Alessandro Gabbianelli
Spazi residuali La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana
SPAZI RESIDUALI La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana Alessandro Gabbianelli Progetto grafico di Alessandro Gabbianelli Fotografie di Alessandro Gabbianelli Disegni di Giada di Sante Stampa Pixartprinting SpA Via 1° Maggio, 8 – Quarto d’Altino (VE) © GOTOECO Editore Collana Interpretazioni, GOTOECO Editore, Gorizia GOTOECO Editore, via P. Sarcinelli, 87 – 33052 Cervignano del Friuli (UD) www.gotoeco.it – editore@gotoeco.it 1a edizione – copyright 2017 isbn: 978-88-97102-11-3 Proprietà letteraria riservata. I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale e parziale di questa pubblicazione, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, le fotocopie e altro) sono riservati in tutti i Paesi.
SPAZI RESIDUALI La vegetazione nei processi di rigenerazione urbana
Alessandro Gabbianelli
INDICE Ringraziamenti
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Introduzione
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1. GLI SPAZI RESIDUALI
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1.1 Gli spazi residuali nella città contemporanea 1.2 Ipotesi sui processi di formazione degli spazi residuali 1.3 Quale definizione per lo spazio residuale?
2. STRATEGIE DI RIGENERAZIONE 2.1 Marginalità urbane. La vegetazione come elemento di relazione D. Kienast, Progetto paesaggistico per Kronsberg C. Dalnoky, M. Desvigne, Progetto paesaggistico per la fabbrica Thompson
2.2 Aree produttive urbane. Dalla dismissione alla colonizzazione vegetale R. Cecchi, V. Lima, P. Nicolin, P. Traversi, Nove parchi P. Latz + Partners, Parco Dora M. Desvigne, La “Confluence”
2.3 Paesaggi dell'infrastruttura. Connessioni vegetali P. Mathieux, J. Vergely, Promenade Plantée I. Kowarik e A. Langer, Gruppe Odious, Schöneberger Südgelände Park
2.4 Interstizi urbani. Pratiche di giardinaggio Community Gardens a Manhattan Lois Weinberger, Ruderals
3. CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA 3.1 Un atlante degli spazi residuali Bibliografia
53 59 65 69 71 77 81 85 88 93 97 99 107 110 113 119 139
a Francesca
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Ringraziamenti
Lo studio degli spazi residuali è iniziato con l’osservazione del territorio adriatico in sella alla bicicletta, si è formalizzato durante il dottorato di ricerca presso la School of Advanced Studies dell’Università di Camerino ed è proseguito negli anni successivi fino ad ora. Nel corso del tempo le indagini si sono spostate in molteplici direzioni seguendo il dibattito nazionale e internazionale, ancora oggi molto attivo sul tema. Le riflessioni fatte sono state oggetto di articoli, conferenze in alcune università italiane, sperimentazioni nei laboratori di progettazione architettonica e urbana, con lo scopo di effettuare una verifica continua su di un argomento dalle mille sfaccettature e sempre in evoluzione. In questo libro sono raccolte alcune riflessioni per mettere in ordine parte dei pensieri fin qui maturati senza avere alcuna pretesa di offrire risposte, piuttosto con l'ambizione di aprire nuove questioni e stimolare nuovi punti di vista. Gli interlocutori, più o meno estemporanei, che hanno contribuito con riflessioni, pensieri, segnalazioni sono stati tanti. Innanzitutto desidero ringraziare il prof. Luigi Coccia, relatore della tesi, che mi ha guidato in questa ricerca (ne sono seguite molte altre) e mi ha insegnato a osservare i territori e i fenomeni urbani con uno sguardo critico respingendo le letture superficiali. Ringrazio la Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno che mi ha dato la possibilità di approndire questo e molti altri temi; Paola Ricco e Antonio di Campli per il confronto continuo e i suggerimenti preziosi; Giada di Sante per l'elaborazione dei disegni dei progetti illustrati. Un ringraziamento del tutto speciale, che attraversa lo spazio e il tempo, è per Nedra Maaloul.
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Introduzione
“È nel silenzio che si deve scavare per trovare il senso di essere o non essere, oggi, nello spazio bianco tra parola e parola, nella pausa tra due battute musicali. Non è vero che, dove non c’è la cosa, è niente”1. (Massimo Cacciari) L’attenzione per gli spazi residuali parte da una prima considerazione: il suolo è un “bene” limitato. Già dalle prime immagini catturate dalla Luna alla fine degli anni Sessanta, era evidente la finitezza del pianeta Terra e quanto fosse limitata la superficie terrestre a disposizione dell’uomo; in seguito si prese coscienza anche di quanto fossero limitate e ritenute affatto inesauribili le risorse non rinnovabili2. Quando l’edificazione della città si è “distaccata” dal suolo ha perso anche il rapporto con il territorio3, la sua topografia, i suoi valori, ma soprattutto con i limiti fisici che esso imponeva; l’urbanizzazione ha iniziato ad avanzare superando qualsiasi ostacolo, in un rapporto di indifferenza con il suolo. La città diventa metropoli e successivamente megalopoli4 : ma un singolo termine non sembra più sufficiente per definirne le caratteristiche. “Ci sono nel mondo agglomerati urbani che solo per convenzione si continuano a chiamare città. Non c’è più alcunché di veramente urbano in uno spazio che è divorato dall’infrastruttura e comunica un crescente senso di allarme: la vita nella città somiglia a una perpetua battaglia contro il tempo scandita dalle luci violente, che di notte animano le tante città ricavate nella magmatica e indistinta massa edificata”5. I processi di edificazione parcellizzati, diffusi, occasionali, il loro distacco dal contesto funzionale, e nel contempo poetico, si sono trasformati in cieco sbandamento, indiferrenza, atopia, estraniazione. Se da una parte la città cresce inesorabilmente aumentando vertiginosamente la sua densità,
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dall’altra si espande, richiedendo sempre più spazio, in una civiltà del consumo. Si parla ormai di città-diffusa, città-regione, città-nazione, città-territorio, città-infinita, fino ad arrivare all’equazione mondo=città6. L’associazione tra un lemma che metta in relazione il concetto di città con uno che ne esplichi la sua “conquista” territoriale sembra essere inevitabile. L’unica relazione che la città contemporanea instaura con il suolo è quella dello sfruttamento. L’occupazione di suolo appare inarrestabile: in Italia, solo nell’ultimo decennio del duemila, le costruzioni hanno consumato circa duemilioniottocento ettari di suolo, perlopiù sottratti all’agricoltura7. La domanda di alloggi non giustifica assolutamente questo dato poiché il nostro paese sembra essere il primo in Europa per disponibilità di abitazioni, su venti milioni di alloggi, il venti per cento non sono occupati8. Durante questo inarrestabile processo di trasformazione e occupazione del territorio, “la città produce tanti più residui quanto più il suo tessuto è rado. I residui sono scarsi e piccoli nel cuore delle città, vasti e numerosi in periferia”9. Gli spazi residuali sono qui considerati come un elemento imprescindibile dei processi di trasformazione della città. Già da oltre un decennio, alcune pubblicazioni e mostre hanno riportato all’attenzione del dibattito disciplinare il tema degli spazi residuali. Ad esempio Il manifesto del terzo paesaggio (2005) di Gilles Clément, nel quale si rileva la loro importanza come spazi della biodiversità, o lo studio dell’americano Peter Berger, Drosscape (2006)10, che ne delinea l’intrinseco legame con i processi di trasformazione della metropoli. Nel 2006 la Fondazione dell’Ordine degli Architetti della provincia di Torino organizza, all’interno della rassegna “Creare Paesaggi”, il convegno internazionale intitolato “Paesaggi indecisi”, dove ci si interroga riguardo ad alcune strategie d’intervento sugli spazi residuali. Nel 2005 in occasione della mostra Groundswell: Constructing the Contemporary Landscape, tenutasi al Museum of Modern Art di New York, Peter Reed scriveva sulla brochure che accompagnava la mostra: “Quasi tutti i nuovi paesaggi più significativi progettati negli ultimi anni occupano un luogo che è stato reinventato e recuperato dall’obsolescenza e dal degrado: le città dell’era postindustriale ricreano e ridefiniscono i loro spazi aperti”11. Qualche anno prima, nel 1999, la I Biennale Europea del paesaggio si intitolava Remaking Landscape e concentrava la sua attenzione su “quei paesaggi che appaiono rifatti in quegli spazi che, nel recente passato, hanno perso il loro nome […] a metà strada tra ciò che è naturale e ciò che è costruito, tra ciò che è reale e ciò che è immaginato”12. Si arriva poi all'ambizioso progetto triennale (2012-2015) Re-cycle Italy che si interroga sulle questioni dell’abbandono progressivo del costruito nelle città della post-produzione e la nuova di-
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mensione ecologica urbana (recycleitaly.net). É questo lo scenario disciplinare in cui si vuole articolare la ricerca sugli spazi residuali. Partendo dall’osservazione del fenomeno urbano, nella prima parte, gli spazi residuali vengono descritti nelle loro diverse sfaccettature mettendone in evidenza le caratteristiche fisiche e spaziali. La descrizione viene effettuata pensando anche all’opera di fotografi contemporanei che per primi hanno esternato la fascinazione subita da questi spazi, mostrandone l’intrinseca complessità. Una complessità che viene trasposta anche nelle svariate definizioni che cercano di descrivere questi spazi. La varietà di appellativi utilizzati dalla letteratura (terrain vague, spazi in-between, waste land ecc.) mette in evidenza due questioni principali: la molteplicità delle chiavi di lettura che questi luoghi offrono e la relativa difficoltà di creare categorie definitive che permettano di delineare in modo univoco tali spazi. La ricerca analizza le differenti accezioni, mettendone in evidenza le peculiarità, per poi proporre una lettura che considera gli spazi residuali non come luoghi “morti” e inattivi, ma come potenziali risorse, all’interno dei processi della vita contemporanea, capaci di innescare nel territorio urbano nuove modificazioni: spaziali, sociali, economiche, ma soprattutto ambientali. La loro risignificazione e rifunzionalizzazione costituisce una problematica per il progetto dello spazio aperto13. Una strategia possibile, qui analizzata, è l’uso del materiale vegetale come elemento di risposta a tale problematica. “È solo alla fine del secolo che una maggiore attenzione per i problemi ambientali, come le più numerose e dettagliate descrizioni dei territori della porosità e della dispersione, portano ad osservare questi fenomeni con occhi nuovi, a concepire porosità e dispersione anche come occasione per costruire una nuova forma urbana e sociale nella quale per molti versi si rappresenti un nuovo rapporto con la natura e l’alterità del ventesimo secolo rispetto al passato”14. Proprio in questa direzione si muove la ricerca, prendendo coscienza della rinnovata sensibilità riguardo alle questioni ambientali: si ipotizza un nuovo utilizzo degli spazi residuali, che attraverso l’uso della vegetazione come “materiale urbano”15, diventano spazi strutturanti la città, spazi che creano un nuovo equilibrio tra pieni e “vuoti” (vegetali), ma anche spazi che offrono ai cittadini la possibilità di ritrovare una vicinanza con i ritmi della natura, distanti dalla frenesia delle pratiche consumistiche. L’aspetto ambientale non è secondario, Linda Pollak propone la lettura del sistema urbano “come inseparabile da quello vivente e il paesaggio non è considerato come semplice attrezzatura ricreativa o attrazione visiva, ma come parte integrante della città. […] L’uso crescente del paesaggio come agente di rigenerazione urbana non può essere scisso
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dall’aumento della presenza di luoghi difficili nel contesto delle città postindustriali – contesto che comprende processi di degrado così come di crescita. La maggior parte dei siti disponibili a essere trasformati in spazi pubblici contemporanei e futuri è affetta da diversi stadi di degrado: abbandono, sfruttamento ambientale, inquinamento e/o pratiche di desertificazione del terreno”16. Oltre vent’anni fa, la Commissione delle Nazioni Unite per l’Ambiente e lo Sviluppo redigeva il cosiddetto Rapporto Brundtland (1987) che auspicava uno “sviluppo sostenibile”, ossia uno sviluppo che si preoccupasse di rispondere ai bisogni delle generazioni presenti, senza compromettere le opportunità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. Nel 1995, in occasione della conferenza della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), viene sottoscritto, da parte di 160 paesi, il Protocollo di Kyoto. Il trattato internazionale, entrato in vigore nel 2005, prevede l’obbligo da parte dei paesi industrializzati di operare una diminuzione dell’emissione di elementi inquinanti (biossido di carbonio e altri gas serra) attraverso meccanismi flessibili. Questi eventi testimoniano la preoccupazione e la presa di coscienza, a livello planetario, della necessità di conciliare sviluppo economico e risorse ambientali. L’effettiva applicazione da parte dei paesi firmatari del trattato è in continua discussione, ma l’incessante dialogo dei potenti della Terra su tali questioni ha avuto numerosi risvolti trasversali. Questo rinnovato interesse ecologico ha spinto numerose aziende a incrementare gli investimenti verso la ricerca di tecnologie più rispettose del patrimonio ambientale, e tali da costituire un’alternativa agli attuali processi produttivi. Se nuove tecnologie “ecologiche” fanno fatica ad essere applicate su larga scala, la massiccia campagna d’informazione, promossa da numerose associazioni ambientaliste ed enti di ricerca, ha prodotto una significativa sensibilizzazione nella popolazione, che non può più essere ignorata. “Nel crescente interesse di fine secolo delle politiche urbane, degli urbanisti e degli architetti per le questioni ambientali vi è certamente la curiosità per un tema relativamente nuovo, ma vi è forse anche qualcosa di più importante: il tentativo di inserire, tra un tempo sociale sempre più accelerato e il tempo più lento della città fisica, un tempo intermedio, il tempo della natura, degli alberi, delle piogge, delle stagioni, del sole, del vento e delle maree, un tempo cui si dà il compito di costruire un legame tra i ritmi della società e lo spazio abitabile cercando, ancora una volta, di legare il presente ad un futuro più distante”17. L’utilizzo della vegetazione per modificare gli spazi residuali diventa non solo una risposta ai problemi legati all’ambiente, ma riesce a essere anche un modo
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per soddisfare l’ancestrale necessità dell’uomo di stabilire un rapporto diretto con la “natura” e i suoi elementi. La ricerca prende come oggetto di studio un campione di progetti che, senza alcuna velleità esaustiva riguardo l’uso del “verde”, mostrano delle possibili strategie d’intervento nella reinterpretazione e nella trasformazione degli spazi residuali. “I maggiori progetti paesaggistici degli anni recenti si sono confrontati con un tema comune: la trasformazione di ambiti cha avevano sino a pochi anni prima una destinazione diversa. Hanno perciò dovuto immaginare identità del tutto nuove, con la finalità di sottrarre all’abbandono siti che l’accellerato processo di trasformazione del territorio aveva esaurito e marginalizzato. L’era postindustriale pone la questione del riutilizzo di zone produttive obsolete, di tracciati viari e ferroviari scartati, di lacerti di campagna frammisti a zone urbanizzate e, per questo, esclusi dalla coltivazione intensiva”18. Nel prendere in considerazione i casi studio, non ci si occuperà delle differenziazioni riguardo la nomenclatura degli spazi vegetali, poiché non interessa in questo contesto fare distinzioni tra parco, giardino urbano, aiuola. Si vuole mettere in evidenza invece come la vegetazione sia utilizzata come materiale di progetto capace di innescare modificazioni all’interno di tali spazi, che possono avere risonanze più estese nel territorio urbanizzato. Nell’ultimo capitolo, l’indagine sugli spazi residuali viene calata nel contesto della città adriatica. Caratterizzata da una forte complessità, generata dalla commistione di paesaggi eterogenei (agrario, urbano, infrastrutturale) e da un sistema orografico che ne vincola lo sviluppo lungo la fascia costiera, la conurbazione adriatica offre numerosi casi che ci permettono di studiare le relazioni tra gli spazi residuali e le trasformazioni del territorio urbanizzato.
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NOTE 1
Da un’intervista Gian Luca Favaretto a Massimo Cacciari pubblicata sull'inserto «Venerdì» di «Re-
pubblica» del 15 Maggio 2009 in occasione della presentazione del suo libro Hamletica, Adelphi. Nel famoso rapporto Club di Roma I limiti dello sviluppo (1972) erano già contenute previsioni
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allarmanti sul prossimo esaurimento delle risorse non rinnovabili del pianeta. A proposito si veda Musu Ignazio, “L’economia e la natura”, in Cadevo Elio (a cura di), Idea di natura. 13 scienziati a confronto, Marsilio, Venezia, 2008. 3
“Il territorio, letteralmente, non conosce più alcun Nòmos, (poiché Nòmos, Legge, significa all’ori-
gine, appunto, suddivisione-spartizione-articolazione di un territorio o pascolo, ‘nòmos’, determinato). [...] La possibilità stessa di fissare confini alla città appare oggi inconcepibile, o meglio, si è ridotta ad affare puramente tecnico-amministrativo. Chiamiamo città quest’area per ragioni assolutamente occasionali. I suoi confini non sono che un mero artificio. Il territorio post-metropolitano è una geografia di eventi, una messa in pratica di connessioni, che attraversano paesaggi ibridi.” , Cacciari Massimo, “Nomadi in prigione”, in Bonomi Aldo, Abruzzese Alberto (a cura di), La città infinita, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 52. 4
Vedi a proposito Secchi Bernardo, “Città, metropoli, megalopoli”, in Secchi Bernardo, La città del
ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, 2005. 5
Purini Franco, “Dopo la città, il paesaggio”, in Petranzan Margherita, Neri Gianfranco (a cura di),
La città uguale, Il Poligrafo, Padova, 2005. Ci si riferisce al termine usato da Rem Koolhaas nel catalogo Mutations dell’omonima mostra
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tenutasi a Bordeaux nel 2000. Rem Koolhaas dedica questa mostra alle trasformazioni cui sono andati incontro concetti quali: urbano, metropolitano, pubblico, sociale. 7
In un rapporto del WWF si stima che “il suolo vergine, in Italia, si perde al ritmo di 110 chilometri
quadrati all’anno, pari a 30 ettari al giorno, 200 metri quadrati al minuto”, vedi In Italia si “consumano” 200 metri quadri di suolo al minuto, in «Corriere della Sera» del 11 Gennaio 2010. 8
Dati Eurostat.
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Clément Gilles, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2007.
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Il termine Drosscape è stato ripreso come titolo anche dalla rivista «Architettura del Paesaggio»
n. 20, Marzo/Giugno 2009, dove viene esplorato il tema della riconversione paesaggistica degli spazi degradati. 11
Reed Peter, “Beyond Before and After: Designing Contemporary Landscape”, in Reed Peter,
Groundswell. Constructing the Contemporary Landscape, Thames & Hudson, London, 2005, p. 15; catalogo della mostra omonima presso il Museum of Modern Art di New York, 2005; vedi anche Pollak Linda, Il paesaggio per il recupero urbano. Infrastrutture per uno spazio quotidiano che comprenda la natura, in «Lotus», n. 128, 2006. 12
“The theme of this year’s Biennial focuses on those landscapes which appear remade in those
spaces that have lost their names in the recent past. On the brown-fields, the cracks of the imageless periphery, in the forgotten places of the urbanised territory, there are hidden opportunities to improve an environment that we already consider our own; half way between that which is natural and that which is built, between that which is real and that which is imagined. We want to get ready to conquer those future territories”. Con questo testo veniva presentato il tema della prima
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Biennale Europea del Paesaggio a Barcellona. 13
Vedi a proposito Gregotti Vittorio, Gli spazi aperti urbani: fenomenologia di un problema pro-
gettuale, in «Casabella», n. 527, 1986. 14
Secchi Bernardo, La città del ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, 2005, p. 39.
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Paola Viganò scrive: “Con materiali urbani ho sin qui inteso gli elementi che concorrono alla co-
struzione della città e dei quali la città è deposito attivo; attraverso di essi, osservandone mutamenti, permanenze e assenza, è possibile leggere tradizione e innovazione nella progettazione della città e del territorio; intenzioni e pratiche dei differenti soggetti e attori, comportamenti e stili di vita, differenti teorie e progetti di città”, scrive ancora Paola Viganò: “…l’impiego del termine materiale pone come problema aperto quello della relazione tra la parte e il tutto, sottintende la costruzione di un quadro d’insieme i pezzi del quale non sono dati a priori, ma si incontrano, portate da esigenze particolari, sono riconosciuti come utilizzabili, sono oggetto di bricolage”, in Viganò Paola, La città elementare, Skira, Milano, 1999, p. 121 e p. 10. 16
Pollak Linda, Il paesaggio per il recupero urbano. Infrastrutture per uno spazio quotidiano che
comprenda la natura, in «Lotus», n. 128, 2006, p. 33. 17
Secchi Bernardo, La città del ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, 2005, p. 39-40.
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Panzini Franco, Progettare la natura. Architettura del paesaggio e dei giardini dalle origini
all’epoca contemporanea, Zanichelli, Bologna, 2005, p. 334.
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1. SPAZI RESIDUALI
1.1 Gli spazi residuali nella città contemporanea
“Nella vastità del territorio urbanizzato gli spazi liberi mostrano origini e connotazioni diverse, sono aree smarginate che si insinuano tra gli edifici e si dissolvono nella campagna, aree residuali ritagliate casualmente dal limite mutevole dell’edificato, spazi interstiziali compressi tra la residenza e l’infrastruttura o aree della dismissione industriale e agricola: modi diversi di declinare il vuoto, ‘specie di spazi’ non chiaramente definibili, difficili da classificare”1. Ignasi de Solà Morales constata come la fotografia sia un efficace mezzo per descrivere la complessità della città2. I fotomontaggi di Paul Citroen, Man Ray o John Heartfield, che attraverso l’accumulazione e la giustapposizione di grandi oggetti architettonici intendono spiegare l’esperienza della metropoli, creano un immaginario di città. Ma con l’esibizione al MOMA nel 1955 dell’opera di Cartier Bresson, Robert Capa e David Seymour, raccolta nella pubblicazione di Robert Frank The Americans, ha inizio un altro fenomeno che avrà il suo culmine negli anni settanta quando si svilupperà una diversa sensibilità nel guardare le grandi città. Non vi è più la sola esigenza di mostrare/elencare la moltitudine degli oggetti architettonici come unici elementi costituenti la città. L’attenzione si sposta verso quegli spazi vuoti e abbandonati dove una serie di avvenimenti hanno avuto luogo: queste pause spaziali sembrano sottomettere l’occhio del fotografo urbano e divengono il principale soggetto da raccontare non solo come esperienza fisica dello spazio, ma anche come narrazione di uno stato emozionale, mentale, psicologico. Sono molti i fotografi che hanno cercato di carpire l’essenza di questi spazi; John Davies, David Plowden, Thomas Struth, Jannes Linders, Manolo Laguillo e altri ci mostrano come questi luoghi siano interni alla città, ma allo stesso tempo esterni all’uso quotidiano, isole svuotate lasciate fuori dai circuiti pro-
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2. STRATEGIE DI RIGENERAZIONE
“La natura crea forme eternamente nuove; ciò che esiste non è mai stato; ciò che fu non ritorna – tutto è nuovo seppur sempre antico. Viviamo in mezzo a lei, e le siamo stranieri. Essa parla continuamente con noi, e non ci tradisce il suo segreto. Agiamo continuamente su di lei, e non abbiamo su di lei nessun potere. Sembra aver puntato tutto sull’individualità, ma non sa che farsene degli individui. Costruisce sempre e sempre distrugge: la sua fucina è inaccessibile. Vive tutta nei suoi figli; ma la madre dov’è? Unica vera artista, essa va dalla più semplice materia ai contrasti più grandi e, apparentemente senza sforzo, alla perfezione assoluta – alla determinatezza più precisa, eppure delicata. Ognuna delle sue opere ha la propria essenza, ognuna delle sue manifestazioni il concetto più isolato; eppure, formano un Tutto unico. […] C’è in lei una vita eterna, un eterno divenire, un moto perenne; eppure, non fa un passo avanti. Si trasforma di continuo, non conosce un attimo di quiete. Ignora l’immobilità; colpisce di maledizione l’indugiare. […] Anche la cosa più innaturale è natura. Chi non la vede dappertutto, non la riconosce in nessun luogo. […] Non ha linguaggio né discorso, ma crea lingue e cuori attraverso i quali parla e sente. […] A ciascuno appare in una forma diversa. Si nasconde sotto mille nomi e termini, ma è sempre la stessa”1 .(J. W. Goethe) In una sorta di rapporto di continuità, la vegetazione che si fa carico della trasformazione dello spazio residuale ne conserva la natura instabile e in continuo divenire, ma lo modifica in altro, attraverso l’azione progettuale. Il materiale vegetale, termine con cui si intendono genericamente alberi, arbusti, erbacee, è un materiale in continua trasformazione. Esso segue un doppio ciclo di sviluppo: uno è quello vitale, durante il quale assistiamo alla
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3. CASO STUDIO: LA CITTÀ ADRIATICA
Negli ultimi trenta anni gli studi sulla città adriatica si sono succeduti senza sosta. Capofila di numerose ricerche sono state le Università di Architettura di Pescara prima e poi la più giovane Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno. Architetti, urbanisti, sociologi, antropologi hanno dato, secondo le specificità della loro disciplina, una chiave di lettura che ha contribuito a costruire un’idea ampia su questa complessa porzione di territorio italiano. Gli studi hanno seguito le evoluzioni del tempo, le trasformazioni della società, le variazioni dell’economia e le trasformazioni del territorio. Da una parte cercando di interpretare il presente, dall’altra cercando di proiettarsi in un prossimo futuro attraverso risposte progettuali in grado di migliorare le condizioni di vita della cittadinanza e di preservare gli equilibri di un territorio sensibile. Ogni periodo storico ha avuto il suo tema trainante attorno al quale ruotavano ipotesi e tesi della ricerca: l’importanza dell’infrastruttura, la scarsa qualità degli spazi abitativi, il valore dei tessuti urbani consolidati, il fascino dell’archeologia industriale, la molteplicità degli spazi aperti. È chiaro che le questioni si intrecciano e lo studio di una non può prescindere dall’altra in una città diffusa così stratificata ed eterogenea. Gli studi elaborati negli anni hanno prodotto mappe, schemi, diagrammi, progetti che hanno vivisezionato ogni aspetto del territorio evidenziandone tutti gli elementi che lo compongono, le relazioni tra le parti, gli usi, la densità, inoltre hanno cercato di esaltarne le qualità e circoscriverne le fragilità. In questa sede non racconteremo la città attraverso quegli strumenti per cui esiste una bibliografia esauriente, dettagliata e scientificamente ineccepibile. Ma ci riferiremo a un lavoro molto recente di un artista d’eccezione che, attraverso la macchina fotografica e uno sguardo originale, ha raccontato molte
Gli spazi residuali generati dai processi di modificazione della città sono una potenziale risorsa e la loro rigenerazione può innescare significativi processi di trasformazione urbana. L’autore propone la riconfigurazione di questi spazi attraverso l’uso della vegetazione. L’ipotesi nasce per soddisfare la crescente necessità dei cittadini di avere dei luoghi distanti dalla frenesia della metropoli e per rispondere a una rinnovata attenzione per l’ecologia. Al tempo stesso, l’idea incontra l’esigenza di incrementare parchi, giardini e spazi per la natura in contrappunto alla densità del costruito. La lettura di alcuni casi studio individua possibili strategie di trasformazione che mettono in evidenza il valore e le potenzialità di questi spazi, così come la loro importanza nel riattivare relazioni spaziali e sociali. Infine, uno sguardo sui territori del litorale medio adriatico segna l’inizio di un nuovo studio sugli spazi residuali nella città adriatica. Alessandro Gabbianelli è architetto, dottore di ricerca e professore a contratto in Composizione Architettonica e Urbana presso la Scuola di Architettura e Design “Eduardo Vittoria” di Ascoli Piceno (UNICAM). I suoi temi di ricerca si focalizzano sullo studio degli spazi e territori residuali e sulla loro riconfigurazione attraverso il progetto di paesaggio. Inoltre indaga i temi dell’agriurbanismo nel contesto della città adriatica italiana. Tra le sue pubblicazioni, Il progetto dello spazio turistico con Antonio di Campli (Edizioni GOTOECO, 2016) e Riciclasi capannoni con Luigi Coccia (Aracne Editrice, 2015).
codice isbn: 978-88-97102-11-3 prezzo di copertina: 18,00 euro