La questione meridionale nella nascita del Regnod'Italia: l'incontro/scontro tra due nazioni

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La questione meridionale nella nascita del Regno d'Italia: l'incontro/scontro tra due nazioni di Alessandro Tocci

Corso di Storia dello sviluppo Prof. Saverio battente

Anno accademico 2008/2009 1


Questa breve trattazione si pone l'obiettivo di delineare nei suoi aspetti generali il modo in cui l'Italia è nata come stato unitario nel 1861, con particolare attenzione verso il dualismo che da subito ha contraddistinto lo stato unitario che ha visto convivere un settentrione economicamente e socialmente molto sviluppato, con un meridione legato invece a dinamiche economiche e sociali fortemente conservatrici e talvolta arretrate. Il regno d'Italia è nato dall'unione del Regno di Sardegna (il quale comprendeva allora l'odierna Italia settentrionale tranne la Venezia Giulia, il Veneto, il Trentino-Alto Adige ed altri territori minori) con il Regno delle due Sicilie. Quest'ultimo era nato nel 1816 quando Ferdinando IV di Borbone, dopo il congresso di Vienna, aveva riunito il regno della Sicilia Citeriore (il Regno di Napoli, ovvero la parte di penisola a sud dello stato pontificio) a quello della Sicilia Ulteriore (l'odierna Sicilia); due regni che non si erano mai amati, e che erano stati in guerra per un secolo e poi separati per cinque. Ricordare questi trascorsi può essere utile per cercare di spiegare il forte particolarismo che avrebbe contraddistinto il regno borbonico. Le spinte all'unificazione Non si deve pensare che il progetto di un vasto regno comprendente l'intera penisola fosse insito nella natura dello stato sabaudo: l'Italia unita era storicamente un'idea politico-letteraria, più che un progetto vero e proprio. Prima dell'unità, le regioni del nord-est erano sotto l'Austria che aveva un'amministrazione efficiente: in queste aree non c'era una reale volontà di costruire uno stato, quanto piuttosto quella di migliorare l'esistente. Inoltre, la volontà di espansione del regno sabaudo era circoscritta alle regioni limitrofe, e l'attenzione riposta verso il nord Europa piuttosto che verso il sud: per farsene un'idea, basti pensare che in Piemonte si parlava e si scriveva in francese. Inoltre, l'annessione della penisola intera avrebbe richiesto enormi mezzi per la modernizzazione e la gestione dei nuovi territori. Anche per intraprendere una azione militare di “conquista” del Regno delle Due Sicilie sarebbero stati necessari ingenti capitali e non ultimo, un casus belli, tanto più importante in quanto Cavour teneva assolutamente a porsi come il garante dell'ordine e della stabilità nell'area. L'unità non era esigenza di un mondo economico che cercava un mercato garantito dalla politica ma piuttosto una aspirazione “ideale”, mista alla volontà di espansione: l'assenza di motivi materiali alla formazione di un soggetto politico unitario sarebbe stata vista in seguito come una tara strutturale del sistema italiano. Solo i mazziniani avevano un esplicito progetto di unificazione totale della penisola, guardando al sud come a una polveriera che in caso di esplosione avrebbe potuto fare da propellente per i propri disegni insurrezionali. A meridione del resto era chiara la percezione, specialmente tra le élite, dei gravi problemi della società e della politica, si avvertiva la necessità di un riscatto. Tuttavia l'interesse verso il nord (e in prospettiva, all'unità politica dell'Italia) non era motivato dalla ricerca di vantaggi materiali quanto piuttosto dalla speranza di progredire decisamente verso lo stato moderno, che al nord si era già manifestato. In questo contesto politico si inserì la figura di Garibaldi, grande condottiero dal prestigio internazionalmente riconosciuto e fortemente legato agli ideali risorgimentali mazziniani, che più volte aveva combattuto per i suoi ideali libertari e che non chiedeva di meglio che un'occasione per tentare il “riscatto” dell'Italia meridionale. L'unità d'Italia Nella notte tra il 5 ed il 6 Maggio 1860 Garibaldi partì da Quarto con circa mille volontari; sbarcati in Sicilia, iniziarono la loro risalita verso nord arruolando uomini durante il percorso. La scarsa resistenza incontrata da questi dimostra come lo stato borbonico fosse ormai un guscio vuoto, 2


incapace di reagire adeguatamente seppure di fronte ad una minaccia estrema alla sua stessa sopravvivenza. A sostenere in modo ufficioso lo sforzo finanziario, pur relativamente modesto, della spedizione era il Piemonte: esso era infatti l'unico stato presente sul suolo italiano che avesse la volontà e la capacità di proporsi come centro politico attorno a cui far convergere la penisola. Ponendosi il problema di chi avrebbe potuto farsi carico di amministrare questo territorio una volta finito il regno borbonico, appariva infatti evidente che l'unico soggetto capace di ciò era il Regno di Sardegna, essendo fallito sia il progetto federalista di Cattaneo che i tentativi mazziniani di portare le masse alla rivolta contro il re di Napoli. Cavour, da abile stratega, intendeva sfruttare le capacità militari e lo spirito risorgimentale di Garibaldi rimanendo ufficialmente all'oscuro della spedizione, per poi porsi come “pacificatore” del turbolento meridione una volta che i Mille avessero animato e condotto la rivolta contro Francesco II di Borbone, e inserirsi nel vuoto di potere creatosi: l'impresa riuscì oltre ogni aspettativa, e nell'Ottobre del 1860 Garibaldi incontrò a Teano Vittorio Emanuele II, consegnandogli simbolicamente l'ormai ex dominio borbonico. L'anno seguente fu dichiarata la nascita del regno d'Italia. Questo nuovo regno aveva però una natura in parte ambigua; esso era una nuova formazione politica, frutto dell'unione di due entità precedenti, o un semplice allargamento del Regno del Piemonte che aveva annesso nuovi territori? La risposta a questa domanda non era affatto scontata, e comportava conseguenze che avrebbero segnato a lungo il rapporto fra la parte meridionale e quella settentrionale della penisola. L'incontro-scontro tra il nord e il sud fu un processo di scoperta reciproca: gli inviati del Regno di Sardegna raccontavano di una terra bellissima, ma anche di un degrado morale e materiale difficilmente immaginabile per un piemontese, in un quadro di fortissima arretratezza anche nei costumi: in molte comunità, le donne erano segregate e vivevano alla stregua di domestiche in casa propria. Si ebbe da subito la percezione di avere “due Italie”: come avrebbe scritto Cavour, "L'Italia del nord è fatta, non ci sono più né lombardi né piemontesi, né toscani né romagnoli: siamo tutti italiani; ma ci sono ancora i napoletani". Di fronte a questo quadro, i collaboratori del governo dislocati nel napoletano esortarono il capo del governo ad avviare una decisa opera di assimilazione al Piemonte del meridione; proprio quello che al sud temevano in molti, sia repubblicani che non. D'altro canto, Cavour non fece mai mistero di voler annettere il sud senza compromesso alcuno, rifiutando ogni forma di federalismo che a suo parere avrebbe potuto compromettere la forza dello stato ed alimentare le tendenze centrifughe storicamente presenti nel territorio meridionale. Inoltre, i rapporti che gli pervenivano dai suoi inviati lo informavano di una realtà in cui "il basso popolo è privo di qualsivoglia capacità politica, aspetta feste, spettacoli, pane a buon mercato, il modo di vivere bene senza far niente"; in cui il ceto medio, rappresentato per lo più da avvocati, era "ossessionato solo dalla questione degli impieghi e non gli importa di altro", mentre la classe aristocratica era desiderosa di ottenere protezione, ovvero tutela della propria posizione sociale. Il tutto, in un quadro di totale arretratezza e miseria nelle campagne. Questo avrebbe portato molti intellettuali ed osservatori ad assumere posizioni severe nei confronti di quella popolazione ancora così estranea alla modernità piemontese ed europea. Di fronte a questo quadro (e forse indipendentemente da ciò) il Piemonte assunse il controllo del meridione, datogli su un piatto d'argento da Garibaldi, in maniera risolutamente accentratrice; l'estensione della legislazione piemontese a tutto il regno, la repressione del dissenso e l'atteggiamento paternalistico dello stato sabaudo diedero alla gente del sud una sensazione di 3


sottomissione ad un nuovo padrone, che stavolta esigeva molto di più dai suoi cittadini: coscrizione obbligatoria, tassazione più elevata, più rigore nel rispetto delle leggi. L'estensione automatica della legislazione piemontese a Napoli, vista in prospettiva, fu un errore: nelle parole di Liborio Romano, prefetto di polizia a Napoli sotto i Borboni e poi deputato del regno d'Italia, “Le leggi sono l'espressione dei bisogni dei popoli, e tali bisogni (…) nascono dal clima, dall'indole degli abitanti, dal civile progresso, dalle condizioni religiose, politiche, economiche e dagli errori stessi. Perlocché, se per natura delle cose è impossibile che due popoli si trovino nelle identiche condizioni naturali e civili, è parimenti opera vana l'importare all'uno le leggi dell'altro”. Egli auspicava l'applicazione delle leggi locali da parte di ogni regione del regno finché il Parlamento Nazionale avesse elaborato un nuovo codice, non più piemontese ma italiano, il quale “nascerà dal fondere insieme quanto havvi di meglio in quelli che ora reggono l'Italia, dal valutare le peculiari condizioni di ciascuna provincia, e negli articoli di gravi divergenze naturali o civili prendendo un termine medio tra le medesime”. Altro motivo di attrito con l'istituzione statale fu il fatto che molti incarichi amministrativi di rilievo furono assegnati a emigrati (molti dei quali erano stati in esilio a Torino) i quali quindi non conoscevano nemmeno più la loro terra, e vi erano percepiti come estranei. La politica di assimilazione forzata avrebbe ben presto suscitato una generale avversione per i piemontesi, in parte sublimata nella diffusione del fenomeno del brigantaggio, che convogliava il malcontento di molte fasce della popolazione: soldati rimasti fedeli al regno borbonico, contadini esasperati dalla tassazione ritenuta eccessiva, renitenti alla coscrizione. Per lo stesso motivo contadini, minatori ed operai avrebbero dato vita tra il 1891 ed il 1893 ai cosiddetti Fasci siciliani, un moto spontaneo di protesta contro l'immobilismo sociale che perdurava anche con il regno sabaudo, deludendo così l'aspettativa diffusa che il nuovo stato avrebbe portato condizioni di vita migliori. Non ultimo, i piemontesi erano considerati un'insidia alla propria cultura e tradizioni. I Fasci siciliani Il movimento, di ispirazione democratica e socialista, fu un tentativo di riscatto delle classi meno abbienti, formato inizialmente dal proletariato urbano al quale si aggiunsero poi braccianti agricoli, "zolfatai" (minatori), lavoratori della marineria ed operai. Essi rappresentarono uno dei momenti più acuti della protesta popolare di fronte alla amara constatazione che le strutture di potere locali si erano rapidamente integrate con quelle statali, facendo sì che la struttura sociale del Mezzogiorno rimanesse sostanzialmente inalterata con l'avvento del Regno d'Italia. La società siciliana era ancora parecchio arretrata, e la distribuzione delle terre e quindi della ricchezza era rimasta sostanzialmente di tipo feudale, con pochi grandi latifondisti che si trovavano ad avere un grande potere su coloro che lavoravano per essi. Nati come movimento spontaneo, i fasci chiedevano riforme, soprattutto in campo fiscale ed agrario (in particolare, abolizione delle gabelle e redistribuzione delle terre). Furono aperte molte sedi nei capoluoghi siciliani ed organizzate una serie di dimostrazioni, scioperi e agitazioni per tutta l'isola; di fronte al deteriorarsi della situazione, il governo sciolse d'autorità il movimento incarcerando tutta la sua dirigenza. Il governo, allora guidato da Crispi, aveva scelto di tutelare gli interessi dei proprietari terrieri liquidando il problema come una questione di ordine pubblico: questo però non fece che aggravare il malessere sociale da cui la protesta era scaturita. La questione di Napoli Un caso emblematico di come l'unificazione abbia influito pesantemente su alcuni contesti è quello di Napoli. In effetti, con mezzo milione di abitanti essa era al momento dell'unità la più popolosa città d'Italia e la quinta d'Europa, e la sproporzione tra le sue dimensioni e la sua capacità produttiva 4


era preoccupante. Ex capitale e sede di una nutrita burocrazia, ospitava importanti dislocamenti militari ed era stata teatro di un grande sfarzo cortigiano, la cui opulenza era basata sullo sfruttamento delle masse contadine della campagna circostante. Con l'unità prendeva avvio la sua trasformazione verso una città di stampo borghese, transizione non facile per una città che non aveva alcuna classe imprenditoriale né un ecosistema economico fatto di servizi e infrastrutture capace di attirare investimenti, né tanto meno di intraprendere in proprio. Nelle parole di Nitti: “Prima del 1860 Napoli era dunque la più grande città di consumo d'Italia. Anche altre città erano capitali: ma erano capitali di piccoli regni e, tranne Roma e, limitatamente, Venezia, erano centri di piccola importanza. Così quando Firenze, Torino, Modena, Parma, etc... cessarono di essere capitali, pochissimo danno risentirono: Napoli risentì danno enorme”. Mancando dei presupposti per generare sviluppo economico e trovandosi depauperata del flusso di capitali che in passato l'aveva sostenuta, la città decadde rapidamente ad uno stato di povertà diffusa che certo non giovò alla sua integrazione nel nuovo stato, alimentando l'illegalità ed il fenomeno del brigantaggio. Il “brigantaggio” All'indomani della nascita del regno d'Italia, diverse fasce della popolazione meridionale cominciarono ad esprimere il proprio malcontento verso il processo di unificazione; si formarono gruppi di ex soldati del disciolto esercito napoletano, rimasti fedeli alla dinastia borbonica, e di contadini e pastori che lottavano contro i proprietari terrieri ed i latifondisti. I contadini, in particolare, lamentavano la continuità dello sfruttamento da parte dei padroni terrieri i quali, in continuità rispetto al dominio borbonico, continuavano a detenere gran parte della terra del meridione, rendendo i contadini di fatto servi della gleba. Altri motivi che spingevano alla rivolta i contadini erano costituiti dalla privatizzazione delle terre demaniali e dalla leva obbligatoria introdotti (come nel resto d'Italia) dal governo unitario, oltre ad una tassazione più elevata di quella precedentemente in vigore. In realtà il cosiddetto “brigantaggio” fu molto di più che una semplice scorreria di fuorilegge, come si evince dal fatto che non fu con l'attività di polizia che fu sconfitto, bensì con l'esercito: semplicemente, lo stato sabaudo non intendeva accettare nè una protesta filoborbonica che poteva rivelarsi pericolosa per il consolidamento del suo potere, nè tanto meno un dissenso dettato da motivi squisitamente materiali come quello degli agricoltori, il soddisfacimento delle cui richieste avrebbe comportato l'ostilità dei possidenti, che a sua volta avrebbe compromesso la stabilità politica. Al generale Cialdini, inviato a Napoli dal governo per riportare l'ordine, furono conferiti poteri speciali per affrontare l'emergenza; l'intervento dell'esercito fu molto cruento e si servì di arresti in massa, esecuzioni sommarie e perfino azioni dirette contro interi centri abitati. La repressione del movimento costò anni e insanguinò drammaticamente le terre del sud. Si giunse perfino, con la legge Pica del 1863, a consegnare ai tribunali militari non solo i briganti ma anche i loro familiari o semplici sospetti. L'esercito, che al massimo del suo spiegamento di forze aveva superato le 100.000 unità, ebbe definitivamente ragione dei rivoltosi nel 1870, anno in cui la presenza militare fu ritirata: ma le ferite e gli strascichi politici di quel periodo buio rimasero per sempre impressi nella popolazione e posero una pesantissima ipoteca sui rapporti tra lo stato ed i suoi cittadini. Un'economia “italiana”? Al termine del processo di unificazione, gli italiani erano 27 milioni e mezzo; con l'unità l'Italia era divenuta di fatto uno dei grandi stati europei. D'altronde il caso italiano era abbastanza particolare 5


per via del notevole squilibrio interno al paese, che delineava nel complesso una situazione di scarso sviluppo: nel 1872 lavorava nel settore agricolo il 69% della popolazione attiva italiana (nel Regno Unito era il 19%, in Germania il 43%), mentre il tasso di analfabetismo si attestava intorno al 69% (mentre Germania, Regno Unito, Olanda e Scandinavia erano ormai scesi ben al di sotto del 30%). Disaggregando però i valori statistici in base alla latitudine, sarebbe emerso che la parte settentrionale del paese era in realtà in linea con i paesi avanzati del nord Europa, mentre per contrasto le aree a sud di Roma erano ben al di sotto della stessa media italiana: per fare un esempio, nel 1874 a Napoli l'analfabetismo raggiungeva il 60%, laddove Milano e Torino avevano rispettivamente valori di 23% e 33%. Già poco dopo l'unità si andò sviluppando una letteratura sui mali del mezzogiorno; la classe dirigente del neonato stato italiano si rese subito conto che il paese era contraddistinto da un forte dualismo. Sul piano puramente commerciale, la parte settentrionale del paese manteneva scarsissimi rapporti con il meridione e moltissimi con il resto del mondo (e d'altronde lo stesso si poteva dire del sud); il suo tessuto socioeconomico era relativamente omogeneo, non si trattava di una enclave ricca ma di un'area geograficamente vasta. A metà Ottocento questa era avviata decisamente verso uno sviluppo industriale ed erano in embrione vari distretti tessili e meccanici. Molte condizioni vantaggiose rendevano ricca e dinamica l'economia dell'area padana: l'eredità delle ricche città dell'epoca comunale, la fertilità del terreno coltivato con tecniche moderne, la plurisecolare tradizione finanziaria. In questo contesto aveva un ruolo di primo piano l'industria della seta, che nel tempo aveva stimolato gli investimenti agricoli e la crescita della finanza e dell'industria di trasformazione (soprattutto della filatura). Al sud il panorama era assai meno confortante: solo pochi insediamenti manifatturieri in un contesto preindustriale. L'agricoltura era incentrata su produzioni di tipo alimentare, e quindi tendenzialmente a basso valore aggiunto, tra le quali spiccava l'olio d'oliva; la seta era ristretta a poche aree. La sua coltivazione infatti nell'immediato dava rese inferiori, ma dava la possibilità di generose ricadute positive sia ascendenti che discendenti lungo la filiera produttiva, come era accaduto a nord. C'era inoltre una grande diffusione della manifattura domestica rurale che però era fuori dal mercato, al contrario delle produzioni artigianali del nord-est (la cosiddetta “terza Italia”). L'intensità di capitale dell'agricoltura meridionale era incomparabilmente più bassa di quella settentrionale. Anche l'attitudine commerciale era differente, statica e di semplice attesa di vendere la merce, opposta alla cultura mercantile del nord, che al contrario prevedeva il viaggio costante per promuovere le proprie merci e conquistare nuovi mercati. In breve, sul piano economico il settentrione aveva decisamente una marcia in più rispetto al resto del paese. I progetti del governo per sostenere lo sviluppo del sud si basavano su una serie di investimenti in infrastrutture, che facessero crescere il volume dei commerci facendo del meridione italiano il ponte fra Occidente e Oriente: tema questo che sarebbe stato riproposto varie volte nel corso della storia italiana senza molto successo. Altro pilastro della strategia di rilancio del territorio era l'educazione tecnica, che nel medio-lungo periodo avrebbe dovuto consentire lo sviluppo di un'economia di manifattura. In realtà, per riformare in modo non epidermico l'economia dell'area si sarebbe resa necessaria una dura lotta contro gli interessi delle classi dominanti, che di fatto era impossibile essendo queste stesse élites inserite saldamente nella classe dirigente del neonato stato italiano. Tra il 1860 ed il 1880 furono avviati grandi investimenti strutturali nel sud; strade e ferrovie furono costruite nell'intento di integrare meglio le diverse parti della penisola. Queste strutture risultarono poi essere del tutto sovradimensionate ed in alcuni casi quasi inutili, dato che il volume dei traffici commerciali rimase assai basso per decenni, e l'epoca del trasporto di massa era ancora lontana. In linea di massima, tuttavia, la questione meridionale rimase per lungo tempo un problema visto ed affrontato soprattutto in chiave politica e sociale: il sud era un'area arretrata e potenzialmente instabile, ed era necessario farsi carico della sua “emancipazione” perché da solo avrebbe impiegato 6


tempi imprevedibilmente lunghi, danneggiando il progresso dell'Italia. Una svolta nel modo di vedere questo problema venne dagli studi di Francesco Saverio Nitti, che per primo cercò di dare un inquadramento teorico di tipo economico alla questione: egli sosteneva che le regioni del settentrione avessero grandemente giovato dall'unità, sfruttando il protezionismo avviato negli anni Settanta per sostenere la propria industrializzazione e utilizzando il meridione come fonte di introiti fiscali e come mercato di sbocco per la produzione industriale. Già prima della pubblicazione delle opere del Nitti, alcuni meridionalisti avevano portato avanti la convinzione che lo stato avesse defraudato l'area di risorse e mezzi favorendo il nord con le sue politiche: tuttavia, la novità portata dagli studi nittiani1 era l'approccio prettamente economicista e completamente scevro da considerazioni antropologiche con cui egli trattava la materia, sostenendo che la compenetrazione di interessi tra nord e sud fosse ormai così avanzata, che favorire lo sviluppo economico di un'area avrebbe giovato a tutto il sistema. Emerse così il tema del risarcimento nei confronti del “povero sud” , costruito su argomenti di dubbia fondatezza che però contribuirono all'attuazione di politiche di intervento economico, già in nuce in epoca giolittiana ma attuate realmente solo nel secondo dopoguerra a causa dei travagli economici e politici che il paese avrebbe dovuto affrontare per tre decadi. In realtà, Cafagna contraddice la tesi del meridione sfruttato, sottolineando come non ci sia mai stata una complementarietà economica tra nord e sud in quanto il primo non trovò mai nel secondo un rilevante mercato di sbocco per le sue merci, e la stessa produzione di beni primari del meridione (così come la manodopera, almeno in un primo tempo) fosse diretta verso l'estero piuttosto che verso il nord, almeno per il primo mezzo secolo di vita dello stato unitario. Sotto la spinta propulsiva di questa scuola di pensiero, che si era infine imposta anche nell'aula parlamentare, il governo istituì nel 1902 la Reale Commissione per l'incremento industriale di Napoli. Nel 1902 l'avvento del governo di Giolitti segnò inoltre una svolta nell'approccio alla questione meridionale: si ritenne che il problema fosse dovuto alle persistenti differenze tra regione e regione, prendendo atto che il principio di uniformità legislativa adottato nel 1861 era un sistema fallimentare nell'intento di unificare gli italiani. Da questa considerazione fu deciso il ricorso alla legislazione speciale, di cui la legge Zanardelli del 1904 per la Basilicata fu il primo esempio. Questo spinse le altre regioni a fare pressioni perché venissero adottati trattamenti “di favore” anche per esse, e ciò ebbe tra l'altro l'effetto politico di rinfocolare il dibattito, a volte costruttivo a volte meno, su che tipo di sviluppo si dovesse incentivare in queste aree, oggettivamente poco inclini all'industrializzazione e fortemente ancorate ad un mondo rurale povero, dominato da una stretta cerchia di grandi possidenti legati alla politica nazionale. Differenze culturali ed il ruolo dell'emigrazione C'è stata a lungo un sostanziale estraneità tra nord e sud, sia economica che culturale, che nella mobilità: le migrazioni interne sono giocoforza un potente mezzo di amalgama sociale, ma le prime migrazioni di italiani sarebbero partite dal nord e sarebbero state verso l'estero. Solo tardivamente ci sarebbero state migrazioni sud-nord, ovvero durante gli anni del miracolo economico, e per la prima volta ci sarebbe stato un interscambio forte ed anche economicamente significativo tra i due poli geografici del paese. Ciò nonostante, non era mai esistita una ostilità culturale tra le due parti d'Italia, e gli uomini colti di tutte le regioni avevano da sempre in comune modelli e retroterra culturali; anche la religione è la stessa e le diversità linguistiche sono sempre state considerate solo dialettali: le élite scrivevano e leggevano nella stessa lingua. Durante gli anni dell'Italia liberale la forbice tra nord-sud andò allargandosi: al nord l'industrializzazione divenne sempre più forte, e si intensificarono gli scambi commerciali ed il 1 Con particolare riferimento alle opere Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896/97 e Nord e Sud, nel 1900

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traffico dei capitali; inoltre ci fu un aumento maggiore della produttività agricola, e la differenziazione mitigò gli effetti della crisi. Prese avvio un'intensa attività migratoria, che nel nord però divenne presto migrazione interna mentre dal meridione si partiva per lasciare l'Italia. Per il sud la crisi agraria europea fu una vera catastrofe: nei primi 15 anni del 1900 emigrarono tre milioni e mezzo di persone. Per alcuni questo avrebbe sancito il fallimento socioeconomico dell'unità italiana. Negli anni Venti, dopo l'introduzione di forti restrizioni all'immigrazione negli USA, le regioni meridionali assisterono ad una preoccupante crescita demografica; questo aggravò povertà e disoccupazione, che il regime fascista affrontò prima con l'apertura di lavori pubblici e vaste opere di bonifica, e dopo (indirettamente) con la guerra. La prima grande ondata migratoria dall'Italia tuttavia ebbe luogo tra il 1880 ed il 1930; 17 milioni di individui, per lo più contadini, andarono all'estero in cerca di fortuna. Gli effetti di un tale esodo, pur nel contesto di un durissimo costo sociale, furono molti e quasi tutti positivi: esso ridusse la pressione demografica e favorì il parziale riassorbimento della forza lavoro in eccesso, portando di conseguenza ad un aumento dei salari. Questo aumento a sua volta generò cambiamenti nei grandi latifondi, che furono incentivati dall'aumento dei salari a investire maggiormente nelle tecniche agricole più avanzate facendo un migliore uso di macchinari e concimi chimici per aumentare la resa dei terreni. Inoltre, l'afflusso delle rimesse dall'estero portò fondi che rivitalizzarono l'economia ed il mercato fondiario in particolare, anche se non abbastanza da portare al compimento di quella “democrazia rurale” che molti avevano invocato al momento dell'unità. Infatti, la proprietà contadina che si formò fu nella grandissima maggioranza dei casi affetta da dimensioni assai ristrette delle aziende; questo comportò una inefficienza di fondo perché non giustificava l'utilizzo di beni strumentali e tecnologie all'avanguardia, facendo le aziende uso quasi esclusivo della forza lavoro. Questo limitava fortemente la produttività e, cosa ancora più grave, non permetteva di innescare un circolo virtuoso di sviluppo riuscendo solo ad alleviare la povertà endemica. Si noti, però, che questo difetto non era dovuto alla carenza di fondi, non in senso assoluto almeno; occorre infatti considerare come alcuni fattori di tipo sociale ed economico spingessero i contadini ad investire solo parzialmente le proprie risorse nella costruzione di una azienda. Per cominciare, la costituzione di imprese agricole competitive avrebbe comportato costi di gestione elevati, difficilmente giustificabili per terreni montani e pedomontani quali erano quelli in cui la proprietà agricola si era estesa maggiormente, oltre ad esporre il contadino-imprenditore a fluttuazioni dei prezzi che egli non era assolutamente in grado di prevedere. Tenuto conto di ciò, l'investimento in titoli pubblici o il risparmio bancario era razionalmente una scelta più attraente laddove si voleva soprattutto tutelare la propria vecchiaia o avere qualche riserva da utilizzare in tempi bui. Inoltre, l'economia rurale a cavallo dei due secoli era un calcolato equilibrio tra produzione per l'autoconsumo e produzione per il mercato: aumentare le dimensioni della propria produzione oltre la capacità garantita dalla manodopera familiare era un rischio perché avrebbe costretto l'agricoltore a confrontarsi con il prezzo della manodopera (che in tempi di emigrazione era in crescita), esponendosi al rischio di perdere la propria indipendenza in caso di congiunture sfavorevoli. Altro particolare da tenere in considerazione erano le consuetudini successorie delle famiglie rurali che, in nome di una “economia morale” di antica tradizione, prevedevano la suddivisione di ogni cespite dei beni familiari tra gli eredi, portando di generazione in generazione ad una forte frammentazione delle aziende le quali non avevano così sufficiente forza per restare sul mercato con successo. Ricordiamo infine come il meridione fosse in effetti un contesto assolutamente carente quanto a strutture e servizi commerciali e di credito; il collegamento con i grandi mercati internazionali era assai debole, e questo poneva una grave ipoteca sulla capacità dell'agricoltura di specializzarsi per abbattere i costi e divenire competitiva: era anzi un incentivo alla produzione in proprio di quanto 8


non fosse reperibile nei mercati locali dividendo il terreno posseduto fra colture differenti. La configurazione del quadro agricolo forse era quindi in parte dovuta al rispetto di tradizioni ataviche, in parte dettata dalla necessità materiale. Quando infatti nel secondo dopoguerra gli ostacoli infrastrutturali furono fortemente ridimensionati dalla riforma agraria e dagli interventi straordinari del governo la mentalità contadina cambiò rapidamente ma era ormai troppo tardi: i risparmi accantonati sarebbero stati erosi dall'inflazione del primo dopoguerra, dalla crisi del '29 e dall'inflazione del secondo dopoguerra. Alle nuove generazioni non rimaneva ancora una volta che l'emigrazione, questa volta verso le aree industriali del nord Italia ed Europa. L'intervento dello stato Nel 1908 vennero fondati il Consorzio Zolfifero e la Camera agrumaria, insieme ad una serie di misure protettive che riversarono nelle aree meno avanzate del paese ingenti quantità di risorse, anche se in assenza di un progetto coerente ed organico. A seguito degli incentivi statali e della favorevole congiuntura capitali esteri, banche miste e gruppi industriali si interessarono con decisione per la prima volta dall'unità alla creazione di un vasto mercato nazionale, importante tanto per il sud che viveva ai margini del mercato, quanto per il nord che necessitava di sbocchi per i suoi prodotti ed in generale di un sistema economico solido per prosperare. Ad ogni modo, a causa delle due guerre mondiali e della crisi che ad esse si frappose, l'intervento statale ebbe il suo maggiore slancio nel secondo dopoguerra, a partire dagli anni '50. Tra i dubbi e le incertezze della classe dirigente, preoccupata di compromettere con operazioni finanziarie avventate la ricostruita economia del nord, ma d'altro canto incentivata all'azione da motivazioni di ordine politico e sociale (in un contesto in cui la miseria rurale era terreno fertile per la propaganda comunista) oltre che economico. Un momento importante per la formazione di una cultura politica ed economica di intervento per favorire lo sviluppo del sud fu la fondazione nel 1946 della Svimez, una associazione privata creata da persone vicine all'IRI il cui obiettivo era promuovere lo studio della condizione economica del meridione per proporre adeguati piani d'azione che promuovessero lo sviluppo industriale. Tra questi spiccava la figura di Pasquale Saraceno, un economista convinto che l'obiettivo dell'industrializzazione potesse essere raggiunto tramite una ben congegnata azione del potere pubblico. Di qui la proposta di un intervento straordinario che introducesse un sistema decisionale e un coordinamento dell'intervento pubblico diversi da quelli in vigore nel resto del paese. La "straordinarietà" dell'intervento derivava dall'imponenza delle opere necessarie al Mezzogiorno, ma anche dai limiti operativi delle amministrazioni "ordinarie" e dalla lentezza delle loro procedure. Fu anche grazie a questo contributo dottrinario che nel 1950 avrebbe preso il via l'esperienza della Cassa del Mezzogiorno, di cui si parla più avanti. Tuttavia, l'idea della Cassa (pur essendo progetto ambizioso e lungimirante) prevedeva l'intervento dello stato in maniera massiccia, e per di più sbilanciato a favore del sud (così almeno si credeva al momento della sua istituzione: nella realtà ci sarebbero stati sempre e comunque più investimenti sul nord che a meridione). Questo non sarebbe certo stato di stimolo per l'attività imprenditoriale: ben sapendo che un altro nodo da sciogliere nella questione meridionale era la questione fondiaria, dei rapporti di proprietà della terra, dei contratti agrari di tipo medioevale, un'altra importante direttrice dello sforzo di modernizzazione fu la rimozione di queste e altre ingessature del tessuto socioeconomico per lasciare poi che il mercato dispiegasse i suoi effetti benefici. Passati gli anni della ricostruzione del paese (e, ovviamente quindi, della sua economia a partire da quella trainante e fondamentale del settentrione), il governo democristiano guidato da Alcide De Gasperi avviò un'iniziativa per il rilancio dell'economia meridionale che si articolava in due

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provvedimenti: • la riforma agraria, attuata con la legge 841/1950: intervento riformista volto a migliorare la produttività agricola senza sconvolgere eccessivamente l'assetto vigente, piuttosto che a favorire una più equa ripartizione delle terre; fu oggetto di forti critiche da parte sia delle forze di sinistra che di quelle azioniste e meridionaliste. Queste ultime, soprattutto attraverso gli scritti di Manlio Rossi Doria che pure fu un convinto sostenitore di quell'iniziativa, contestarono l'eccessivo frazionamento fondiario introdotto dalla legge e la sua incapacità di promuovere un energico sviluppo capitalistico dell'agricoltura. La riforma proponeva, tramite l'esproprio coatto, la distribuzione delle terre ai braccianti agricoli, rendendoli così piccoli imprenditori e non più sottomessi al grande latifondista. Se per certi versi la riforma ebbe risultati benefici, d'altra parte polverizzò la dimensione delle aziende agricole togliendo di fatto ogni possibilità di trasformarle in veicoli imprenditoriali avanzati. Questo aspetto negativo venne però attenuato ed in alcuni casi superato con la cooperazione: sorsero infatti cooperative agricole che programmando la produzione e centralizzando la vendita dei prodotti diedero all'agricoltura quel carattere imprenditoriale che era venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbe una migliore resa delle colture che da estensive diventarono intensive e quindi un migliore sfruttamento delle superfici utilizzate. Il lavoro agricolo che era stato fino ad allora poco remunerativo anche se molto pesante, cominciò a dare i suoi frutti gratificando così coloro i quali vi si dedicavano. In seguito allo sviluppo dell'industria, l'agricoltura finì col divenire un settore marginale dell'economia, ma a seguito dello sviluppo delle tecniche moderne di coltivazione, vide moltiplicarsi il reddito prodotto per ettaro coltivato e quindi la redditività del lavoro. •

la Cassa del Mezzogiorno: questa era un ente pubblico, istituito sempre nel 1950 allo scopo di programmare, finanziare ed eseguire opere straordinarie aventi il fine di favorire la formazione di un tessuto infrastrutturale che incentivasse l’insediamento dell’industria e lo sviluppo dell’agricoltura, e della commercializzazione dei prodotti agricoli nell’Italia meridionale. Inizialmente per la Cassa per il Mezzogiorno (la cui esatta denominazione era “Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale”) venne prevista un durata di dieci anni, ma una serie di proroghe ne prolungarono la vita fino al 1984, anno in cui il decreto che prorogava ulteriormente l’intervento straordinario nel Mezzogiorno non venne convertito in legge e la Cassa fu soppressa. Nel 1986 al suo posto viene creata l’Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, soppressa a sua volta nel 1993. Di fatto, l’intervento straordinario nel Sud Italia non raggiunse gli obiettivi prefissati, sia per le difficoltà di stabilire linee efficaci di programmazione (ad esempio le aree di sviluppo, che inizialmente dovevano essere quattro ma in seguito diventarono cinquanta), sia per l’uso, non sempre coerente, che il potere politico fece dei finanziamenti, sia, infine, per la crisi economica sopraggiunta agli inizi degli anni Settanta. Una valutazione più approfondita degli investimenti nel Sud evidenzia che i fondi investiti in termini di quantità, pur in presenza di una legislazione speciale, sono stati inferiori agli investimenti pubblici realizzati in via ordinaria negli stessi anni nel Nord del paese2. Questa affermazione non deve portare però alla conclusione che l'intervento pubblico sia stato una operazione di facciata politica: occorre infatti considerare il notevole divario tra il gettito fiscale generato e i trasferimenti di cui hanno beneficiato le diverse regioni. Occorre inoltre considerare la bassa qualità della spesa nel Mezzogiorno e la responsabilità della classe politica e dirigenziale nella gestione dei fondi. L'obiettivo che si era posto la politica industriale nel 1950 è stato raggiunto solo in parte e questo pone dei dubbi sui paradigmi alla base dello sviluppo che si era ipotizzato. Il tentativo artificioso di impiantare la grande impresa a partecipazione pubblica e i finanziamenti alle imprese del Nord non hanno

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Si veda in proposito Carlo Trigilia, Sviluppo senza autonomia , p. 55/56

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innescato alcun circolo virtuoso nelle aree in cui sono state insediate, ma hanno favorito la creazione nel Sud di un semplice mercato di sbocco per la produzione industriale dell'Italia settentrionale. In generale, non possiamo comunque dimenticare che l'intervento politico, sia ordinario che straordinario, ha sì contribuito ad elevare il reddito, ma al contempo ha plasmato un ambiente sociale sfavorevole allo sviluppo economico autonomo. Ne è riprova il fatto che le aree caratterizzate da dinamismo maggiore sono quelle che sono riuscite a ridurre la loro dipendenza dall'intervento pubblico; questo, nel caso non sia circoscritto ad un intervallo temporale limitato, provoca infatti assuefazione e deresponsabilizzazione della classe dirigente. Cafagna parla di tre grandi tendenze dell'Italia repubblicana: 1. migrazioni sud-nord, che sono il primo vero contatto socioeconomico tra le due aree; 2. trasferimenti finanziari nord-sud, ingenti ma che di fatto hanno solo portato dipendenza e creato condizioni sfavorevoli all'impresa, fenomeni di "acquisività politica", ovvero la ricerca di risorse e reddito non attraverso il mercato ma attraverso il controllo politico sia legale che illegale; 3. improvviso accrescimento della consapevolezza di una differenza antropologica tra nord e sud, ovvero la consapevolezza perdurante che la redistribuzione statale foraggia un sistema di illegalità e parassitismo ha fatto esplodere la frattura tra nord e sud, paradossalmente proprio quando il divario tra i due è storicamente minore di sempre. Conclusioni: Lo studio delle dinamiche che regolano l'economia di una società umana non è mai privo di difficoltà; esse aumentano al crescere della complessità e varietà della società osservata. A maggior ragione, qualora si tenti di paragonare realtà distanti, a volte apparentemente contrapposte come quella che ruota attorno a Torino e Milano e quella che ha avuto per centro Napoli, occorre la consapevolezza che il compito che ci si propone è arduo e va affrontato con grande umiltà. In molti si sono cimentati con questa sfida intellettuale e civile, con risultati diversi: la proposta di Nitti era quella di attuare una vigorosa redistribuzione delle risorse da nord verso il sud, in nome dello sviluppo di questo e dell'intero paese; Salvemini, altro grande meridionalista, riteneva invece questa strada non praticabile sostenendo che la via per una crescita della società civile e la responsabilizzazione della classe politica, prerequisiti ritenuti fondamentali per l'avvio di un sano sviluppo economico, passasse invece per il decentramento amministrativo e le autonomie regionali. La strada seguita finora dallo stato italiano è stata quella di Nitti (sebbene recentemente il dibattito politico sul federalismo sia diventato molto più che un semplice slogan), e certo i risultati conseguiti sono stati di tutto rispetto: il reddito pro capite nelle regioni meridionali è cresciuto ed lo storico divario nord-sud si è ridotto. Questo però non deve nascondere che alla crescita economica in senso stretto non si è affiancato uno sviluppo equivalente, inteso come diversificazione ed industrializzazione dell'economia in grado di autoalimentare la generazione di reddito. Inoltre, cosa forse più importante, non è ancora compiuto il processo di maturazione della società civile avendosi situazioni di illegalità diffusa e generale atteggiamento di sfiducia nei confronti dello stato. A questo proposito è interessante la riflessione di Cafagna3, il quale sostiene la necessità di ristabilire il weberiano monopolio statale sulla violenza, ma soprattutto afferma che l'unica cosa in grado di combattere, vincendolo, il circolo vizioso dell'illegalità è la fiducia. Fiducia del mezzogiorno in sé stesso, fiducia negli altri (lo stato in primis) e degli altri verso di esso. Come questa fiducia possa essere trasmessa in modo diffuso e capillare alla popolazione, ora, è un nodo gordiano che nessuno finora ha saputo sciogliere. 3

Luciano Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l'unità d'Italia

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Bibliografia:

Nord e Sud. Non fare a pezzi l'unità d'Italia - Luciano Cafagna. Marsilio Editori, 1994

La modernizzazione difficile. Città e campagne nel mezzogiorno dall'età giolittiana al fascismo – A.A. V.V. De Donato, 1983

Storia dell'emigrazione italiana - Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Italia, Emilio Franzina. Donzelli Editore, 2001

Il meridionalismo dopo la ricostruzione – Pasquale Saraceno. Giuffré Editore, 1974

Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d'Italia – Claudia Petraccone. Editori Laterza, 2000

Sviluppo senza autonomia – Carlo Trigilia. Il Mulino, 1992

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