Lo specchio
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Ormai aveva deciso. In un altro momento, se glielo avessero raccontato, si sarebbe messa a ri dere. A parte un tentativo di qualche anno prima, quando provò a iscriversi a quel reality tutto al femminile, A. fino a quel giorno aveva accumulato soltanto un discreto numero di sogni, affastellati in un cassetto sempre più ingombrante e disordi nato. Dalle fantasie con i ragazzi dell'oratorio sul le missioni umanitarie in Africa, fino all'anno sab batico per esplorare da sola i capolavori mondiali della natura. Poi c'erano i viaggi veri, quelli rigo rosamente organizzati, verso le mete più patinate del momento. Quelli prenotati con largo anticipo in agenzia, dopo un paio di discussioni con il soli to gruppo di amici, per individuare cosa faceva tendenza in quel periodo. Erano rigorosamente al meno quattro l'anno. A. era una che stava in tiro, che davanti a un calice di vino ti poteva elencare almeno venti siti esotici visitati, che collezionava con stile i timbri sul passaporto, che ormai se lo poteva permettere. Aveva svoltato, ma sempre dentro il recinto. Poi aveva raccolto quella sfida: due giorni sol tanto, si disse. Lui e il piccolo avrebbero capito? 2
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Ma sì, avrebbe saputo inventare qualcosa. Le foto che K. aveva fatto alla città, prossima capitale eu ropea della cultura, rendevano ancora più sugge stiva la galleria d'arte della Casa Cava, nel cuore dei Sassi, ma il vero vento soffiò impetuoso verso A. attraverso le poche righe del bigliettino affisso con una clip nell'angolo in fondo, sulla bacheca dell'Ufficio informazioni turistiche. Si era iscritta quasi per gioco. Il colloquio andò bene, anzi lei se la cavò decisamente alla grande, o almeno così le parve. L'introduzione che K. faceva alle candidate era sempre la stessa: la si poteva ascoltare diret tamente dalla sua voce, che risuonava attraverso la parete prefabbricata nell'anticamera dell'hotel, mentre cercava con una simpatica inflessione lon dinese di spiegare che tipo di volto cercava. Quando arrivò il suo turno, A. era certa di avere ormai in tasca ogni risposta esatta. «Io penso che per spiegare ai lettori inglesi cosa sia Matera», esordì K. come da copione, «devo rompere qualche luogo comune, come dite voi qui. Come posso spiegare: non tutti i siciliani sono mafiosi e non tutti i napolitani sono ladri». «Io però sono materana», rispose A. arrossendo subito, mentre guardava negli occhi quel ragazzi no non troppo alto e che aveva la metà dei suoi anni ma sembrava già così sicuro di sé. «Ma no, voglio dire: al Sud non tutto è mare, spiaggia, pizza e nemmeno pizzica. C'è anche que sta roccia scavata e consumata dal sole e dall'ac qua del torrente, giusto?» «Certo, i Sassi sono molto antichi, sono molto apprezzati. Anche il torrente Gravina è molto bel lo: a molti ricorda il Gran Canyon dell'Arizona, che ho visitato due anni fa.» 3
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«No aspetta, fermati. Mettiamola così: voglio dire che non tutte le donne del Sud sono brune con gli occhi neri, non tutte cercano solo marito e figli da fare.» «Quasi nessuna mio caro, ma dove vivi?», pensò A. «e io anche no, pur avendo fatto sempre il con trario». Tuttavia la frase che le affiorò sulle labbra venne un po' diversa: «Beh ormai tante donne la vorano da sole, fanno migliaia di chilometri in auto, guadagnano bene, sono ben inserite.» «Quelle sono soltanto le rosse naturali...» ag giunse lui divertito, guardandole i riccioli di rame intorno alle orecchie, «quelle che sono riuscite a crescere, anche se un po' più tardi delle loro coe tanee europee e nonostante i venti anni di regime televisivo di Berlusconi e la sua cricca. Insomma, a parte questi discorsi, io penso a una roba del genere» tagliò corto K. tirando fuori un fac-simile della copertina del suo giornale, l'inserto domeni cale del Daily Mirror, con il volto di una modella quarantenne in primo piano, vestita con una bella giacca di tweed e, sullo sfondo, una sua foto in bianco e nero del Sasso Caveoso, illuminato di notte. Titolo: "Matera 2019, il Sud vero e nasco sto". «Molto bella.» «C'è solo un problema: questa donna è di Bir mingham e io cerco una vera materana, ma come non te l'aspetti. Sai cosa penso? Ti prendo.» A. accettò senza pensarci, anche se per un atti mo le venne in mente un lontano e burrascoso passato. «Alla fine sono duemila euro di compen so e un viaggio pagato a Londra» provò a tranquil
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lizzarsi. Firmò, ritirò i biglietti, inventò le sue scu se e tre giorni dopo era sull'aereo.
*** Il luogo doveva essere tutt'altro rispetto a come lo aveva immaginato. Niente Notting Hill, niente Soho, niente Tate o altri miti che aveva vagamen te conosciuto dai film, o dai tanti racconti delle sue amiche disseminate in Europa, quelle della prima generazione Erasmus che lei aveva fertil mente allevato durante l'adolescenza, nei saloni della parrocchia. Tra queste, a Londra da qualche parte forse doveva esserci ancora B., con la sua irrequietezza che tanto sembrava assomigliarle e che le era rimasta nel cuore. Erano quasi coeta nee, ma ormai dopo tanti anni aveva perso i con tatti con lei. Per scrupolo aveva provato a cercarla in rete, ma evidentemente era una che non amava stare su Facebook: in fondo aveva avuto i suoi buoni motivi. Peccato. Tra mille errori, almeno quello A. poteva non ascriverselo: per lei tutto era arrivato a tempo debito, anzi quasi fuori tempo massimo. Che strano, pensò, aveva girato così tanto per il mondo ma a Londra ancora non ci era capitata. In realtà era stata una precisa scelta, si disse con qualche esitazione. Il vero momento in cui provò di nuovo, dopo tanto tempo, quello strano senso di disagio, come se un treno le fosse passato accanto anni fa e lei fosse arrivata soltanto ora in una stazione ormai vuota da tempo, le si infilò in gola poche ore dopo l'arrivo, quel pomeriggio, appena uscita dall'hotel. Il tassista era un simpatico ragazzone di colore, che alternava fiumi di chiacchiere in uno slung incomprensibile a sonore risate e vocalizzi al rit mo di freestyle, sul pezzo hip hop che mandava la 5
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radio. Quando lesse l'indirizzo sull'agendina che lei gli mostrò: "Shoreditch - East London" si fece serio per un attimo e disse soltanto: «Wow, you're going to meet the ripper!» Sulle dita di A. scattò automaticamente la soli ta ricerca in internet: conosceva sì un po' di ingle se, ma quello delle turiste da crociera, la trasgres sione controllata da villaggio Club Med, con i suoi balli di gruppo e i Mojito. Guai però a chi glielo rinfacciava. Dopo qualche istante di roaming ecco il responso di Google: Shoreditch, chi poteva im maginare che il quartiere più trendy della Londra 2015 era stato un tempo il cuore dei bassifondi, dove tra topi e bordelli si aggirava indisturbato nientemeno che Jack lo Squartatore. Lo studio di K. era in un lane, uno di quei vicoli bui e un po' nascosti tra le palazzine industriali a schiera di mattoni rossi, in stile georgiano. Trovò subito il numero civico. Il pub di fronte emanava il più classico degli odori di fish & chips e, pas sandoci davanti, A. aveva lanciato un'occhiata fu gace. Dentro era tutto molto british, a partire dal l'anziana coppia seduta al tavolino in vetrina, con una birra scura grande e una piccola rossa da vanti. La donna, lei pure doveva essere stata una bella rossa spumosa un tempo, con quelle grazio se lentiggini sul naso, anche se ormai su quei ca pelli era passata una gloriosa storia fatta di molte tinte. Lui la guardava assorto, facendo scorrere sull'orlo del bicchiere il dito anulare, vestito con un curioso anello d'avorio bianco, mentre le altre dita reggevano una pipa spenta di legno scolpito. Sotto la giacca di velluto indossava un maglione in stile irlandese delle Aran, a collo alto, su cui era poggiato un paio di occhiali colorati appesi al 6
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collo. Dalla porta di fianco filtravano intanto, in sieme ai fumi di frittura, le note melodiche di Mi chelle, dei Beatles. Anche A. era rimasta incanta ta a osservarla gesticolare, rapita dalla foga del discorso. Come un'italiana, pensò. Forse parlava no di politica, o insegnavano in qualche impor tante università ma poi, a un tratto, le mani da farfalla di lei si posarono su quelle del suo com pagno e tacquero. Per un attimo il sorriso di quel la donna si sovrappose a quello di A., riflesso nel la vetrina attraverso cui li osservava, contro il cie lo grigio di novembre. «Ah, ma sei arrivata prima allora!» risuonò la voce dietro di lei. Il volto sorridente e un po' affati cato di K. le apparve in vetrina dietro la spalla de stra (ma forse era la sinistra?). «Scusami, sono dovuto passare a ritirare alcune stampe in labo ratorio» si giustificò mostrandole una grande bu sta gialla sigillata e stringendole la mano un po' maldestramente, insieme con le chiavi dello stu dio. «Ben arrivata a Londra comunque.» L'ambiente era carino: un loft al primo piano, con un unico finestrone centrale a riquadri che affacciava sulla via principale. La doppia altezza di quella che doveva essere stata un'officina, o forse un magazzino di cotone, aveva consentito a qualche giovane architetto di recuperare due sop palchi. Su uno si intravedeva una scrivania inte ramente sommersa di libri e riviste alla rinfusa. L'altro era invece nascosto da una finta parete. «Lì ci dormo, quando ho tempo!» sorrise K in tuendo la curiosità di A. Si soffermò un attimo a guardarla. Indossava un bel giubbotto di pelle chiara, con la zip quasi tutta su, fino a sfiorare un foulard azzurro annodato stretto attorno al 7
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collo. Le mani in tasca, nei jeans stretti che fini vano in un paio di alti stivali di pelle. «Un tipo da viaggio, appena riassettato dopo un breve passag gio in hotel» pensò K., «eppure si porta dentro qualcosa di accattivante...se mi fa il miracolo di passare attraverso l'obiettivo mi sa che sbancherò su questo numero dell'inserto domenicale.» «Se sei pronta cominciamo subito, il set è da questa parte» le disse indicandole dolcemente un angolo attrezzato, mentre A. si era di nuovo persa nei suoi pensieri, ammirando una console antica sormontata da un grande specchio avvolto in una cornice dorata in stile impero, che faceva bella mostra di sé nell'angolo opposto del locale. «Stupendo, dove l'hai preso?» «Viene da Napoli, decennio francese. Io sono un grande estimatore del Sud come avrai capito.» «Ma scusa, sei un fotografo o uno scrittore?» lo incalzò, lanciando uno sguardo ai fogli pieni di appunti sparsi sulla mensola sotto lo specchio, stampati al computer ma pieni di correzioni e note a penna. «Sono un giornalista antropologo», sorrise. «Scusa?» reagì lei un po' incerta. «Beh, diciamo che racconto storie di donne e uomini, presi nel loro ambiente. Posso farlo sia con la penna che con l'obiettivo. A volte con en trambi, come nel tuo caso.» «Questa è nuova. Scriverai anche qualcosa su di me? Non dovevi soltanto scattarmi delle foto?» «Ci ho pensato strada facendo, se vuoi sapere la verità. Vorrei provarci, sì. Una storia di un sud 8
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diverso, raccontata tutto al femminile, come il nome di Matera.» «Che figa 'sta cosa!» esclamò lei, obbligando così K. a richiudere immediatamente il libro foto grafico che aveva fatto l'anno prima in Angola e che aveva inutilmente pensato di mostrarle. Im postò le luci e il cavalletto, accendendo la radio su una stazione qualsiasi, che mandò per tutto il tempo in sottofondo le previsioni del tempo. «Mettiti qui, esatto. Ti spiego, il fondale bianco sarà poi sostituito dalle foto di paesaggi che ho scattato a Matera la settimana scorsa, ma ovvia mente sono i tuoi primi piani che contano. Con questa luce è perfetto, emergono i particolari che più mi hanno colpito, come quelle leggere rughe accanto agli occhi che mi ricordano il torrente Gravina. Sono così eleganti.» «Ah bene, se per te è un complimento...» sorrise A. mettendosi docilmente in posa e per la prima volta le luccicarono davvero gli occhi, dopo tanto tempo.
*** L'ora passò serenamente, tra centinaia di primi piani: volto, occhi, labbra, sorrisi, poi la pausa del tè e ancora battute sull'Inghilterra e su Matera. «Mi dispiace non poter cenare con te» si scusò K. dopo aver ricoperto l'obiettivo e spento le luci del set, «ma devo passare in laboratorio per le stampe e poi stasera ho promesso a mia madre di andarla a trovare. Ci vediamo qui domattina pre sto, così ti mostro i provini da firmare per la libe ratoria e ti dò anche l'assegno. Grazie, per ora.»
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«Figurati», rispose A., appena dispiaciuta da quel tono così freddo e professionale. «Abbiamo fatto presto, mi restano ancora un paio d'ore per fare un giro in centro.» «Ah, ok. Ti chiamo un taxi allora.» «Sì, dai, ti ringrazio, sei gentile.» Stavolta la destinazione per il tassista era la più canonica delle tappe: Brompton Road, South Kensington. «Let's go to Harrods!».
*** Sette piani, cinquemila addetti, trecento repar ti: i dati riportati sul dépliant un po' eccitavano A., che salì velocemente alla ricerca del reparto accessori, i suoi preferiti. Alla fine il regalo se l'era fatto comunque, sola a duemila chilometri da casa, per quarantotto ore. Non aveva fatto piani, almeno razionalmente, non aveva costruito aspet tative se non quelle di una fuga totale da tutto e da se stessa. Ora poteva immergersi in quei tap peti felpati, quelle luci eleganti, quei commessi che parlavano un inglese così musicale e...com prensibile. Rimase fino al jingle che annunciava la chiusura. Dopo un'accarezzata significativa alla sua carta di credito Diners Gold alla cassa, A. de cise che poteva bastare così. Scendendo con le due borse verso l'uscita stava già pensando a dove acquistare un pezzo di pizza italiano al tran cio, magari da mangiare in albergo, quando al l'improvviso sentì addosso una nuvola rosa, fuo riuscita dalle mani di una commessa incaricata di regalare flaconcini, che la costrinse istintivamente a girarsi verso destra.
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Fu allora che la vide: la foto era enorme e occu pava l'intera parete della contro-vetrina. Lei non doveva essere esattamente una ragazza, anzi avrà avuto più o meno la sua stessa età, anche se era girata di schiena. Il corpo nudo era perfetto, scol pito. Stava in piedi, poggiata dolcemente a un lampione nella nebbia lungo il Tamigi, con i fian chi rotondi, la vita stretta e lunghi capelli neri di seta che le scendevano sulla schiena. Tra tutti quei bianchi, grigi e neri spiccava in un angolo il cuore rosso del flacone francese, con la semplice scritta "eau de parfum". Ma perché quel manifesto pubblicitario l'aveva così colpita? Era una bella modella, una foto molto ben fatta, ma non basta va: si avvicinò. Ecco! La trovata era geniale, nulla da dire. La scritta era al contrario, perché tutta l'immagine era in realtà fotografata riflessa in uno specchio. Si compiacque della sua intuizione: lo aveva capito da quell'angolo di cornice che il foto grafo aveva volutamente inquadrato in un punto della fotografia. Una bella cornice, molto decora ta, non moderna e neppure inglese, anzi quasi...
*** Non riuscì a prendere sonno. Mai come quella volta credette di avere trovato la strada, un attimo prima di imboccare il percorso sbagliato e non un attimo dopo. Certo, era una piccola follia, ma in fondo non ci sarebbe stato nulla di male. Faceva parte di quella parentesi ed era solo arte. Uno scambio equo: le foto della sera al giornale, quelle del mattino sarebbero state solo per sé, a costo di rinunciare a quei duemila euro. Ora o mai più, si disse. Il tempo corre inesorabile. Indossò gli stessi jeans ma con una elegante camicia bianca, sopra un top che copriva la scollatura con eleganza. Si 11
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strinse in un trench acquistato la sera prima, an nodò la cintura, un filo di trucco, un passaggio allo specchio del bagno in camera e via, giù verso l'ascensore, trascinando il trolley e le due buste griffate Harrods. Quaranta minuti di traffico, il piccolo vicolo vittoriano, il pub con il barista im pegnato nelle pulizie del mattino, la porta dello studio. Bussò. «Ah, hai fatto compere vedo! Poggia pure tutto lì. Siediti sul divano, se mi dai un attimo ti trovo in questo casino i provini che ho scelto. Vedrai che ti piaceranno.» K. l'aveva appena guardata, immerso nelle sue faccende mentre si allontanava salendo sul soppalco dove teneva le riviste e mille altre cose. «A proposito, c'è del tè con del latte cal do sul tavolino lì di fianco, serviti pure.» A. guardò l'orologio a parete lassù in alto. Man cavano tre ore e mezza al decollo del suo aereo per Bari. Osservò assorta e in silenzio la lancetta rossa dei secondi mentre fece un intero giro, sor seggiando un dito di tè caldo. Poi si alzò e iniziò a camminare lentamente, come presa da quel vele no ipnotico che sentiva ancora addosso. Pensò con un sorriso che mai nessun profumo le era capita to con un nome e nel momento più adatto. La pri ma a cadere sul parquet fu la camicia, fragrante, seguita dal top. Poi in assoluto silenzio sfilò gli stivali e fece cadere i jeans. Era intenzionata ad andare avanti se K. non si fosse affacciato alla ba laustra un attimo prima che A. si arrampicasse su per la scala. «A proposito, devo farti vedere anche un'altra c... » Con un po' di ostentata scenografia, A. sollevò verso di lui la mano e gli mostrò, sorridendo, la 12
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boule di cristallo rosso che aveva acquistato la sera prima, sussurrandogli addosso: «Dior, Hyp notic Poison. Eau de parfum.» K. rientrò dalla balconata e scese rapidamente giù per la scala, facendo cadere sul pavimento una decina di stampe fotografiche e la busta gial la del giorno prima. Senza aggiungere nulla corse a prendere la sua reflex. In quei minuti eterni cat turò l'anima di A. come nessuno mai aveva fatto prima, trasferendo quasi il suo odore sulla pelli cola, ispirato come poche volte gli era capitato. Tutti i gesti di lei si incrociavano alla perfezione con l'otturatore, in quei microsecondi magici che possono fare la differenza tra uno scatto fotografi co e un'opera d'arte. La colse mentre si sfilava le autoreggenti e il resto, triste o sorridente che fos se, non importava. Il set era naturale, pareti di mattoni, il grande finestrone a riquadri sotto cui scorreva la nuova Londra di tendenza, luce sola re. Lei si muoveva continuamente come una gatta lungo la grande stanza, a volte ridendo, a volte coprendosi timidamente, poi indietreggiando fino a sentire dietro la schiena il taglio di marmo fred do della console napoletana da parete. Si girò. Lui si inginocchiò ai suoi piedi alla ricerca dell'inqua dratura perfetta, puntando l'obiettivo dritto nello specchio. La carezza dolcissima delle sue labbra umide, su un volto ancora quasi senza barba, le aveva provocato un fiotto elettrico che dall'inguine le si propagò lungo tutta la schiena, fin dentro lo stomaco. Fu solo un istante, forse era stato un sogno, uno dei tanti da mettere nel cassetto. A. non era in grado di capire se K. stesse ancora scattando o avesse ormai abbandonato la sua re flex sul parquet. Aveva chiuso gli occhi già da al cuni attimi. Si voltò tenendoli chiusi, ma accor 13
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gendosi che lui era lì, si era rialzato e stava di fronte a lei a pochi centimetri. Riusciva a sentire il suo calore, prima ancora che il suo respiro. Crollò con le ginocchia in terra senza riuscire ad aprire gli occhi, mentre dalle due piccole rughe le scendevano calde e copiose righe di lacrime. Lui le accarezzava dolcemente con le dita, provando ad asciugarle, senza dire nulla. «La Gravina d'in verno si gonfia triste d'acqua» furono le uniche parole un po' maldestre che uscirono dalla bocca di A., prima di immergervi completamente K., per un tempo che le parve infinito.
*** «Direi che vanno bene tutte, dai che te le firmo», esordì A. stupendosi di riuscire a parlare davvero, dopo essere uscita dalla doccia già rive stita e pronta per andare via. Quanto tempo era passato? Un'ora forse. Bisognava sbrigarsi. K. le consegnò l'assegno senza mai guardarla negli oc chi, muovendosi un po' nervoso e di fretta. «Beh, allora ciao K. Le foto di oggi mandale a quest'indi rizzo e pensami ogni tanto» gli disse infilandogli un bigliettino nel colletto della camicia e provan do ad apparire sicura di sé, almeno per una volta. «No...non è quello, figurati. Anzi, aspetta, fac ciamo così» rispose K. correndo di nuovo su per le scale del soppalco, a costo di cadere. Scese dopo qualche istante con un biglietto che aveva appena finito di scrivere, chiuso in una bustina e incolla to sulla busta gialla, quella con le foto ritirate la sera prima. «Ecco, tieni, promettimi che adesso vai via immediatamente e che aprirai queste bu ste soltanto dopo che l'aereo è decollato.»
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«Vuoi davvero così? Ok, non preoccuparti. Lo farò e...grazie, comunque.» Lo baciò teneramente sulla fronte, prima di gi rarsi e chiudersi definitivamente quella porta alle spalle.
*** A Bari, fuori dall'aeroporto c'era ad aspettarla lui e aveva anche portato il piccolo, che eccezio nalmente aveva saltato il giorno d'asilo. Mentre attendeva il ritiro bagagli, A. decise di prendersi l'ultimo trancio di sé in quei due meravigliosi gior ni. Si sedette in disparte su una panca e aprì la busta. «Cara A., avrei voluto spiegartelo a voce ma è successo tutto così in fretta, in modo così inatteso che ho preferito scrivertelo. Non fraintendermi: quando ti ho vista ho pensato che sei davvero un volto interessante e che le tue foto di ieri sera le userò davvero, perché meritano di essere pubbli cate e rappresentano autenticamente quello che sei. Quanto alle foto di stamattina, beh, non te le manderò. Ho pensato di dirti una piccola bugia e di tenerle per me. Non potrò avere mai più niente di te, il perché lo capirai da sola aprendo questa busta gialla. Lì a Matera ti aspettano ed è giusto così, ma la tua anima ha traspirato per due ore, stamattina, attraverso la mia pellicola e si è im pressa per sempre sulla mia carta. Ne farò il mio tesoro segreto. Un bacio. K.»
*** Le lacrime scorrevano di nuovo abbondanti sul volto di A., ma adesso erano accompagnate da un tenero sorriso, mentre tra le sue mani scivolava 15
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no, fuori dalla busta gialla, le foto di venti anni prima. La parrocchia, i barbecue in spiaggia giù in Salento, lei e B. sempre insieme come due so relline. Anche dopo, quando B. rimase incinta e la emarginarono per lo scandalo fino a farle perdere il lavoro, loro due erano rimaste insieme. A. era stata il suo universo per tutti quegli interminabili nove mesi. La gente. Eppure era così bello quel bambino. Prima di prendere la decisione, B. aveva voluto farglielo tenere un po' di tempo in braccio, almeno per una volta. «Sai, ho deciso di partire appena esco dall'ospedale. Vado a Londra, non mi sentiranno più neanche nominare questi bastar di. Ma non preoccuparti, a te scriverò. Non siamo forse come sorelle?». A. aveva capito che era una bugia, ma preferì così, senza dire nulla, mentre l'aveva guardata allontanarsi verso l'imbarco, con quel bimbo sulla spalla e la valigia nell'altra mano. Non le scrisse mai. Ora che ci pensava, non conosceva neppure il nome del piccolo. Dietro l'ultima foto c'era un altro biglietto, scritto con una grafia più dolce. «Cara A., non sto più nella pelle. Quando mio figlio K. mi ha detto che sarebbe venuto in Italia per fare un servizio fotografico su Matera, ho pen sato che forse poteva riuscire a trovarti. Abbiamo organizzato una sorpresa insieme: quando legge rai queste righe io sarò già qui, fuori dalla porta dello studio di K., con un regalo grande grande per te. E' stato bravo a non farsi scoprire eh? Ha vent'anni ed è un uomo ormai, un fotografo affer mato, come hai visto. Sono orgogliosa di lui e tu potrai condividere tutto questo con noi, finalmen te! Dai, ora non scrivo altro perché altrimenti per diamo troppo tempo. Vieni ad aprire la porta, so rellina mia. Un bacio grande, B.» 16