x 54 Collezione privata (Foto di Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano)
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Manzoni le figure che l’artista cita come pietra di paragone per il suo lavoro negli anni immediatamente successivi al suo arrivo a Milano. La città di Milano ci introduce ad un altro gruppo di disegni, quelli nati dalla collaborazione con i membri della “Casa degli Artisti” che Fabro contribuì a fondare nel 1979. Sono disegni che riportano su carta lo scambio di idee con i colleghi dei primi anni, come Hidetoshi Nagasawa, o con quanti si sono aggiunti poi, come Arianna Giorgi. Il loro contenuto spiega pure la provenienza di molti dei disegni, qui esposti, dagli studi di questi stessi colleghi. Ma quest’ultimi non sono i soli destinatari di queste carte. Quale che ne sia il contenuto, un tratto che accomuna molte delle opere è il fatto di essere state donate, ad amici e colleghi appunto, come riportato nelle dediche in calce alle carte. Non si tratta in realtà di opere nate da una ricorrenza, ma che dopo esser state meditate e prodotte sono poi state regalate da quest’artista che ha fatto della condivisione delle proprie idee un punto fermo del suo progetto artistico. Così come un’occasione di mettere in pratica il suo ideale di condivisione è stata pure l’esperienza ventennale di docente all’Accademia di Brera, dall’inizio degli ani ‘80 al 2002. Appartengono proprio agli anni di insegnamento a Brera i testi delle lezioni riportati nel catalogo, testi in cui lo scultore docente dettava le regole per l’”Esercizio obbligatorio di disegno” a rimarcare la centralità che questo svolgeva per lui e l’imprescindibiltà della conoscenza di questo aspetto da parte dei suoi alunni. A ribadire poi la centralità del tema dello spazio e delle linee che lo percorrono concorre pure Groma del 19841989, scultura che campeggia nel centro del piano interrato del museo. L’opera, presentata al Castello di Rivoli nell’ ‘89, ricostruisce significativamente lo strumento usato dagli antichi romani per segnare lo spazio fisico che li circondava, per tracciare sul terreno quelle linee di centuriazione che ancora oggi, a millenni di distanza, scandiscono le campagne di molte zone d’Italia. Nonostante la prevalenza numerica di opere su carta, la Groma non è la sola scultura presente all’interno della mostra. Ricordiamo pure Svizzera portafogli del 2007 e, soprattutto, Computer, del 1990, opere in cui i sostegni traforati delle scaffalature metalliche entrano a far parte dell’opera d’arte.
k Luciano Fabro Fanciulla, non accettare i miei fiori | 1992 acrilico e grafite su carta, cm 40 x 30 Collezione privata (Foto di Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano) IN ALTO A DESTRA
g Luciano Fabro La molla della vita | 1992 acrilico, matita colorata e grafite su carta, cm 49,5 x 69,5 Collezione privata (Foto di Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano)
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È vero che questi stessi elementi, come ricorda Di Pierantonio nel saggio introduttivo, li abbiamo incontrati anche nelle opere di quel grande sperimentatore che è stato Pino Pascali, dobbiamo però ricordare come lì fossero solo sostegni statici dell’opera mentre qui ne sono parte centrale, costitutiva. Un esempio, questo, della grande innovazione operata da questi artisti nella scelta dei materiali che, nel caso dei disegni di Fabro, arriva all’uso della carta millimetrata o da pacchi, delle schede in cartoncino delle biblioteche e addi-
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rittura alla carta oliata per alimenti. La mostra è priva di pannelli esplicativi ma lascia alla voce dello stesso Fabro il compito di guidare il visitatore alla comprensione delle opere esposte e del suo percorso biografico ed artistico per mezzo di un film di Gianpaolo Penco dedicato all’autore. Utilissimo per una buona fruizione della mostra è pure il catalogo edito da Silvava Editoriale, volume ricco di saggi critici, interventi di artisti suoi amici e, come detto, il testo delle lezioni di Brera sul tema del disegno. L’allestimento è poi curato e di
forte impatto. Riportiamo qui un solo esempio tra i molti possibili: la presentazione dell’istallazione 1962 (Habitat) del 1981. Si tratta di una serie di elementi aggettanti di ottone che si protendono verso il visitatore da asticelle di legno dorato. L’ambiente che li ospita avvolge il fruitore della mostra non appena sceso al piano interrato del museo. Quest’istallazione diventa così quasi un emblema di una mostra in cui la ricerca sullo spazio condotta dall’artista non è testimoniata solo dalle opere su carta ma è ricreata pure intorno a noi visitatori.
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h Luciano Fabro Macchie di Rorschach | 1976 acrilico su carta a mano, carta e inchiostro, assemblaggio, cm 56 x 76 Collezione privata (Foto di Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano) IN ALTO
l Luciano Fabro No titolo | 1962 (particolare) inchiostro di macchina per scrivere e grafite su marca da bollo e scheda in cartoncino, collage, cm 12,4 x 12,4 Collezione privata (Foto di Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano) IN BASSO
LUCIANO FABRO DISEGNO IN-OPERA CIAC - CENTRO ITALIANO ARTE CONTEMPORANEA
15 febbraio | 4 maggio 2014 Viale del campanile, 13 06034 Foligno (PG) Mostra a cura di Giacinto Di Pietrantonio Italo Tomassoni Bruno Corà Catalogo Silvana Editoriale Orario venerdì /domenica: 10.00 - 13.00 | 15.30 - 19.00 INFO tel/fax +39 0742.357035 mobile +39 340.4040625 info@centroitalianoertecon temporanea.it
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di Silvio Lacasella
Con un percorso espositivo ridisegnato per l’occasione, la mostra di Carlo Saraceni, dopo la sua prima tappa romana, è ora giunta alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, città nella quale l’artista nacque nel 1579 e dove poi morì nel 1620. Non essendone mai stata tratteggiata in precedenza la figura in modo approfondito, questo appuntamento diviene prezioso, presentando una sessantina di opere, scelte con attenzione tra collezioni pubbliche e private. Superati i lavori giovanili della prima sala, la rassegna andrebbe vista proiettando nella mente La morte della Vergine di Caravaggio, oggi a Parigi, alle pareti del Louvre. Un quadro intrasportabile, la cui
presenza avrebbe però fatto capire, più e meglio di qualsiasi sottolineatura critica, la complessa natura stilistica di un pittore che, dopo aver trascorso gli anni della formazione e della prima maturità in terra veneta, è stato successivamente capace di affondare le sue radici più sensibili negli umori della capitale, sviluppando una singolarità di percorso oggi da tutti riconosciuta. La vicenda legata al celebre dipinto caravaggesco è nota, essendo entrata in forma letteraria all’interno della storia dell’arte: Laerzio Cherubini commissionò una grande tela al Merisi nel 1601 per la cappella in Santa Maria della Scala a Roma. Consegnata con grande ritardo, una volta collocata sul-
SOPRA, DALL’ALTO
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Carlo Saraceni Transito della Vergine | 1612-’13 | olio su tela, cm 459 x 273
Santa Maria della Scala, Vicenza
Michelangelo Merisi da Caravaggio Morte della Vergine | 1604 | olio su tela, cm 369 x 245 Musée du Louvre, Parigi
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testa di Oloferne o le due versioni della Maddalena penitente, una delle quali, probabilmente la prima, proveniente dal Museo Civico di Vicenza. Contiene, dunque, una verità parziale sostenere che Saraceni abbia voltato “con decisione le spalle alla cultura artistica tardomanieristica veneziana” nel momento in cui prende la strada di Roma. Egli, infatti, rimarrà sempre, nella sua ineliminabile essenza, un pittore legato alla terra d’origine. Non è, anzi, azzardato sottolineare che a Caravaggio, Saraceni si avvicina soprattutto nel momento in cui se ne allontana, poiché in questo modo introduce una originalità d’indagine che ne sviluppa il percorso espressivo, approfondendo una visione maggiormente naturalistica, fatta di nuove attese e nuovi temi stilistici. Ed è questo il motivo per cui, nel 1620 la Serenissima lo richiamerà in laguna per affidargli un incarico di grande prestigio: un’imponente tela da collocare all’interno della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, avente come soggetto Il Doge Dandolo mentre incita le Crociate. La sua presenza avrebbe probabilmente creato nuove aperture in un ambiente ancora segnato dalla grande pittura veneta del Cinquecento, se non fosse intervenuto il tifo a fermarlo, dopo appena pochi mesi dal suo arrivo. Carlo Saraceni morirà, infatti, il 16 giugno 1620, poco più che quarantenne. La mostra è divisa per sezioni, una delle quali approfondisce i rapporti tra l’artista e l’ambiente ecclesiastico e politico spagnolo, è ideata da Rossella Vodret e curata da Maria Giulia Aurigemma, affiancate da Roberta Battaglia, che ne ha ideato il tracciato espositivo.
di Mantova, per entrare nelle collezioni dei Gonzaga, a seguito di una segnalazione di Rubens), l’incarico di eseguire il dipinto per quella medesima cappella, nella quale si officiavano le funzioni per i defunti, venne affidato proprio a Carlo Saraceni, ma perché l’episodio offre la possibilità, come meglio non si potrebbe, di accostare i due artisti, cogliendone le sostanziali differenze. Intanto va sottolineato che l’impresa fu portata a termine nel giro di pochi giorni, potendo disporre il “brillante e raffinato” Saraceni, già nel 1610 di una bottega estremamente efficiente e attiva. Forse troppo attiva, al punto da determinare in moltissimi casi un’assai visibile discontinuità di risultati all’interno della sua produzione. Nel momento in cui si comprende come mai a Caravaggio si preferì Saraceni, come mai alla Morte della Vergine si preferì Il transito della Vergine (anch’essa alle Gallerie dell’Accademia) si ha in mano la chiave per apri-
re quasi ogni altra porta. L’artista, infatti, dopo aver guardato ai pittori nordici operanti a Roma alla fine del Cinquecento, rimanendo attratto in particolare da Adam Elsheimer e dalla sua capacità di creare un rapporto diretto tra figura umana e paesaggio, “in modo graduale e del tutto personale” si avvicinerà, guarda caso, a Caravaggio, riuscendo però a mantenere all’interno della sua andatura stilistica un accento dolce e lirico. Rimarrà, il suo, un tonalismo di origine veneta, in grado di smussare con naturalezza le punte più aspre del contestato e sublime suo maestro. Egli sa modulare la luce filtrandola attraverso autori come Jacopo Bassano, ma con l’occhio attento anche alla contemporanea pittura bresciana e bolognese. Questo porterà a notevoli risultati, specie quando Saraceni entrerà in prima persona e con tutto se stesso in opere quali La Vergine e sant’Anna ammaestrano Gesù Bambino sullo Spirito Santo, eccellente esempio o Giuditta con la
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f C. Saraceni
Maddalena penitente olio su tela, cm 97 x 78,5 Museo Civico, Vicenza
CARLO SARACENI UN VENEZIANO TRA ROMA E L’EUROPA GALLERIA DELL’ACCADEMIA
22 marzo | 29 giugno 2014 Venezia Mostra ideata da Rossella Vodret Mostra a cura di Maria Giulia Aurigemma Roberta Battaglia Prodotta da Venezia Accademia Catalogo De Luca Editori d’Arte Orario lunedì: 8.15 - 14.00 mar / dom: 8.15 - 19.15
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l’altare, provocò la disapprovazione e lo sdegno dei “buoni padri” carmelitani, che ne trovarono disdicevole lo svolgimento compositivo. L’artista, infatti, aveva rappresentato una Vergine non idealmente, ma realmente morta, consegnando ai fedeli “con poco decoro” la visione di “una Madonna gonfia e con le gambe scoperte”. Si disse, addirittura, che Caravaggio avesse preso a modello una prostituta annegata nelle acque del Tevere. Soffermarsi sul capolavoro di Caravaggio - descritto così da Longhi: Sembra raccontare in che modo, entro la stanzaccia d’affitto, spartita alla meglio dal tendone sanguigno che penzola dalla volta a travicelli e senz’altre suppellettili che una branda, una scranna e la bacinella per le pezze bagnate, si lamenti la morte di una popolana del rione - aggiunge elementi fondamentali per delineare la figura di Saraceni. Questo non solo perché una volta tolto dall’altare il capolavoro di Caravaggio (partito subito dopo alla volta
j Carlo Saraceni La Vergine e sant'Anna ammaestrano Gesù Bambino sullo Spirito Santo (Pala Lancellotti) | 1609-1611 olio su tela, cm 180 x 155 Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma, Palazzo Barberini
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AZZURRO INTROSPETTIVO
di Michele Romano
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Julio Larraz (Havana, 1944)
La ricerca ciclica e multiforme del cubano Julio Larraz è un’apparente figurazione che ci conduce con tagli trasversali ad una monotematicità cromatica sperimentale. La metafisicità sospesa tra visioni ancestrali e sommerse, ci avvia ad una immaginazione poetica, trasmutazioni marine che ci introducono alla poetica acquifera dell’artista isolano, oceanico o anche mediterraneo. La pura visione figurata di vacanza e sommerse escursioni si trasforma in inconsuete immaginazioni, sospensioni tra micro e macro cosmo, relatività spaziale e surrealistiche ambientazioni, tra la ludicità del paesaggio fantastico e immaginifico. Nei suoi cicli visivi Larraz traduce il segno figurato dall’allegoria del potere alla bellezza femminile, da un erotismo languido e suadente
alla citazione cinematografica, dalla politica all’umorismo, il tutto in una visione pittorica, tecnica e accademicamente perfetta, quasi traslucida e iperrealista. Il richiamo alla pittra, quasi anacronistico in un’era della sperimentazione informale, è la scelta più consona per visionare il nostro io più profondo, a volte autobiografico per l’artista, ma sicuramente alchemico e introspettivo per l’osservatore attento. La contemporaneità dell’artista cubano è nella narrazione non solo pittorica, ma nella ciclicità del suo narrar pittorico, un iconografia odeporica, da viaggio, un circumnavigare per mari e per spazi, tra figure immaginarie e velieri spaziali, come Concepto-Espacial, una natura morta di fattura fiamminga che girovaga nella spazialità senza tempo, un
linguaggio tra sogno e fantascienza, è questa la chiave di lettura generazionale e metafisica, un realismo magico tra segno e irrealtà.La pittura a olio di questa artista del contemporaneo tradisce la scelta di temi trasversali: Poliphemus/ Rendezvous/ La Escolta de un Poeta, un cult della pittura da bottega, quasi rinascimentale che si trasferisce in una poetica transmigratoria, tra la coscienza dell’essere e quella dell’esistere.
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BIOGRAFIA
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Julio César Ernesto Fernandez Larraz nasce a l’Havana (Cuba) e inizia la sua attività artistica come illustratore e disegnatore, non a caso la critica lo identifica come un artista poliedrico e internazionale. Ha creato opere di incisione, pittura, cartooning e scultura. La sua famiglia emigrò in America nei primi anni ‘60 e tra il 1968 e il 1970 ha frequentato diversi seminari con Burt Silverman, David Levine e Aaron Schickler. Ha vissuto a New York, Washington, Firenze e Miami, dove attualmente vive e lavora. Tra le sue più importanti mostre personal si possono citare: nel 1972 Cartoni alla New York School for Social Research di New York; nel 1980 Julio Larraz. Recenti nature morte alle Hirschl e Adler Galleries di New York; nel 1988 Julio Larraz. Recent Paintings alla Nohra Haime Gallery di New York; nel 1995 Julio Larraz alla Vallois a Parigi. L’esposizione siciliana mostra un centinaio di opere dell’artista cubano realizzati dai primi anni ’70 ai giorni nostri, con degli inediti appositamente realizzati per la mostra catanese e con la produzione scultorea in bronzo “scoperta” nel 2007. IN ALTO A SINISTRA
j Julio Larraz
The Artist and His Model | 2011 olio su tela, cm 125 x 198 QUI ACCANTO
f Julio Larraz
Polyphemus Wrathl | 2012 olio su tela, cm 127 x 152 IN BASSO, DA SINISTRA
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Julio Larraz Concepto-Espacial | 2012
olio su tela, cm 182 x 152
Uno scorcio dell’allestimento della mostra presso gli spazi di Palazzo Valle, Catania
B Julio Larraz La Escolta de un Poeta | 2010 olio su tela, cm 183 x 153 A PAGINA 10
JULIO LARRAZ DEL MARE, DELL’ARIA E DI ALTRE STORIE FONDAZIONE PUGLISI COSENTINO - PALAZZO VALLE
8 marzo | 8 giugno 2014 Via Vittorio Emanuele, 122 Catania Mostra promossa e curata Fondazione Roma - Mediterraneo Organizzazione Civita Sicilia Galleria Contini di Venezia e Cortina d’Ampezzo Orario martedì /domenica: 10.00 - 13.00 | 16.00 - 20.00 INFO tel +39 095.7152118 mostralarraz@civita.it
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l’INTERVISTA
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di Ornella Fazzina Operare all’interno di uno spazio preesistente comporta un adattamento allo stesso, capace di suggerire percorsi diversi dai soliti, in una nuova esplorazione e percezione dell’ambiente. Calusca con il suo progetto Calusca’s rooms: five histories ha indagato le complesse dinamiche tra reminiscenza e oblio, dando nuova veste a oggetti dimenticati e non più funzionali, attraverso una esposizione suggestiva e ben studiata. Il dialogo che ne è scaturito tra le opere e gli spazi ha comportato una messa in moto di sensazioni, emozioni e presa di coscienza che sottolineano l’importanza di rendere fruibili degli spazi dandogli un’altra destinazione d’uso, affinché questi non vengano sottratti allo sguardo di chi si nutre di cultura ed esperienze estetiche, indispensabili per la formazione e crescita intellettuale. O.F. Le opere in mostra e le installazioni possono rappresentare il tentativo di opporsi con un atto conservativo al processo di abbandono che caratterizza la realtà di tanti nostri immobili? C. Sarebbe auspicabile, ma purtroppo le opere, le installazioni, l’intera messa in scena della mie “rooms” sono state, nell’insieme, un semplice quanto effimero (anche se molti lo avrebbero voluto permanente, quin-
di sì, conservativo, e questo mi ha lusingato) tentativo di mostrare - raccontandola - la fugacità del tempo elevandone l’azione impietosa nel disuso a ‘partecipazione’ creativa al riuso: in pratica, non ho fatto altro che assecondare, ascoltare i luoghi, accarezzarne e svelarne la pelle tra le macerie di un “non luogo” o sarebbe meglio dire: di un muto spreco! O.F. Questa tua mostra la vedo come il risultato di un abbattimento dei confini, dove il lavoro di registrazione e archiviazione degli oggetti già presenti si tesse con una sorta di narrazione e di interessanti rimandi di sguardi dall’ambientazione al quadro, dall’oggetto al soggetto, da un prima a un dopo. Mi riferisco a Before the whiff e a V112 - Apocalypse in bed/box
K Calusca Room 2: Incontro play. (First Time) 2014, installazione: i Il gioco dell’incontro 2014, dittico, cm 30 x 20 (ciascuno) l scorcio verso la Room 1. Dato di fatto. (Real life) QUI SOTTO
Courtesy l’artista | Photo: D. Scandura
g Calusca Room 3. Sogno / puff. (Other Time) : V112 - Before the whiff 2014, installazione, materiali vari, cm 320 x 280 x 245 A PAGINA 13
h Calusca |V112 - Apocalypse in bed/box-room with sacred curtain in fly 2013, tecnica mista sul lastra metallica, cm 100 x 90 (in Room 1. Dato di fatto) Courtesy l’artista | Photo: Salvo Panebianco
Courtesy l’artista | Photo: Calusca
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l’INTERVISTA
room with sacred curtain in fly. Come è nata l’idea che, tra l’altro, hai saputo comunicare pienamente, coinvolgendo personalmente lo spettatore? C. È opportuno, per rispondere a questa tua interessante domanda, raccontare come il tutto abbia avuto vita. Lo scorso ottobre sono stato contattato per progettare e poi realizzare un intervento artistico (coinvolgendo anche altri artisti) all’interno di una rassegna, denominata AciRewrite, il cui obiettivo era la riapertura, la fruizione e la ‘denuncia’ (intesa come segnalazione) di un abbandono attraverso la pragmatica rifunzionalizzazione (anche se temporanea; l’intero evento ha avuto una durata di circa due mesi) di un importante contenitore urbano: il Collegio Santonoceto di Acireale (n.d.e., servizio a pag. 26). Una volta effettuato il sopralluogo e definiti gli spazi dell’intervento ho poi seguito, infine, la mia curiosità oltrepassando, con qualche difficoltà, una soglia barricata ed è stato proprio lì che ho trovato le “mie 5 stanze” innamorandomene subito, con la consapevolezza senza nessuna definita ragione - che al loro interno ci fosse qualcosa di mio che ci rendeva familiari reciprocamente. Nel frequentarle per qualche mese, in solitudine, a tu per tu, emersero chiaramente le questioni che vi erano insite e pian piano ogni spazio
NEWL’INK ha cominciato ad acquistare il suo/ mio senso. Tra tutte, ovviamente, la cosa che più mi ha suggestionato, col senno di poi, è stato l’aver trovato lo spazio ‘assoluto’, il contesto perfetto per innescare delle dinamiche installative uniche e soprattutto ricche di rimandi spazio-temporali-creativi assurdamente combacianti! L’esempio più calzante è proprio quello che citi nella tua domanda, ossia il dialogo tra l’opera V112 - Apocalypse in bed/box room…, realizzata nel marzo del 2013 (quindi prima di tutto questo ed in modo altrettanto autonomo) ma che nella Room 1. Dato di fatto ha trovato la sua restituzione ambientale oltre che la sua collocazione (Vano nel vano) ideale (purtroppo non ho qui lo spazio per raccontartene le ragioni) e l’installazione V112 Before the whiff: visione onirica materializzata all’interno della Room 3. Sogno/Puff. Proprio da un sogno è nata quest’idea: quella ‘era’ la stanza, era la ri-consegna tridimensionale del mio V (Vano) 112 e occorreva ridare a quella stanza (e/o a quella dipinta, collocata nella Room 1) la compostezza dell’istante precedente al soffio, all’alito di ossigeno che scostandone la tenda ne scompagina la quiete per dare accesso al mio caos! Il rimando ‘compiuto’ immagine-realtà-visione era poi possibile attraverso l’osservazione fissa, su rotazio-
ne del solo sguardo, dalla Room 2. Incontro/Play: a sinistra, attraversando lo squarcio sul muro ecco l’opera (immagine a p. 12,in basso); di fronte, tornando a destra, varcando la soglia eccone la proiezione nella realtà (immagine a p. 13). O.F. Un attento, mirato e calcolato uso delle luci, come in Room 1. Dato di fatto, ha creato un’atmosfera ancor più in sintonia con l’ambiente, drammatico già di per sé. In questa operazione hai dato vita a un gioco di contaminazione di generi, spaziando dalla pittura all’installazione alla teatralizzazione. Pensi sia più godibile l’esperienza artistica attraverso questa tipologia espositiva? C. Penso sia un modo altrettanto efficace per enfatizzarne i contenuti, i messaggi. Il mio background è incatenato allo spazio, al suo rigore compositivo, geometrico, alle sue esigenze di fruizione e pertanto la contaminazione di cui parli diventa oggi, per me, quasi necessaria. In questo progetto, in particolare, ho potuto metterla perfettamente a fuoco perché il contesto, una volta captato, ha saputo indicarmi i tragitti da suggerire al mio inconscio per giungere al tracciato espositivo realizzato, che è poi un vero e proprio “percorso” (esistenziale). O.F. Il progetto lo hai intitolato “Le stanze di Calusca”, e la stanza solitamente è dove ci sentiamo e ci muoviamo a nostro agio, nascondiamo i nostri segreti: racconta chi siamo e la nostra vita. Quanto c’è di autobiografico in questo lavoro e cosa ti ha spinto a tal punto di avvertire l’urgenza di raccontarti? C. La spinta è arrivata, come dicevo, dalle suggestioni preesistenti insite nei luoghi, oltre che dalla storia del contenitore (ex collegio formativo e di accoglienza, orfanotrofio). Ho scel-
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to, insomma, di analizzare, attraverso la mia - le mie urgenze -, la vita nel suo scorrere inesorabile tentando di bloccare per/in ‘visioni’ (immagini, oggetti, azioni/interazioni, ecc.) i “tempi/times” - le stagioni - del vivere caricandole (ciascuna nel proprio spazio/vano/aula; ecco il perché delle diverse nomenclature abbinate alle varie “Rooms”), in metafora, di attualità e a volte ironia. O.F. I materiali costituiscono il cuore concettuale di questa mostra. Hai utilizzato anche materiali di risulta, trovati sul posto, che tu hai caricato di un significato simbolico, trascendendo il livello di pura materialità: sono sempre parte di un momento con cui ti confronti. È un modo, questo, per creare la persistenza del ricordo? C. Anche, ma non solo! Più che altro la scelta di adoperare oggetti trovati sul posto (caso per caso, stanza, per stanza) reinventandone l’uso - nel mio caso pittorico ed installativo credo sia stata dettata dall’esigenza di immergermi integralmente nella memoria del sito poiché solo tramite la manipolazione, la frequentazione di un qualsiasi ‘suo’ oggetto/ elemento ritengo si possa realmente entrare in totale sintonia con esso e acquisire piena consapevolezza sul da farsi.
- Calusca Room 5. Corpo/Love. (Second Time) scorcio dell’installazione, 2014 IN ALTO, SOPRA
Courtesy l’artista | Photo: D. Scandura
h Calusca Room 4. GiocoVano / Project. (Time work) scorcio dell’installazione, 2014 SOPRA
Courtesy l’artista | Photo: dal web
h Calusca V118 - dato di fatto 2014, t.m. su anta lignea, cm 30 x 20 (in Room 1. Dato di fatto) A SINISTRA
Courtesy l’artista | Photo: S. Panebianco
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l’INTERVISTA
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di Giovanna Caterina de Feo
G.C.d.F. Ugo, come nasce la decisione di aprire una galleria d’arte contemporanea e quale ne è l’origine, visto che, almeno da quanto appare dalla tua storia professionale non ti sei mai occupato di arti visive? U.C. Progettare e realizzare grandi edifici permette di usare segni e linguaggi che portano tracce della sensibilità e della cultura dell’autore e del committente. Con le dovute, evidenti differenze, c’è in questa attività qualcosa di simile alla produzione dell’opera d’arte: il momento dell’idea, quello della esecuzione con le
scelte ad essa connesse, l’interazione con il committente (che potrebbe essere paragonato al collezionista), l’impatto estetico-funzionale con chi fruisce dell’oggetto realizzato. Fatta questa divagazione, che molto dice del mio desiderio frustrato di non essere un artista, devo dirti che ho già svolto l’attività di gallerista quando ero studente, agli inizi degli anni ’70 a Caserta, mia terra d’origine. Non ho mai smesso, però, di seguire il mondo delle arti visive, come collezionista. L’apertura di Spazio Aquadro a Roma nel mese di settembre è, dunque, un ritorno ad una attività lasciata con rimpianto e un modo di contribuire a diffondere e condividere un’antica passione. G.C.d.F. Non ritieni di essere alquanto temerario ad aprire uno spazio espositivo, mentre molte gallerie, anche storiche, chiudono? Non ti spaventa la crisi? U.C. Non mi sento un temerario, la crisi non mi spaventa! Anzi ti dirò che proprio l’instabilità che caratterizza il nostro tempo mi ha spinto a questa iniziativa. Secondo me la crisi che viviamo, prima di essere economica e finanziaria, è una crisi di valori. La società odierna ha perso quello che io chiamo il “senso di eternità”, ovvero la consapevolezza che l’interazione tra l’uomo e il mondo che lo circonda non si esaurisce con la sua vita perché ogni azione, anche quella in apparenza banale, genera reazioni a catena che non cessano mai di produrre effetti. Credo che l’opera d’arte sia la rappresentazione più efficace del “senso dell’eternità”, è il prodotto dell’ingegno e della creatività dell’uomo ed è fatto per sopravvivergli, attraversando la storia e le generazioni. Il gesto dell’artista nel momento in cui crea e l’attimo, fatto di emozione e di passione, in cui il collezionista decide di far propria quell’opera, sono come fissati, congelati oltre il tempo, per divenire eterni. Il quadro o la scultura, ti accompagnano per tutta la vita e rappresentano una parte di te, un testimone che trasmetti a chi verrà dopo. Come collezionista immagino di riemergere dall’oblio del tempo nel racconto dei miei pronipoti, che nel guardare o mostrare ad altri quell’opera a me appartenuta, rievochino la mia esistenza. La mia attività è indirizzata ai nuovi collezionisti e ai giovani pittori emergenti che ancora hanno costi contenuti. Sono particolarmente gratificato dal fatto che, pur avendo iniziato l’attività da poco più di sei mesi, molti dei giovani artisti presentati, appartenenti alla “Nuova Pittura Italiana”, hanno avuto successi internazionali e premi. Nel prossimo mese di marzo ci sarà una loro mostra a Belgrado, a settembre a Berlino saranno ospitati dalla galleria Schultz. G.C.d.F. E te, Betti? Anche tu condividi questa passione e qual’è il tuo ruolo nell’attività della galleria? B.d.V. Condivido con Ugo questa sua passione da quando l’ho conosciuto nel 2000. Del resto è tale il suo entusiasmo che è difficile non esserne contagiati. Come lui, anche io, ho vissuto un percorso parallelo a quello della mia professione. Teatro e cinema sono stati e sono per me un interesse preponderante. Per anni ho collaborato con la Compagnia della Luna nell’organizzazione
d’importanti spettacoli di musica e teatro. Nei progetti futuri per la galleria questa mia esperienza ci ha portati a pensare Spazio Aquadro come un luogo multifunzione, che ospiti eventi con recite, reading e musica legati al mondo delle arti visive. In tale ottica lo scorso sabato 8 febbraio, in occasione della mostra di Giuseppe Abate, giovane e promettente artista, è stato organizzato Terzo Suono, primo esperimento di sound art. Tre musicisti, Stefano Pavarini, tastierista, Roberto Rossi, chitarra elettrica e Ausonio Calò, sassofono e clarino, hanno letto testi poetici e suonato brani composti dallo stesso Pavarini, su suggestione delle opere di Abate. In futuro ci piacerebbe organizzare una serie di Interviste impossibili con grandi maestri scomparsi. La prima potrebbe essere quella a Francis Bacon, basata sull’intervista al pittore realizzata da David Silvester arricchita da particolari sulla sua vita tratta da varie biografie. Stiamo pensando anche a produrre in forma sintetica rappresentazioni teatrali del periodo dadaista e futurista e proiettare video e film realizzati da artisti di arte contemporanea. Dell’organizzazione penso di occuparmene con Annamaria Salviati che, oltre a essere una cara amica, è una giornalista che si è occupata di spettacolo. SOPRA
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Galleria Spazio Aquadro, mostra di Giuseppe Abate e un momento dell'esibizione di Stefano Pavarini, Roberto Rossi e Ausonio Calò, SPAZIO AQUADRO
Via Luigi Calamatta, 29 00193 Roma (adiacente parcheggio Piazza Cavour) Orario mar / sab: 15.30 - 19.30 INFO tel: +39 06 60671083 mail: info@spazioaquadro.it web: www.spazioaquadro.it
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Betty de Virgillis e Ugo Corvino sono due entusiasti collezionisti che, per passione, si sono trasformati in galleristi e, incuranti della crisi, hanno aperto a Roma la galleria Spazio Aquadro, un ufficio e due ampie sale con soffitto a volta e una vetrina che dà su una strada appartata, proprio vicino al Palazzaccio nelle immediate adiacenze del parcheggio di Piazza Cavour. Il progetto prende le mosse dall’idea, semplice e rivoluzionaria al tempo stesso, di creare una rete di gallerie d’arte dislocate in diverse città italiane; spazi differenti, ai quali ha dato impulso Enzo Cannaviello, noto gallerista attivo a Milano da 45 anni. Le mostre fin qui fatte sono state tutte uno sguardo privilegiato sulla giovane arte, a partire dalla prima: Nuova pittura italiana, inaugurata il 12 settembre 2013, una collettiva dove sono state presentate opere inedite di Giuseppe Abate, Elena Ascari, Irene Balia, Anna Caruso, Enej Gala, Riccardo Giacomini, Matteo Giagnacovo, Silvia Mei, Chiara Sorgato e Elena Vavaro. A questa hanno fatto seguito quelle di Jan Muche, interessante giovane artista berlinese per la prima volta a Roma, allievo di Hoedicke il padre della corrente neoespressionista dei “Nuovi Selvaggi” e le personali di Pierluigi Pusole, Giuseppe Abate e Matteo Giagnacovo. Incontro Betty e Ugo nella loro galleria; alle pareti i quadri di Giuseppe Abate e, finalmente, il primo pomeriggio soleggiato dopo tanta pioggia. Sono incuriosita sulle ragioni che li hanno portati ad entrare nel mondo dei galleristi romani, così chiedo loro di concedermi una breve intervista.
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l’OCCHIO
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di Ornella Fazzina
in alto, sul titolo; particolare). La fine? Di cosa? Di un sogno, di un desiderio, di una perfezione perduta, di una integrità frantumata? Qual è il messaggio di queste opere, ironiche e divertenti per un verso, e drammatiche e depistanti dall’altro? Sperimentazioni, contraddizioni, capovolgimenti, mutamenti rientrano nel linguaggio dell’arte, ed insieme all’aspetto ludico in queste opere dobbiamo leggere anche moniti, metafore che si nascondono tra le pieghe di una materia lavorata magistralmente da Marchese, unendo l’alta capacità tecnica all’aspetto semantico dei suoi lavori. Opere antropomorfiche e zoomorfiche di matrice classica si sposano in un perfetto contrasto con le scritte al led, nel segno della contaminazione attuale dove la piattezza della scrittura la si constata solo avvicinandosi, smorzando la plasticità scultorea, e viceversa. Rimandi, opposizioni binarie, inganni e verità, tutto sembra concorrere a una riflessione su illusione e realtà. Nel mettere in luce paradossi e incertezze del nostro tempo, slittamenti linguistici conducono verso forme dal sapore surrealista e metafisico dove l’antinomia è evidente, ma ritraendo forme riconoscibili quindi vere, la sua diventa una operazione conoscitiva, prendendo coscienza delle cose reali. Una realtà, seppur “altra”, relegata forse alla dimensione inconscia dentro la quale si risvegliano incubi e paure profonde. Arcani ed enigmi si rincorrono nel voler trovare delle possibili soluzioni per stare al mondo, un mondo svilito e privato dei suoi valori sacrali e magici, e per questo più difficile da accettare. Le suggestive “citazioni” per immagini Marchese può averle raccolte dalle civiltà degli assiri, egiziani, greci (con la grande lezione moralizzatrice delle favole di Esopo con i suoi animali personificati) e romani, per approdare al Medioevo che come asserisce Jurgis Baltrusaitis “non ri-
nuncia… ai vasti repertori antichi o esotici che hanno a lungo nutrito la sua immaginazione…vi si rintracciano… vari elementi di differenti civiltà, ossessioni, fantasmagorie elaborate dall’immaginazione”. Le creature deformi, grottesche e gli esseri favolosi che arricchiscono i Bestiari, reinseriscono un mondo fittizio all’interno del mondo vivente, rivitalizzando le fonti dell’Antichità classica e dell’Oriente che hanno incrementato leggende e fantasie. Le opere di Pietro Marchese tracciano una linea di continuità attraverso una serie di forme eterogenee, restituendo così un mondo più misterioso, più complesso e più completo; un perenne dualismo che amplia i confini e spazia verso regioni apparentemente distanti, nella ricerca della realtà. Del resto, quel che vediamo non è tutto il visibile. jh Pietro Marchese | Light 2013, resina policroma, legno, ceramica serigrafata, plexiglass, luci a led cm 104 x 100 x 35 PIETRO MARCHESE
BESTIARIO CONTEMPORANEO STUDIO D’ARS | MILANO
chiusa il 21 marzo 2014 Via Sant’Agnese, 12 Mostra a cura di Ornella Fazzina INFO
danieledecia75@gmail.com
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Mutuare da un vocabolario iconografico di antiche civiltà che fondono il genere umano con il genere animale dando vita a forme ibride, è una prassi usata in diverse epoche fino ai nostri giorni, come testimonianza di una continuità che attinge dal passato per proiettarsi nell’avventura del presente. La mitologia è piena di animali umanizzati e di umani bestializzati nel rappresentare il divino, e la psicologia offre un notevole contributo nello studio dell’uomo che oscilla tra razionalità e istinto. Similitudini che avvicinano l’animale all’uomo sia nelle fattezze fisiche che nel comportamento costituisce ancora oggi oggetto di indagine che parte da lontano, si congiunge agli studi di Leonardo da Vinci per arrivare alla fisiognomica ottocentesca e continuare con nuove tecnologie per scoprire fino a che punto si possono delineare confini oppure è possibile sconfinare nell’uno e nell’altro campo. A tal proposito, diventa ancor più interessante ed intrigante la ricerca portata avanti da Pietro Marchese il quale traccia un bestiario contemporaneo che, dall’antichità al Medioevo fino a noi, può intrecciarsi anche con l’ambito scientifico di una certa manipolazione genetica, aprendo a riflessioni di varia natura, non ultimo di carattere etico.Ciò che incuriosisce e allo stesso tempo inquieta nelle sue opere è questo ibridismo di forme appartenente a due generi differenti dai quali però non emerge né la virulenza maschile né la forza animalesca. In I had a dream il cavallo ha un atteggiamento mite, sommesso, rassegnato, annullando così la sua connaturata energia muscolare azzerata ancor di più dal corpo inginocchiato, remissivo, così come in Life il dialogo amoroso tra i due cervi dal corpo umano, si relazionano attraverso gesti calmi, aggraziati, timidi. Un mondo, questo, dove i generi si confondono, il maschile è anche il femminile, l’umano è anche l’animalesco, ma in questa mescolanza si intravede un fondo di infelicità e la donna-elefante in Light (immagine accanto) è cosciente del fatto che non può reggere il confronto con un’icona di bellezza. Ermafroditi con teste e braccia di animali, ed altre combinazioni, si mostrano in un gioco continuo che rimanda al falso, ad innesti favolistici, metamorfosi spiazzanti che portano l’uomo-rospo a dire The End (immagine
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di Davide Scandura Si è materializzata un po’ di mesi fa l’ennesima impresa sportiva per colui che è ritenuto il miglior navigatore solitario di tutti i tempi, il “nostro” Giovanni Soldini. Lo skipper italiano ha infatti conquistato la 14° edizione della storica Cape2Rio, la più lunga regata esistente tra due continenti nell’emisfero sud: 3.300 miglia da Cape Town (Sud Africa) a Rio de Janeiro (Brasile), che il team di Maserati ha percorso in 10 giorni, 11 ore, 29 minuti e 57 secondi, abbassando di più di due giorni il record precedente che apparteneva al maxi americano di 72 piedi Zephyrus IV (12 giorni, 16 ore, 49 minuti). Il VOR 70 Maserati, partito dal maestoso sfondo della Table Mountain ha tagliato la linea d’arrivo alle pendici del celebre Pan Di Zucchero il 14 gennaio scorso, prima tra le 35 barche, di varie dimensioni (la barca italiana era l’unico 70 piedi presente), partecipanti. Non è stato però tutto facile per l’equipaggio di Maserati; la regata, infatti, ha subito vissuto un momento tragico a causa di una tempesta con raffiche a 40 nodi che, poche ore dopo la partenza, ha tolto dalla gara diverse imbarcazioni e, soprattutto, ha causato la morte dell’angolano An-
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tonio Bartolomew, disperso in mare dopo il disalberamento di Bille, una barca tipicamente da crociera sicuramente non adatta ad affrontare una regata oceanica competitiva. Usciti dalla tempesta, Soldini ed il suo equipaggio sono entrati negli alisei e hanno tenuto ben saldo il comando della flotta. Le strette della tempesta hanno comunque lasciato qualche segno sull’imbarcazione che, nei giorni successivi alla partenza, ha visto susseguirsi a bordo diversi guai: prima uno strappo sulla randa (la vela armata sull’albero principale), poi la rottura di una volante ed infine l’esplosione di uno Spi (la vela che viene issata quando l’andatura della barca è portante), prontamente riparato. Dopo la difficile partenza comunque, la barca italiana ha cominciato a spingere sull’acceleratore portandosi verso nord per fare il giro dell’alta pressione; un allungamento del percorso di 600 miglia (circa 950 km) che ha consentito di mantenere sempre un buon gradiente, un buon vento e una buona velocità. Le ultime miglia sono state così solamente un lungo giro turistico davanti alla costa a nord di Rio alla ricerca di un po’ di vento. Lontani gli inseguitori: il 52 piedi australiano Scarlet Runner navigava a 750 miglia di distanza da Maserati, mentre l’Open 60 sudafricano Explora si trovava a 900
miglia di distanza. A bordo, insieme allo skipper italiano, un team internazionale di nove persone: gli italiani Guido Broggi, Corrado Rossignoli e Michele Sighel; il tedesco Boris Herrmann; lo spagnolo Carlos Hernandez; i francesi Jacques Vincent e Gwen Riou; il danese Martin Kirketerp Ibsen; e per la prima volta il monegasco Pierre Casiraghi. Con il ritorno in Brasile si è chiuso un cerchio, aperto un anno fa quando il team Maserati conquistò un altro record, 47 giorni, 0 ore, 42 minuti e 29 secondi per navigare a vela da New York a San Francisco passando per Capo Horn, battendo così il mitico record della Rotta dell’Oro. Dall’arrivo sotto il Golden Gate, Maserati non ha più smesso di navigare: Transpac Race, Indonesia, Cina, la scia della barca italiana si è allungata sempre di più. Un altro record in bacheca quindi per Giovanni Soldini, che, a soli 16 anni aveva già compiuto la traversata dell’Atlantico. La data più importante, per il velista milanese, risale però al 3 marzo del 1999, giorno della sua più grande impresa: la conquista, con il 60 piedi FILA, della terza tappa dell’edizione 1998-99 della Around Alone, il giro del mondo a vela per navigatori solitari. Un’impresa eroica, la cui valenza sportiva,
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pur importante, è passata in secondo piano, sopraffatta largamente dalla grande dimostrazione di coraggio di Soldini, protagonista del salvataggio di Isabelle Autissier, rovesciatasi in pieno Pacifico meridionale e lontana da qualsiasi possibile intervento di salvataggio a causa delle condizioni meteorologiche. Per Giovanni dunque, che ha alle spalle più di vent’anni anni di regate oceaniche, tra cui due giri del mondo in solitario (una vittoria, come già detto, ed un secondo posto), sei Québec-Saint Malo (una vittoria nella categoria monoscafi), sei Ostar (due vittorie nella classe 50 piedi e classe 40 piedi), tre Jacques Vabre (una vittoria nella classe 40 piedi), e più di 40 transoceaniche, il prossimo obiettivo non può che essere un’altra sfida impossibile verso la conquista dell’ennesimo record, come quello di velocità nel Nord Atlantico, da New York a Lizard Point, sfiorato nel 2012; andrà senza dubbio a vele spiegate, c’è da scommetterci.
f A PAGINA 18 | Alessandra Giovannoni Il timoniere 2014, tecnica mista su carta, cm 51 x 35 SOPRA
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Il team del VOR 70 Maserati in azione (immagine dal web)
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l’IDEA
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IL RICONGIUNTO CAPITOLO I di Giuseppe Bella
Capii allora […] che il grido che anni prima aveva echeggiato sulla Senna, alle mie spalle, non aveva cessato […] il suo cammino nel mondo, attraverso la distesa illuminata dell’oceano […] Capii anche che avrebbe continuato ad aspettarmi su mari e fiumi ovunque fosse l’acqua amara del mio battesimo. (A. Camus)
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os’è che hai? Qui, sul fianco” biascicò a un tratto Lella, la mia amica; e vi sfregava con forza la punta dell’indice. In quel momento eravamo sdraiati al sole. Il posto era una pietraia di lava levigata, in riva al mare; sulla battigia i ciottoli subivano l’urto delle onde e come lunghe chiome verdi sotto il pelo dell’acqua si agitavano le alghe. Questa zona ha un aspetto tragico e sinistro. Tolsi via gli occhiali per osservare - le lenti erano nere, quasi picee - e strizzando gli occhi a quella chiarezza agra girai la testa verso il punto su cui Lella si ostinava a graffiare: situato, il punto, nel mio fianco destro, ma piuttosto ai confini con la schiena che vicino all’addome, mi vidi costretto a torcermi sulla vita e poco mancò che ne seguisse un crampo. Mi sollevai perciò appena un po’ sulla schiena, e rimanendo in tensione vi portai le dita, mentre Lella esclamava: “E’ certamente un neo, no, aspetta… Un neo non mi pare, è forse una cicatrice”. Era invece quel noto neo, nero. Sorrisi quindi alla mia amica, mormorando: “Non è niente, sta’ tranquilla, lo conosco: è un neo, ce l’ho da anni”. Lella si stirò sullo scoglio emettendo un mugolio. E io pure mi rilasciai sul dorso, calmo ma non del tutto persuaso di quanto le avevo appena detto in tono rassicurante. Ossia era vero, sì, che fosse quel neo, rotondo ma dai margini frastagliati, privo quasi di spessore e in compenso alquanto largo, quella germinazione della mia cute che sarebbe forse azzardato definire una voglia poiché, se a qualcosa essa somiglia, è a uno scaracchio che si può accostare come forma, mentre ha l’uguale colore dello sterco. Ma l’ipotesi di Lella, che potesse trattarsi di una cicatrice, mi aveva instillato un dubbio. Ne riconoscevo il carattere infondato e tuttavia, come non ammettere la possibilità che in un altro tempo, in un’epoca remota, si fosse prodotta un’apertura della carne nel mio corpo, lì in quel preciso punto, tra fianco e schiena? Il neo nella sua superficie aveva un aspetto davvero strano, del resto. Non corrugato ma anzi disteso e quasi liscio. Come la cicatrice lasciata non da un taglio profondo ma da un’escrescenza quando sia stata recisa. Il tegumento ancora conservava una consistenza come di velina, sottile neoformazione anche tenera, sebbene il suo colore cupo fosse parecchio inquietante. Ma ero certo, ripeto, che mai lì dove stava quel neo - o cicatrice che fosse avevo subito alcun taglio. Ad ogni modo il colore lo confermava: era scuro. Se questa qui fosse veramente una cicatrice, il suo colore dovrebbe essere uguale a quello della mia pelle, chiaro. Quest’ultimo argomento mi parve decisivo, e traendo un sospiro chiusi gli occhi determinato a tuffarmi in acqua non prima che mi fossi procurato un’ustione. In città gestisco un locale: è situato in un quartiere del centro storico dai vicoli angusti e un basolato di pietra lavica lisciata dai secoli, nera; ci sono chiese del Settecento e anche palazzi. Le chiese sono tutte monumentali, opere d’arte dal grembo infecondo; si presentano con una loro solennità remota e frigida; non sono più un luogo di culto, ma per turisti. I palazzi barocchi testimoniano un passato sfarzoso, un’epoca di forza: ma attualmente non fanno che persistere in una sinistra macerazione. Quando è notte dimore e chiese si ritirano nell’ombra e assumono, sotto il livido chiarore della luna, un volto saturnino: l’esatto opposto di quel chiasso di fregi e di volute che raffigura il volto diurno del barocco, votato al sole. Il mio lavoro in birreria si svolge di notte; ma dovendo preparare una caterva di pietanze già dalle prime ore della mattina mi ci si può trovare che provvedo ai rifornimenti e sorveglio in cucina. Ma è soltanto a sera inoltrata che si comincia. Non lavoro però da sempre nel settore. Adesso ho trent’anni, e fino a ventidue studiai Giurisprudenza. Con cinque o al massimo sei esami sostenuti, nel complesso. Da perderci la faccia. E fu appunto per vergogna che mi decisi a porre fine alla farsa. Mentivo a mia madre dicendole - a intervalli in media di tre mesi - di avere sostenuto un esame ricavandone un voto non mai sotto il trenta. E così la mia carriera progrediva, velocemente; tanto che lei pregustava già la gioia di vedersi tra non molto laureato l’unico figlio, dottore in Legge. “Sei la mia vita”, mi sussurrava nel salutarmi la mattina in un orecchio, mentre sonnecchiavo. Il marito le era morto che ancora ero lattante.
Ero, è vero, io cioè il mio semplice esistere l’orizzonte della sua vita: ma lei per me era diventata un peso e un’asfissia. Perciò una sera attesi che rientrasse dal lavoro per confessarle la verità. Dovevo poi dirle che sarei andato via, forse per sempre; pertanto scelsi la saletta dell’ingresso come luogo dell’incontro, da cui avrei imboccato l’uscita con un solo balzo senza attraversare gli spazi interni e senza potere quindi essere raggiunto da richiami e rimorsi. All’ora consueta si udì il tramenio della chiave nella toppa; balzai in piedi dal lettino della mia stanza dove, dedito a riflessioni che avrei voluto sistematiche ma che invece mi riuscivano rotte e intermittenti, avevo consumato quasi tutto il pomeriggio, circondato dalla penombra. Giunsi in saletta appena in tempo per accogliere mia madre. Non prevedeva la mia presenza e mosse i primi passi con lo sguardo affondato nella borsa della spesa. Quando mi vide sobbalzò di spavento: mi ergevo davanti a lei nell’ombra. Mi sorrise, tuttavia, subito e disse: “Non pensavo fossi ancora in casa. Esci? E dov’è che vai, a quest’ora?” “Me ne vado, infatti” le risposi, “ma per questa sera non mi aspettare e nemmeno per le future”. Feci una pausa e poi, tutto di un fiato: “Lascio di studiare; non mi interessa la laurea e non da ora: non me n’è mai fregato nulla; anche di te”. E atterrando lo sguardo scattai in avanti per guadagnare al più presto la porta, ma proprio sulla soglia una presa convulsa e dolorosa a un braccio troncò il mio slancio. Mi girai verso mia madre ben sapendo di doverne sopportare lo sgomento negli occhi e le suppliche, e invece lo sguardo con cui mi incontrai era uno sguardo gelido e cattivo, lanciatomi da occhi che sembrava avessero sempre covato sentimenti di morte, gli occhi stessi di chi uccide senza una ragione: li animava una luce luttuosa, come quella che batte nelle notti di luna piena, una luce incostante, con lampi che abbagliavano. Mi scrutò così per lunghi secondi, senza emettere una sola parola. Gli occhi erano l’unica parte viva di lei, il resto della faccia aveva preso la fissità e la durezza di una roccia, e il suo colore: livido e aspro. Mi balenò alla mente un’immagine, un orribile paradosso, l’immagine di una Gorgone della quale solo lo sguardo sopravvivesse, per uccidere, dopo che questo sguardo aveva da se stesso scagliato nella pietra il proprio volto. “Vattene pure, e troverai, se ritorni, la mia porta sempre chiusa” disse alla fine lei con voce ferma, ma muovendo le labbra in modo quasi inavvertibile, e nessun altro muscolo della faccia; e mi spinse sulle scale con una forza inaspettata. Poi sbatté la porta alle mie spalle. Preso in contropiede da lei, la madre, vissi a lungo la mia fuga come invece una cacciata e una sconfitta. Nei primi giorni, usando di certi soldi trafugatile, viaggiai o più che altro vagabondai da una città all’altra della regione, portavo la barba incolta e non cambiavo mai vestiti. Finii per aggrupparmi con alcuni spiantati, tra cui una donna di circa quarant’anni che mi legò a sé con la sensualità quasi violenta dei suoi fianchi; erano di ogni età, i miei compagni, e di numero variabile a seconda che nei nostri spostamenti qualcuno fosse pizzicato dalla sbirraglia o che si aggiungessero nuovi elementi. Si campava rubacchiando e facendo la posta nei semafori pulendo i vetri delle macchine. Era d’estate e la sera davanti al fuoco fumavamo gli spinelli. Durò circa sei mesi questa vita balorda. Ma per la verità non è che decisi da me di terminarla. Al posto mio ci pensò la sorte: che è come dire, in questo caso, la morte. Ci eravamo divisi in quattro gruppi per trovare più facilmente chi ci caricasse per un passaggio: l’appuntamento era in un giorno stabilito, a Firenze, in una certa piazza. Io e i miei compagni - Grazia, la mia donna, e Ulrich, tedesco - eravamo sin dalle prime luci del giorno fermi sul ciglio della statale. Accaldati. Sulle nostre teste picchiava un sole nudo. Unico mezzo che tagliasse il suo slancio per poi arrestarsi presso di noi una gazzella - nome di animale placido per designare una lamiera sinistra. Carabinieri. Ci scrutarono con sguardi ottusi a cui il nero delle divise aggiungeva come un presagio di galera. Il milite alla destra di chi guidava a un certo punto si piegò in avanti per puntare meglio con lo sguardo proprio la mia figura; abbassava ripetutamente gli occhi su qualcosa che aveva dinnanzi a sé sul cruscotto e che da fuori non si vedeva, e ogni volta ritornava a squadrarmi in volto. Mi chiese infine, arcigno, se il mio nome fosse quello che pronunciò storpiato. Grazia, la mia donna, già mi si era abbrancata addosso pronta a sciogliersi in gridi e in pianti per la sorte che mi sarebbe toccata, di finire difilato in prigione. Ma il carabiniere, pure non smettendo un’aria di minaccia (qualcosa gli occupava lo sguardo, come un’espressione di odio e di dolore per il mio destino di cialtrone irredimibile e insieme per se stesso, condannato a condannarmi non potendo mai uscire dal cerchio di questa necessità avvilente) mi disse che aveva una comunicazione importante da farmi: e dando prova di inaspettata delicatezza attese che io gli andassi vicino perché non sentissero gli altri. Con un tono di voce rauco e paterno mi esortò a tornarmene a casa, che mia madre... Mia madre, che? Ebbene, quella povera donna era morta. Sola in casa. Di infarto. A DESTRA g Cristiano Ceroni | Senza titolo 2014, olio su tela, cm 31,5 x 22
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di Antonio Casciaro Il rapporto tra politica e cultura è sempre stato problematico; ma a volte anche proficuo. E lo stesso dicasi per quell’arte particolare - che meglio ha approfittato della meccanizzazione della tecnica - che chiamiamo cinematografia. L’industria cinematografica, si sa, non è immune da condizionamenti e spesso è utilizzata per stimolare desideri ed at-
riduzione di tale censura, sancita poi in modo più evidente con il crollo del muro di Berlino. Questa brevissima storia di uno dei più importanti Film Festival internazionali è un classico esempio di come il cinema possa essere leva di politica internazionale. Nel 1990 un noto politologo, Joseph S. Nye, Jr., (Harvard Kennedy School of Government)
ed il dinamismo del mondo francofono nel mondo. In questa occasione il meglio della cinematografia contemporanea proveniente da paesi quali Belgio, Bulgaria, Canada, Québec, Croazia, Grecia, Haiti, Libano, Lussemburgo, Marocco, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Svizzera, Tunisia, Ungheria e Uruguay, ha modo di essere veicolo per
teggiamenti positivi verso modelli culturali. L’istituzione nel 1951 della Berlinale (Internationale Filmfestspiele Berlin) fu un classico esempio di iniziativa politico-culturale (in questo caso degli Stati Uniti) per gestire una ripresa sociale attraverso un’industria cinematografica che, secondo quanto recitava l’articolo II dello statuto, avrebbe dovuto avere l’obiettivo di “contribuire alla comprensione e all’amicizia tra i popoli delle differenti nazioni”. Sappiamo come è andata: molte furono all’inizio le limitazioni rivolte principalmente ai Paesi del blocco sovietico e dell’Europa dell’Est; inoltre spesso i film in mostra non erano altro che un prolungamento di Hollywood. Solo negli anni Settanta il regolamento prevedette una
coniò un termine poi molto utilizzato nella teoria delle relazioni internazionali - soft power o potere morbido - per indicare l’abilità della politica di persuadere ed attrarre tramite risorse culturali intangibili. Come afferma lui stesso, è la capacità “di ottenere ciò che si vuole tramite la propria attrattiva piuttosto che con il ricorso alla coercizione o a compensi in denaro” (Soft Power: The Means to Success in World Politics, PublicAffairs, 2004). E si può constatare come il cinema sia opportunità di promozione culturale anche in modo espansivo (e non solo contrattivo/difensivo come le origini della Berlinale mostrano). È il caso dell’OIF (Organizzazione Internazionale della Francofonia) che ogni anno, a marzo, festeggia la lingua francese
relazioni di cooperazione; d’altra parte per essere membri dell’OIF non è richiesta l’ufficialità del francese all’interno dello Stato, ma anche più semplicemente che sia insegnato nelle scuole come lingua straniera. Nel marzo 2014 si sono organizzate esposizioni, concerti musicali e rassegne di film. “La battaglia dei sogni”, per esempio, è stato il tema dell’undicesima edizione de Les Journées du cinéma québécois en Italie, in collaborazione con il Conseil des arts et des lettres du Québec, l’Ambasciata del Canada in Italia, la Delegazione del Québec a Roma, la Société de développement des entreprises culturelles del Québec. Si sono così organizzate delle rassegne cinematografiche a Milano, Firenze, Napoli e Siracusa. In gran parte sono stati pro-
iettati film non distribuiti in Italia, transitati in alcuni importanti festival internazionali, e con alcune anteprime nazionali; anche film di animazione (vedi foto). Il Canada è uno di quei paesi che ha fortemente investito sul cinema di animazione d’autore (contrariamente all’Italia) con l’istituzione dell’ente statale del cinema, il National Film Board, e con un forte personaggio come Norman McLaren (regista egli stesso) a capo del dipartimento di animazione; la Francia comunque non è da meno; e l’innovazione tecnologica della cinematografica contemporanea - ricordiamolo - passa attraverso la digitalizzazione dell’animazione. La diffusione di una lingua nazionale è un tipico esempio di Soft Power. È così che l’OIF (composta da 56 stati e governi sottonazionali membri, 2 stati associati e 19 stati osservatori) promuove “la lingua francese, lo sviluppo economico e gli scambi commerciali tra i paesi membri, la cultura e la ricerca scientifica, i diritti civili e la pace, obiettivi ben riassunti nel motto dell’Organizzazione Egalité, complémentarité, solidarité ”. L’agenzia Monocle nel novembre 2013 ha diffuso il suo quarto studio annuale con il nome di Soft Power Survey. Al primo posto si trova la Germania, al quarto la Francia; l’Italia è al decimo. Quanto il settore diplomatico-culturale italiano, con le sue 352 sedi all’estero, ha da imparare da un’organizzazione come l’OIF? Oppure è meglio continuare a essere oggetto continuo di giudizi volti a valutare il grado di familismo in politica? AL CENTRO j Martine Chartrand Macpherson, 2012, film di oanimazione
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di Mario Guarrera
LE TEcNIchE dELL’OSSERVATORE di Jonathan Crary Einaudi | 2013 | pp. 188 Le tecniche dell’osservatore è stato pubblicato nel 1990 e nel corso degli anni tradotto in dieci lingue. L’edizione italiana del 2013, a cura di Einaudi, arriva ben 23 anni dopo. Perché a distanza di tutti questi anni un saggio mostra ancora la sua validità a tal punto da essere “ripescato” per una sua prima pubblicazione in Italia? Per cominciare a rispondere dobbiamo dire che l’autore, Jonathan Crary, è storico dell’arte alla Colombia University di New York. Il libro dunque è un saggio di storia dell’arte, il cui approccio però, e qui sta l’originalità del testo, è interdisciplinare. L’approccio è quello archeologico. L’autore vuole scavare indietro nel tempo per trovare le radici storiche della svolta modernista nell’arte, quella che di solito si imputa alle “novità” della pittura di Manet e degli impressionisti. Crary afferma che quel nuovo modo di raffigurare la realtà vibrava di risonanze che andavano indagate. Vale a dire che l’affacciarsi del modernismo nell’arte non fu lo sbocciare improvviso di una sensibilità totalmente inedita. Il terreno doveva già essere stato preparato dall’avvento di un moderno osservatore. Questa è la tesi di fondo, l’immaginario visivo è sempre una costruzione culturale, e le grandi personalità geniali che fanno la storia dell’arte hanno sempre un retroterra sociale a cui, spesso inconsapevolmente, sono ancorati. Nel periodo di tempo che va dagli inizi dell’Ottocento alla fine del secolo, succede qualcosa che si può riassumere nella differenza di stile tra Chardin e Cezanne. Un pittore come Chardin, di fine ‘700, è naturalmente molto lontano da Cezanne. Questa differenza non è data soltanto perché tra l’uno e l’altro si sono succedute delle formali evoluzioni nell’ambito della rappresentazione dei soggetti e dello stile. Ma perché la visione “primordiale” di un occhio innocente, che sperimenta una pittura come quella di Cezanne, era inconcepibile nella visione degli spazi organizzati razionalmente secondo il modello dominante della camera oscura, sulla cui matrice Chardin, almeno secondo l’autore, trovava il principio ordinatore delle sue
composizioni pittoriche. Ci troviamo qui di fronte alla grandissima lezione di Michel Foucalt al cui magistero Jonathan Crary esplicitamente si rifà. Il nostro modo di vedere le cose, di concepirle, di pensarle, di conoscerle e di processarle è sempre sovradeterminato da pratiche discorsive in cui il sapere e il potere sono inestricabilmente intrecciati. Il modello della camera oscura è un paradigma che si fonda sul primato della logica, della razionalità degli spazi, imperante nel periodo classico (per Foucalt tra la metà del XVII secolo e la fine del XVIII). Esso si nutre di prospettiva rinascimentale e filosofia cartesiana. Per questo il suo osservatore è neutrale e atemporale. E’ un puro recettore della infallibilità trasparente delle sensazioni. La luce che entra nella camera oscura da una ben precisa fessura apre uno spazio scientifico della visione. La realtà esterna viene in qualche modo reificata da una duplicazione interna mentale. Il periodo di incubazione delle nuove tecniche di osservazione è quello della prima metà del XIX secolo. Infatti è nei primi decenni dell’800 che si verifica una rottura epistemologica, cioè si produce una discontinuità con il paradigma della visione incentrata sul modo di funzionare della camera oscura. Mentre questo modello marginalizza l’implicazione degli organi del corpo specificamente addetti alla ricezione degli stimoli del mondo esterno (i nervi ottici, la retina, ecc.) esaltando invece la visione interiore, una sorta di teatro della ragione visiva, i primi studi fisiologici sugli apparati ottici e sensoriali localizzano le percezioni nel corpo umano. Ora, questa incarnazione dei sensi destituisce l’”autorità” normativa della camera oscura. La visione perde la sua univocità. Mentre nella camera oscura l’interno e l’esterno si corrispondono sempre, il nervo ottico può invece cadere in una percezione illusoria, cioè senza referenti esterni. Questo che vuol dire? Proviamo a fare un esempio, la pressione meccanica sull’occhio, esperienza che abbiamo fatto tutti schiacciando o stropicciando la palpebra con un dito, crea una sensazione di colori e sfarfallio che non hanno un contenuto reale esterno. Goethe nel 1810 ne aveva parlato per primo nella Teoria dei colori analizzando il fenomeno dell’immagine postuma che si imprime sulla retina. L’immagine è dunque postuma e consecutiva, cioè rimane impressa e continua a mutare anche dopo che lo stimolo, in tal caso la pressione sull’occhio, è cessato. La visione, secondo lo studio di Goethe, non solo si astrae dal suo referente esterno, ma è anche attraversata dal tempo, si temporalizza. Se pensiamo che per la concezione della camera oscura l’immagine esterna è simultaneamente ed istantaneamente proiettata all’interno del suo campo di visione, ci rendiamo conto di come i nuovi interessi di fisiologia ottica mettono in crisi il modello dominante di osservazione. Il corpo, la biologia reclamano il loro ruolo nella meccanica delle sensazioni. La visione, sulla scia delle regole Kantiane intorno alla conoscenza sensibile si soggettivizza, diventa personale e in un certo senso autonoma. Addirittura la nitidezza, quella del modello classico razionale e trasparente, si opacizza. Le stesse illusioni ottiche, quelle appunto che riscontriamo nell’osservare il sole lungamente o nello stimolare meccanicamente la pupilla, entrano a far parte della “verità” dell’osservazione. Anche le allucinazioni visive entrano a tutti gli effetti nello statuto dell’osservatore moderno. Ma non solo, la nuova teoria della luce studiata come movimento ondulatorio e non più come fascio rettilineo, ridimensiona il potenziale di conoscenza della pittura rinascimentale, che vedeva nella prospettiva non soltanto un modello di rappresentazione delle immagini ma anche un sapere scientifico sulla organizzazione spaziale della realtà fisica esterna. Sempre nella prima metà dell’Ottocento le conoscenze sul funzionamento della fisiologia dell’occhio avranno delle ricadute di pratica applicazione. Gli studi sull’ottica delle immagini consecutive, che ritardano la loro impressione sulla retina, fanno da innesco all’invenzione delle cosiddette “macchine delle meraviglie” come il fenachistoscopio (letteralmente “visione ingannatrice”) lo zootropio, il taumatropi, il diorama, dove le figure girate in veloce sequenza creano l’illusione di una loro animazione. Gli studi relativi all’ottica binoculare costituiscono la base scientifica per l’invenzione dello stereoscopio e del caleidoscopio. Questi strumenti per Crary non rappresentano però, come si tende a credere, i precursori del cinematografo giacché la loro visione illusoria non riconosce alcun referente esterno, realmente esistente. Il reale a cui questi strumenti ottici davano accesso era di natura meccanica e non facevano nulla per nasconderlo. Lo stereoscopio rappresentava delle immagini troppo false, con campi di profondità inverosimili nella loro fissazione. A motivare l’invenzione di questi strumenti ottici, più che lo studio della rappresentazione veritiera e mimetica, è invece la resa produttiva che si può ricavare dalle ricerche sulla fisiologia e la psicologia dell’osservatore. Vale a dire ad essere messa in risalto era “l’interazione funzionale tra il corpo e la macchina” ed anche l’attitudine psicologica dell’osservatore che tramite tecniche di manipolazione ottica “tramutava le scialbe immagini parallele degli stereogrammi bidimensionali in affascinanti apparizioni di profondità”. Ecco quindi profilarsi la figura fino ad allora inedita di un osservatore che si ritaglia il suo ruolo attivo di produttore di immagini. Sempre nella stessa epoca la creazione artificiale di effetti ottici non è disgiunta dalla misurazione degli stimoli sensoriali. A questo proposito l’autore cita gli studi di Fechner condotti intorno agli anni 40 dell’Ottocento con lo scopo di misurare la soglia minima delle sensazioni e la scala del loro incremento di grado calcolata aumentando l’intensità dello stimolo. Insomma cosa ci vuol dire Crary con questo libro? Una cosa molto importante, nella prima metà del XIX secolo la società si trasformava assecondando le esigenze della moderna produzione industriale. Nello stesso periodo in cui i vagabondi, i nullafacenti, gli oziosi venivano reclutati coercitivamente quale forza lavoro per essere irreggimentati nei nascenti opifici di massa, gli studi sulla fisiologia ottica dislocavano il baricentro della visione dalla geometrica ed intellettuale camera oscura al corpo umano. Se il primo paradigma, quello della camera oscura, assicurava una padronanza razionale, il secondo portando ad una “industriale riclassificazione del corpo” contribuì alla messa in produzione delle sensazioni. Le nuove tecnologie applicate al corpo umano miravano alla enucleazione di un moderno osservatore adatto a recepire il flusso incessante di nuovi immaginari visivi e stimolazioni sensoriali della nascente società dei consumi. Le ricerche sul corpo umano sfociarono così su un duplice scenario. Da un lato inaugurarono l’autonomia dell’osservatore, la sua libertà di sguardo, impensabile secondo il modello della camera oscura. Dall’altro assoggettarono questa presunta innocenza della visione, che implementa creatività e trasgressione personale, al regime della nascente società disciplinare, normalizzando il potenziale anarchico delle nuove tecniche dell’osservatore mediante la misurazione e la manipolazione calcolatrice degli stimoli sensoriali. La corporalità della visione apre le porte alla meccanizzazione e alla formalizzazione della visione. Creando così uno statuto ambiguo del moderno osservatore. Il comportamentismo in psicologia con i suoi processi di condizionamento e controllo, gli esperimenti di Pavlov sui riflessi condizionati, trovano nei primi decenni dell’Ottocento il loro “brodo di coltura”, vero e proprio incubatore delle tecnologie del soggetto. Quali conseguenze per il discorso sull’arte? Innanzitutto, per Crary, non si può affermare che gli impressionisti quali innovatori solitari deviarono dal corso principale dell’arte più popolare e tradizionale, quella mimetica che porterà dritto alla fotografia, per virare verso una forma d’arte più essenziale e raffinata. La vicenda è molto più intrecciata. L’immagine “primordiale” a cui attinsero gli impressionisti intendendola quale atto di ispirazione autonoma e personale, di fatto era già stata preparata, come abbiamo visto, dal discorso scientifico e tecnico dei primi decenni dell’Ottocento. Ma anche la fede nella mimesi, la riproduzione fedele delle immagini, comprese quelle fotografiche, era già stata intaccata da un osservatore ormai decentrato e smaliziato rispetto al paradigma della raffigurazione nitida e trasparente del reale. Gli innovatori, a ben vedere, erano già dentro un discorso mainstream e non se ne allontanavano, ma semmai lo subivano. Infine un’altra riflessione a cui si giunge leggendo il saggio è legata alla constatazione della colonizzazione dell’arte da parte di linguaggi appartenenti ad altre discipline e saperi sociali. In fondo, a ben considerare, tutte le tecnologie impiantate sul soggetto a seguito delle ricerche scientifiche iniziate nel XIX secolo ci portano direttamente alle performing arts contemporanee (si pensi a Marina Abramovic) che viste alla luce di quanto detto non sono altro che appendici “ludiche” del comportamentismo in psicologia o delle altre tecniche di sperimentazione sensoriale intenzionalmente pilotata.
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l’ASCOLTO
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Carmelo Amenta da sempre, non ci sono luci ma chiaroscuri e pennellate di dark. Si riconferma uno degli artisti più interessanti del panorama indipendente italiano e capace cantautore che riesce, come difficilmente oggi accade, ad emozionare, a non annoiare e parlare di vita in modo universale. Sisco Montalto
cARMELO AMENTA
https://www.youtube.com/watch?v=z CAiMSdFjWA
Cuori e parole in piccole botti di legno Carmelo Amenta torna a distanza di due anni con la terza fatica discografica. Ancora una volta, giá dal titolo, Cuori e Parole in Piccole Botti di Legno, Amenta cattura l’attenzione e conferma la sua vena romantica, cinica e amara. Vena poi approfondita in un album affascinante, come sono stati finora tutti i suoi lavori, con il solito blues ad aleggiare per tutto il disco, con una ventata di sano rock e spruzzate di jazz. Sicuramente dal primo lavoro ci sono state delle evoluzioni, Cuori e Parole in Piccole Botti di Legno rappresenta in pieno l’artista e la maturità del progetto; non a caso il disco è stato interamente prodotto dallo stesso Amenta, che oltre a suonare la sua inseparabile chitarra e a cantare, si cimenta con dobro, slide guitar e cori. I testi sono i protagonisti nei lavori dell’artista siracusano, ribadiscono la bravura nel comporre liriche mai scontate, di facile approccio e così molto comunicative. È la capacità di leggere quello che lo circonda con lucido distacco ma sguazzandoci dentro, che rende il tutto intenso al punto giusto. Musicalmente, il disco non cattura al primo ascolto come invece poteva essere per il secondo lavoro I Gatti se ne Fanno un cazzo della trippa (vedi intervista in Newl’ink n. 9+10, pag. 22; n.d.r.). C’è l’immancabile eleganza e ricercatezza nei suoni, che risultano pieni e molto variegati, merito pure delle tantissime collaborazioni (tra le altre Alì nel brano Sogni Fradici. Duetto canoro che impreziosisce uno tra i pezzi più belli del disco). E’ riemersa in questo album l’indole rock dell’artista: tutti o quasi i brani del disco suonano asciutti e rockeggianti, lentamente cadenzati quasi a mettere in evidenza il lato nero di ogni storia raccontata. I toni infatti rimangono gli stessi che caratterizzano
cARUANA MUNdI Angeli Dannati e Anime Sospese A circa quattro anni di distanza dal Cucitore di Tende i Caruana Mundi ritornano con un nuovo disco: Angeli, Dannati e Anime Sospese. Secondo album per il gruppo etno-rock ragusano. Album autoprodotto e registrato presso lo Zuleima studio (di loro proprietà). In copertina troviamo un particolare del dipinto Quattro visioni dell’Aldilà, l’ascesa all’empireo, di Hieronymus Bosch. Il disco è un concept album, che come il noto poema dantesco è un viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba. Composto da nove brani, tre per ogni regno. L’album si apre con un tuono. Nel primo brano Le Bugie del Diavolo ci troviamo dinnanzi al re degli inferi, al diavolo in persona. Shaytan si rivolge ad una donna a cui vuol donare il suo amore. Pur essendo un re è povero e in cerca di tenerezza e quiete in una donna. Il primo trittico è cupo, elettrico, con una preminenza di chitarre blues, slide ed echi psichedelici. C’è tutta la sofferenza dei dannati. Usciti dall’Inferno, ci si inoltra tra le anime sospese del Purgatorio. Dal nero si passa al grigio. Anime non intrappolate per l’ eternità e che anelano alla salvezza. In Fuga a Katmandou si è immersi nelle brutture del mondo ipocrita occidentale con le
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sue crisi economiche e lo sfruttamento. C’è un forte desiderio di viaggiare verso l’altrove, andare a Katmandou appunto. Terre incontaminate, silenzi, serenità. In Cassandra, il mito della profetessa non creduta, vibra l’ orrore della guerra. Permane quel desiderio di andare via, di lasciaCaruana Mundi l
re queste terre (“Lascia sia la sorte o il mare a portarmi via”). Abu Nawas ci conduce in Paradiso. Dal grigio si passa al bianco. Suoni più leggeri, chitarre in levare tipiche del reggae. Il tema, che percorre l’ intero album, è l’amore. L’amore come ragione per imbarcarsi. L’amore come meta ultima. “L’amor che muove il sole e le altre stelle”. In Ya Aziza, una ballata lenta e malinconica, si incontra Beatrice e l’amore viene cantato in tutta la sua purezza. Nelle ultime strofe si ode la voce della donna amata; i due amanti dialogano. Le voci negli ultimi versi si intrecciano. Come in un film romantico d’altri tempi, l’album si conclude con una lenta dissolvenza in chiusura. Dopo aver ascoltato l’album, emergono nella mia mente le parole di Ruysbroeck: Il vino migliore e il più squisito, è anche il più inebriante [...] di cui, senza berlo, l’anima annichilita è inebriata, anima libera ed ebbra! dimentica, dimenticata, ebbra di ciò che non beve e che mai berrà! Gaetano Giudice https://www.youtube.com/watch?v=0 Qo_JSKr_RE
di, il primo album che combatte il tartaro. (E anche un po’ il vinile). Non fa una piega! Effettivamente il non-cantautore romano d’origine calabrese Simone Vacatello in arte SiVa nel suo album d’esordio ci porta all’interno di un mondo pieno di voci, di punti di vista, contornato da ironia mista ad un forte sarcasmo e spirito critico per raccontare una società - italiana, ma non solo alla ricerca di se stessa, ormai disillusa, che si sta finalmente ponendo le vere domande e pone le giuste obiezioni necessarie per guardarsi nello specchio dell’avvenire. È sotto questa lente che l’incedere dei brani coinvolge l’ascoltatore, rapito ora dalle varie sceltemusicali - si passa dal new ave funky anni ’90 a citazioni canore di artisti appena scomparsi (una fra tutte Lucio Dalla), dal jazz stile Renzo Arbore al rock e alla Marsigliese. Il genio di SiVa esonda gli argini del pentagramma dimostrandosi un eccellenze alchimista della parola quando, estrapolando dal quotidiano frasi apparentemente nonsense, riesce ad esprimere verità assolute: L’Italia senza futuro è uguale a un futuro senza di Dio. […] Finalmente una buona notizia, addentrandosi in un Paese abituato da troppe decadi a sopportare ogni sopruso, a non confrontarsi e a pensare che tutto sia scevro, privo di stimoli, basta che alla fine seguirà dj set. Nell’epoca in cui viviamo, ormai dominata dai social network e dalla digitalizzazione più becera di ogni ambito della bio-quotidianità, è sempre più difficile riuscire a pervenire alle fonti dell’autenticità, a obiettive autorità morali, se “Socrate o forse Cucciolotta86”. La prima da solista di SiVa è ottima, poiché è patetica, nel vero significato della parola - piena di pathos. Riesce a far ridere, a far riflettere, a far arrabbiare, sollevando le innumerevoli contrapposizioni che nell’Italia di oggi convivono, e, persino, a far commuovere senza scivolare nella solita canzonetta (non ce ne vorrà Edoardo Bennato). Nicola Pela https://www.youtube.com/watch?v=T TsPuhsKGzQ SiVa, contenuti CD l
SIVA Argomenti che non vi Interessano, Scritti con i Piedi La musica alternativa fa più cd di quanti ne venda. Test clinici dimostrano che più del 75% degli artisti alternativi, i dischi, se li danno sulle gengive. Per questo abbiamo inciso degli spazzolini. Argomenti che non vi interessano, scritti con i pie-
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Rubrica a cura di Clap Bands Magazine
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di Rocco Giudice Per alcune settimane, dal 14 dicembre 2013 al 2 febbraio 2014, si è svolto, promosso dal gruppo RinnovAci, con in testa le responsabili del sodalizio, gli ingegneri Elisa Pagano e Rossella Ciliberti, e in collaborazione con Newl’ink, “AciREwrite - Intrecci Culturali/Connessioni urbane”, articolato in una serie di incontri, di dibattiti e di manifestazioni artistiche sul tema del recupero e del riuso dei centri urbani. Riferimento privilegiato, Acireale; ma il contributo di architetti, ingegneri, sociologi verteva anche su esperienze dai relatori conseguite altrove, nelle realtà più disparate e all’avanguardia delle trasformazioni che investono la definizione stessa di città, fra non-luoghi e ‘rete urbana.’ Una riscrittura/rilettura ideale di luoghi, di tempi, di connessioni e variabili dell’esperienza come ‘funzione di memoria’ di un ‘elaboratore collettivo’ delle vicissitudini legate a spazi che non trovano uno status negli attuali contesti urbani. Cuore della manifestazione, il Collegio Santonoceto, gloriosa istituzione della Acireale che fu. Fra incontri, seminari, attività laboratoriali, eventi e happening, nel Santonoceto ha avuto luogo, dal 18 gennaio al 2 febbraio 2014, la rassegna “Rig/Right-Down”, a cura di Newl’ink e per essa, del suo editore e art director, Luca Scandura. Come è avvenuto in precedenza con altre mostre organizzate da Newl’ink, ‘Rig/Right-Down’ ha costituito la proiezione tridimensionale della Pregiata Nostra, espressione/espansione della rivista in uno spazio re-impaginato e in questo caso, innestato alle pagine - stropicciate, strappate, scarabocchiate - dei muri, nella prosa di un vissuto impresso nelle tracce come nelle cancellature dei passaggi d’epoca e destinazioni d’uso del Collegio Santonoceto.
AREA Uno spazio mobile in un tempo immobile, un percorso espositivo
ampio e variegato, sviluppato all’interno degli spazi del primo piano dell’ex Collegio e diviso in quattro sezioni/aree cui si accedeva dalla prima L’aula del tempo , anticamera di decompressione da attitudini reminiscenti riservata al disegno di Alfredo Oriti, vincitore del Concorso indetto fra gli alunni del Liceo Artistico: suggestione metafisica ma più alla Tadeusz Kantor che alla De Chirico -, che fissa il tempo di un’attesa che smentisce la discesa di un sipario sulla scena spoglia cui fa da introibo e in cui è collocato il disegno.
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AREA A seguire: The moment is Ripe (AREA 2N’) l’intervento di Ales-
sio Raciti (installazione a cura di Newl’ink) allineava vegetali e saponette dalla superficie incisa secondo una tecnica appresa in Thailandia (FIG. 9): e in effetti, il risultato richiama le maschere del teatro tradizionale Khon, con mostri e divinità dalle fattezze sacralmente deformi, devotamente grottesche, stravolte in smorfie minacciose, furenti, beate, ma tutte ugualmente estatiche. Le docili superfici dei supporti acquistano una valenza latamente fisiognomica, mimetizzata ai paesaggi rigurgitanti delle selve, reali o oniriche, da cui affiorano, nel segno di una decorazione, però, suturata ai tempi del decadimento organico, fiori che irradiano in delicati congegni araldici, intricati orifizi modellati da una letale strategia di lotta per la sopravvivenza, inermi alla tabe che le intacca con muffe bellicose, spore invulnerabili e enzimi super-eroici verdeggianti e micidiali; percorsi alternativi di qualche labirintica diramazione evolutiva che si sfrangia in orbite ipnotiche, opulente costellazioni squamose declinate in eleganti e mortali intarsi e nei geroglifici di una lingua naturale perduta, in minute calligrafie sedimentarie che si dispiegano in cabale da Libro delle Mutazioni biomorfe. L’opera del tempo si intreccia all’esito d’arte come se questa ne fosse un frutto, perciò, soggetto alla stessa caducità. Nel sovrapporre e intrecciare quei segni ai propri, il tempo sembra rivelarci sulla bellezza qualcosa che essa non potrebbe dirci, ma che la pone su un piano che ne sfida le leggi - la bellezza ci sarà sempre: con noi o contro di noi, sembrerebbe.
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AREA Questo dinamismo morfologico di una trasformazione sempre in
atto si ritrovava nella scansione in Otto tragitti, due transiti e una traiettoria: itinerari che si dipanavano senza che l’excursus fosse leggibile come progressione o circolarità, perché la duplice funzione dello spazio - che accoglieva le opere e nello stesso tempo, era ri-scritto/rivissuto in proprio da esse - poneva ogni lavoro oltre il perimetro in cui era inserito; e reciprocamente, i locali che accoglievano i lavori davano una dimensione fisica al tempo, l’immagine spaziale di esso come luogo inesplorabile e senza ritorno (FIG. 1/8 - 10/14). A questo effetto di straniamento con-
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tribuiva l’uso sapiente delle ‘luci di scena’: poche, aggettanti a picco sulle opere e utilizzate non come elemento decorativo e in funzione sussidiaria, ma agendo come strumenti di lavoro e possibili indicazioni di lettura; o disperse in ambienti che le smorzavano in maniera apparentemente ‘naturale’, con un effetto twilight zone. La disposizione di esse animava i vuoti, volta a volta, come presenze fra le altre, in una penombra carica di spessore o priva di profondità. Il tempo non come successione, ma come vibrazione luminosa, come ritmo, cioè, misura di ‘un tempo nel tempo’: vale a dire, il ritmo come forma del tempo che ne fa una qualità dell’anima o una risorsa morale, non lo stillicidio che consuma tutto senza in sé mutare. La collocazione delle opere, la disposizione delle luci e l’usura, le superfetazioni esistenti erano ‘artifici di scena’ che sembravano ‘coetanei’, secondo una ‘archeologia della memoria’ in cui l’interazione fra i luoghi e i segni finiva per tracciare una topografia delineata da itinerari di sconfinamento dalle rotte prescritte. Lo start è dato da Salvo Ligama che con Kat@tonic (tecnica mista su cartone, 2014)(FIG. 1) ha ‘foderato’ una porzione della parete della stanza in cui il dipinto è collocato, altrimenti scrostata e percorsa da scritte e macchie di umido, incastonandovi, come i pixel di un monoscopio, piastrelle/tasselli di mosaico dalle sfumature cangianti, tutte tendenti all’azzurro, all’acquamarina, scaglie di una fluttuante evocazione luminosa delle maree di una piscina, verticale mare in miniatura per un miraggio optical. A emergere da questo fondale, in cui sembrano perdersi i contorni fra la figura e lo sfondo che lo delimita, è una fontanella o lavello o forse, una fonte lustrale, fusi in un visione schermata da un vetro zigrinato. Ma più che visione del profondo, il delirio autistico del titolo ammicca a illusioni più di superficie, con la chiocciola internettiana che occhieggia nel titolo: imprimatur che costella l’universo della comunicazione, super-logo(s) delle esaurite o ridotte funzioni della memoria organica. Segue Every picture tells a story (t.m. su tavola, 2013) (FIG. 2): polittico in cui Antonio Recca scandisce una storia nei diversi capitoli/pannelli, ognuno dei quali ne racconta una versione o una parte, che non è mai la propria, ma quella delle vicissitudini in cui riverbera l’auste ra e insieme, materica, corposa sostanza cromatica dei suoi dipinti. Una pittura definita per vicinanza e consonanza alla materia della visione, in cui assume consistenza ogni elemento del paesaggio, la solidità della roccia come la profondità dell’aria, la durezza dell’ombra e lo spessore che la luce acquista da ciò su cui si libra o che sfiora, su cui si posa o s’abbatte. In Every picture tells a story, la ‘storia’ di un paesaggio è narrata, anzi, è contenuta interamente nelle connotazioni sottratte a univoche determinazioni psichiche, a suggestioni emozionali sottostanti o sovraimpresse. Non vi è riconosciuta alcuna priorità che derivi regole e metodo dal soggetto, che la pittura di Recca trova con la libertà indispensabile al suo talento, cioè, in uno con la visione, con l’economia della visione e del gesto che l’afferma. Il cortile del Santonoceto (olio su tela, 2014) (FIG. 3), è ripreso da una visuale frontale da Alessandro Finocchiaro, sempre così immedesimato nei termini dell’immagine e nel corpo delle cose, dissolte o fuse all’atmosfera, alla luce o al gesto e all’attitudine dello sguardo che vi si riconosce. Finocchiaro è attento a cogliere e a dare profondità a soggetti visti da prospettive fuori dallo spazio in cui immaginarle.
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Qui, il portone d’ingresso è incorniciato dal fusto di due piante che l’aureolano di verde, con le foglie che - inframmezzando il ritmo geometrico con linee meno prevedibili, che non si chiudono se non per rimarcare quegli schemi - colmano, aggirandola, la discontinuità fra gli archi a tutto sesto della facciata e il quadrato del portone, replicato nei pannelli delle vetrate. La prospettiva sembra ‘prendere le distanze’ da ogni connotazione lirica: il ricordo sbiadisce, come le piante avvizziranno, laddove queste rinverdiranno ancora: l’immagine, quindi, non potendo recare alcuna testimonianza, va letta come una profezia: e da questo punto di vista, invece che avvicinarci al luogo, l’immagine - il ricordo - ce ne separa. Per Giuseppe Tomasello, l’immagine non è definita in relazione a un dato, reale o immaginario, cui vincolare il gesto che lo renderà visibile, ma è attraverso di esso che, fra figurazione e astrazione, ci è offerta, insieme, la cosa e il simbolo, così che la dimensione onirica e l’essenzialità inderogabile del segno hanno lo stesso diritto di parola. Per G. Tomasello, si tratta, in ogni caso, di superare i termini di una chiusura: dopo di che, le cose sono dove non te le aspetteresti - perfino dentro un dipinto. Ne Il primo e l’ultimo dettaglio (tecnica mista su tela, 2014)(FIG. 4), non importa se il cuore batte fuori o dentro la metafora di un luogo amato che racchiude (per escluderli o appropriarsene) i dettagli, perché quel battito è l’orbita che esso circoscrive, la cornice di un’emozione, spazio essa stessa, che non può più esserne separata. Giuseppe Calderone prende a soggetto delle sue opere simboli, grafismi e segni dell’odierno paesaggio della comunicazione. Calderone presentava Passwords Worlds (t.m. su tavola, 2014)(FIG. 5). Se nelle sue opere la bidimensionalità da pop art ricalcata su un display inscena un teatro delle ombre per psicodrammi da videogame, un’antropologia per silhouettes cui regredire in un’amorfa umanità da social network, qui l’opera raffigura mani che (si) proteggono o protraggono, fuggono o respingono la parete, tappezzandola come fosse una caverna preistorica per riemergere in un universo a portata di polpastrelli, da conquistare a tentoni. Le mani sprimacciano i cuscini su cui sono dipinte: vi riposavano, ieri, i sogni dell’umanità in-fans accolta dal Collegio; mentre mimano, oggi, il tam-tam soporifero su cui poggiano le ‘teste bennate’, diceva Montaigne, di un’umanità abbandonata ai dubbi di comodo ovvero soffocata dall’afasia mediatica in cui giace in sonno. Nella pittura di Giulio Catelli, lo spazio fisico condivide la stessa densità di forme e luce che vi sono contenuti, che vi statuisce o sono reperite da un colore, perciò, senza enfasi, fibroso e morbidamente steso. L’orizzonte intero o il singolo albero segnano una distanza tanto quanto sono segnati da essa: come un limite, quindi, non solo esterno, fisico, ma più intrinseco: spazi aperti e interiorità sono misurati dalla stessa profondità. Cortile della scuola (olio su tela, 2014) (FIG. 6), è uno scorcio in cui il luogo è un punto di passaggio fra le fronde in primo piano e l’azzurro sovrastante: non segna un confine, ma una sosta o una svolta fra vicende più prossime e altezze che hanno la stessa profondità, che non vi hanno parte, ma
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rese ugualmente intime dalla continuità di un costrutto visivo senza effetti di contrasto e in cui i contorni portano a un estremo di dicibilità il filo del racconto. Nuccio Squillaci, Per aspera ad astra (acrilico su tavola, 2014)(FIG. 7): tre distinte zone cromatiche orizzontali una sopra l’altra: verde-terra, arancio-sole, il turchese che sfuma in un viola, chissà, vespertino. In verticale, la parabola-girotondo di indumenti, vesti, lingerie, disjecta membra, ectoplasmi che vivono a dispetto della vita e lanciati in un’ascesa che ha nel cuore - per conto suo, cinto di filo spinato - la rampa di lancio o l’ancoraggio a una gravità cui infondere la leggerezza di una costellazione del desiderio o configurazione astrale della memoria che prende il volo e rimane in levitazione attorno ai nessi disarticolati e alle cesure e alle consegne, aleatorie o più conseguenti, dell’esistere. La pittura di Vincenzo Tomasello, nell’aderire a una necessità o nel far sua un’occasione, nel privilegiare lo spunto offerto da un materiale o un meditato enigma cromatico, è come il pensiero che l’ha generata e non esclude nulla: e riporta la digressione o connessione intellettuale che profitta di un assunto emozionale o di un dato sensibile a un motivo che non si lascia fissare prima di produrre il suo effetto. In Flapping Señorita Dreamer (tecnica mista su chiffon, 2014) (FIG. 8), l’“effetto” e insieme, il leit motiv è una sottoveste fluttuante, una crinolina che riporta alle ballerine di Degas; o vi balena un fantasmatico, remoto omaggio a un bal da Moulin de la Galette renoiriano. Sguarnita, scarna e disabitata anch’essa, dunque, la spoglia crisalide schiude il miraggio di una schematica anatomia da torso mutilo. Appena sollevata come per l’accenno di un passo di danza, la vediamo levitare su un piedistallo o ara per un falò della vanità delle vanità, in cui sembra ardere anche il bianco che dà spessore a uno sfondo virato nelle tinte dal giallo al rosso delle campiture per il tempo trascorso a una velocità da effetto Doppler. Il passaggio successivo, per attenersi al programma contenuto nel titolo della mostra piuttosto che alla dislocazione di essa nella topografia del Santonoceto, consta di “Due transiti”, quello di Paolo Guerrera e Giacomo Rizzo: paralleli, ancorché posti agli antipodi del percorso introduttivo ai momenti ulteriori di questa sezione/area della mostra. Le creature di Paolo Guarrera sono sempre riconoscibili per un qualche dato o atteggiamento che, rivelandole senza passare dalla consapevolezza di sé (ciò che spiega come vecchi e bambini ricorrano così spesso nell’opera di Guarrera), non necessita, pertanto, di spiegazioni o testimoni: e questo basta a renderne familiari anche le apparenze (insospettabilmente) leggendarie o fantastiche, con le spoglie da cui deve sgrossarsi la carne che non ha ancora finito di rapprendersi nel gesso. Così è per Leon (gesso patinato, 2001) (FIG.12) ideale monumento ai bambini perduti di James Matthew Barrie o cupido che, secolarizzato, è sceso dall’empireo di un loggione o cantoria popolata senza risparmio da Serpotta. Nel contesto di un luogo derelitto, si potrebbe dire, orfano esso stesso, Leon ha una formidabile forza di persuasione nel gesto del braccio proteso: troppo ingenuo per formalizzarsi e sapere a chi e come chiedere permesso, Leon scosta una coltre di tenebre per vedere la luce, intanto che l’adesca il suo candore; e con il gesto magico con cui apre lo spazio al quale, così, dà consistenza, più che misurare la distanza da noi perché essa rientri docilmente nel suo raggio d’azione, a portata di braccia, ci accoglie in quello da cui è sbucato - e che, nel caso, si rivela uno dei punti d’accesso alla mostra. Nelle sculture e installazioni di Giacomo Rizzo, gli individui o anche solo i loro spezzoni - non necessariamente i più nobili - sono i testimonial involontari della società come spettacolo multi-mediale cui nessuno può sottrarsi. Rizzo non deve aspettare al varco i suoi personaggi, in una sorta di candid camera che ne fissi attitudini quotidiane, rituali consumistici, atteggiamenti in cui c’è qualcosa in più di quello che l’immagine dichiara e che non sta ai patti. Qui, in Questa Passione (gesso, 2012) (FIG.13) si contrae a un massimo di intensità visionaria, non che essere attivata nelle sue prerogative simboliche, in una specie di cuore rivelatore alla E. A. Poe: il corpo dell’edificio, anch’esso attraversato da dinamiche del profondo e i corpi che esso ha accolto condividono lo stesso destino di maceria: nello scarto organico fossilizzato o reliquia espiantata/referto di chi ce lo mette o lo ha lasciato in ostensione dopo che le pareti non possono custodire la passione segreta che le ha corrose. La ‘traiettoria’, infine, è quella che Davide Scandura inscrive nel vuoto di una privacy senza scampo, che passa attraverso le immagini di Ciclo Re-visione (fotografia digitale, 2013) (FIG.14): le foto di servizi igienici fuori uso sospese all’interno di bagni fuori uso, che ribaltano il concetto o spostano i termini di ri-ciclo e visione in un degrado senza riscatto, qui, affrontato nel suo ‘momento della verità’, cioè, alla fine del ‘ciclo biologico’ che vale, nel caso, per una struttura che trovò la sua consacrazione museale nella versione duchampiana. La realtà come un frammento o uno specchio dell’immagine che la rammemora, che la cita come precedente autorevole o desublimante o controparte chiamata in causa; quasi il ‘negativo’ o il ‘doppio cieco’ di due metà o parti contigue che non si incontreranno mai per saldare i conti con se stesse, innanzi tutto. La foto come residuo diurno di una realtà che resiste o sfugge, per ‘virtù’ o ‘incapacità’ propria, a ogni salvifica intenzione progettuale - tanto più in una riproduzione che la ‘immortali’ e proprio per questo, lontana anche solo dall’apparenza cui aderisce.
AREA Infine, Calusca (Luca Scandura) - regista anche dell’intera operazione
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‘Rig/Right-Down’ - articolava nelle sue Calusca’s rooms: five histories, cinque stanze (e un ‘passage’/corridoio), altrettante storie - un’autobiografia delle pareti, un autoritratto ‘a memoria’ del tempo in corso d’opera: e l’opera in fieri era quella allestita dall’artista, che ritornava su alcuni topoi, luoghi
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tematici del suo lavoro, rielaborando o ricontestualizzando opere precedentemente realizzate, con cui opere realizzate ad hoc sono chiamate a interloquire. Calusca non è nuovo alla pittura installativa, in cui, come in queste stanze, si entra e si esce dal quadro e dalla realtà senza sospettarlo, con la complicità di luci, mobili e suppellettili. Qui, le opere instaurano, secondo l’intento generale dell’operazione Rewrite, un ‘dialogo maieutico’ alla pari con la fisionomia di spazi e cose e con le macerie, come per rinvenirvi una sorta di mantica per interpretare i sogni che scaturiscono dai linguaggi, cioè, dalle cose che possono dirci/darci i residui del passato: un luogo che non c’è (quasi) più, come un’unica e sotto qualche aspetto, abitabile grande natura morta su scala 1:1, diventa la proiezione di una metafisica incerta che è della dimensione cronologica, prima che spaziale. Del resto, il tempo costituisce un ‘elemento naturale’ della pittura di Calusca, in cui corpo e spazio coesistono indissolubilmente nella ‘dialettica negativa’ di presenza - a volte, infatti, duplicata nelle figure - e assenza - che intacca e tarla una fisionomia -, nelle dissolvenze incrociate fra l’una e l’altra, fra apparizione e sparizione (n.d.e; intervisa all’artista alle pagine 12/14). ROOM 1: Dato di fatto, è posta sotto l’indice di una Real Life: vita reale, ma sfaccettata, in V112 - Apocalypse in bed/box room with sacred curtain in fly, (t.m. su lastra metallica, 2013) (FIG. A PAG.12), dove uno degli ambienti chiusi ritratti da Calusca viene mostrato dopo l’irruzione di un vento che, smuovendo una tenda, svela una stanza lacerata e sfrondata. Sotto la finestra giace un letto o scatola, di cui rimane la cava struttura geometrica, bianca anima di una teca sepolcrale, dismessa la funzione originaria. Questo giaciglio che non offre riposo e il parquet dalle assi, che scandiscono la distanza fra sfondo e superficie, sembrano le uniche parti sopravvissute e ancora intatte all’urto che scardina le rette delle assi nelle pieghe, quasi altrettanto rigide, incise sulla tenda color porpora, che vediamo sgorgare dallo spazio aperto retrostante. Così è per la serie Dato di fatto (t.m. su formica, 2014) (FIG. A PAG.14): lo specchio riflette i detriti, i frammenti sottovetro, raccolti in piccole ante lignee di formica bianca (dismesse, abbandonate sul posto e riscattate dall’artista), su cui sono dipinti scorci d’angolo elusivi e panoramiche ‘a perdita d’occhio’ su dettagli minimi, diaspore visive a corto raggio, stacchi su avamposti o retroscena di una presenza inseguita di passaggio in passaggio. ROOM 2: Incontro play. (First Time) era ospitata in una stanza/aula dove i bambini, a suo tempo, trovavano uno spazio per i loro giochi, decorata con murales di figure da cartoon. Vi si trovava Il gioco dell’incontro (t.m. su tavola, 2013) (FIG. A PAG.12), con raffigurate due altalene, una, su sfondo verde a l’altra, su sfondo bianco, che si incastrano, tanto che sono disposte sulle due metà di una cornice sagomata, stemmi gentilizi di un tempo ‘grande’ finito (First Time) che impatta nel tempo dell’eterno ritorno del gioco. L’immagine delle altalene richiama, nella struttura speculare e nella complementarità, i due bracci di una bilancia: per un bilancio sempre precario, sempre in bilico, in cui l’imponderabilità fa da contrappeso alla forza. Il piccolo dittico fa da pendant allo scivolo collocato nel cortile del Santonoceto e scelto da Calusca come indice generale e chiave di lettura dell’intero progetto AciREwrite - metafora non solo ludica di una traslazione di senso e di tempi che si intersecano senza incontrarsi, senza appartenere o ancor prima di appartenere alla memoria, che ne è suggestionata e assolta. ROOM 3: Sogno / puff. (Other Time), consta di V112 - Before the whiff (installazione, materiali vari, 2014) (FIG. A PAG.13), una ripresa tematica e figurativa a specchio con V112 - Apocalypse…, della Room 1. Il dipinto (succitato), con effetto tridimensionale, deborda nell’ambiente espositivo, tableau ‘vivant’ o mise-en-abîme dislocata e rovesciata, in cui un quadro si replica da una stanza all’altra - e la seconda stanza ‘travasa’ da quella raffigurata dal dipinto, rispecchiandola e con ciò, spostando i confini fra realtà e artificio: se non è questa, poi, a fare da modello a quella dipinta -, per uscire dalla cornice e fare della tela, della carta da parati e dell’aria aperta, su cui la finestra del dipinto si apre, un identico tessuto, una veste - inconsutile, quand’anche lacerata; un’apparenza, per quanto ingannevole - del tempo. Solo che il tempo sembra scorrere a ritroso: infatti, quel che nella real life abbiamo visto sconvolto e nel disordine, è, qui, in other time, nel momento precedente, ricomposto e più vero di quanto lo fosse dopo, trovando vita propria in questa recita a soggetto dell’opera che, adesso, è, per così dire, trascritta in bella copia. ROOM 4: Gioco Vano / Project. (Time Work), riassembla lavori precedenti e utilizza il procedimento di “riassemblaggio” con procedimento metalinguistico perfino nei titoli, se pensiamo a Giocovano (assemblaggio, materiali vari, 2014) (FIG.15, in primo piano): ‘puzzle’, una specie di scatola magica in cui tavole con dipinti angoli d’interni, particolari architettonici, ‘pezzi d’anatomia’ domestica, ovvero un progetto e impegno di vita (time work) non realizzato o mai del tutto configurato subisce una scomposizione e ricomposizione che si presta alla manipolazione di quei dati fermi allo stadio elementare. Il lavoro richiesto si trasforma nell’occasione di un gioco per ragazzi - come il progetto ‘serio’ era nato, forse. Ecco perché CicloVano (t.m. su carta, 1998; n. 24 + 3 pz.) (FIG.15, in fondo) riprende il tema del tempo ‘ciclico’ intorno allo stesso centro ispiratore del lavoro e del gioco: il puzzle, adesso, si svolge in verticale, diventa esso stesso una costruzione come, invece, quella dispersa nei singoli tasselli non riesce a compattarsi; mentre essi, disposti in forma di piramide, delineano quella che, non prevista, ne scompagina e smembra l’immagine che dovevano ricomporre. L’itinerario prosegue attraverso il PASSAGE: Sonno / Pause. (Time Out), dove incontriamo: Studio di figura (inchiostro, 2009); Studio di figura: sonno 1 (inchiostro, 2012); V 53 - Vana in carne (t.m. su tavola, 2007). Nei primi due, i canovacci di una ‘pittura in sonno’: il segno scorre senza lasciare zone d’ombra, solo margini ispessiti da un indugio più dell’occhio che divisa la forma, che per necessità di individuazione del soggetto. V 53 - Vana in carne dice di un tempo vano quanto lo spazio della porta cui è allineata, incastonata la carne, un sesso femminile in primo
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piano, in oblazione o oblio dei sensi, in cui l’Eros sublimato o degradato è parte di un meccanismo di accesso a spazi insonni, a derive oniriche, a interdizioni e ossessioni in cui riconosciamo la ‘filosofia della composizione’ di Calusca, l’analogia fra spazio e corpo, con la libidica o dolente espressività del primo nelle cose, nella sua struttura, in rapporti e dimensioni; e nel conflitto all’ultimo sangue fra carne e Eros. Room 5: Corpo / Love. (Second Time) : in una stanza dove sono disposti armadi e scaffali ricoperti di scritte e fogli con una poesiola satirica lasciata dagli studenti in anni, ormai, lontani, troviamo tre opere (FIG. A PAG.14): la prima, V11 - Sleep’s Wall o il Grande sogno (t.m. su tavola, 2002), è un quadro in tre momenti o tempi, secondo uno schema che sembra quello dell’arte arcaica del dio affiancato da due paredre. Qui, una poltrona/scranno dalle frange ghignanti, ai cui lati sono due letti con nudità femminili distese: una, di fronte e l’altra, di fianco. La tinta dell’ambiente e delle figure è identica: un tessuto carnale che assopisce ogni sussulto dei sensi, per cui ha più energia la poltrona dallo schienale alto. In V 29 - L’arco di Sudek, falso (t.m. su tavola, 2004) Calusca dialoga con una foto del grande fotografo Josef Sudek, l’immagine di un arco in una città araba: atmosfera meno esotica che metafisica, nel trasporre l’immagine fotografica, forse, ne rivela la vocazione intimamente pittorica, mutando un arco moresco in arco a tutto sesto, come un varco che la luce si apre a forza nello spazio. Sole in una stanza vuota – Buongiorno signor Hopper (t.m. su tavola, 2002): l’allusione/omaggio del titolo, oltre che all’artista americano, è, forse, a Morning Sun, fra le opere più celebri di Hopper: immagine di un addio o abbandono che nessuna luce potrà né sanare né raccordare a un prima o a un dopo. Calusca anatomizza facce, interni, elementi d’arredo, vani/stanze vuote, pareti denudate, pavimenti corazzati o sepolti dal parquet; scale, piante d’appartamento, visuali che acquistano datità oggettuale, valore materiale perché ‘segnano’ indelebilmente il visibile: e atmosfere, come fossero corpi sezionati per verificarne la ‘tenuta visiva’ di flagranza pittorica spinta allo spasimo; corpi sfitti dalla vita e degrado di luoghi e cose nella loro disponibilità a esprimere l’umano nei segni che lo denotano, che lo adombrano mimeticamente - l’assenza più della presenza. Il significato delle cose è altrove, la presenza di esse è sempre in debito con ciò che dovrebbe darne conto: e quando la distanza fra qui e l’altrove diventa colore, forma, ritmo che connette in una totalità gli elementi che la costituiscono, l’arte ha risolto quella presenza, allusa, dislocata, rimossa, nella propria presenza: corpo love, appunto, amato, perché segno e significato, qui e altrove coincidono, sintesi di quella totalità che ci è mostrata. Quest’ultimo itinerario in cinque stanze/stazioni, quindi, chiude una parabola, quella di un luogo dal suo sorgere al suo diventare schermo di proiezione per una riscrittura che lo riconfigura come - disastrata, disarticolata - mappa (si vorrebbe dire: dell’Essere destrutturato) geologica del tempo: oltre che esempio concreto di un lungimirante “riuso.” Il libro/catalogo è edito da Newl’ink, collana “L’Utility”.
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a cura della Redazione
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dal 6 all’ 8 giugno 2014 Da Silvia Avallone a Marco Travaglio e Giancarlo De Cataldo, da Alessia Gazzola a Domenico De Masi e Corrado Formigli fino al premio Oscar Nicola Piovani in arrivo a “A tutto volume”, richiamo imperdibile per gli appassionati di tutta Italia.
Il fascino di autori unici insieme a quello di una città incomparabile. Da venerdì 6 a domenica 8 giugno Ragusa accoglie i maggiori protagonisti del mondo letterario: da Silvia Avallone a Marco Travaglio e Giancarlo De Cataldo, da Alessia Gazzola a Domenico De Masi e Corrado Formigli fino al premio Oscar Nicola Piovani al debutto con il libro frutto dei suoi ricordi. Un programma ricco, che spazia dalla narrativa alla saggistica, in grado di richiamare gli appassionati di tutta Italia. Nella magia di Ragusa, tra i tesori del barocco, tre giorni densi di incontri che consentono al pubblico di vivere e confrontarsi con gli scrittori. I testi scelti offrono un’opportunità particolare di guardare
dentro i sentimenti e le idee delle persone. Grazie ai libri, Ragusa diventa il luogo privilegiato dell’approfondimento e con il suo festival letterario, giunto alla quinta edizione, invita a immergersi nell’incantata cornice della capitale del barocco alla scoperta degli angoli più suggestivi del sito patrimonio mondiale dell’Unesco. Nel programma di A tutto volume messo a punto da Roberto Ippolito figurano per la narrativa, oltre Avallone e Gazzola, Carlo Bonini (coautore di De Cataldo), Pietrangelo Buttafuoco, Luciana Castellina, Alicia Gimènez-Bartlett, Chiara Valerio e Marco Steiner. Di cultura, che vede la presenza di De Masi e Piovani, si parla con Marino Sinibaldi.
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i gioielli della lista del patrimonio mondiale Unesco. Spazi carichi di storia e di suggestione, normalmente estranei alle iniziative culturali o alla presentazione di libri, accanto a luoghi più comuni come vicoli, giardini, bar e ristoranti si aprono per l’occasione agli incontri di “A tutto volume”. La festa ragusana dei libri non può essere persa anche dagli amanti della buona tavola. Il turismo enogastronomico ha di fronte a sé un intero weekend per apprezzare i prodotti del territorio - dal caciocavallo Ragusano DOP al vino Cerasuolo, dalla cioccolata modicana all’olio extravergine d’oliva dei Monti Iblei passando per il pomodoro ciliegino e il miele - e gustare i piatti di raffinati chef. Il connubio perfetto tra approfondimento intellettuale, bellezza e unicità dei sapori. A TUTTO VOLUME LIBRI IN FESTA A RAGUSA V EDIZIONE RAGUSA - RAGUSA IBLA
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zio e Antonio Forcellino; per lo sport Alfio Caruso. Per autori di questo livello e per questo evento orientato alla qualità, Ragusa è il luogo naturale. È possibile apprezzarla, per esempio, già al mattino con le “colazioni con gli autori” nelle quali accanto agli scrittori può sedersi chiunque. Poi via nell’attuale centro storico o a Ibla: lettori, curiosi, visitatori possono scegliere chi e cosa
ascoltare e vedere, lasciandosi rapire contemporaneamente dallo splendore degli squarci barocchi come la maestosa e senza uguali Cattedrale di San Giovanni Battista di Ragusa Superiore o l’incredibile palcoscenico di piazza Duomo, l’elegante Circolo di Conversazione, la chiesa di San Vincenzo Ferreri, Santa Teresa e il prezioso teatro Donnafugata a Ibla dove si ammirano, uno dietro l’altro,
Evento a cura della Fondazione degli Archi Direttore Editoriale Roberto Ippolito INFO
Per informazioni su pacchetti turistici, hotel, b&b e strutture convenzionate contattare il 393.0964902 o consultare la pagina dedicata sul sito www.atuttovolume.org
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Per l’attualità e la saggistica sono in campo, oltre Travaglio e Formigli, nomi come Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Loredana Lipperini, Riccardo Chiaberge e Roberta Corradin. Tutti personaggi di spicco per l’economia che schiera Valerio Castronovo e Innocenzo Cipolletta; per la fotografia Gianni Berengo Gardin; per la cucina Alessandro Borghese; per l’arte Costantino D’Ora-
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Lo strofinaccio è qualcosa che non puoi controllare… Lo giri e tamponi… Questo tamponare fa nascere la natura dell’informe (Rosario Genovese)
A di Andrea Viscuso
ammirare l’arte di Genovese non significa limitarsi alla sua poetica, ma è in qualche modo affascinarsi di noi stessi e della nostra storia. Le stelle e le loro infinite trame disegnate dall’uomo, non possono trovare ristoro nelle semplici parole, esse vanno scoperte, ricercate e trovate; il gusto della ricerca non può ridursi ed affievolirsi in un racconto: Rosario Genovese ci insegna a scoprirle, bisogna alzare lo sguardo al cielo per scoprire l’universo che si cela e si evolve dentro noi stessi. Navigando nello spazio, raccolgo Spica stella parlante. Io folgorato dai suoi brillamenti luccicanti, sogno a occhi aperti. [...] elementi che trascinano la paura scatenano vuoti. Essi si popolano di fantasmi amati. Una nuova realtà altra, è stata attraversata. Fantastiche visioni di esseri surreali, sono nuovi livelli unificati dal pensiero. (Da “Spica” di Rosario Genovese)
h Rosario Genovese Spica | 2008 supporto ligneo, acrilico e matita su tela ROSARIO GENOVESE ALPHA/BETA. CORRISPONDENZE
GALLERIA/MUSEO PERMANENTE LA VITE
28 marzo | 27 aprile 2014 Via Vittorio Emanuele, 102/108 Catania Mostra a cura di Giuseppe Frazzetto INFO
tel. + 39 095.2180261 mobile + 39 329.1831485 www.rosariogenovese.com
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L’uomo ha sempre guardato le stelle; volgendo lo sguardo al cielo abbiamo assistito alla loro nascita, le abbiamo viste crescere ed infine morire; esse ci hanno guidato, confortato ed ispirato; in qualche modo hanno sempre preso parte alla costruzione delle nostre vite: in maniera quasi arcana ci definiscono come esseri delineando la nostra natura, prendono parte alla nostra storia e si iscrivono nei nostri geni. Il complesso rapporto simbiotico tra l’universo e la natura umana si trasfigura nelle stelle di Genovese che non si limitano a raccontare la storia dell’artista, ma ci guidano attraverso l’evoluzione dell’uomo abbracciando ed esplorando il profondo legame del nostro essere con quello dei corpi celesti. L’arte di Rosario Genovese non trova la sua fonte in un profondo sonno della ragione che genera intere costellazioni, bensì nasce da un’accurata indagine scientifica e da uno studio meticoloso dell’astro. L’analisi delle forme, l’intenso rapporto con la matematica che si traspone sulla tela attraverso gli schemi della sequenza di Fibonacci e della sezione aurea danno vita alle sue stelle che diventano espressione naturale di arte e scienza. È il dualismo il padrone della poetica di Genovese, perfetto connubio tra espressione e riflessione, tra forme e colori; così come un parto gemellare, nascono le sue opere che ci raccontano la creazione delle “stelle binarie” a contatto: stelle che condividono lo stesso nucleo, legate dalla stessa anima, destinate a sorreggersi a vicenda grazie ad un intenso scambio di energia ed in certi casi ad assorbirsi. L’intensa affinità che i corpi celesti creano con lo spettatore si instaura sulla loro perfetta incompiutezza: il caos e l’infinita bellezza della natura informe si specchiano nella vita stessa dell’uomo che si finalizza nella continua ricerca di qualcosa. Le stelle di Genovese ci trasportano nelle loro storie, nella loro natura e nel gusto che nasce dalla scoperta. Nascono così le innumerevoli figure che lottano per emergere dal caos: frutti proibiti generati dalla totalità dinamica del corpo celeste che si evolve e matura di fronte i nostri occhi nascono idee, nascono volti, uomini ed infine mostri. L’artista ci guida attraverso i suoi sentimenti con la sua personale chiave di lettura lasciandoci la libertà di trovare altro e di cercare noi stessi. Il complesso percorso artistico di Genovese trova infine la sua compiutezza nella personale poesia scientifica; curata, ricercata e dettagliata, dettata dall’emozione di una nuova creatura è infine traduzione della concordanza tra scienza e arte. L’artista si racconta nelle sue opere, racconta la sua vita, la sua ricerca, la sua scienza, percorrendo la strada che la specie umana nella sua evoluzione ha compiuto insieme alle stelle;
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l’ARCO
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di Paola Pennisi
Per quasi due mesi, grazie all’impegno ed all’entusiasmo di giovani professionisti del gruppo RinnovAci, la città di Acireale ha avuto l’opportunità di rivisitare e riappropriarsi del collegio Santonoceto, uno spazio ricco di storia, la cui antica funzione di educazione e formazione ha contribuito a render celebre la città. All’interno del collegio si sono infatti svolte diverse attività che, ridando vita ad un luogo quasi dimenticato, hanno messo in evidenza il ruolo che strutture di pregio come questo, una volta recuperati ed adibiti a funzioni attuali, possono assumere nella vita cittadina. La risposta della comunità a questa grande occasione e la partecipazione degli addetti ai lavori nelle conferenze di apertura e chiusura della manifestazione AciRewrite, in cui la Fondazione dell’Ordine degli Architetti P.P.C. di Catania ha voluto dare un forte contributo, hanno confermato quanto sia sentita l’esigenza di mettere a fuoco il tema della riqualificazione urbana di cui già da tempo si sta occupando il Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori (CNAPPC) in
stretta sinergia con l’Associazione dei costruttori edili (Ance) e gli ambientalisti di Lega Ambiente. Il progetto di RIUSO, acronimo di Riqualificazione Urbana Sostenibile, costituisce infatti oggi la grande sfida su cui si basa il dibattito su un nuovo modo di costruire, recuperando il grande patrimonio edilizio e monumentale esistente, limitando fino all’azzeramento l’uso del suolo non urbanizzato, e utilizzando nuove tecnologie e sistemi innovativi sia nella realizzazione di nuovi edifici in sostituzione di quelli esistenti nelle periferie sia nel restauro e risanamento conservativo di quelli presenti nei centri storici. Per questi ultimi, su cui si è particolarmente dibattuto nella tavola rotonda di chiusura della manifestazione, occorre innanzitutto dare vita ad un censimento del patrimonio storico monumentale presente nel territorio, un bene spesso in condizioni di degrado e che rischia di andare perduto se non si avviano concrete azioni di recupero e riqualificazione. Riconversione delle nostre città, dunque, basata su un’attenta analisi del-
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l’esistente, della sua rilevanza monumentale, della sicurezza statica e delle condizioni di degrado, oltre che delle esigenze ed aspettative della comunità che le può riutilizzare in modo adeguato ai tempi. Soltanto ripartendo dalla cultura alla base del vivere sociale e del rispetto della storia possiamo riappropriarci dei valori della città e comprendere le cause che hanno comportato la sua nascita e la sua evoluzione. Le nostre città sono oggi caratterizzate dalla stratificazione di diversi momenti storici con la concomitante presenza di stili e linguaggi differenti, che nell’insieme ne costituiscono il valore univoco. Attraverso l’attenta analisi e la riconoscibilità degli edifici storici, il loro recupero, oltre che fisico, sta nel riportarli a una nuova funzionalità, atta a soddisfare le esigenze di una nuova comunità. Con grande coraggio ed onestà intellettuale, così come è avvenuto nel passato, si deve saper anche affrontare la via della demolizione, necessaria nei casi di irrilevanza storico-architettonica o “malessere strutturale”, proponendo ricostruzioni che non rifuggano nella mimesi o opere di rinaturalizzazione e/o rifunzionalizzazione delle aree interessate. Si tratta comunque sempre di interventi che, rifuggendo dalla speculazione, servano a restituire beni alla comunità, recuperandone l’utilità e garantendo la possibilità di una fruizione collettiva. Questa grande opportunità di riuso del patrimonio storico e monumentale, che si attua rigenerando i tessuti urbani con il ricorso a criteri di sostenibilità ambientale e sociale e di uso intelligente delle tecnologie digitali, non può però prescindere dalla partecipazione dei cittadini e da nuove forme di gestione dei beni collettivi. Il recupero dell’ identità urbana e della qualità architettonica, strettamente connessi al benessere sociale, non può essere infatti delegato esclusivamente a tecnici ed amministratori che devono invece sapersi trasformare in vettori attuativi del sentire comune delle esigenze di qualità proposte e volute dalla comunità. IN ALTO A SINISTRA
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Palazzo Valle oggi
(Fotografie fornite da G.Studio)
Rubrica a cura della
Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Paesaggisti, Pianificatori e Conservatori della provincia di Catania
Palazzo Valle: rinascita di un capolavoro
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Come ben sosteneva l’architetto e decoratore Francesco Fichera (Catania, 1881-1950), Palazzo Valle è il più bello tra gli edifici civili progettati dal grande architetto Giovanni Battista Vaccarini (Palermo, 1702-1768). Archetipo dei palazzi signorili catanesi, l’edificio occupa l’intero isolato compreso tra via Vittorio Emanuele, via Landolina, via Valle e via Leonardi, ed è stato progettato intorno alla prima metà dei ‘700 (l’inizio lavori risale al 1741, come riportato nell’architrave d’ingresso). Fu Pietro la Valle, figlio di Vincenzo la Valle Paternò Castello e di una Gravina a commissionare la sua edificazione, che si svolse in tre tempi e si concluse nella seconda metà dell’800. La sua facciata, con le aperture, le decorazioni e i diversi ordini compositivi, esprime in pieno la creatività del Vaccarini: mensole smussate e addolcite agli angoli, campi geometrici riquadrati, un aggraziato balcone nel cui timpano circolare spicca lo scudo della casa Valle-Gravina, la pietra calcarea posta su intonaco scuro, i particolari e le rifiniture, l’imponente portone, permettono al prospetto principale di raggiungere un aspetto di grande eleganza. Oggetto di una serie ininterrotta di atti di successione, iniziata già alla fine del ‘700, durante la quale non sono stati mai attuati interventi di manutenzione, e dopo molteplici destinazioni d’uso, Palazzo Valle è caduto in uno stato di abbandono e di deterioramento tali da diventare inagibile. La rinascita di Palazzo Valle è stata voluta da Alfio Puglisi Cosentino che nel 2001 acquista l’immobile dagli Asmundo Zappalà di Gisira, con l‘intento di riportarlo al suo antico fasto e di assegnarlo a una destinazione di grande valenza culturale: sede della Fondazione Puglisi Cosentino oggi uno dei punti di riferimento nazionale nella promozione dell’arte, in particolare dell’arte contemporanea. Gli interventi di ripristino e riuso, durati dal 2004 al 2008, sono stati progettati e diretti dal gruppo di lavoro “G.Studio - ingg. V. Garozzo e A. Grasso“ di Acireale (CT).
L’ESEMPIO
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l’ARTISTA
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LETTURA Cristiano Ceroni
Nato a Venezia nel 1970. Si dedica al disegno sin dall’infanzia, solo qualche anno più tardi la sua passione lo porta alla pittura quale naturale accrescimento della propria espressione artistica. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1995. I suoi lavori si concentrano principalmente sul concetto di consunzione del mito. Recentemente il suo lavoro affronta tematiche di carattere sociale e politico. Vive e lavora a Mestre (Venezia). Nel corso degli anni ha partecipato a diverse mostre tra le quali: Versi Apocrifi, a cura di NewL’ink), Spazio Naselli, Comiso (RG), 2013; Cattivi Maestri, a cura di G. C. Venuto e F. Dell’Agnese, Ipogeo Perusini, Corno di Rosazzo (UD), 2012; Il bosco d’amore - Omaggio a R. Guttuso, a cura di R. Giudice, Fond. Puglisi Cosentino, Catania, 2011; Taccuini del Mediterraneo, a cura di G.C. Venuto e F. Agostinelli, Gall. Regionale d’Arte Contemporanea L. Spazzapan, Gradisca d’Isonzo (GO); Costellazioni, Galleria Flaviostocco, Castelfranco Veneto (TV); Giovani artisti a confronto, Gall. Flaviostocco, Castelfranco Veneto (TV), 2004; Mostra personale DeFormazioni, scritti di L. M. Barbero e R. Scuttari, Galleria Flaviostocco, Castelfranco Veneto (TV); Tu Rooms, a cura di R. Caldura, Area Carlo Scarpa, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, 1996; 79a Mostra Collettiva Bevilacqua La Masa, Galleria Bevilacqua La Masa, San Marco, Venezia, 1994; Concorso Naz. Rinascente Immaginaria 92 (premiato), tra gli altri in giuria A. B. Oliva, Palazzo Durini, Milano, 1992.
12 13 anno IV
gennaio-aprile 2014
Progetto editoriale, Concept, Direzione creativa Luca Scandura Hanno scritto e collaborato in questo numero
G. Bella, A. Casciaro, G.C. de Feo, R. Digiacomo, O. Fazzina, G. Giudice, R. Giudice, M Guarrera, D. Iaracà, S. Lacasella, S. Montalto, N. Pela, P. Pennisi, M. Romano, D. Scandura, A. Viscuso. Le fotografie alle pagine 26/29 sono di: D. Scandura, F. Tagliavia, S. Panebianco, L.Scandura.
Tiratura 7.000 copie Registrazione
in attesa di registrazione
Direttore Responsabile Gianni Montalto Editore di Luca Scandura via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Redazione redazione@new-link.it via Giuseppe Vitale, 29 95024 - Acireale (CT) Progetto grafico LucascanduraDesigner Stampa Modul Motta S.r.l. Zona Industriale III fase - V.le XVII, 22 97100 - Ragusa È VIETATA LA RIPRODUZIONE ANCHE PARZIALE ALL RIGHT RESERVED
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SPORT
cOVER L.S.+
Le cOPERTINE di questo numero dOPPIO di Newl’ink proseguono il ciclo di cover realizzate dalla nostra redazione attraverso la diretta collaborazione e sinergia con l’operato dell’artista invitato a realizzare l’opera che interpreterà il tema sportivo del bimestre. Il nostro direttore creativo è intervenuto, manipolandole, sulle immagini di altre due opere fornite dallo stesso artista per dare a quest’ultime un’ulteriore significato, rendendole immagini di una nuova libertà che è arte e contenuto oltre che espressione della Nostra attualità.
Alessandra Giovannoni è nata a Roma nel 1954 dove vive e lavora. Principali Mostre Personali: 1986 e 1989: Galleria Al Ferro di Cavallo, Roma; 1992: Galleria De’ Serpenti, Roma; 19941998-2003-2007-2011: Galleria Il Segno, Roma; 1997, Museo Laboratorio, La Sapienza, Roma; 1999: Galerie Heidefeld & Partner, Krefeld (Germania); 2000: D’AC, Ciampino, Roma; 2003: Villa Strohl-Fern, Roma; 2006: Galleria Rubin, Milano; Loggiato S. Bartolomeo, Palermo; Galleria La Piccirella, Firenze; 2007: Palazzo Dei Capitani, Ascoli Piceno; Museo Arte M. e C., Anticoli Corrado (Roma); Museo C. Mastroianni, Marino (Roma); 2011, Museo Bilotti, Roma. Principali Mostre Collettive: 1994-2002-2008-2009-2013: XXXXVI-LIII-LIX-LX-LXIII Ed. Premio Michetti, Francavilla al Mare (CH); 1995 e 2005: XII e XIV Quadriennale d’Arte di Roma; 1999, VII Lavori in Corso, MACRO, Roma; 1998-2000-2006-2010: VIII-IX-XII-XIV Biennale d’Arte Sacra, S. Gabriele (TE); 2006: Pitture, Treviso, Bologna, Catania, Comiso; 1998: XXXI Premio Vasto, Vasto; 1999:
(l’artista di Newl’ink)
Premio Kiwanis, Quinta edizione, Villa S. Giovanni (RC); 2000: Galerie French Rackey, Francoforte, Germania; 2005-2006-2007-2008: per la “Repubblica”. Auditorium e Villa Poniatowsky, Roma; 2005: Il paesaggio italiano contemporaneo, Pal. Ducale, Gubbio (PG); 2007: Quattro Pittrici, Accademia d’Ungheria, Roma; 2007: Biennale Alessandria d’Egitto, Cairo, Egitto; 2010: Un mosaico per Tornareccio, Tornareccio (CH); 2011: 54° Esp. Biennale di Venezia, Padiglione Italia; Il Palazzo della Farnesina e le sue Collezioni: Museo Ara Pacis, Roma; Premio Camera dei Deputati, Montecitorio, Roma; 2012: Oltre la notte, Artisti romani per il Divino Amore, Santuario della Madonna del Divino Amore, Roma. SOPRA, DA SINISTRA, IN SENSO ORARIO
(OPERA REALIZZATA PER LA PAGINA SPORTIVA)
Via salaria con ciclista, 2012, olio su tela cm 65 x 145 (OPERA ScELTA PER LA cOVER N.13)
Canicola, 15 agosto ore 15,00, 2012 olio su tela, cm 70 x 135 (OPERA ScELTA PER LA cOVER N.12)
Scalinata a valla Giulia, 2013, olio su tela, cm 53 x 230
j Cristiano Ceroni Senza titolo 2014, olio su tela, cm 31,5 x 22 (particolare) NELL’ANGOLO A SINISTRA IN ALTO
Pubblicità, marketing, grafica pubblicitaria, ideazione e organizzazione eventi, editoria +39 340 5919260
jhk A. Giovannoni
Il timoniere, 2014, tecnica mista su carta, cm 51 x 35
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