Sistemi elettorali a confronto: Regno Unito e Nuova Zelanda

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Sistemi elettorali a confronto: Regno Unito e Nuova Zelanda Comparazione e aggiornamento dei risultati esposti da A. Lijphart in “Le democrazie contemporanee” di Alessandro Tocci

Regno Unito e Nuova Zelanda sono due paesi collegati tra loro molto strettamente; essendo infatti stata quest'ultima una parte dell'Impero Britannico, essa ha da sempre una spiccata affinità culturale con la ex madrepatria, e come la gran parte dei membri del Commonwealth britannico ha una forte somiglianza anche politica ed istituzionale con la Gran Bretagna, al punto che molti osservatori politici ne hanno parlato a lungo come del modello più pertinente di democrazia maggioritaria o Westminster. Questo, prima che un referendum ne cambiasse il sistema elettorale in senso proporzionale, avvicinando decisamente la Nuova Zelanda al gruppo dei paesi con ordinamento democratico di tipo consensuale. Scopo della presente ricerca è raccogliere dati che completino lo studio esposto da A. Lijphart in “Le democrazie contemporanee” (1999), ed elaborarli per aggiornare le conclusioni ivi raggiunte, per confermare o meno se esse siano valide ancora oggi. Ricordiamo che l'orizzonte temporale del libro va dal 1945 al 1996.

Il modello maggioritario ed il modello consensuale Come ricordato da Lijphart, le democrazie possono essere studiate analiticamente tenendo conto di una serie di 10 variabili, ognuna delle quali si muove in un continuum che ha ad un estremo la concezione maggioritaria della democrazia, e all'altro quella consensuale. Per democrazia a carattere maggioritario si intende convenzionalmente una forma di governo che tende ad accentrare il potere nelle mani della maggioranza, allo scopo di ottenere una maggiore governabilità e responsabilizzazione dei governanti tramite il voto popolare. In una democrazia di tipo consensuale, invece, il potere tende a distribuirsi tra le varie forze politiche e sociali, in modo tale che nessuna abbia il monopolio delle decisioni di governo, che devono essere invece prese in costante dialogo tra le parti, privilegiando quindi il consenso sulle scelte e la tutela delle minoranze. Le dieci variabili utilizzate sono: 1. composizione partitica dei governi; 2. rapporti di potere tra governo e parlamento; 3. sistema partitico; 4. sistema elettorale; 5. sistema di rappresentanza degli interessi; 6. forma di stato; 7. struttura del parlamento; 8. livello di rigidità costituzionale; 9. controllo di costituzionalità degli atti; 10. livello di indipendenza della banca centrale. Ognuna di queste variabili può assumere valori che sono tipici di una democrazia maggioritaria oppure valori caratteristici di un sistema maggiormente consensuale. In questa sede ci occuperemo di osservare l'evoluzione della quarta variabile, il sistema elettorale, rispettivamente nel Regno Unito e in Nuova Zelanda dal 1996 (ultimo anno considerato da Lijphart) 1


ad oggi. Il sistema elettorale tipico della democrazia maggioritaria è quello uninominale, a maggioranza assoluta (majority) o relativa (plurality) con turno unico; la democrazia consensuale è invece caratterizzata da sistemi proporzionali. La differenza tra sistemi diversi è grande: essa infatti non riguarda solo il modo in cui i voti vengono conteggiati, ma addirittura il fine stesso per cui si tengono elezioni (J. Curtice, 1992). Infatti, le due diverse concezioni prevedono interpretazioni diverse, a cominciare da cosa viene eletto: nel sistema britannico, sebbene formalmente con le elezioni si nominino i membri della Camera, di fatto si sceglie un governo perché il potere è automaticamente in mano al leader del partito vincitore (che infatti solitamente entra in carica entro 24 ore dalla chiusura dei seggi), in virtù della netta maggioranza parlamentare di cui egli si trova a disporre; nel sistema consensuale si vota per eleggere una assemblea che rappresenti il popolo, ed il mandato governativo è una conseguenza di questo fatto. D'altro canto, questa capacità del sistema (maggioritario) di garantire una vittoria netta e solida viene scontata sul fronte della rappresentatività; nel Regno Unito, dal dopoguerra in poi, nessun partito ha mai avuto la maggioranza dei voti espressi. La salda maggioranza di cui il vincitore ha (quasi) sempre potuto godere è frutto della tendenza del sistema ad amplificare il divario tra primo e secondo partito, penalizzando ancora più pesantemente i partiti più piccoli. I difensori del sistema maggioritario affermano che esso è l'unico sistema per dare all'elettorato il potere di decidere effettivamente il governo del paese, evitando che dei piccoli partiti abbiano troppo potere; dall'altra parte, chi sostiene il modello consensuale afferma che le elezioni dovrebbero soltanto produrre una rappresentanza che, in quanto tale, dovrebbe essere equamente ripartita tra le varie componenti della società in un parlamento che, proprio in quanto verrebbe ad essere una sorta di “modello in scala” della società stessa, avrebbe il diritto e la capacità di scegliere l'esecutivo più appropriato. Inoltre, nel modello maggioritario si tende a scegliere la persona che dovrà detenere il potere e quindi si confrontano le competenze dei candidati, mentre nel modello consensuale si vota per un certo tipo di politica piuttosto che un'altra; l'individuo passa quindi in secondo piano per fare spazio alle idee portate avanti dalla formazione cui egli appartiene. Infine, la concezione “maggioritaria” vede la chiamata alle urne come uno strumento per rendere il governo responsabile di fronte ai cittadini; se il governo ha lavorato bene verrà premiato, altrimenti sarà punito con la sconfitta elettorale. Tipicamente, nel sistema proporzionale la valutazione del governo è “prospettica”, piuttosto che retrospettiva; si vota per il partito (o la coalizione) dal quale ci si aspetta il meglio, e di questo risentirebbe secondo i suoi detrattori la responsabilizzazione dei governanti. Il sistema plurality Come abbiamo già ricordato, questi due paesi hanno una lunga tradizione democratica comune, ed hanno a lungo condiviso un analogo apparato istituzionale così come il sistema elettorale; il sistema tradizionalmente usato in Inghilterra è il maggioritario di tipo plurality (o a maggioranza relativa) a collegio uninominale; in inglese, Single Member Plurality (SMP). Questo significa che il paese viene diviso in tanti collegi elettorali quanti sono i seggi parlamentari; ogni collegio elegge un suo rappresentante, che diventa quindi “portavoce” di una certa comunità territoriale presso il parlamento nazionale che, è appena il caso di ricordarlo, è monocamerale in entrambi i paesi (in realtà il Regno Unito ha due camere, ma quella dei Lords è ormai ridotta ad avere un ruolo di mera 2


rappresentanza). È da notare come i collegi vengano disegnati in modo da distribuire nel modo più uniforme possibile la popolazione tra i vari distretti: le zone meno densamente popolate avranno quindi collegi geograficamente molto estesi, mentre quelle ad alta densità abitativa (come ad esempio la zona di Londra e le città in genere) saranno ripartite in collegi molto più piccoli. Nel caso britannico i seggi oscillano intorno al numero di 640, mentre nel sistema neozelandese antecedente al 1996 essi hanno raggiunto al loro massimo le 99 unità. Nei sistemi di tipo plurality per essere eletti all'interno del collegio i candidati hanno bisogno di ottenere la maggioranza relativa dei voti validi espressi; ciò significa che, in sostanza, vince il candidato che prende più voti di ogni altro. Questo sistema produce una forte non proporzionalità rappresentativa, ed è per questo motivo che solitamente viene abbinato a collegi uninominali; come sappiamo, la dimensione del collegio in un sistema maggioritario è inversamente proporzionale alla proporzionalità finale del sistema. Il sistema maggioritario presenta quindi, per sua stessa natura, un forte sbarramento all'ingresso in parlamento dei partiti minori, laddove invece i più grandi vengono sistematicamente sovrarappresentati. Per questo nei sistemi che andremo ad osservare mancano del tutto delle soglie elettorali esplicite: esse sarebbero inutili, in quanto ampiamente scavalcate da altissime soglie implicite, sia pure a livello di singolo collegio. È infatti evidente come, essendo necessario per un partito raggiungere la maggioranza relativa per essere ammesso in parlamento, qualora esso non raggiunga una percentuale molto consistente di consensi (sull'ordine del 35/40%) esso verrà privato della rappresentanza. La soglia elettorale implicita del sistema è in sostanza equivalente alla percentuale di voti necessaria per ottenere il seggio; Lijphart propone un metodo per calcolare tale soglia basato sulla grandezza del collegio, tramite la seguente formula: T =

0,75 M 1

in cui T indica la soglia e M la grandezza media del collegio espressa tramite il numero di seggi assegnati. Secondo tale formula, la soglia di sbarramento implicita posta in essere da un sistema uninominale è pari a circa il 37,5%. Questo sistema rappresenta una “rete” nella quale si impigliano molti piccoli partiti, i quali non riescono a raggiungere quote consistenti a livello di singolo collegio; gli unici tra i partiti minori che riescono ad ottenere seggi sono i partiti territoriali, ovvero quelli che esprimono interessi nazionalisti locali o comunque propri di una comunità geograficamente definita, e che godono quindi di un sostegno distribuito disomogeneamente all'interno dello stato. Nelle zone di maggiore radicamento, questi possono facilmente riuscire a vincere alcuni seggi; non è un caso che, nel Regno Unito, gli unici partiti presenti in parlamento oltre ai tre maggiori (Labour, Conservative e Liberal Democrats) sono quelli che rappresentano comunità locali: Scottish National Party, Ulster Unionist, Plaid Cymru (il partito gallese), Sinn Fein (indipendentista irlandese), Democratic Unionist sono tutti partiti che portano in parlamento interessi spiccatamente localistici (anche se non sempre indipendentisti) e per questo godono di larghi consensi, sia pure a livello di singoli collegi (la loro rappresentanza parlamentare è sempre rimasta assai ristretta). Possiamo quindi affermare che se il sistema inglese non riesce a impedire l'acceso ai partiti minori, è perché il Regno Unito è uno stato multinazionale, nel quale è sempre presente la possibilità che emergano movimenti nazionalisti (J. Curtice, 1992).

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Le differenze tra i due paesi Pur essendo i due sistemi molto simili tra loro, dall'analisi dei due casi emergono alcune differenze significative nell'applicazione dello stesso modello. Tra queste spiccano due: 1. la dimensione relativa del corpo degli eletti; 2. la presenza di collegi dedicati alla minoranza Maori in Nuova Zelanda. Come ricordato da Lijphart, la proporzionalità di un sistema democratico, specialmente se maggioritario, è fortemente influenzata dal numero dei parlamentari eletti: poiché un sistema elettorale ha il compito di tradurre i voti in seggi, il numero di questi ultimi sarà parte integrante del meccanismo e la proporzionalità del sistema aumenterà tendenzialmente con l'aumento dei seggi in palio. Nel caso di un parlamento di grandi dimensioni non sorgono problemi di sorta, ma qualora si scenda sotto i 100 membri, un cambiamento anche piccolo del loro numero può riflettersi in una diversa ripartizione percentuale dei seggi (A. Lijphart, 1999). L'evidenza empirica mostra come i paesi grandi abbiano di norma parlamenti numericamente assai più cospicui di quelli poco popolati, e che la loro dimensione minima ottimale possa essere approssimata con la radice cubica della popolazione. Nei paesi che utilizzano il plurality la deviazione (in senso diminutivo) da questa “regola empirica” porta sempre un sensibile incremento della non proporzionalità elettorale. Nel caso dei due paesi qui analizzati, la differenza tra i due è notevole: la Camera dei Comuni britannica risulta infatti “ridondante” rispetto a questo criterio, con un numero di 646 seggi (nel 2005) a fronte di una popolazione la cui radice cubica ammonta a circa 450; essa ha quindi una composizione che, nei limiti del sistema maggioritario, permette una buona proporzionalità elettorale grazie ad un oculato dimensionamento dei seggi. Il caso neozelandese è radicalmente differente: la pur esigua popolazione del paese è stata rappresentata fino al 1996 da 99 parlamentari, numero poi aumentato a 120 con la riforma del sistema elettorale decisa nel 1993. Tuttavia, già nei primi anni Novanta la popolazione era abbastanza numerosa da richiedere una rappresentanza molto più cospicua, visto che la radice cubica degli allora circa tre milioni e mezzo di abitanti si attestava intorno a 150. Questo significa che la popolazione era fortemente sottorappresentata, essendo il parlamento inferiore di circa il 30% rispetto alla dimensione minima ottimale. Questo potrebbe avere contribuito a creare il clima di sfiducia verso la classe politica che, come vedremo più avanti, si è instaurato a partire dagli anni Settanta, ed ha condotto dopo alterne vicende ad un radicale cambiamento del sistema elettorale. Con la riforma il numero dei seggi è stato portato a 120, numero che è ancora fortemente inferiore alla radice cubica di una popolazione che nel frattempo è cresciuta di circa il 20%; tuttavia, il passaggio ad un sistema elettorale proporzionale ha senz'altro minimizzato l'importanza di questo scarto, senza contare che la popolazione guarda da tempo con diffidenza ai tentativi di allargamento della camera. Passando al secondo punto di divergenza tra il sistema del Regno Unito e quello della sua ex colonia, è rilevante come in quest'ultima siano tradizionalmente presenti dei seggi riservati ai Maori. Oltre che uno scostamento dal modello inglese, il quale non prevede collegi riservati (sebbene il Regno Unito sia a pieno titolo uno stato multinazionale), la presenza di tali seggi è una deroga al principio maggioritario secondo cui “chi vince piglia tutto”, ovvero solo la maggioranza viene rappresentata. Scopo esplicito di tali seggi è, al contrario, garantire rappresentanza ad una minoranza etnica che altrimenti rischierebbe di venire sistematicamente esclusa dalle dinamiche del potere; in nome della non discriminazione tra cittadini, tuttavia, tali seggi sono riservati ma non 4


obbligatori: i Maori sono cioè liberi di scegliere se votare nei seggi riservati, previa iscrizione in un apposito registro, oppure nei collegi normali. Fino al 1993 il numero dei seggi riservati è stato fissato a quattro, dopo la riforma può invece variare in proporzione al numero di persone che vi si iscrivono; alle elezioni che si terranno a fine 2008, i collegi Maori saranno sette1. Il sistema sotto accusa Prima di vedere cosa è successo in Nuova Zelanda negli anni Novanta e come sia cambiato il suo sistema elettorale, occorre aprire una breve parentesi storica; infatti, il percorso della riforma elettorale neozelandese è stato tortuoso ed è durato alcuni decenni. Fin dagli anni Settanta si è parlato di riforma elettorale in molti paesi del Commonwealth che utilizzano il sistema Westminster; tuttavia, solo in pochi casi i governi hanno raccolto la sfida, incaricando apposite commissioni di studiare le possibili modifiche. Il caso più notevole di percorso di riforma giunto a compimento è il caso neozelandese, ma nello stesso Regno Unito il partito laburista ha parlato, durante la campagna elettorale del 1997, di sottoporre al vaglio della volontà popolare un metodo alternativo di votazione. La promessa non è stata in seguito mantenuta, sebbene il governo avesse incaricato una commissione di valutare le possibili alternative. Le vicende di UK e Nuova Zelanda sono state in parte simili tra loro: entrambi i paesi sono stati percorsi da malcontento per il funzionamento del sistema elettorale; inoltre, in entrambi i casi un grande partito politico si è visto fortemente penalizzato dalla non proporzionalità tipica del SMP: in Nuova Zelanda il Labour ha perso due elezioni consecutive (nel 1978 e nel 1981) nonostante una quantità di voti superiore al suo avversario; nel Regno Unito i laburisti sono rimasti tagliati fuori dal governo per ben 18 anni (dal 1979 al 1997), iniziando a temere che non sarebbero mai tornati al potere con il sistema vigente. Come ha affermato Josep Colomer, lo spostamento verso un sistema proporzionale avviene quando l'elettorato supporta un numero maggiore di partiti rispetto a quelli dominanti, anche se tale supporto non si traduce immediatamente in un sostanziale cambiamento dei rapporti di potere interni al parlamento (Colomer, 2005). Questo è esattamente quanto è avvenuto a partire dagli anni Settanta in alcuni paesi del Commonwealth, compreso il Regno Unito e, naturalmente, la Nuova Zelanda, in cui il supporto ai due partiti maggiori è scivolato dal 90% degli anni '50 al 70% negli anni Settanta, in modo lento ma costante. Questo ha evidentemente messo in discussione il consenso attorno al sistema tradizionale inglese: nel 1976 la Commissione della Hansard Society per la riforma elettorale raccomandava l'adozione da parte del Regno Unito di un sistema elettorale proporzionale simile a quello tedesco, e più tardi il partito laburista avrebbe studiato la questione senza risultati concreti, data anche la sua lunga assenza dal potere, nel pressoché totale disinteresse da parte dei conservatori. Anche se i partiti minori sono fisiologicamente quelli più penalizzati da un sistema come quello britannico, oltre a essere coloro che più si sono battuti per modificare le regole, è vero che anche i partiti grandi, veri protagonisti della competizione politica, si sono spesso trovati in difficoltà per sua causa, e proprio in nome di queste “ingiustizie” subite hanno sposato la causa riformista (Lundberg, 2007). Le promesse sono sempre state fatte stando all'opposizione, ma nel caso neozelandese il meccanismo che si è innescato ha permesso che gli stessi partiti dominanti, ovvero quelli a cui tornava utile la non proporzionalità elettorale, cambiassero le regole del gioco, come spiegheremo più avanti. 1(http://www.elections.org.nz/enrolment/enrol­faqs/Maori ­option­faq.html, 02/06/08) 5


Nel Regno Unito il dibattito sull'opportunità di una riforma del sistema elettorale ha raggiunto la sua massima diffusione negli anni Novanta: il partito Laburista, tra mille incertezze e divisioni interne, ha fatto sua questa causa e, una volta arrivato al governo nel 1997, ha mantenuto il suo proposito istituendo una commissione per studiare la questione. Il tentativo dei laburisti è stato però ambiguo e poco deciso, lo dimostra la natura stessa del gruppo di esperti. La “Commissione Indipendente sul Sistema Elettorale” (detta anche “Commissione Jenkins”) era infatti composta esclusivamente da Lord, membri della Camera e comunque persone che avevano avuto un ruolo nella politica: questo fa sì che essa non fosse così “indipendente” come il nome suggeriva, ma cercasse di conciliare le esigenze delle forze politiche dominanti, piuttosto che effettuare una analisi imparziale delle necessità del paese. Questo suscitò in effetti molte critiche, e qualcuno ha commentato i lavori della commissione affermando che essa si prefiggeva di trovare una soluzione che fosse “abbastanza per soddisfare i riformisti, e abbastanza poco da non spaventare i conservatori” (Iain McLean, 1999); sfortunatamente, le conclusioni raggiunte dalla commissione (presentate nel 1998) hanno poi finito per non piacere a nessuno dei due. La proposta era quella di adottare un sistema misto, in cui la grande maggioranza dei seggi era attribuita in collegi uninominali utilizzando il voto alternativo, mentre un 15/20% sarebbe stato assegnato in modo proporzionale tramite liste di partito. La piccola quantità dei seggi da assegnare tramite il voto di lista e la scarsa proporzionalità del sistema hanno scontentato i riformisti prima ancora che i conservatori, cosicché il progetto di riforma è rimasto finora lettera morta. La tortuosa strada della riforma in Nuova Zelanda Nel 1993 gli elettori hanno votato, insieme al governo, per un referendum che ha stabilito di cambiare il sistema elettorale in senso nettamente proporzionale. Agli elettori è stato chiesto di scegliere tra il sistema plurality in vigore (mantenendo una camera di 99 membri) ed un sistema proporzionale misto modellato su quello tedesco, adottando un parlamento di 120 membri. La questione delle dimensioni della camera ha suscitato polemiche, dato che si temeva che l'impopolarità della classe politica avrebbe fatto spostare le preferenze verso il mantenimento del sistema in vigore, effetto che quasi certamente ha ridotto il sostegno alla riforma proporzionale (J. Vowles, 1994). La campagna referendaria è stata dominata dallo scontro fra due organizzazioni: la Electoral Reform Coalition (ERC), una compagine eterogenea di riformisti che ha portato avanti le istanze riformatrici fin dal 1986, e la Campaign for Better Government (CBG), che si è invece spesa per difendere il sistema plurality. Da notare come la CBG abbia condotto una possente campagna mediatica volta ad alienare il consenso degli elettori per il nuovo sistema, disponendo di un budget enorme se paragonato a quello degli avversari perché finanziata dal mondo imprenditoriale. Dopo mesi di intenso dibattito, gli elettori hanno deciso di cambiare il sistema, anche se con uno scarto limitato (53,9% contro il 46,1%), tanto che l'esito del referendum non è stato evidente fino al momento dello spoglio. Il nuovo sistema elettorale è di tipo proporzionale misto (in inglese, Mixed Member Proportional o MMP), ovvero integra elementi maggioritari con altri tipici di un sistema proporzionale (v. pag. 11): prevede 60 circoscrizioni elettorali (che in Nuova Zelanda si chiamano “elettorati generali”), più alcuni collegi riservati ai Maori; il loro numero esatto dipende dal numero di Maori che scelgono di votare in essi invece che nei collegi normali. Questo è un cambiamento notevole per la rappresentanza dei Maori (che costituiscono circa il 15% della popolazione), i quali finora avevano avuto 4 seggi indipendentemente dalla popolazione in essi compresa; un numero maggiore di seggi Maori ridurrebbe leggermente il numero dei collegi generali a North Island, dove è concentrata tale 6


minoranza etnica. Il numero dei seggi è stato portato a 120; il sistema li ripartisce in modo da massimizzare la proporzionalità rappresentativa in parlamento in base alle preferenze espresse con il voto di lista. Un partito che guadagnasse 30 seggi tramite il voto nominale ed il 25% delle preferenze tramite il voto di lista, ad esempio, non riceverebbe seggi aggiuntivi perché la sua quota è rappresentativa delle preferenze ricevute dall'elettorato (30 seggi sono in effetti il 25% del totale); se invece questo ottenesse solo 15 seggi ed il 25% tramite la lista, gli verrebbero attribuiti altri 15 seggi per rendere la sua presenza in parlamento proporzionale ai voti ricevuti. Per capire cosa ha portato ad un tale cambiamento, occorre andare un po' indietro nel tempo. Da decenni, come abbiamo già ricordato, la validità del sistema plurality cominciava ad essere messa in discussione un po' dappertutto, con intensità differenti in ogni paese; in Nuova Zelanda, tuttavia, a soffiare sul fuoco del malcontento è stato il risentimento verso la classe politica, e in particolare verso i partiti dominanti. Questo è emerso chiaramente con le elezioni del 1993, che hanno portato in parlamento due partiti minori: “New Zealand First” e “Alliance” hanno ottenuto soltanto due seggi ciascuno, ma questo è comunque il caso di maggiore rappresentazione di partiti “terzi” dal 1935. Inoltre, i due partiti hanno ottenuto ben il 26,6% dei voti espressi; la disparità tra preferenze elettorali e rappresentazione politica di tali preferenze è un indicatore eloquente della scarsa rappresentatività del parlamento eletto, con i problemi di legittimazione che ne conseguono. Inoltre, questi due partiti sono divenuti l'ago della bilancia della maggioranza parlamentare; il National Party ha avuto una maggioranza di appena un seggio, portato a due dall'elezione di un membro del Labour a speaker della Camera. Questo fallimento del sistema plurality nel rappresentare il voto popolare e contemporaneamente nel consegnare una solida maggioranza al vincitore è tuttavia solo l'epilogo di un trend almeno ventennale di progressivo disallineamento degli elettori nei confronti dei due partiti dominanti. I primi a portare avanti, tra mille resistenze interne, idee di riforma elettorale furono i laburisti all'inizio degli anni Ottanta, reduci da due tornate elettorali (1978 e 1981) perdute nettamente quanto a numero di seggi, nonostante in entrambe il favore popolare avesse preferito il loro partito. Allora le ipotesi di cambiamento ebbero una certa risonanza grazie al libro “Unbridled power?” (“potere incontrollato?”) di Geoffrey Palmer, che affermava la necessità di eleggere con un metodo proporzionale una parte della Camera pari a circa un terzo. La popolarità della classe politica e dei due partiti dominanti ha avuto negli anni seguenti un costante declino, dovuto in gran parte alle scelte fatte sia dai governi di destra che da quelli di sinistra per arginare i danni della crisi petrolifera degli anni Settanta; scelte impopolari sia presso la classe dirigente e imprenditoriale, sia presso il popolo in generale. Di questa stagione si ricordano i continui cambi di rotta, ma soprattutto la mole di contraddizioni e incoerenze che hanno caratterizzato le principali decisioni dei partiti: ad esempio, il governo del National Party, conservatore, ha attuato politiche economiche di forte interventismo statale; il Labour, una volta arrivato al potere, ha invece deciso di spostarsi verso un forte disimpegno dello stato in materia economica, che il successivo governo conservatore non ha modificato (come tutti invece si aspettavano): questo ha deluso nel lungo periodo fasce sempre più estese dell'elettorato, che ha iniziato a spostare le sue preferenze verso altri partiti. Il sistema elettorale ha creato in questo contesto una serie di maggioranze forti, che avevano però una base elettorale effettiva sempre più ristretta: possiamo quindi affermare che il sistema plurality ha fallito nel garantire il controllo sull'operato del governo (J. Vowles, 1995) ed ha sclerotizzato la dialettica politica riducendola al dialogo tra due partiti sempre meno legittimati.

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Due motivi per cui la responsabilità è venuta meno: 1. grande coesione partitica in un piccolo parlamento, che ha indebolito quest'ultimo nei confronti del governo ed ha allentato il legame esistente tra elettori e parlamentari; 2. il crescente disallineamento degli elettori ha reso difficoltoso “richiamare” i governi che adottassero misure sgradite, perché il voto contrario è stato sistematicamente sottorappresentato e spesso perfino lasciato senza alcuna rappresentanza parlamentare.

Numero di elettori dei due partiti maggiori Fonte: "The Politics of electoral reform in New Zealand", J. Vowles 1995

Come vediamo nel grafico, il disallineamento si manifesta come una diminuzione della percentuale di coloro che votano per i due partiti maggiori, trend costante nel lungo periodo che ha avuto un'accelerazione negli anni Novanta. Un altro aspetto da non trascurare del tessuto politico neozelandese è che i cittadini tendono a pensare alla politica in modo “populista”, e ad identificare quindi la buona politica con quella che segue fedelmente la volontà della maggioranza; dai primi anni Novanta un numero sempre maggiore di persone era convinto che il governo non tenesse conto delle proprie richieste (Lamare, 1991); in conseguenza di ciò, nel 1993 avevano piena fiducia nel Parlamento solo il 4% degli elettori, come mostra il grafico sottostante. I dati del grafico seguente sono basati su un'indagine condotta dallo Heylen Research Centre, in cui si chiedeva agli intervistati se essi avessero piena fiducia nel parlamento; è evidente il trend di costante discesa, che culmina nel 1993 con un minimo storico eccezionalmente basso.

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Fiducia nel parlamento neozelandese Fonte: "The Politics of electoral reform in New Zealand", J. Vowles 1995

Tuttavia, ciò che davvero ha portato al cambiamento è stata la competizione tra i partiti, più che un dissenso che comunque aveva scarsa voce in capitolo; nel 1984 il governo Labour istituì un gruppo di studio che si pronunciò in favore dell'adozione di un sistema Proporzionale Misto (Royal Commission on the Electoral System, 1986); tuttavia il governo era diviso sul tema e poiché la maggioranza era contraria, la proposta fu lasciata cadere. Tuttavia, durante la campagna elettorale il candidato del Labour disse in televisione che il suo governo avrebbe indetto un referendum sulla legge elettorale; questo risultò essere stato un errore grossolano perché in realtà il partito non ne aveva alcuna intenzione (Jackson, 1993: 18). Nel 1988 la commissione parlamentare sulla legge elettorale presentò un rapporto in cui si difendeva il sistema vigente, proponendo solo un piccolo correttivo proporzionale che non cambiava la sostanza del sistema; proposta immediatamente bocciata dai riformisti. Il governo Labour, in imbarazzo per la rapida liquidazione della proposta e incapace di proporre una vera alternativa, si ritrovò nel 1989 a dover difendere il sistema in vigore affermando che non c'erano i margini consensuali necessari per procedere ad una riforma radicale. Nel frattempo iniziò una crescente richiesta di un referendum; i conservatori all'opposizione cavalcarono questo malcontento, proclamando che il loro governo avrebbe riformato il sistema. Il National Party non voleva un sistema proporzionale, ma tra le sue file vi era una radicata convinzione che un referendum popolare avrebbe mantenuto le cose come stavano; tuttavia, la loro presa di posizione spinse anche alcuni membri dello schieramento opposto a schierarsi più decisamente a favore del referendum. Anche nell'opinione pubblica il favore verso un cambiamento in senso proporzionale si accresceva: nel 1990 ben il 65% degli elettori era favorevole a cambiare (Vowles and Aimer, 1993:220). Arrivato al governo, il National Party indisse il referendum come promesso, ma scelse una strada 9


tortuosa: in una prima chiamata alle urne nel 1992 venne chiesto ai cittadini se volevano cambiare o meno il sistema attuale; l'86% disse di si. L'elettore doveva anche parallelamente scegliere tra quattro diversi sistemi elettorali, e anche qui la schiacciante maggioranza della popolazione, il 70,5%, scelse il proporzionale misto. Un secondo referendum, tenutosi nel 1993, ha chiesto alla volontà popolare di ratificare la nuova legge elettorale elaborata secondo i risultati del voto referendario dell'anno precedente, ed intorno ad esso si è giocata un'aspra battaglia propagandistica. L'organizzazione che si è fatta promotrice del cambiamento è stata la Electoral Reform Coalition, formatasi dopo la pubblicazione del rapporto della commissione reale del 1986, del quale ha proposto la messa in pratica tramite un referendum popolare. I partiti minori sono divenuti ben presto suoi grandi alleati, mentre tra i maggiori solo alcuni membri hanno aderito a titolo personale; un'altra preziosa risorsa organizzativa e propagandistica è venuta dall'appoggio dei sindacati. La risposta ai circoli pro­riforma ha tardato molto ad apparire; convinti fino all'ultimo dell'inutilità del referendum, gli oppositori in parlamento hanno formato un corpo unico solo nel 1992, quando è stato deciso il referendum; anche il mondo imprenditoriale si è schierato contro la riforma, e mentre saliva il consenso intorno al referendum le 40 maggiori aziende del paese hanno costituito il Business Roundtable (BRT), nel quale sedevano i rispettivi amministratori delegati, il quale ha commissionato uno studio che difendesse il sistema esistente. Dopo un tentativo finito ingloriosamente (una organizzazione fondata e subito abbandonata per l'impopolarità suscitata) l'opposizione al MMP ha trovato una sponda nella Campaign for Better Government (CBG), creata nel 1993 a ridosso del referendum da un uomo d'affari che (appoggiato da un folto gruppo di politici) ha raccolto in breve tempo una grande quantità di fondi per finanziare una campagna tanto pressante da divenire nella settimana precedente il referendum il principale inserzionista televisivo (Armstrong, 1993). I punti chiave della riforma Le principali questioni che la commissione elettorale incaricata di redigere la nuova legge ha dovuto affrontare sono: 1. la questione della rappresentanza Maori ­ Fin dal 1867 sono esistiti 4 collegi riservati ai Maori, indipendentemente dalla popolazione in essi compresa o, dal 1975, dal numero dei Maori che avessero scelto di votare nei collegi riservati. Da decenni ormai quei seggi erano un feudo del Labour, e la rigida disciplina di partito impediva agli eletti dai Maori di farsi portavoce delle loro istanze. Nell'intento di tutelare e migliorare la loro rappresentanza, passando al MMP era stato proposto di abolire i collegi riservati, esentando i partiti Maori dall'obbligo di superare la soglia di sbarramento elettorale; tuttavia ciò è sembrato un eccesso di favoritismo. È stato inoltre deciso che il numero dei collegi riservati dovesse essere proporzionale alla popolazione in essi iscritta; 2. il numero dei parlamentari ­ Conformemente alla visione dei riformatori, è stato seguito il consiglio della commissione reale di aumentare il loro numero, a prescindere dal sistema che sarebbe stato scelto: il numero di 120 sembrava particolarmente adatto alla stessa commissione in caso di adozione del sistema MMP. L'allargamento è sembrato opportuno per dare forza ai parlamentari senza incarichi di governo (i cosiddetti backbenchers), e ridimensionare quindi il peso dell'esecutivo nell'equilibrio dei poteri tra questo ed il Parlamento, oltre ad aumentare la grandezza (e quindi la democraticità) delle commissioni 10


parlamentari; considerato che l'allargamento del parlamento era un argomento poco gradito all'opinione pubblica, questo dettaglio ha certo posto un'ipoteca sulla popolarità del quesito referendario; 3. l'opportunità o meno di utilizzare liste aperte ­ la commissione, seguendo di nuovo il parere della Commissione Reale, decise per le liste chiuse per dare ai partiti la libertà di mandare in parlamento rappresentanti di certe categorie o minoranze, considerando anche la preferenza degli elettori per i partiti coesi, e l'alto grado di disciplina presente all'interno dei partiti stessi. D'altro canto, le liste aperte erano considerate più coerenti con la filosofia del MMP e più democratiche, in grado di spezzare il ferreo vincolo di lealtà dei membri al partito; su questa questione i riformisti si sono spaccati ma alla fine è stato deciso di utilizzare liste chiuse. Su questo aspetto si è concentrata la polemica degli anti­riformisti, che ne hanno evidenziato la scarsa democraticità. Il sistema MMP Come abbiamo già detto, la riforma elettorale ha portato a 120 il numero dei parlamentari, che sono eletti direttamente dal popolo a suffragio universale per un mandato di tre anni. Il sistema elettorale utilizzato dal 1996 è del tipo proporzionale misto (in inglese Mixed Member Proportional o MMP), ed elegge una parte dei parlamentari su base nazionale in modo proporzionale ed una parte su base territoriale, all'interno di apposite circoscrizioni concepite in modo da dare voce alle diverse regioni ed alle minoranze (esistono ancora i seggi speciali per i Maori). Il paese è diviso in un certo numero di collegi uninominali (65 nel 1996, 67 nel 1999 e 69 nel 2002 e 2005), che determinano ognuno un vincitore utilizzando la formula plurality; oltre ad un candidato per ogni collegio, i partiti presentano liste nazionali: ogni elettore assegna così due preferenze, una alla lista ed una al candidato prescelto. Le liste sono bloccate, l'elettore non può quindi assegnare preferenze nominali al loro interno o modificare l'ordine delle preferenze; il voto di lista è il più importante perché è quello che in sede ultima determina la composizione della Camera dei Rappresentanti. Con l'adozione di una formula proporzionale è sembrato opportuno introdurre una soglia elettorale esplicita: per essere ammesso alla ripartizione dei seggi, un partito deve raggiungere almeno il 5% dei voti validi espressi, oppure vincere almeno un seggio uninominale (quindi per un piccolo partito guadagnare almeno un seggio è prezioso). I seggi sono ripartiti utilizzando il metodo di Sainte­ Laguë; se un candidato viene eletto sia nominalmente che tramite la lista di partito, viene escluso da quest'ultima e il suo posto viene preso da quello che lo segue sulla lista. Questo sistema porta lievi distorsioni perché spesso il numero di seggi guadagnati tramite le preferenze di partito è differente da quello derivante dalle preferenze nominali: un partito potrebbe vincere più seggi tramite l'elezione nominale che con la ripartizione proporzionale. In questo caso, il partito mantiene il surplus di seggi, ed il totale dei posti alla Camera viene aumentato, come è avvenuto nel 2005 quando il partito dei Maori, con il 2,1% dei voti, ha ottenuto direttamente quattro seggi, ma solo tre tramite la ripartizione. Il partito ha mantenuto il seggio in più, e la Camera è risultata composta da 121 membri, anziché 120. Come in tutti i sistemi che usano una soglia elettorale, è piuttosto comune il voto tattico: in Nuova Zelanda questo è stato usato da chi preferiva i partiti maggiori, votando il candidato locale di un partito più piccolo: questo stratagemma aumenta la proporzionalità del sistema, perché bypassando la soglia elettorale fa entrare in parlamento anche partiti minori. 11


La formula di Sainte­Laguë La formula di Sainte­Laguë è un metodo simile alla formula D'Hondt, ma utilizza un divisore diverso: dopo che tutti i voti sono stati registrati, si calcola una serie di quozienti per ogni lista, dividendo il numero dei voti ottenuti da ciascuna per una serie di numeri dispari consecutivi: prima per 1, poi per 3, per 5,7,9 e così via. Si otterrà una serie di numeri, i quozienti appunto, che determinano l'ordine di assegnazione dei seggi, i quali andranno ai partiti cui appartengono i 120 quozienti più elevati: questi vengono ordinati dal più grande al più piccolo e il primo seggio viene assegnato alla lista cui appartiene il primo quoziente, il secondo alla successiva e così via fino all'esaurimento dei seggi disponibili. Tale formula restituisce risultati simili a quelli della formula di Webster, sebbene quest'ultima utilizzi un sistema di calcolo differente. La procedura seguita per l'assegnazione dei seggi è la seguente: 1. si sommano tutti i voti nazionali (di lista) e si costruisce una tabella che mostra il numero di voti raccolti da ogni partito, la percentuale sul totale dei voti ed il numero dei seggi aggiudicati; 2. si determina quali partiti vanno eliminati perché non hanno raggiunto la soglia richiesta (5% o un collegio), e si eliminano dal conteggio i loro voti; 3. si applica la formula di Sainte­Laguë ai voti dei partiti che sono rimasti, calcolando i quozienti relativi ad ogni partito; 4. si determina il numero dei seggi conquistati da ogni partito, contando il numero dei quozienti che il partito ha tra i 120 più alti; 5. si confronta il numero di collegi uninominali vinti da ogni partito con il numero dei seggi attribuitigli tramite il conteggio di cui al punto 4, e si assegna ad ogni partito il numero di seggi conquistati prendendo il numero più grande fra i due; 6. si cancellano dalle liste di partito i candidati che sono stati eletti con il voto singolo in un collegio; 7. si ripartiscono i seggi di ogni partito ai candidati presenti nelle liste, partendo dall'alto; 8. i candidati cui è stato assegnato un seggio vengono dichiarati eletti al Parlamento con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei loro nomi. Conclusioni Il caso britannico è uno degli esempi più consolidati di sistema maggioritario di tipo plurality: ben poco si può dire su di esso che non sia già stato detto o scritto da altri. Lo scopo ultimo di questa breve trattazione è tuttavia quello di aggiornare in qualche modo i risultati e i dati esposti da Lijphart, per capire se e come il sistema sia cambiato negli ultimi anni; per meglio formalizzare i concetti e individuare tendenze e cambiamenti ci affideremo adesso a qualche semplice elaborazione grafica. Il diagramma sottostante mostra l'andamento del numero effettivo di partiti, calcolato utilizzando la formula di Laakso/Taagepera, nel periodo che va dal 1945 alle elezioni del 2005. Possiamo osservare come tale valore, pur muovendosi sempre attorno a valori molto prossimi a 2 (come è tipico dei sistemi maggioritari), stia leggermente spostandosi verso l'alto: infatti, la retta di regressione mostra una chiara inclinazione positiva. Sebbene esso sia piuttosto contenuto, l'aumento del numero effettivo di partiti può essere interpretato come un leggero declino del sostegno ai partiti 12


maggiori, che sembra essere confermato da un marcato incremento della non proporzionalità elettorale, calcolata utilizzando la formula di Gallagher.

Numero effettivo di partiti ­ U.K. 4,0 3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0 1940

1950

1960

1970

1980

1990

2000

2010

Fonte: elaborazione propria

Non proporzionalità elettorale ­ U.K. 24% 22% 20% 18% 16% 14% 12% 10% 8% 6% 4% 2% 0% 1940

1950

1960

1970

1980

1990

2000

2010

Fonte: elaborazione propria

Il grafico, che mostra l'andamento della proporzionalità della rappresentanza dal 1945 al 2005, ci mostra un trend di crescita evidente: sia pure in modo contraddittorio e discontinuo, il valore medio di tale indice è salito notevolmente nel corso dei decenni. Questo appare del tutto coerente con le statistiche elaborate da Lijphart, le quali mostravano già nel 1996 una tendenza all'aumento della non proporzionalità. Infatti, la media dell'indice di Gallagher indicata nel libro “Le democrazie contemporanee” corrisponde a 10.33% per il periodo 1945/1996, ma l'autore mostra anche come lo 13


stesso valore nel periodo 1971/1996 sia sensibilmente aumentato a 14,66%. Sembra dunque in atto un lento ma costante processo di cambiamento delle dinamiche elettorali britanniche il quale, qualora non venisse riassorbito coagulando maggiori consensi intorno ai partiti principali, potrebbe arrivare a mettere in difficoltà il sistema inglese; tuttavia è troppo presto per fare previsioni. Se andiamo invece a vedere il caso neozelandese, ci troviamo di fronte a statistiche del tutto sovvertite rispetto al secolo scorso: il palese motivo dei grandi cambiamenti occorsi è la radicale riforma del sistema elettorale. Con le prime elezioni tenute utilizzando il nuovo sistema, nel 1996, il panorama politico è risultato del tutto cambiato:

Numero effettivo di partiti ­ N.Z. 4,0 3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0 1940

1950

1960

1970

1980

1990

2000

2010

Fonte: elaborazione propria

come si vede chiaramente, il numero effettivo di partiti si discosta leggermente dalla media con le elezioni del 1993, in cui ben due dei partiti minori hanno ottenuto seggi, per poi subire una impennata dopo le elezioni del 1996, tenute con il nuovo sistema proporzionale. Il NEP fino al 1993 si era attestato su valori tipici dei sistemi maggioritari (e dello stesso Regno Unito), tutti molto vicini a 2; nel 1996 ben sei partiti hanno varcato la soglia del Parlamento, e con una ripartizione dei seggi molto meno sbilanciata a favore dei partiti grandi: questo ha portato il NEP ad un valore record per questo paese: 3,76. Fin dalle prime elezioni tenute con il nuovo sistema, il numero di partiti in parlamento è dunque notevolmente salito e la proporzionalità è vistosamente aumentata; inoltre, nessun partito ha più la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento.

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Non proporzionalità elettorale ­ N.Z. 24% 20% 16% 12% 8% 4% 0% 1940

1950

1960

1970

1980

1990

2000

2010

Fonte: elaborazione propria

Anche la non proporzionalità rappresentativa mostra una sostanziale variazione sia nel valore che nella tendenza in corrispondenza dell'adozione del nuovo sistema: dopo essersi attestata su valori piuttosto alti (seppure coerenti con la media dei sistemi maggioritari), essa è crollata nel 1996 da un valore del 18% a un modesto 3%. A questo sembra seguire un processo di assestamento che potrebbe non essersi ancora esaurito, sebbene alle ultime elezioni (tenutesi nel 2005) l'indice di Gallagher abbia raggiunto il valore estremamente basso dell' 1% circa. Dopo la riforma la non proporzionalità ha quindi avuto un trend discendente, mentre nella seconda metà del Novecento essa era cresciuta senza sosta: Lijphart parla di un valore medio tra il 1945 ed il 1996 di 11,11%, che tra il 1971 ed il 1996 era salito fino a 14,63%. Il caso neozelandese è dunque ricco di implicazioni, e merita il grande interesse mostrato da molti studiosi che lo hanno eretto a caso paradigmatico di come il sistema elettorale sia in grado di modificare sostanzialmente il panorama partitico e le dinamiche parlamentari. Sebbene la cosiddetta “Legge di Duverger”, la quale afferma che il sistema elettorale influisce modificandolo sul sistema partitico di una nazione, sia tuttora oggetto di dibattito e non sia ancora universalmente accettata come valida, è indubbio che l'osservazione delle vicende neozelandesi suggerisce conclusioni del tutto coerenti con questo enunciato. Duverger ha infatti affermato che i sistemi plurality favorirebbero la formazione di sistemi bipartitici, mentre sistemi proporzionali o maggioritari a due turni porterebbero tendenzialmente verso il multipartitismo (Duverger, 1964). Questo è sicuramente accaduto in Nuova Zelanda, come mostrano chiaramente i dati ed i grafici: tuttavia, non possiamo considerare questo cambiamento come una “distorsione” o come un “arbitrio” compiuto dal sistema elettorale nei confronti del sistema partitico. Come abbiamo già ripetuto, infatti, negli anni precedenti la riforma neozelandese il paese aveva assistito ad un progressivo e consistente aumento della non proporzionalità rappresentativa, che aveva portato vistose distorsioni. L'adozione del nuovo sistema non ha certo alterato, ma piuttosto riequilibrato una situazione che il semplice plurality non era più in grado di gestire, e che si era sclerotizzata in un circolo vizioso di delegittimazione e sfiducia verso i vari governi il quale non aveva altra possibilità di risolversi autonomamente, pena la solidità delle istituzioni democratiche. È d'altronde certo che questo unico caso non basta a dare le necessarie 15


fondamenta ad una legge che si pretende universale, come è vero che ogni caso specifico ha una sua storia unica e irripetibile; tuttavia, esso deve essere un ulteriore passo avanti nella comprensione di certe dinamiche, e forse verso l'accettazione e l'approfondimento di una affermazione, quella di Duverger, che ci sembra carica di senso e punto di partenza per nuove ricerche. Concludendo, negli ultimi 8 anni la Gran Bretagna non si è spostata in maniera percettibile nel continuum che separa maggioritarismo e consensualismo puro, almeno per quanto riguarda il sistema elettorale, sebbene l'andamento di alcune tendenze di lungo periodo (come l'aumento della non proporzionalità) potrebbe sollevare alcuni dubbi sulla resistenza del sistema nei decenni a venire. La Nuova Zelanda ha invece compiuto uno spostamento notevole, avvicinandosi decisamente al modello consensuale. Si può dire infine che il confronto tra il sistema britannico e quello neozelandese è certo un esercizio fruttuoso: esso induce a molte riflessioni circa le diverse qualità e difetti di due sistemi concettualmente molto distanti, ognuno dei quali ha però dei punti di forza riconosciuti. In particolare, il “grande salto” compiuto dalla piccola Nuova Zelanda allontanandosi da un modello talmente consolidato da essere dato spesso per scontato ci mostra ancora una volta come non esistano soluzioni buone o cattive in assoluto, ma solo soluzioni migliori o peggiori per singoli casi specifici.

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Riferimenti bibliografici Jack Vowles (1994) ­ New Zealand, EJPR Jack Vowles (1995) ­ The politics of electoral reform in New Zealand, International Political Science Review Report of The Royal Commission on the Electoral System (1986) P. Feltrin e D. Fabrizio ­ Questioni di soglia: sistemi elettorali e comportamento strategico degli attori partitici A. Lijphart, (2001) ­ Le democrazie contemporanee, Il Mulino Matthew Leeke, Social & general statistics section, House of commons library Pippa Norris (1995) ­ The Politics of Electoral Reform in Britain, International Political Science Review Thomas Carl Lundberg (2007) ­ Electoral System Reviews in New Zealand, Britain and Canada: A Critical Comparison I.McLean (1999) ­ The Jenkins Commission, Government and Opposition John Curtis (1992) ­ The British Electoral System: Fixture without foundation, Electoral politics, Clarendon Press Oxford J.Armstrong, (1993) ­ Anti­MMP Ads Cost $300,000 in One Week, New Zealand Herald, 11/20

Risorse internet www.elections.org.nz (22/05/08) www.wikipedia.com (24/05/08) http://www.ark.ac.uk/elections/gstv.htm (24/05/08) http://www.election.demon.co.uk/ (21/05/08) www.parliament. uk /commons/lib/research/rp2004/rp04­061.pdf (21/05/08)

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