Quell'unico volo
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l treno arrivò con oltre un'ora di ritardo, verso le tre di pomeriggio di un giorno d'agosto. La stazione era deserta, immersa in una tonalità color seppia che ricordava le cartoline liberty di inizio secolo, quelle decorate con i fiorellini e i ri tratti delle signore borghesi di buona famiglia. Le avevo sempre immaginate parlare un francese stentato, al braccio di attempati diplomatici baf futi o spregiudicati banchieri svizzeri dalla bom betta inamidata, a passeggio per il corso o a pas sare le acque alle terme centrali. Forse per questo paesaggio malinconico che affollava la mia fanta sia, o per quell'aria da località turistica della terza età, avevo impiegato molti anni prima di accettare quell'invito. Poi, nell'estate del 1993, a ventuno anni suonati, avevo avvertito che quella sarebbe stata l'ultima opportunità. L'accoglienza fu perfetta: in una sala piena di specchi, dietro il sorriso tirato del maître dai ca pelli azzurri non c'era solo una perfetta protesi equina, stirata da zigomi tesi per le due ore di straordinario obbligato, ma anche l'intenso lavoro preparatorio con cui il "cliente" aveva raccoman dato di tenermi in caldo il pasto. Poco male che le regole della casa imponessero la colazione alle 2
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tredici in punto e che l'omino sembrasse ormai una delle statue di gesso che decoravano i saloni retrò dell'albergo: sotto la cloche d'argento mi at tendevano chissà quali prelibatezze, con intorno tutte le premure più affettuose, come se il tempo si fosse fermato dieci o quindici anni prima. «Chissà com'era qui, negli anni Trenta». La no stra lunga conversazione a puntate cominciò così, con una mia domanda quasi casuale. Altrettanto ordinaria fu la prima risposta: un racconto che avevo già sentito in altre occasioni. «Sono stati anni in cui l'Italia ha fatto grandi cose. Roma, le colonie, era tutto un cantiere di giovani volenterosi, entusiasti e pieni di speranze. Le ultime grandi costruzioni pubbliche risalgono a quel periodo e io ne ho viste fare di grandiose, con i miei occhi. E' stato bello, nonostante il sa crificio e la fatica di dover stare tanti anni sotto le armi, prima a Roma e poi durante la guerra, ma ti sentivi importante a essere italiano. Poi, purtrop po, lui decise di consegnarsi in braccio ai tede schi. Gente seria, disciplinata i tedeschi: noi li ri spettavamo molto. Non toccavano niente, non di sturbavano, erano amanti dell'arte e della cultu ra. Ma erano guidati da un folle. Quando, dopo la guerra, i giornali ci misero a conoscenza di quello che aveva fatto Hitler nei campi di sterminio, las sù in Polonia, rimasi senza parole. Noi però non sapevamo assolutamente nulla. Molte cose pur troppo le abbiamo capite dopo.» «Lui, l'hai mai incontrato di persona?» «Sì, lo vidi una volta da vicino. Doveva essere il 1937, a Roma, in caserma. Ci avvertirono appena un paio d'ore prima: tutti di corsa a lucidare gli stivali, controllare le cuciture dei bottoni della di 3
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visa, spolverare l'elmetto. Aspettammo, lunghi mi nuti interminabili a sudare sotto il sole d'estate, nel centro della piazza d'arme. Tutti in riga, im bracciando il vecchio moschetto 91 Carcano con la baionetta innestata, fino a che il dolore nelle spalle diventò una specie di piacevole torpore. Dal brusio degli ufficiali mi accorsi che era arrivato. La curiosità era forte, ma ovviamente non potevo volgere lo sguardo verso l'inizio della riga. Eppure sentivo aumentare l'emozione, man mano che il piccolo drappello della rivista si avvicinava. Vidi con la coda dell'occhio sopraggiungere la sua cor ta sagoma: era un po' robusto, con il testone in cassato nel collo, la giubba grigio verde e la visie ra del Regio Esercito calata sugli occhi, fino quasi a coprirli. Mi parve che si fosse fermato un attimo a guardarmi, perché gli vidi sollevare il mento ver so di me, con la mascella serrata in una breve smorfia di approvazione. Non posso esserne certo, perché era vietato distogliere lo sguardo dalla po sizione marziale, dritto davanti a me, in alto. Poi passò oltre. Fu un'emozione.» Dopo un paio di giorni passati a passeggio per il corso, cena e gelati, eravamo pronti per trasfe rirci in taxi a Recco, tra Camogli e Portofino, per il tradizionale festival di fuochi d'artificio a mare. Era una passione mai sopita, per quello che era stato il mestiere di suo padre e in parte anche il suo, da ragazzo, prima di essere richiamato. Se duto sulla panchina, con in mano un trancio di focaccia allo stracchino, guardavo per la prima volta i fuochi diurni, quelli fatti con i fumogeni co lorati. Mentre mi spiegava le difficoltà di quella particolare tecnica, il discorso tornò di nuovo in dietro e stavolta non poteva essere un caso.
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«I fumogeni: forse fu questo il motivo, quando dichiarai il mestiere all'arruolamento, che finii nella compagnia chimica. Quando scoppiò la guerra venni assegnato a Rodi, alla cinquantesi ma divisione di fanteria Regina. I primi tempi fu rono tranquilli, non c'era molto da fare per cui prestavo servizio al circolo ufficiali, dove imparai a preparare i migliori piatti della cucina interna zionale di quei tempi, un misto di portate di pesce e raffinate preparazioni di primi e antipasti. L'iso la era bellissima, con un mare turchese e un cli ma incantevole, la città era affascinante e piena di persone eleganti, ufficiali in divisa, avieri, regnico li civili con vari compiti amministrativi, commer cianti, costruttori di grandi alberghi come il Delle Rose. Il regime aveva costruito anche una grande piazza in stile coloniale e aveva ristrutturato il porto, sulle cui colonne c'erano da una parte un cervo, simbolo dell'isola, dall'altro una lupa capi tolina. Della guerra sapevamo poco: arrivavano notizie soltanto dai bollettini radio che ascoltava mo al circolo del comando Egeomil, rigorosamente in piedi. Qualcosa di più concreto apprendevamo dalle missioni dagli aviatori, che partivano quasi tutti i giorni dai nostri aeroporti per incursioni su Creta o sulla Palestina. Da noi si era insediata la duecentosettantanovesima squadriglia, con gli ae rosiluranti Savoia-Marchetti SM 79. Era un famo so tipo di bombardiere che chiamavano lo Spar viero, o il Gobbo, quando lo usavano quelli del do dicesimo stormo della duecentocinquesima, i fa mosi Sorci Verdi.» «Insomma, combattimenti niente, come nel film Mediterraneo di Gabriele Salvatores.»
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«Magari. Quasi subito, dopo l'entrata in guerra, iniziarono a ronzare i ricognitori inglesi e dopo un po' ci caddero in testa le prime bombe della RAF, facendo un morto e vari feriti tra quelli della con traerea. Con il tempo le incursioni divennero sem pre più frequenti: una volta, d'estate, poteva esse re agosto come oggi, ci bombardarono addirittura con le navi e con gli aerei insieme, ma la difesa costiera seppe reagire bene. Un'altra volta colpiro no la città e un'ala dell'ospedale civile, facendo vari morti tra la popolazione.» «Tu di cosa ti occupavi?» «La mia squadra era addetta alla difesa costiera e antiaerea, che garantivamo con l'uso dei cosid detti nebbiogeni, come ti dicevo. Si trattava in realtà di un composto chimico a base di fumigeri te, chiamato M1: il nostro compito era trasportar lo su un'autocarretta OM 36, che montava dietro un macchinario con cui diffondevamo per aria il fumo dietro di noi, producendo una fitta nebbia su tutta la zona. A volte operavamo sulla pista 806 di Gadurrà, verso sud, che era fatta di un composto sterrato chiamato macàdam, come quella più piccola 805 di Cattavia, che però non entrò mai in funzione. Più spesso ci muovevamo invece a difesa dell'aeroporto 801 di Marizza, vici no al capoluogo. Era l'impianto principale, intito lato a un eroe che si chiamava Giorgio Pessi, ma era noto con lo pseudonimo di Giuliano Parvis, un aviatore scomparso in volo nel Trentatré men tre cercava di raggiungere l'idroscalo di Mandrac chio, vicino al porto.» «Doveva essere un lavoro pericoloso, questo dei nebbiogeni, sotto le bombe.»
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«Eh...Un giorno eravamo in quattro, come sem pre: c'era l'autista, c'ero io seduto a fianco come capo squadra e poi dietro i due addetti alla mac china del nebbiogeno. Appena scattò la sirena d'allarme iniziammo a scendere dalla montagna verso l'aeroporto, spargendo un denso fumo che il vento spostava lentamente verso valle, secondo le previsioni. Però quella volta i bombardieri arriva rono prima del previsto: sentimmo già i motori quando eravamo ancora troppo in alto e allora l'autista accelerò improvvisamente, per raggiun gere più in fretta possibile la pista e gli hangar da proteggere. All'improvviso mi sentii sollevare, non so se fu una curva presa male o una pietra sotto le ruote, ma rotolai fuori volando per aria e ca dendo mezzo stordito, disteso per terra sulla schiena, con le gambe aperte e tutto pieno di pol vere. Quando aprii gli occhi mi accorsi che avevo una ruota dell'autocarretta proprio in mezzo alle gambe, a pochi centimetri dall'inguine. La vettura si era evidentemente ribaltata due volte ed era fi nita di nuovo dritta, vicinissima a me. La mia sal vezza fu probabilmente nel fatto di essere stato scaraventato fuori prima di rotolare. L'autista morì e gli altri due furono gravemente feriti.» «Beh, vista la scena diciamo che anche io, in un certo senso, sono vivo per miracolo. Dobbiamo andarci a Rodi, che dici?» «Sì, è un mio grande desiderio. Vorrei tornare per vedere come è oggi, cosa ci è rimasto. Ho solo un po' paura dell'aereo.» «Ma come, non hai mai avuto occasione di vola re sotto le armi?»
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«Una volta sola. Pensa, era esattamente l'8 set tembre del 1943. Ricevetti l'incarico di portare un dispaccio a Roma al Ministero dell'Aeronautica.» «Ah...e cosa c'era scritto?», chiesi ingenuamente mentre si era fatto buio e iniziava un altro incan to: i fuochi subacquei. Mi spiegò che si accende vano sul fondo del mare e man mano che brucia vano si alleggerivano di peso, salendo lentamente verso la superficie e illuminando tutto lo specchio d'acqua davanti a noi. Quando arrivavano a pelo d'acqua partiva perfino un razzo colorato. Che mondo affascinante, come lo conoscevo poco! «Ovviamente non lo so quello che c'era scritto in quei documenti. Era tutto sigillato con la cera lacca. Al Ministero non trovai nessuno in grado di aiutarmi, anche perché ormai si era fatta quasi sera. L'ufficio di destinazione era chiuso e io ave vo l'ordine di consegnare personalmente il dispac cio. Giù, nell'atrio, c'era un carabiniere: gli spiegai la situazione e mi disse che non avevano ordini chiari neppure loro, ma accettò comunque di farsi lasciare il plico, mettendomi un timbro su una specie di ricevuta. Io avrei dovuto dirigermi a una certa caserma di destinazione ma la strada era bloccata dai tedeschi e si era intanto diffusa la notizia dell'armistizio, perciò gli chiesi come pote vo fare. Mi suggerì che, in mancanza di ordini precisi, era meglio se prendevo licenza per qual che giorno e me ne tornavo a casa. Molti stavano facendo così, d'altra parte.» «Una bella responsabilità. Non c'era la corte marziale?» «Devi pensare che quel giorno non si capiva più niente. Fuori dal Ministero incontrai un soldato originario di Foggia e decidemmo insieme di tor 8
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nare verso sud. Ci consigliarono di evitare le sta zioni di Roma perché si vedevano in giro molti sol dati tedeschi e non si capivano bene le loro inten zioni: c'era perfino chi diceva che volevano arre stare e fucilare tutti i soldati italiani. Ce ne an dammo di corsa a piedi verso la campagna, pren dendo strade secondarie. Passammo una notte così, nascosti in un campo, per fortuna che non faceva ancora freddo! Il giorno dopo raggiungem mo una piccola casa di contadini sulle colline, che furono così gentili da farci cambiare dandoci vecchi vestiti da lavoro, perché si diceva che gira re in divisa era molto pericoloso. Nascondemmo tutto nel fienile, compresa la pistola d'ordinanza e ce ne andammo verso l'Abruzzo per raggiungere l'Adriatico, perché avevano detto che scendere di rettamente a sud verso Frosinone era impossibi le.» «Come il re. Anche lui passò da Pescara.» «E chi ne sapeva niente di quelli là? La verità è che da quando era caduto Mussolini si era perdu to il bandolo della matassa: chi diceva che la guerra era finita, chi sosteneva invece che il re aveva tradito e dovevamo essere annessi alla Ger mania, chi che adesso stavamo con gli inglesi. Perfino gli ufficiali, in privato, ci confidavano che non era molto chiara la situazione: solo quelli del la Milizia erano convinti che bisognava sventare il colpo di stato contro il duce e continuare la guer ra come prima.» «Lasciamo stare. Come andò il viaggio?» «Camminammo per due o tre giorni a piedi. Poi, una volta raggiunta la linea ferroviaria adriatica, riuscimmo a prendere un treno per Foggia. Giunti a destinazione ci separammo: io dovevo prosegui 9
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re, ma le notizie erano che verso Potenza c'erano già i tedeschi che controllavano la ferrovia, per cui tornai fino a Melfi a piedi. Per sicurezza entrai in paese all'alba: quando mia madre mi vide si sentì quasi male per la sorpresa, ci fu un momen to di commozione ma mi ripresi subito, perché era necessario nascondermi. Non ero autorizzato da nessuno e non si capiva in realtà cosa poteva succedermi. Inoltre a Melfi c'era ancora il podestà e i fascisti, come se non fosse cambiato niente.» «Ah...e dove ti sei nascosto?» «Giù, nella cantina di casa. Che esperienza...ci rimasi per molti giorni, in mezzo alle bare!» «Alle bare?» «Sì, il nostro vicino Massimino, che era il presi dente della confraternita del Carmine, ci aveva chiesto il favore di tenerle in deposito anche un po' da noi, perché da lui non c'era troppo spazio. Però meno male che eravamo così da vicino: devi sapere che Massimino era un fedelissimo e mia madre si confidò con lui, che perciò mise la buo na parola con i capi locali, garantendo per me come se fossi uno "del bottone". Così potei uscire da quella grotta e stare un po' in famiglia con mamma e le mie sorelle: ero così dimagrito! Ma anche loro non se la passavano bene, non erava mo mai stati ricchi, ma ora cominciava a mancare davvero un po' tutto.» «Ma non è finita così la tua esperienza con la guerra, vero?» «Eh no purtroppo. Dopo pochi mesi mi arrivò la lettera di richiamo: dovevo presentarmi al coman do di Nardò del Regio Esercito, che ora si chiama va Esercito Cobelligerante Italiano. Insomma, era 10
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vamo passati dall'altra parte. Il Salento è molto bello, anche lì c'è un bel mare turchese e si pote va mangiare discretamente. All'inizio pensai che avremmo svolto solo compiti organizzativi per il comando generale che si trovava da quelle parti, ma poi ebbi una brutta sorpresa.» La storia di Nardò la conoscevo già, ma mi mancava il seguito. «Quale sorpresa?», chiesi in curiosito. «Quelli che erano stati nella compagnia chimica vennero aggregati al contingente inglese, che era in combattimento a nord, al fronte. Io non stima vo gli inglesi e loro ci odiavano e ci disprezzavano: ci chiamavano straccioni, si credevano superiori, erano arroganti e rissosi. Niente a che vedere con i tedeschi. Non ci spiegarono nulla, ci misero su un treno e viaggiammo tutto il giorno fino a notte inoltrata. Nel cuore della notte iniziammo a senti re in lontananza cupi rimbombi, sempre più vici ni: a un certo punto sembrava che ci avessero im mersi in una pentola di pasta e fagioli, tanto ri bolliva tutto. Quando scendemmo ci dissero che eravamo a Montecassino.» «Ah...» riuscii appena a dire. Eravamo in alber go, dopo cena, su un piccolo divano della hall. Per un attimo il suo sguardo divenne assente, rivolto verso il tavolino davanti a noi, o forse verso le sue scarpe. Non avevo idea se volesse continuare e cosa gli passasse per la testa. Decisi perciò di at tendere, in silenzio. Poi riprese, ma non ebbi il co raggio di guardarlo in faccia. «La sera dopo ci misero in spalla degli zaini con un tubo: erano lanciafiamme. Senza troppi complimenti gli inglesi ci mandarono avanti a loro, con il compito di stanare i tedeschi dai nidi 11
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di mitragliatrice. Dalla mia parte partimmo in una trentina, ma tornammo meno della metà. Quando lo seppero i nostri ufficiali superiori successe il fi nimondo: eravamo stati umiliati, mandati a mori re come carne da macello senza nessun criterio e nessuna umanità. Una carneficina inutile ordina ta da un popolo che ci odiava, perché li avevamo bombardati. Questa storia non la troverai mai scritta da nessuna parte, è stata cancellata. Gli italiani a Cassino è come se non ci fossero mai stati, ma io in quei momenti non pensavo alla pa tria, all'onore, non pensavo più neppure alla mia pelle, non pensavo più a niente.» «Quanto è durata?» «Per fortuna per me solo quella notte. Poi ci ra dunarono e ci dissero che eravamo smistati al servizio logistico. Il capitano mi chiese se mi stava bene il nuovo incarico e gli dissi subito "Signorsì!", senza riuscire a trattenere l'emozione della voce: volevo abbracciarlo ma non potevo. Ri masi ancora più di un anno sotto le armi, poi fi nalmente presi la via di casa.» «Possibile che non si sappia nulla di tutto que sto? Di Cassino, degli italiani che hanno combat tuto, della vostra compagnia?» «Non lo so. Dopo la guerra ho cominciato a comprare libri di storia: nel salotto di casa ne ho tanti, come sai, ma poi ho smesso. Non racconta no la verità, soprattutto su noi italiani. Dei soldati del sud, poi, non si dice niente, neppure una pa rola. Si parla solo della Resistenza. I vincitori scri vono la storia, ma hanno diviso la Germania e hanno costruito il muro di Berlino: non hanno ancora imparato nulla.» 12
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«Ora però lo hanno buttato giù.» «Sì, speriamo, vedremo che succede. Me lo au guro per voi. Questo papa polacco sta cambiando molte cose, ha anche smontato l'illusione e l'arro ganza di certi comunisti, che pensavano che so stituendo una dittatura con un'altra potessimo stare meglio. Non è che questa democrazia mi piaccia, intendiamoci: si dice che sotto il fascismo non potevi parlare, ma oggi in democrazia parli e nessuno ti ascolta. Non lo so, penso che ci siano sempre stati i capi da una parte e il popolo dall'al tra, in qualsiasi regime. E' solo questione di co scienza e onestà, avere capi buoni o malvagi. Io ho lavorato duramente tutta la vita e ho assicura to una professione ai miei figli. Oggi sono cono sciuto e rispettato, ma ho conosciuto anni di fame e povertà. Per questo ho sempre cercato di aiutare chi stava peggio, anche nel mio lavoro. Però sono sempre stato lontano dalla politica, ne ho troppo timore, anche se ho sempre votato. Ogni volta.» «Insomma, dopo la liberazione hai chiuso per sempre il capitolo con la tua vita precedente.» «Sì, ho voluto lasciarmi tutto alle spalle, pensa re alla mia famiglia e a un'esistenza serena e in pace. In verità una volta, una mattina, tanti anni fa, bussarono a casa mia i carabinieri.» «I carabinieri? Perché?» «Era un colonnello accompagnato da un sottuf ficiale. Mi chiamarono per nome, chiesero se fossi io. Risposi di sì, con un po' di timore. Poi chiesero di poter entrare e li feci accomodare in sala da pranzo. Tirarono fuori dalla borsa una pergame na, che lessero ad alta voce: era una benemeren za per la partecipazione con onore ad azioni di 13
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guerra. Me la consegnarono, fecero il saluto mili tare, salutarono tutti e se ne andarono senza troppe chiacchiere, di fretta come erano arrivati.» «Caspita, e dove la tieni? Non sapevo nulla.» «Penso che non lo sappia nessuno a casa. L'ho conservata subito in un mobile. Chissà poi nel trasloco dove è finita. Deve essere ancora da qual che parte, tra le carte, non so.» *** Post scriptum. Ci ho messo più di venti anni prima di decidermi a trascrivere questo racconto, per me molto privato. In tutto questo tempo ho sempre pensato che si trattasse di un'intima con fidenza, che mio nonno decise a un certo punto di consegnare a un suo discendente, l'anno prima di morire. Credo in effetti che con i figli non ne abbia mai parlato, almeno con tali dettagli: ho provato a interrogare mia madre, ma non ne sapeva quasi nulla. Ora ho l'impressione di cominciare a di menticarne i particolari, per cui ho sentito il dove re di fermare tutto sulla carta. Molti particolari tecnici sono stati da me aggiunti con brevi ricer che e riscontri, utili per precisare luoghi, date e circostanze. Ma tutti gli aneddoti sono la testimo nianza fedele del suo racconto, che occupò alcune serate di un'estate del 1993, durante una vacanza tra Montecatini Terme e Recco. Preparando il te sto ho provato a cercare notizie più precise sul contingente dei lanciafiamme italiani impegnato a Montecassino, ma non ho trovato nulla, come non ho trovato nulla nei bollettini di guerra sull'episo dio del ribaltamento della pattuglia nebbiogeni a Rodi, forse perché tecnicamente quei soldati non morirono in combattimento. Spero comunque che questa piccola testimonianza individuale possa 14
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contribuire ulteriormente alla ricerca storica, in particolare sui fatti che hanno interessato la lotta di liberazione condotta dal Regio Esercito cobelli gerante con gli Alleati. La guerra dei soldati meri dionali dopo l'8 settembre 1943 è infatti un capi tolo oscuro e dimenticato. Fu forse meno eroico della Resistenza partigiana, ma anch'esso ha con tribuito, con tante piccole storie e tragedie perso nali, a costruire la dignità e l'identità civile di questo Paese. Non si spiega altrimenti l'attacca mento al lavoro, alla pace, alla famiglia che ha fatto grande l'Italia degli anni '50 e '60, se non con l'immane tragedia chiusa nell'anima di questi uomini e queste donne, scavati dalla guerra. E' anche la storia di coloro che decisero in piena co scienza di non partecipare più attivamente alla vita politica, ma non per questo ebbero un com portamento meno meritevole, o meno civile nel consegnarci il benessere e l'avvenire, come ama vano dire. Quanto a mio nonno, si sposò da "vec chio" a trentacinque anni, nel 1949. Lavorò tutta la vita, fece tre figli, ebbe alcuni nipoti e mi inse gnò molte, molte cose.
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