Libro verde sull'innovazione

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INNOVAZIONE E COMPETIZIONE

IL LIBRO VERDE SULL’INNOVAZIONE


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IL LIBRO VERDE SULL’INNOVAZIONE Come rilanciare l’innovazione in Italia

A cura di Mario Calderini, Maurizio Sobrero, Riccardo Viale Prefazione di Luigi Nicolais


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La collana Innovazione e Competitività nasce da una collaborazione fra Il Sole 24 e la Fondazione Cotec con l’intento di sostenere e orientare la capacità innovativa e industriale del nostro paese, attraverso la diffusione dei temi rilevanti della cultura tecnologica e dell’innovazione e degli strumenti più aggiornati e innovativi per rendere tali nozioni operativamente efficaci.

La Fondazione Cotec ha l’obiettivo istituzionale di contribuire a orientare le scelte pubbliche italiane ed europee verso gli interessi e le priorità tecnologiche del nostro mondo industriale. Questo volume è realizzato sulla base di ricerche effettuate dalla Fondazione.

ISBN 13: 978-88-8363-840-4 © 2008 Il Sole 24 Ore Spa Economia & Management Sede legale e amministrazione: via Monte Rosa 91, 20149 Milano Redazione: via Patecchio 2, 20141 Milano Servizio clienti: tel. 3022.5680 (prefisso 02 oppure 06), fax 3022.5400 (prefisso 02 oppure 06), e-mail: servizioclienti.libri@ilsole24ore.com Realizzazione editoriale: Studio Allegri-Vaccher, Milano Prima edizione: febbraio 2008

Tutti i diritti sono riservati Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15 per cento di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: segreteria@aidro.org, sito web: www.aidro.org


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Sommario

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Prefazione di Luigi Nicolais

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Introduzione

3

1.

Il sistema innovativo italiano di Francesco Crespi

3 7

1.1 Introduzione 1.2 Le risorse per la creazione e diffusione di nuova conoscenza 1.3 I risultati delle attività di creazione di nuova conoscenza 1.4 Conclusioni

27 32

35

2.

Governance di Mario Calderini e Maurizio Sobrero

35 36 46 52

2.1 2.2 2.3 2.4

Introduzione Meccanismi di governance europea Meccanismi di governance nazionale Le politiche regionali a sostegno della ricerca e dell’innovazione 2.5 Conclusioni

57

61

3.

Università e ricerca di Carmelo Mazza, Paolo Quattrone e Angelo Riccaboni

61 62

3.1 Introduzione 3.2 Lo scenario attuale


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VI Sommario

70 77 95

99

3.3 Effetti dei cambiamenti in corso in tema di ricerca 3.4 Ambiti d’intervento 3.5 Conclusioni

4.

Domanda pubblica e innovazione di Enrico Forti e Maurizio Sobrero

99 100

4.1 Introduzione 4.2 Le politiche dell’innovazione e il ruolo della domanda pubblica 4.3 L’evoluzione del public procurement e il caso Consip 4.4 Innovazione sistemica e tecnologie Ict 4.5 Verso l’e-government 4.6 Il ruolo dell’e-health 4.7 Il ruolo della domanda militare 4.8 Public technology procurement e risvolti organizzativi 4.9 Conclusioni

107 113 125 128 134 136 140

143

5.

I capitali per l’innovazione di Mario Calderini e Marco Nicolai

143 143 146 151 157

5.1 Introduzione 5.2 I capitali per l’innovazione 5.3 Gli strumenti di sostegno pubblico al capitale di rischio per l’innovazione 5.4 Innovazione e politiche di credito 5.5 Conclusioni

165

Conclusioni e raccomandazioni di Mario Calderini, Maurizio Sobrero e Riccardo Viale

166 169 173 176

Governance Università Public procurement Finanza

179

Personalità coinvolte

183

Bibliografia

188

Gli autori


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Prefazione

La nostra conoscenza delle determinanti e degli effetti dell’innovazione è significativamente aumentata nel tempo. Oggi sappiamo che, nonostante molto spesso si pensi all’intuizione creativa con riferimento al singolo individuo, l’innovazione è il risultato di un processo collettivo e sistemico. Gli attori (sia di natura pubblica che privata) di tale processo sono infatti molteplici e la produzione di nuova conoscenza scientifica e tecnologica scaturisce dall’interazione tra di essi. La competitività tecnologica ed economica di un paese dipende quindi dalla solidità e dalla qualità dei singoli attori, ma anche e imprescindibilmente dalla capacità di questi di porsi in relazione, scambiare conoscenze, cooperare attivamente ovvero di “fare sistema”. Anche il nostro grado di consapevolezza delle caratteristiche e del posizionamento internazionale del sistema innovativo italiano è sicuramente aumentato nel tempo. La possibilità di utilizzare tecniche di misurazione ormai consolidate e di avere a disposizione un’ampia base di informazioni statistiche consente, infatti, di individuare con precisione i punti di forza, ma anche e soprattutto le lacune del nostro sistema dell’innovazione. Al contrario, molto meno sappiamo riguardo alle politiche concrete che possono e devono essere attuate per migliorare le potenzialità scientifiche e tecnologiche del paese e quindi aumentarne la competitività internazionale. Il primo Libro Verde della Fondazione Cotec contribuisce in maniera significativa a colmare questo vuoto, attraverso un’a-


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VIII Prefazione

nalisi delle maggiori criticità del sistema innovativo italiano e proponendo puntuali indicazioni di policy sugli assi principali della politica della ricerca e dell’innovazione nazionale. Grande rilevanza assume nel libro il tema della governance dell’innovazione. Sebbene recentemente siano state attuate numerose iniziative volte a rafforzare la capacità tecnologica e di trasferimento delle conoscenze nell’economia, molto resta da fare per la creazione di un sistema di governance multilivello che sia in grado di sollecitare da più direzioni il sistema nazionale e i sistemi locali dell’innovazione verso una maggiore produttività e competitività tecnologica. In particolare si rende necessaria la costruzione di un contesto infrastrutturale e di politiche pubbliche capaci di favorire le attività di cooperazione tra le varie organizzazioni coinvolte nella creazione di nuova conoscenza quali università, centri di ricerca pubblici e privati e imprese. Occorre inoltre che il sistema di politiche pubbliche determini concreti effetti di addizionalità. È quindi necessario evitare che la mancanza di coordinamento tra i diversi strumenti di intervento generi effetti di spiazzamento. Oltre a quello relativo alla governance, il Libro Verde affronta il tema di come potenziare il contributo dei singoli soggetti del processo innovativo. In particolare si fa riferimento al ruolo della ricerca pubblica e dell’università, ma anche al ruolo della domanda pubblica in settori specifici e a quello dei sistemi finanziari per favorire gli investimenti innovativi delle imprese e la nascita di nuove imprese nel settore dell’alta tecnologia. Attraverso l’analisi di questi aspetti, il Libro Verde fornisce non solo un’agenda di temi per la politica tecnologica dell’Italia, ma anche un articolato insieme di proposte per la creazione e l’utilizzazione di strumenti concreti che consentano al nostro paese di riprendere con decisione un percorso di progresso tecnologico ed economico. Luigi Nicolais Presidente Fondazione Cotec


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Introduzione

La rilevanza di ricerca e innovazione per la competitività delle imprese e dei sistemi economici è un elemento che deve essere ritenuto consolidato, grazie alla sistematica convergenza di analisi puntuali, indagini settoriali, comparazioni internazionali e confronti longitudinali condotti da numerosi ricercatori e numerose istituzioni nazionali e internazionali di grande prestigio. Il primo Libro Verde della Fondazione Cotec muove da questo dato per sviluppare un’articolata e approfondita analisi della situazione italiana circa il sistema della ricerca e dell’innovazione, finalizzata al perseguimento della sua missione fondamentale di supporto e indirizzo delle politiche di sostegno allo sviluppo di nuove tecnologie e di innovazione. Questo obiettivo è perseguito utilizzando in maniera innovativa la grande quantità di dati e indicatori dell’Innovation Outlook sviluppato presso la fondazione e realizzato attraverso una raccolta ragionata e originale di informazioni presenti presso diverse fonti ufficiali, rapporti di ricerca periodicamente rilasciati dai principali organismi di ricerca economica nazionali e internazionali, ricerche pubblicate dalle più prestigiose riviste accademiche e analisi direttamente condotte dalla fondazione stessa. Le proposte che emergono nel corso del Libro Verde sono dunque più facilmente leggibili sia da parte del lettore esperto sia da chi per la prima volta si confronti con questi temi, grazie al costante riferimento al dettaglio numerico delle situazioni volta a volta discusse. Questa grande attenzione a un’analisi fondata su rilevazioni puntuali, tuttavia, è altresì accompagnata


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2 Introduzione

da una discussione articolata dei diversi punti in questione, calati nella realtà operativa attraverso un confronto sul campo realizzato dalla fondazione attraverso una serie di incontri tematici promossi nel corso del 2006 con policy-makers, imprese, istituzioni, politici e accademici. Per questa ragione il volume è articolato in due parti. La prima offre una rapida, ma significativa e approfondita ricognizione generale sullo stato di salute (o di malattia) del paese rispetto agli elementi fondanti il sistema nazionale dell’innovazione. La seconda sviluppa diverse argomentazioni che portano a una serie di indicazioni specifiche di indirizzo in campi diversi, strutturando la discussione attorno quattro filoni fondamentali: • il sistema di governance dell’innovazione, con particolare attenzione a ruoli, responsabilità e strumenti in una logica di confronto e collaborazione tra realtà regionali, nazionali ed europee; • il rapporto tra ricerca pubblica e ricerca privata, considerando in particolare il ruolo dell’università e la sua centralità nel sistema della ricerca pubblica italiana; • il ruolo specifico della domanda pubblica e la sua articolazione in campi diversi dal militare, poco rilevante per il paese, con particolare attenzione alle tecnologie Ict, all’energia e alla sanità; • il ruolo trainante dei sistemi finanziari, con riflessioni specifiche sul ruolo di capitale e debito e della loro collocazione in funzione del ciclo di sviluppo dei settori che caratterizzano l’economia del paese. Il Libro Verde contiene quindi delle proposte specifiche che toccano diversi ambiti di intervento e interessano un numero ampio di decisori politici, sviluppate non solo grazie a basi di dati credibili e affidabili che da sole rischiano di rendere eccessivamente sterile e non ancorate alla realtà le singole iniziative, ma anche grazie a un attento esame delle condizioni di contesto e all’esperienza sul campo delle varie persone coinvolte nel processo di elaborazione delle differenti tematiche trattate.


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1. Il sistema innovativo italiano di Francesco Crespi

1.1 Introduzione Nel corso dell’ultimo decennio la crescita economica in Italia è stata molto modesta. Anche tenuto conto del rallentamento fatto registrare da molti dei principali paesi europei, la posizione dell’economia italiana nel contesto internazionale è andata progressivamente peggiorando. La ragione principale di questa stagnazione del sistema produttivo italiano è stata individuata nel declino della produttività del lavoro che, a sua volta, è determinato non tanto da una generica riduzione dell’intensità di capitale ma da un’insufficiente capacità innovativa del sistema Italia ampiamente dibattuta in letteratura (Malerba, 1993; Cotec, 2007). Tale debolezza può essere facilmente quantificata ricorrendo ad esempio all’indice sintetico di innovazione dello European Innovation Scoreboard prodotto dalla Commissione europea, che consente di confrontare la performance del sistema innovativo italiano con quella dei sistemi innovativi dei principali paesi avanzati. La figura 1.1 riporta l’indice sintetico di innovazione per il 2006 calcolato per Stati Uniti, Giappone, Svizzera e per i paesi dell’Unione europea a 15 membri. Tra i paesi analizzati l’Italia ricopre uno degli ultimi posti, davanti solo a Spagna, Portogallo e Grecia e si colloca ben al di sotto della media europea (Ue-15). I paesi del nord Europa (Svezia, Finlandia, Danimarca e Germania) sono invece quelli che insieme a Svizzera, Giappone e Stati Uniti registrano complessivamente le migliori performance in termini di capacità innovativa. Da tale analisi emergono inoltre due indicazioni importanti.


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4 Il sistema innovativo italiano

Da un lato esiste un numero consistente di paesi nuovi membri, quali ad esempio Slovenia, Repubblica Ceca e Polonia a cui si sommano Portogallo e Grecia, che si collocano decisamente su un sentiero di catching-up. Infatti questi paesi, pur partendo da una situazione di forte ritardo, hanno fatto registrare nel 2006 un tasso di crescita dell’indicatore sintetico di innovazione superiore alla media europea. Al contrario, l’Italia è inserita nel gruppo di paesi che sta ulteriormente perdendo terreno. Questo non solo perché, per l’anno in questione, l’indice di innovatività complessiva è inferiore alla media europea ma anche perché il tasso di crescita dello stesso risulta inferiore a quello medio dei partner europei. Questo divario in termini di capacità di innovare tra Italia e i principali paesi avanzati spiega gran parte dei differenziali in termini di competitività internazionale messi in risalto da molti or-

Figura 1.1 Indice sintetico dell’innovazione in Europa, Stati Uniti e Giappone, 2006 Svezia Svizzera Finlandia Danimarca Giappone Germania Stati Uniti Lussemburgo Regno Unito UE-15 Paesi Bassi Irlanda Francia Belgio Austria Norvegia Italia Spagna Portogallo Grecia

0.,73 0.,69 0.,68 0,63 0,61 0,59 0,54 0,54 0,53 0,5 0,49 0,48 0,48 0,48 0,48 0,36 0,34 0,31 0,23 0,22

0

0,1

0,2

0,3

0,4

0,5

Fonte: European Innovation Scoreboard, Commissione europea (2006).

0,6

0,7

0,8


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ganismi e istituti di ricerca internazionali (Ferrari et al., 2007). Qui è riportata la classifica per il 2007 prodotta dall’Imd International di Losanna, che pubblica ogni anno un rapporto sulla competitività nel mondo, The World Competitiveness Yearbook, con l’obiettivo di fornire informazioni dettagliate sulle caratteristiche dei sistemi economici nazionali e su come queste influenzino la competitività delle imprese. Come evidenziato dalla figura 1.2, il rapporto 2007 mostra che gli Stati Uniti conservano la posizione di leadership in termini di competitività internazionale. Dal rapporto emerge inoltre che economie come quelle di Singapore e Hong Kong stanno rapidamente colmando il gap con l’economia statunitense. Il nostro paese invece si colloca nelle retrovie rispetto agli altri paesi avanzati occupando la posizione 42. Tuttavia, è interessante notare che rispetto al 2006 l’Italia migliora la propria posizione in termini dell’indicatore complessivo di competitività passando dal 56° al 42° posto di questa particolare classifica. Queste differenze in termini di capacità innovativa e quindi di competitività internazionale si traducono in un’insufficiente dinamica dell’economia nel suo complesso e spiegano grossa parte dei differenziali di crescita tra Italia e i principali paesi industrializzati. Occorre però sottolineare che i fattori che influenzano la capacità innovativa di un paese e che definiscono il posizionamento di un sistema economico all’interno della competizione internazionale sono molteplici. Gli indicatori sintetici qui citati consentono solo di esprimere un giudizio sommario sulla qualità complessiva dei sistemi innovativi nazionali posti a confronto. L’obiettivo di questo capitolo introduttivo è quindi quello di chiarire quali sono i principali elementi che consentono di spiegare il risultato deludente dell’Italia in termini di questi indicatori sintetici. A tal fine verrà proposto un confronto tra l’Italia e i suoi principali competitors internazionali svolto mediante l’esposizione e l’analisi dei principali indicatori di input dell’attività innovativa, come quelli sulle attività di ricerca e sviluppo e sul capitale umano, e dei più rilevanti indicatori di output, come quelli sulla produzione scientifica e tecnologica. Questo confronto consentirà inoltre di evidenziare le principali caratteristiche del sistema innovativo italiano. Nel capitolo verranno prima analizzate le informazioni stati-


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6 Il sistema innovativo italiano

Figura 1.2 Indice globale di competitivitĂ (base 100 Stati Uniti) e classifica rispetto a 61 economie considerate, 2007 1. Stati Uniti

100

2. Singapore

99 94

3. Hong Kong

92

4. Lussemburgo

92

5. Danimarca

90

6. Svizzera

89

7. Islanda

86

8. Paesi Bassi

84

9. Svezia 10. Canada

84

11. Austria

83

12. Australia

82

13. Norvegia

82 82

14. Irlanda

79

15. Cina 16. Germania

78

17. Finlandia

77

18. Taiwan

76

19. Nuova Zelanda

76 75

20. Regno Unito

74

21. Israele

74

22. Estonia

72

24. Giappone 63

28. Francia

61

30. Spagna 56

39. Portogallo 48

42. Italia 43

52. Polonia 0

20

40

Fonte: The World Competitiveness Yearbook, IMD (2007).

60

80

100


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stiche sulle risorse finanziare e umane impiegate nella creazione e diffusione di nuova conoscenza. Nello specifico si farà riferimento a: • L’evoluzione delle spese in R&S in Italia negli anni più recenti. In particolare verrà considerata la dinamica del rapporto tra R&S e Pil in Italia e nei principali paesi europei. Questo infatti rappresenta l’indicatore più usato per descrivere e confrontare a livello internazionale l’intensità delle attività volte all’introduzione di innovazione tecnologica effettuate all’interno di un sistema economico. L’analisi sui dati R&S include le informazioni sugli addetti alla R&S. • La qualità e la crescita del capitale umano in Italia. Le informazioni sulle risorse impiegate per l’istruzione e sul numero e distribuzione disciplinare dei laureati consentiranno di realizzare una analisi comparativa tra Italia e i principali paesi europei. • La diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict). Considerata la rilevanza dei tassi di diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione nello spiegare la dinamica della produttività nei paesi avanzati, verranno presi in analisi gli indicatori sugli investimenti in Ict per effettuare un confronto con i principali paesi industrializzati. Per valutare il posizionamento del sistema innovativo italiano nel panorama internazionale verranno inoltre presi in esame gli indicatori di produttività nella creazione di nuova conoscenza scientifica e tecnologica, facendo riferimento ai dati sulle pubblicazioni scientifiche e sui brevetti.

1.2 Le risorse per la creazione e diffusione di nuova conoscenza Ricerca e sviluppo in Italia La quantità di risorse allocate da un sistema economico per attività di ricerca e sviluppo è considerata come una delle misure più precise e dirette di input del processo innovativo.


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La figura 1.3 riporta l’evoluzione della spesa in R&S in Italia e in alcuni dei principali paesi europei nel periodo 1990-2005. Dall’analisi della figura emerge che dopo una marcata flessione in termini reali degli investimenti in R&S nel periodo 1990-1995, si è verificato un recupero fino al 2002, al quale è seguita una battuta d’arresto nel 2003. Tra il 2004 e il 2005 la spesa per attività di R&S svolta in Italia dalle imprese, dagli enti della pubblica amministrazione, dalle istituzioni private non profit e dalle università è tornata a crescere, seppur in maniera contenuta, facendo registrare un aumento del 2,3% in termini monetari, pari a un incremento dello 0,05% in termini reali. Se inoltre si guarda all’andamento degli investimenti in R&S nei principali paesi europei nello stesso periodo si può vedere come i progressi fatti da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito siano stati significativamente maggiori rispetto a quelli fatti registrare in Italia. Una caratteristica comune agli indicatori basati sulle spese in R&S consiste nella necessità di tener conto della presenza di effetti di scala. In questa ottica, misure di intensità di ricerca e sviluppo possono essere ottenute pesando i valori assoluti tramite variabili dimensionali quali ad esempio il Pil. In particola-

Figura 1.3 Evoluzione della spesa in R&S nei principali paesi europei 1990-2005 (milioni di dollari PPP a prezzi costanti, anno base 2000) Francia

Germania

Italia

Spagna

Regno Unito

60.000 50.000 40.000 30.000 20.000 10.000 0 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007) e Ricerca e sviluppo in Italia, ISTAT (2007), nostra elaborazione.


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re l’indicatore standard di intensità di R&S (il rapporto tra spese in R&S e Pil) è particolarmente utilizzato per valutare la propensione innovativa di specifiche aree geografiche. La figura 1.4 consente di effettuare un confronto in base a questo indicatore per i principali paesi industrializzati. Per quanto riguarda gli investimenti in R&S, l’Italia si colloca in coda agli altri paesi considerati con un risultato al di sotto della media europea. Nel periodo preso in considerazione Giappone e, in misura minore, gli Stati Uniti rafforzano la propria posizione di leadership. Inoltre, la Spagna, che nel 1990 mostrava un forte ritardo rispetto agli altri paesi, registra una buona performance passando nel rapporto R&S/ Pil dallo 0,80% (1990) all’1,12% (2005). Al contrario l’Italia non evidenzia segnali di recupero ma peggiora nel complesso la propria posizione. In particolare, la crescita nell’intensità di R&S fatta registrare tra il 1999 e il 2002 si arresta, con l’indicatore che passa dall’1,16% del 2002 all’1,10% del 2005. Da notare che tale andamento risulta essere incompatibile con il raggiungimento nel 2010 dell’obiettivo del 3% nel rapporto R&S/Pil stabilito dalla Strategia di Lisbona (Sirilli, 2004). L’analisi di questo indicatore di intensità di spesa per R&S ci

Figura 1.4 Intensità degli investimenti in R&S nei principali paesi industrializzati. Spesa totale in R&S in percentuale del Pil

2,15

1,50 1,00

0,80 1,12

1,25 1,10

1,78

2,00

1,89 1,86

2,33 2,13

2,26 2,25

2,50

2,61 2,46

3,00

2,65 2,62

3,50

2005

2,99 3,33

1990

0,50 0,00 Giappone

USA

Germania OECD

Francia

UE-15

UK

Italia

Spagna

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007) e Ricerca e sviluppo in Italia, ISTAT (2007), nostra elaborazione.


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permette pertanto di evidenziare una prima importante peculiarità del sistema innovativo italiano, che risulta quindi caratterizzato da una bassa propensione all’investimento in attività di ricerca. D’altra parte, per comprendere le origini di questo risultato e coglierne le implicazioni, occorre analizzare più in dettaglio la composizione della spesa in R&S per settori istituzionali e le caratteristiche della struttura produttiva italiana. L’analisi della composizione della spesa in R&S per settori istituzionali è a tal fine di particolare interesse, in quanto è in grado di evidenziare la specificità italiana in termini di rapporto tra R&S delle imprese e del settore pubblico. Nel 2005 il settore delle imprese (escluso il settore delle istituzioni private non profit) svolge poco più della metà (50,4% nel 2005) dell’attività nazionale totale di R&S. Tra il 2000 e il 2005 l’incidenza percentuale del settore delle imprese e di quello delle istituzioni private non profit rispetto al totale delle spese in R&S passa dal 50,1% al 52,5% (figura 1.5), accrescendo la propria rilevanza rispetto agli altri settori. Si riduce infatti il peso del comparto delle amministrazioni pubbliche che, nello stesso periodo, scende dal 18,9% al 17,3%, mentre rimane pressoché statico l’apporto delle università, che passa dal 31% del 2000 al 30,2% del 2005. Analizzando valori di più lungo periodo, la ricerca pubblica ha comunque visto progressivamente incrementare il suo peso rispetto al totale nazionale, passando dal 41,6% nel 1990 al 47,5% nel 2005. Tale incremento complessivo, pari al 14,2%, è secondo solamente a quello registrato nel Regno Unito nello stesso periodo (figura 1.6). Se si guarda al confronto internazionale emerge chiaramente l’esistenza di una forte caratterizzazione italiana in termini di una più bassa quota delle spese R&S attribuibile al settore delle imprese rispetto agli altri paesi considerati nell’analisi. In Germania infatti quasi il 70% della spesa in R&S è effettuata dalle imprese nel 2005, mentre Regno Unito e Francia si attestano entrambi a circa il 63%. In questo senso, il sistema innovativo italiano mostra una tendenza opposta a quella necessaria per la realizzazione dell’obiettivo di Lisbona che identifica in due terzi il rapporto tra spesa in R&S privata e pubblica.


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Figura 1.5 Composizione della spesa in R&S per settori istituzionali nei principali paesi Europei, 2005 IMPRESE e IPNP 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0%

UNIVERSITĂ€

13,7

17,2

10,8

17,3

16,5

18,9

69,8

Francia

Germania

29,1

63

52,5

Italia

17

26,2

30,2

63,9

AAPP

53,9

Regno Unito

Spagna

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007), e Ricerca e sviluppo in Italia, ISTAT (2007), nostra elaborazione.

Figura 1.6 Quota percentuale della R&S pubblica rispetto al totale nei principali paesi europei, 1990 e 2005 1990

50 45

46,1 41,7

2005

47,5 41,6

40 35

38,8

37,0

36,1 28,7

30

27,5

30,2

25 20 15 10 5 0 Spagna

Italia

Francia

Regno Unito

Germania

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007), e Ricerca e sviluppo in Italia, ISTAT (2007), nostra elaborazione.


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Questo andamento è dovuto a una diversa dinamica delle spese in R&S del settore pubblico e delle imprese. Il livello italiano degli investimenti pubblici in R&S nel periodo 1990-2005 è infatti cresciuto in particolare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. La figura 1.7 presenta la spesa nazionale in R&S del settore pubblico in percentuale del Pil nazionale per i principali paesi europei. Dall’analisi di questo dato emerge che le differenze tra Italia e gli altri partner europei non sono così forti come nel caso evidenziato guardando al dato complessivo sulle spese R&S. Il rapporto tra R&S pubblica e Pil nazionale (0,52% nel 2005) rimane comunque inferiore a quello di Francia (0,78%) e Germania (0,76%), ma l’Italia risulta allineata al Regno Unito (0,64%). Il dato italiano è invece superiore, seppur di poco, a quello spagnolo (0,51%), che nel confronto internazionale rimane il paese più debole anche se in questo campo sta rapidamente colmando il ritardo accumulato in passato. È evidente a questo punto che, per spiegare grossa parte del divario tra Italia e gli altri paesi avanzati in termini di propensione a investire risorse in attività di ricerca, occorre guardare in particolare al settore delle imprese e alle sue caratteristiche strutturali.

Figura 1.7 Spesa per R&S del settore pubblico nei principali paesi europei in percentuale del Pil, 1990 e 2005 1990 1,00

2005

0,93

0,90 0,80

0,78

0,76 0,76

0,70

0,63 0,64

0,60

0,54 0,52

0,51

0,50 0,35

0,40 0,30 0,20 0,10 0,00

Francia

Germania

Italia

Spagna

Regno Unito

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007) e Ricerca e sviluppo in Italia, ISTAT (2007), nostra elaborazione.


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Il sistema produttivo italiano è caratterizzato dalla predominanza di imprese di dimensioni medio-piccole (spesso operanti in distretti industriali) specializzate in settori tradizionali a bassa intensità tecnologica. In Italia circa la metà degli occupati nel settore manifatturiero è collocato infatti in imprese con meno di 50 dipendenti, mentre in paesi come la Francia o il Regno Unito la quota è del 30%. In Germania i lavoratori impiegati in imprese della manifattura con meno di 20 dipendenti sono circa il 10% mentre in Italia sono il 30%. La dimensione media delle imprese italiane è vista sempre più spesso dagli osservatori come una delle principali debolezze del sistema produttivo italiano, poiché essa ne pregiudicherebbe la capacità di innovare e di competere sui mercati internazionali. Questa tesi è in parte suffragata dall’analisi della composizione della spesa in R&S delle imprese. Osservando infatti le caratteristiche del sistema della ricerca privata italiana, emerge una forte concentrazione delle attività di R&S nel segmento delle grandi imprese (Moncada Paternò-Castello et al., 2006). Nel 2005 le imprese con almeno 500 addetti sostengono ben il 73,8% della spesa per R&S del settore, mentre il contributo delle piccole imprese (sotto i 50 addetti) rimane limitato al 6%. D’altra parte è stato evidenziato che anche se la struttura dimensionale delle imprese italiane fosse comparabile con quella dei paesi sopra citati rimarrebbe comunque un gap (seppur ridotto) in termini di intensità delle attività di ricerca e sviluppo delle imprese (Foresti, 2002). Una delle cause della persistenza di questo divario è attribuibile all’altra debolezza strutturale del sistema produttivo italiano identificata nella specializzazione delle imprese in settori cosiddetti low-tech e ad alta intensità di lavoro. Utili informazioni a questo riguardo emergono dall’analisi di indicatori in grado di fornire informazioni circa la specializzazione italiana nel commercio internazionale, quale ad esempio la quota di esportazioni high-tech nel settore manifatturiero. Come evidenziato dalla figura 1.8 tale quota è pari al 10,8% rispetto al totale delle esportazioni del settore manifatturiero. La media europea si colloca su un livello pari a circa il doppio (20,6%) di quello italiano. La maggiore quota delle esportazioni del comparto manifatturiero italiano si concentra quindi nei settori a bassa o medio-bassa tecnologia.


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Figura 1.8 Esportazioni per intensità tecnologica nei principali paesi industrializzati, 2005 Alta tecnologia Medio-bassa tecnologia

Medio-alta tecnologia Bassa tecnologia

Stati Uniti Regno Unito Giappone Francia UE19 Germania Italia Spagna 0%

20%

40%

60%

80%

100%

Fonte: Science, Technology and Industry: Scoreboard 2007, OCSE (2007)

L’analisi della dinamica delle spese in R&S delle imprese italiane (figura 1.9) tuttavia consente, indipendentemente dalle caratteristiche strutturali del sistema, di individuare una tendenza negativa in termini di sviluppo della propria capacità innovativa. Passando ad analizzare infatti l’andamento delle spese in R&S effettuate dalle imprese in Italia nel periodo 1990-2005, emerge che il settore delle imprese ha fatto registrare una scarsa performance in termini di risorse investite in attività innovative. In termini reali la spesa in R&S delle imprese diminuisce tra il 1990 e il 2005. In particolare, nei primi anni Novanta si è verificata una riduzione della spesa in R&S da parte delle imprese sia in termini reali che monetari. La stessa è rimasta costante tra il 1995 e il 1999, mentre ha cominciato a risalire tra il 1999 e il 2002. Tale crescita si consolida nel 2005, il settore delle imprese incrementa la propria spesa in R&S del 7% in termini monetari. Rispetto ai principali paesi europei, nel periodo 1990-2005


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Figura 1.9 Evoluzione della spesa in R&S delle imprese nei principali paesi Europei 1990-2005 (Milioni di dollari PPP a prezzi costanti, anno base 2000) Francia

Germania

Italia

Spagna

Regno Unito

40.000 35.000 30.000 25.000 20.000 15.000 10.000 5000 0 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007).

l’Italia è il solo in cui le risorse destinate dalle imprese ad attività di R&S sono diminuite in termini reali. Forti incrementi si registrano in particolare in Germania, Francia e Spagna. Per quanto riguarda il rapporto tra R&S delle imprese e Pil esso passa dallo 0,75% allo 0,55%. Come evidenziato dalla figura 1.10, tali livelli sono abbondantemente al di sotto di quelli dei principali paesi industrializzati. Tra i paesi considerati risulta di particolare rilievo la performance del Giappone che incrementa ulteriormente l’intensità di R&S nel settore delle imprese. Se si guarda alla media Ocse, tra il 1990 e il 2005 il rapporto tra R&S delle imprese e Pil rimane praticamente costante. La Germania e soprattutto il Regno Unito registrano una riduzione in tale rapporto, mentre la Spagna, anch’essa come l’Italia caratterizzata da una bassa propensione delle imprese a investire in attività di ricerca, realizza un buon incremento raggiungendo e superando il dato relativo all’Italia. Passando all’analisi delle risorse umane impiegate in attività di ricerca e sviluppo, il posizionamento dell’Italia rispetto ai principali paesi europei non cambia. Dal confronto internazionale realizzato considerando il numero di addetti alla R&S nel-


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Figura 1.10 Intensità degli investimenti in R&S delle imprese nei principali paesi industrializzati. Spesa totale in R&S delle imprese in percentuale del Pil 1990

0,5

0,61

0,46

0,75

1

0,55

1,41

1,32

1,10

1,5

1,49

1,56

1,53

1,87

1,82

1,93

2

1,71

2,11

2,5

2,54

3

2005

0 Giappone

Germania

Stati Uniti

OCSE

Regno Unito

Francia

Italia

Spagna

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007).

le imprese per ogni mille occupati nei diversi settori di attività economica (figura 1.11) emerge che in Italia solo 4 occupati nelle imprese su mille sono dedicati alle attività di R&S delle imprese. Tale valore rimane costante tra il 1990 e il 2005 ed è abbondantemente al di sotto di quelli relativi a Francia (12) e Germania (11,2) nel 2005, e comunque inferiore alla media europea a 15 paesi (8,6). La Spagna che nel 1990 occupava nelle imprese per attività di R&S meno di 3 lavoratori su mille passa nel 2005 a 5,4 superando il livello registrato nello stesso anno in Italia. Pur riconoscendo che non necessariamente la scarsa propensione a investire in attività formali di R&S equivalga sistematicamente a una incapacità di innovare o migliorare prodotti e processi produttivi attraverso attività di ricerca informali, dall’analisi di questi dati emerge sicuramente un’indicazione di debolezza del sistema innovativo italiano specie per quanto riguarda le risorse dedicate dalle imprese ad attività sistematiche di ricerca.


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Figura 1.11 Addetti alla R&S nelle imprese per 1000 occupati nelle imprese nei principali paesi europei (il dato relativo alla Francia si riferisce al 2004) 1990 14,0

12,0*

12,0 10,0

2005

11,2 11,2

9,6 8,3

8,0

7,5

7,1

8,6

5,4

6,0

4,0 3,9

4,0

2,6

2,0 0,0 Francia

Germania

Italia

Regno Unito

Spagna

UE-15

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007).

Il capitale umano Il capitale umano costituisce un input cruciale per la creazione di nuova conoscenza e lo sviluppo economico e tecnologico. Si è dimostrato da più parti, infatti, che l’aumento del livello di scolarità media acquisito in un paese, la sua più equa distribuzione all’interno della popolazione e l’ampliamento delle qualifiche sul mercato del lavoro hanno prodotto significativi rendimenti sia sul piano individuale, in termini di maggiore probabilità d’impiego e di profili di carriera e di guadagno più pronunciati, sia su quello sociale, in termini di maggiore competitività e sentieri di crescita e sviluppo più sostenuti. Il miglioramento della qualità e dell’efficacia dei sistemi di istruzione e di formazione, una elevata facilità di accesso a tali sistemi da parte di tutti i cittadini, l’apertura del sistema scolastico e universitario al mondo esterno costituiscono pertanto fattori indispensabili per affrontare le sfide poste dalla crescente integrazione delle economie moderne. Non sorprende quindi il ruolo centrale assegnato dall’Unione europea alle politiche educative e a quelle della formazione all’interno della strategia globale concordata a Lisbona. Nel contesto delle nuove finalità dell’insegnamento in una dimensione europea, l’azione comunitaria ha prodotto negli ultimi anni un co-


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stante impulso al rafforzamento della cooperazione tra gli Stati per il miglioramento della qualità della scuola e dell’università. In ambito europeo, l’Italia non è tra paesi che dedicano più risorse all’istruzione scolastica. Tuttavia, il divario nell’intensità di spesa tra l’Italia e i principali partner europei non è particolarmente ampio. La spesa per studente, dalla scuola primaria all’università, nel 2004 risulta nel nostro paese di poco inferiore alla media europea sia in percentuale del Pil (figura 1.12), sia come quota del totale della spesa pubblica. In questa classifica l’Italia è in linea con i valori della Germania, mentre la Francia alloca in media rispetto al nostro paese un punto percentuale in più del proprio prodotto interno lordo in istruzione. Se inoltre si guarda all’indicatore che misura la qualità dell’ambiente formativo costituito dal numero di studenti per ogni docente, dal confronto con alcuni Stati europei (figura 1.13), emerge che l’Italia ha il rapporto alunni/insegnanti più basso (in media oltre 10 studenti per 1 docente, stabile nel periodo 2003-2005). In Germania si trova invece il valore più alto, 17 a 1, in lieve crescita rispetto al dato del 2003, valore che supera quello del Regno Unito, che dai 20 studenti per docente nel 2003 scende sotto i 15 nel 2005.

Figura 1.12 Spesa pubblica per istruzione per studente dalla scuola primaria all’università in % Pil nei principali paesi industrializzati, 2004 5,81 5,31

Francia

Portogallo

Media EU (25)

5,29

Regno Unito

4,59

4,6

Italia

Germania

Fonte: Education and Training Indicators, Eurostat (2007).

5,1 4,25

Spagna


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Figura 1.13 Numero medio di studenti per docente nelle scuole pubbliche nei principali paesi europei, 2003-2005 2003

Regno Unito

Germania

Francia

2004

2005

Spagna

Italia

Portogallo

Fonte: Education and Training Indicators, Eurostat (2007).

Il soddisfacente posizionamento dell’Italia rispetto a questi indicatori non si riflette però automaticamente sulle capacità acquisite dagli studenti italiani, specie nelle materie scientifiche. Analizzando infatti i risultati dell’indagine Pisa (Programme for International Student Assessment) per l’anno 2006, emerge che gli studenti italiani di 15 anni mostrano scarse competenze in matematica e bassa capacità di risoluzione dei problemi. Un quadro della situazione si può ottenere considerando la percentuale di studenti che si colloca ai diversi livelli della scala complessiva di matematica (mathematical literacy, figura 1.14). I livelli alti della scala (livelli 5 e 6) corrispondono a quesiti contenenti una notevole quantità di elementi non comuni la cui risoluzione richiede un certo grado di riflessione e creatività. All’estremo più basso della scala vi sono i quesiti che richiedono una limitata capacità di interpretazione del contesto e l’applicazione di conoscenze matematiche familiari (semplici calcoli aritmetici, ordinare un insieme di numeri, calcolare il cambio di una valuta). Solo l’1,3% degli studenti italiani di 15 anni raggiunge il livello più elevato della scala (livello 6) contro una media dei paesi


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Figura 1.14 Capacità matematiche di giovani quindicenni nei paesi Ocse, 2006 indagine Pisa sottoliv. 1

liv. 1

liv. 2

liv. 3

liv. 4

liv. 5

liv. 6

100

Percentuale di studenti

80 60 40 20 0

o sic es M a hi rc Tu lia Ita ia ec Gr allo g rto i Po nit iU at St na ag Sp a ci E an S Fr O C ia ed M nia a rm Ge gia e rv a No ec C p. Re io lg Be ia ez Sv a d an e Irl n po a ap Gi arc m ni Da a d na si Ca Bas d i es Su Pa del a re Co dia an nl Fi

-20 -40

Fonte: PISA 2006, Sciences Competencies for Tomorrow’s World, OCSE (2007).

Ocse del 3,3%. I paesi con i risultati migliori (Corea del Sud, Finlandia e Belgio) hanno valori superiori al 6%. Al solito, la performance dell’Italia è superiore solo a quelle fatte registrare da Portogallo, Grecia e Messico ed è pari a quella spagnola. Al livello inferiore della scala (livello 5), troviamo il 5% degli alunni italiani. Tale risultato è la metà della media dei paesi Ocse (10%) e meno di un terzo del valore dei paesi leader (Finlandia, Corea del Sud e Paesi Bassi). Quasi un quinto (19,3%) degli studenti quindicenni scolarizzati italiani si trova al livello 1 della scala e più di uno studente su 10 in Italia non riesce a rispondere alla maggior parte dei quesiti più semplici di Pisa. La percentuale media dell’Ocse di studenti a livello 1 è del 13,6% e il 7,7% si collocano in media al livello più basso della scala. Ai gradini più bassi della scala, la distanza del nostro paese da quelli con la performance migliore è consistente (in Finlandia, Paesi Bassi e Corea del Sud la percentuale di studenti sotto il livello 1 non supera il 2,5% ed è inferiore al 10% per il livello 1). In sintesi, solo poco più del 6% degli studenti italiani mostra elevati livelli di conoscenze e competenze matematiche, contro una media Ocse di oltre il 13% e vette che superano il 20% per i paesi migliori. All’estremo opposto della scala, più del 30% degli studenti italiani


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non va oltre il livello 1, mentre la media Ocse è di circa il 20% e in alcuni paesi questo valore scende sotto il 10%. Passando invece all’analisi delle statistiche sul numero di laureati emerge che in Italia questi ultimi sono in costante crescita (tabella 1.1). Il numero dei laureati nel nostro paese è passato infatti da poco più di 175.000 nell’anno solare 2001 a più di 300.000 quattro anni dopo, con un incremento complessivo del 71,8%. Dall’introduzione della riforma universitaria nel 2001, il peso delle lauree triennali previste dal nuovo ordinamento è cresciuto continuamente a scapito delle vecchie lauree di durata quadriennale, quinquennale o superiore. Cresce anche il numero di coloro che portano a compimento il biennio di studi specialistici previsto dal nuovo ordinamento dopo l’ottenimento della laurea triennale: nel 2005 i laureati nella specialistica sono più di 18.000, il 6% del totale dei laureati nell’anno solare. La nuova riforma ha consentito anche un graduale ma costante abbassamento dell’età in cui si consegue la laurea. Nel 2005 la metà dei giovani laureati ha meno di 25 anni. Solo due anni prima (2003) erano solo poco più di un terzo i laureati entro i 25 anni, e nel 2001 poco più di un quarto. Grazie anche alle lauree triennali, quindi, si sta tentando di risolvere il fenomeno delle lauree tardive, da sempre caratteristica negativa del sistema universitario italiano nel panorama internazionale. Se è vero quindi che il sistema economico italiano può bene-

Tabella 1.1 Laureati per tipologia di corso e sesso in Italia (valori assoluti e percentuali), 1994-2005 Anno Laureati solare 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

105162 112608 124457 131987 140126 152341 161484 175386 205235 234672 268821 301298

Var. % sull'anno precedente 13,3% 7,1% 10,5% 6,1% 6,2% 8,7% 6,0% 8,6% 17,0% 14,3% 14,6% 12,1%

Corsi di Laurea 98283 105097 115024 121785 129167 139109 143892 153976 164531 164123 161050 142993

Vecchio Ordinamento Corsi di % Diploma 93,5% 93,3% 92,4% 92,3% 92,2% 91,3% 89,1% 87,8% 80,2% 69,9% 59,9% 47,5%

Fonte: DG Studi e programmazione, MIUR (2006).

6879 7511 9433 10202 10959 13232 17592 20136 17484 8012 3829 1625

Nuovo Ordinamento %

Triennale

%

Specialistica

%

6,5% 6,7% 7,6% 7,7% 7,8% 8,7% 10,9% 11,5% 8,5% 3,4% 1,4% 0,5%

1267 22304 53741 92304 138307

0,7% 10,9% 22,9% 34,3% 45,9%

-

0,0% 0,4% 3,7% 4,3% 6,1%

7 916 8796 11546 18309


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ficiare di un numero di persone con elevati livelli di educazione sempre crescente, è altresì vero che la composizione per disciplina del numero di laureati evidenzia una carenza nelle aree tecnico-scientifiche. Nell’anno 2005 un laureato italiano su sette proviene dall’area economico-statistica (14,3%). Seguono, con percentuali superiori al 10%, le aree politico-sociale, ingegneristica e giuridica. Se si focalizza l’attenzione sul numero di iscritti e di laureati nelle materie scientifiche, un aspetto centrale nella strategia di Lisbona portata avanti dall’Unione europea, si scopre che meno di un quarto del totale degli iscritti nelle università italiane nell’anno accademico 2005/2006 frequentava una classe appartenente all’insieme dei corsi di laurea in scienze, matematica e tecnologia. La quota di iscritti a questi corsi si attesta invece a circa il 30% in Spagna e Germania, ed è pari al 25,5% nella media dell’Europa a 25 paesi (figura 1.15). Allo stesso

Figura 1.15 Iscritti ai corsi di scienze, matematica e tecnologia* in percentuale del totale degli iscritti per anno accademico nei principali paesi europei, A.A. 2000/2001-2005/2006 2000/2001

2005/2006

30,7 29,9 28,8

29,4

28,8

28,6

26,2

25,5 24,5

24,1

Spagna

Germania

Portogallo

23,7

EU (25)

*

Italia

23,6

Regno Unito

In armonia con le definizioni internazionali, i corsi di scienze, matematica e tecnologia comprendono le seguenti classi di corso di laurea: Biotecnologie, Scienze biologiche, Scienze e tecnologie farmaceutiche, Scienze e tecnologie chimiche, Scienze e tecnologie fisiche, Scienze geografiche, Scienze matematiche, Scienze statistiche, Scienze e tecnologie informatiche, Ingegneria dell’informazione, Ingegneria industriale, Disegno industriale, Scienze dell’architettura e dell’ingegneria edile, Urbanistica e scienze della pianificazione territoriale e ambientale, Ingegneria civile e ambientale.

Fonte: Education and Training Indicators, Eurostat (2007).


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modo, solo il 23% dei laureati nell’anno solare 2005 ha acquisito il titolo nelle discipline scientifiche. A tale riguardo, il ritardo con Francia e Germania è notevole, in quanto in questi paesi più di un quarto dei laureati proviene dalle aree scientifica, matematica e tecnologica. Inoltre, nel nostro paese tale quota sembra essersi stabilizzata, rendendo il traguardo posto dall’Unione europea, di un aumento del 15% entro il 2010, difficilmente raggiungibile. La diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione La diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) svolge un ruolo centrale nel determinare le potenzialità di crescita della produttività nei sistemi economici avanzati. È infatti ormai noto come esse ricoprano un ruolo cruciale nella nuova economia della conoscenza e nel processo di ristrutturazione dei moderni sistemi economici. La rapida crescita della produttività negli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni Novanta è stata infatti in gran parte attribuita alla forte espansione nella produzione e nell’uso delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. La diffusione capillare delle Ict in ogni settore delle moderne economie ha inoltre generato un cambiamento nelle tecnologie di produzione, nell’organizzazione delle imprese e dei mercati e nella gestione del consumo. Gli effetti sulla concorrenza internazionale dell’incremento dei tassi di adozione delle nuove tecnologie dell’informazione sono stati straordinari. Molti vincoli fisici e informativi per il commercio, le transazioni finanziarie, la ricerca sono caduti rapidamente al crescere del ritmo di diffusione delle nuove tecnologie in particolare di Internet e della comunicazione mobile. Negli ultimi anni gli investimenti in Ict hanno rappresentato la componente più dinamica del totale degli investimenti in nuovo capitale. Essi cominciano a costituire una quota rilevante del Pil in particolare in paesi come Svezia o Giappone, dove il rapporto tra investimenti in Ict e prodotto supera il 4%. Esistono però divergenze pronunciate tra paesi con diversi livelli nei tassi di penetrazione delle nuove tecnologie.


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Collocare l’Italia all’interno del quadro internazionale attraverso indicatori specifici sul grado di diffusione delle Ict risulta di notevole importanza per comprenderne le potenzialità in termini di crescita futura della produttività e della competitività. Tale confronto internazionale viene effettuato qui attraverso l’analisi di tre indicatori: • percentuale delle spese in tecnologie della comunicazione rispetto al Pil; • percentuale delle spese in tecnologie dell’informazione (It) rispetto al Pil; • percentuale di occupazione nei settori Ict rispetto al totale dell’economia. In Italia le spese in Ict sono cresciute considerevolmente negli ultimi anni raggiungendo una incidenza sul Pil pari al 4,8% nel 2006. Questo dato riflette sicuramente un aumento della diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione all’interno del nostro sistema economico. Contrariamente a quanto accaduto in altri paesi avanzati tale dinamica non si è però tradotta ancora in una corrispondente crescita della produttività. Una delle ragioni sottostanti a questo fenomeno può essere individuata distinguendo tra le due componenti delle spese in Ict, ovvero la spesa in tecnologie della comunicazione e le spese in tecnologie dell’informazione. Mentre per quanto riguarda la prima componente l’Italia è in linea con la media europea, anche se si colloca al di sotto dei paesi come la Svezia e il Giappone (figura 1.16), guardando alla seconda dimensione emerge che in Italia l’incidenza rispetto al Pil delle spese in tecnologie dell’informazione per l’acquisto di hardware, software e altri servizi connessi nel 2006 è pari all’1,7%. La media europea (Ue-15) è invece pari al 2,7%. Francia e Stati Uniti si collocano al di sopra del 3% mentre Regno Unito e Svezia si avvicinano al 4% (figura 1.17). Questo significa che l’intensità degli investimenti e quindi i tassi di penetrazione delle tecnologie informatiche sono in Italia ancora al di sotto di quelli dei principali paesi avanzati. Passando infine a esaminare la quota di occupati nei settori Ict rispetto al totale degli occupati nell’intera economia, dalla


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Figura 1.16 Spesa in tecnologie della comunicazione in percentuale del Pil nei principali paesi industrializzati, 2006 Giappone

4,2

Svezia

3,5 3,2

Spagna

3,1

Italia Regno Unito

3,0

Olanda

3,0

UE-15

2,9

Finlandia

28

Germania

2,8

Francia

2,3

Stati Uniti

2,1 0,0

1,0

2,0

3,0

4,0

5,0

Fonte: New Cronos Database, Eurostat (2007).

Figura 1.17 Spesa in tecnologie dell’informazione per hardware, software e altri servizi in percentuale del Pil nei principali paesi industrializzati, 2006 Svezia

3,8

Regno Unito

3,5

Giappone

3,4

Stati Uniti

3,3

Olanda

3,3

Finlandia

3,2

Francia

3,1

Germania

2,9

UE-15

2,7

Italia

1,7

Spagna

1,4

0

0,5

1

15

Fonte: New Cronos Database, Eurostat (2007).

2

2,5

3

3,5

4


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figura 1.18 si evince come l’Italia si collochi su valori simili a quelli dei principali partner europei. La percentuale degli occupati nei settori Ict è infatti pari al 2,8% del totale nel 2004 con una buona crescita rispetto al dato del 1995. Il settore Ict italiano sta però oggi sperimentando una riduzione dell’occupazione, conseguenza delle attuali difficoltà del mercato, che si caratterizza per una scarsa crescita della domanda e per un forte incremento del numero di imprese sospese, in liquidazione, o in fallimento (salite nel 2005 all’11% del totale). Il numero degli addetti del comparto Ict nel 2001 era pari a 697.000, mentre nel 2004 essi scendono a 675.000, con una riduzione di 22.000 unità. È inoltre interessante notare che, nonostante il numero di imprese Ict attive sia salito nel 2005 dell’1,9% (passando da 110.400 nel 2001 a 112.600 nel 2005), il settore si sta caratterizzando per la presenza di attori sempre più numerosi ma sempre più di piccola dimensione. Infatti, dopo la forte crescita della fine degli anni Novanta, nel settore stanno prevalendo fenomeni di razionalizzazione e di ristrutturazione. Questa tendenza si riflette anche in una scarsa dinamica delle nuove assunzioni nel settore. Ciò è testimoniato anche dall’andamento insoddisfacente delle nuove assunzioni effettuate dalle impre-

Figura 1.18 Quota percentuale di occupazione nei settori Ict rispetto al totale dell’economia 1995 3,50 3,00

2,90

3,11

2,50

3,00 2,22

2004

2,80

2,92

3,09

2,44

2,69 2,22

2,00 1,50 1,,00 0,50 0,00

Francia

Germania

Italia

Regno Unito

Fonte: Science, Technology and Industry: Scoreboard 2007, OCSE (2007).

Spagna


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se, che in ogni caso reclamano però la presenza di difficoltà nel reperimento del capitale umano, da attribuirsi, spesso, alla scarsa sinergia tra il sistema formativo e quello imprenditoriale.

1.3 I risultati delle attività di creazione di nuova conoscenza Brevetti e pubblicazioni scientifiche Sebbene i risultati delle attività di creazione di nuova conoscenza possano essere misurati in molte maniere, qui effettuiamo un confronto internazionale per mezzo degli indicatori sui brevetti e sulle pubblicazioni scientifiche. L’analisi di questi semplici indicatori ci consente infatti di valutare se il posizionamento del sistema innovativo italiano descritto nella parte precedente utilizzando le informazioni sulle risorse (finanziarie e umane) dedicate allo sviluppo di nuova conoscenza si conferma anche guardando ai principali indicatori di output innovativo. La letteratura specializzata ha identificato una chiara correlazione positiva tra l’ammontare complessivo delle spese per la R&S e il numero di brevetti, suggerendo conseguentemente l’opportunità di impiegare degli indicatori brevettuali per valutare l’attività innovativa condotta a livello locale o nazionale. Se analizzati in relazione ad altre tipologie di indicatori, quali le spese per la ricerca, gli indicatori basati su brevetti presentano il vantaggio di fornire delle stime più aderenti all’effettivo output innovativo generato. A questo riguardo è opportuno ricordare come il ricorso alla brevettazione sia indice delle aspettative da parte delle imprese relativamente alla possibilità di positivi ritorni economici derivanti dallo sfruttamento commerciale dell’invenzione brevettata. Tale tipologia di indicatori ha, inoltre, il pregio di rispondere a dei requisiti di misurabilità, reperibilità e oggettività tali da renderla un utile parametro per l’analisi comparata tra differenti realtà geografiche ed economiche. Il numero assoluto di brevetti registrati da un singolo soggetto economico o relativi a un’area geografica costituisce un risul-


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tato di difficile interpretazione. Non è, infatti, definibile a priori un livello di efficienza in termini assoluti per tale parametro. Per poter formulare una valutazione significativa dei livelli locali di produzione brevettuale si rende, quindi, indispensabile l’adozione di un approccio comparativo, tramite indicatori che, opportunamente corretti per la presenza di eventuali effetti di scala, permettano un confronto tra differenti realtà. Per questo motivo in questa sezione vengono presentati indicatori di intensità brevettuale in cui il numero di brevetti presso gli uffici brevetti degli Stati Uniti (Uspto) ed europeo (Epo) è pesato per la popolazione di riferimento. Le statistiche sull’intensità brevettuale mostrano un forte ritardo del sistema innovativo italiano nel realizzare innovazioni brevettabili. Per ogni milione di abitanti l’Italia ha depositato presso lo Uspto nel 2003 circa 30 brevetti contro i 180 della Germania e i 75 della Francia (figura 1.19). Forti differenze esistono anche se si guardano i dati relativi all’Epo con l’Italia che nel 2002 produce circa 75 brevetti per milione di abitanti contro, ad esempio, i 301 della Germania e i 147 della Francia. A partire dagli anni Novanta anche la capacità innovativa del paese, misura-

Figura 1.19 Numero di brevetti presso Uspto nei principali paesi Europei, 1998 e 2003 1998 200,0 180,0 160,0 140,0 120,0 100,0 80,0 60,0 40,0 20,0 0,0

2003

180,0 150,9

73,2 75,5

71,2

79,7

32,2 35,0 8,1

Francia

Germania

Italia

Regno Unito

Fonte: Main Science & Technology Indicators, volume 2007/1, OCSE (2007).

8,1

Spagna


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ta in termini di numero di brevetti per milione di abitanti, sebbene già prossima al 50% della media Ue-15, ha registrato una ulteriore contrazione. Una valutazione dell’andamento dell’attività brevettuale in termini di rapporto tra brevetti high-tech e brevetti totali fa emergere, inoltre, una sempre più ridotta qualità dell’attività innovativa, particolarmente evidente nell’ultimo periodo e con una tendenza a divergere dall’Ue-15. Per quanto riguarda la composizione settoriale dei brevetti qui si riporta nella figura 1.20 un indicatore di intensità brevettuale nei settori high-tech. L’evidenza empirica mostra ancora la presenza di forti disparità tra paesi, con l’Italia che conferma anche secondo questo indicatore la propria posizione rispetto ai principali partner europei. Nel complesso, la quota mondiale di brevetti dell’Italia nell’high-tech si è ridotta da un valore superiore al 2% agli inizi degli anni Novanta a un valore pari circa all’1,5%, con una perdita totale di circa il 25%, che conferma la natura strutturale della debolezza competitiva del nostro paese. La debolezza del sistema innovativo italiano nella produzione di innovazioni brevettabili si contrappone invece a una so-

Figura 1.20 Richieste di brevetti high-tech presso l’Epo per milione di abitanti nei principali paesi Europei, 1998 e 2003

1998 50,0 45,0 40,0 35,0 30,0 25,0 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0

2003

44,0 32,1

33,7

23,2

22,4

5,6

Francia

Germania

Fonte: New Cronos Database, Eurostat (2007).

25,7

8,4

Italia

2,3

Regno Unito

4,0

Spagna


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stanziale solidità del mondo della ricerca italiano che si contraddistingue per un buon livello di produttività scientifica. Questo risultato è di particolare importanza considerata l’influenza della capacità di generare nuova conoscenza scientifica sulla competitività dei moderni sistemi economici. In termini di numero totale di pubblicazioni scientifiche l’Europa mantiene la propria posizione di leadership. Nel 2003 la quota europea in percentuale delle pubblicazioni scientifiche mondiali è pari al 38,3%, mentre quella degli Stati Uniti è del 31,1%. Per quanto riguarda l’Italia, essa detiene nel 2003 il 4,6% delle pubblicazioni mondiali, mentre, ad esempio, la quota di Germania e Francia è rispettivamente dell’8,4% e del 6,1%. Passando all’analisi di un indicatore di intensità della produzione scientifica, ovvero il numero di articoli scientifici per milione di abitanti (figura 1.21), troviamo che l’Italia si colloca nella media europea (Ue-15). In Italia, nel 2003, sono stati realizzati 429 articoli scientifici per milione di abitanti. Non troppo distante è il dato per Francia (516) e Germania (537), mentre esiste un gap nei confronti del Regno Unito, che produce nel 2003, per ogni milione di abitanti, 811 articoli scientifici, e degli Stati Uniti (726). Per quanto riguarda la dinamica nel tempo, la figura 1.22 offre un confronto tra i principali paesi europei negli anni 1993 e 2003 circa il numero di articoli scientifici per milione di abitanti. Nella seconda metà del periodo considerato, tra il 1998 e il 2003, l’Italia, insieme alla Spagna, accresce la quota mondiale di pubblicazioni scientifiche passando dal 4,3% al 4,6%. Sia Francia che Germania e Regno Unito registrano invece una riduzione della propria quota. Inoltre, l’Italia compie progressi significativi anche per quanto concerne il rapporto tra numero di articoli scientifici e popolazione. Infatti, il numero di articoli per milione di abitanti passa da 269 a 429 tra il 1993 e il 2005. I dati sui risultati delle attività di creazione di nuova conoscenza in Italia confermano quindi la presenza di una inadeguata attitudine del nostro sistema produttivo alla produzione di nuova conoscenza tecnologica derivante da attività innovative sistematiche. La limitata quantità di risorse dedicate ad attività di R&S si riflettono quindi in una scarsa capacità di produrre innovazioni brevettabili. D’altra parte, l’Italia realizza un buon ri-


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Figura 1.21 Numero di articoli scientifici per milione di abitanti nei principali paesi industrializzati, 2003 Svezia

1143

Finlandia

998

Danimarca

982

Olanda

831

Regno Unito

811

Stati Uniti

726

Belgio

637

Austria

604

UE -15

573

Germania

537

Francia

516

Slovenia

486

Giappone

470

Irlanda

440

Italia

429

Spagna

401

Grecia

342

Portogallo

251 0

200

400

600

800

1000

1200

Fonte: Science, Technology and Industry: Scoreboard 2007, OCSE (2007).

sultato in termini di produzione di pubblicazioni scientifiche realizzate principalmente dalle università e dagli enti pubblici di ricerca. Questo riflette da un lato il fatto che il divario tra Italia e gli altri paesi avanzati per quanto riguarda l’intensità di spesa pubblica in R&S non è particolarmente pronunciato e, dall’altro, la buona produttività del sistema pubblico della ricerca italiano.


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Figura 1.22 Numero di articoli scientifici per milione di abitanti nei principali paesi europei, 1993 e 2003 1993

2003

900

811

800

736

700 600 500

537

516 444

429

420

400

401

269

300

249

200 100 0

Francia

Germania

Italia

Regno Unito

Spagna

Fonte: Science, Technology and Industry: Scoreboard 2007, OCSE (2007).

1.4 Conclusioni Questo capitolo introduttivo, pur senza obiettivi di completezza, ha offerto una rassegna di evidenze empiriche che consente di inquadrare le principali caratteristiche del sistema innovativo italiano. La possibilità di conoscere e valutare le maggiori criticità dei sistemi nazionali di innovazione è infatti una pre-condizione fondamentale per sviluppare opportune politiche della ricerca e dell’innovazione. Dall’analisi emerge chiaramente l’esistenza di un divario in termini di capacità di innovare tra Italia e i principali paesi avanzati che è in grado di spiegare gran parte dei differenziali in termini di competitività internazionale messi in risalto da molti organismi e istituti di ricerca internazionali. Questo è particolarmente vero se si analizzano, nell’ambito di un confronto internazionale, i dati sulle spese in R&S o i dati sulle attività brevettuali, entrambi però influenzati dalla caratteristica struttura produttiva italiana, sia in termini di dimensione di impresa che di composizione settoriale. D’altra parte, l’analisi evidenzia come le dinamiche in atto non siano tali da far pensare a un rapido recupero dell’Italia rispetto ai principali paesi avanzati in questi due ambiti.


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Per quanto riguarda i dati sul capitale umano il capitolo mostra come in Italia, a fronte di una spesa in istruzione per studente in linea con quella degli altri paesi industrializzati, il livello di capacità acquisite dagli studenti specie nelle materie scientifiche non sia adeguato a quello raggiunto in altri paesi avanzati. Tuttavia, segnali positivi emergono rispetto alla costante crescita del numero di laureati in rapporto alla popolazione e al graduale abbassamento dell’età in cui si consegue la laurea. L’analisi ha inoltre mostrato come in Italia le spese in Ict siano cresciute considerevolmente negli ultimi anni. Tuttavia, distinguendo tra le due componenti delle spese in Ict, ovvero la spesa in tecnologie della comunicazione e quella in tecnologie dell’informazione, si scopre che per quanto concerne la prima componente l’Italia è in linea con la media europea, mentre guardando alla seconda dimensione il nostro paese risulta ancora in ritardo rispetto ai paesi presi in esame. Infine, lo studio evidenzia come l’Italia realizzi un buon risultato in termini di pubblicazioni scientifiche, prodotte principalmente dalle università e dagli enti pubblici di ricerca. Questo dato riflette un incremento costante della produttività scientifica del sistema pubblico della ricerca italiano.


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2. Governance di Mario Calderini e Maurizio Sobrero

2.1 Introduzione L’evoluzione del ruolo delle amministrazioni nelle diverse attività di pianificazione, sviluppo e implementazione di politiche orientate al sostegno dell’innovazione ha delineato in questi ultimi anni un quadro articolato sul quale riflettere in chiave di governance istituzionale. Come accaduto anche in altri Stati europei, infatti, in Italia lo sviluppo delle autonomie locali è stato accompagnato da una altrettanto marcata crescita del ruolo e dell’influenza delle istituzioni comunitarie. Nell’ambito specifico delle politiche per l’innovazione e la ricerca, la riforma del titolo V ha assegnato alle Regioni potestà concorrente per la definizione e l’attuazione di programmi di sviluppo a sostegno delle attività sia di imprese sia di università ed enti di ricerca pubblica. Contemporaneamente, il sistema europeo a sostegno delle attività di ricerca e innovazione si è fortemente sviluppato con l’esperienza dei precedenti piani attraverso gli interventi dell’ormai concluso VI programma quadro, caratterizzato da una forte diversificazione degli strumenti e delle modalità di sostegno di iniziative principalmente orientate all’ambito precompetitivo. Lo sviluppo della cosiddetta area europea della ricerca, che ha portato tra le altre cose alla recente istituzione della European Science Foundation, dello European Research Council, tuttavia, amplia significativamente lo spettro di intervento estendendolo alla ricerca più di base. In questo quadro istituzionale, gli strumenti, le modalità di intervento e il ruolo del governo nazionale, fissati nella legge di riordino delle competenze in materia di ricerca e innovazione


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del 1999, sono oggetto di sviluppo e cambiamento attraverso una serie diversificata di interventi di natura e portata diversa, legati essenzialmente al ddl Industria 2015 e ai recenti provvedimenti relativi all’Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca (Anvur). L’evoluzione dello scenario normativo nazionale sottolinea diversi aspetti tra loro collegati sui quali focalizzare l’attenzione. Questo capitolo si propone di riflettere sulla rilevanza di tali temi analizzando l’evoluzione dei meccanismi di governance qui intesi in senso ampio come organi e strumenti, distinti a livello europeo, italiano e regionale.

2.2 Meccanismi di governance europea L’Unione europea possiede una competenza di natura concorrente rispetto a quella degli Stati in materia di ricerca e sviluppo tecnologico (Rst) ovvero un’abilitazione ad agire solo nel caso in cui la sua azione sia ritenuta tale da apportare un valore aggiunto rispetto a quelle intraprese, individualmente, dai singoli Stati membri. Pertanto gli Stati membri dell’Unione europea, nello stato attuale dell’evoluzione del diritto comunitario, non hanno acconsentito a una cessione di sovranità1 in materia di ricerca e innovazione e rimangono i principali responsabili della politica della ricerca nell’Unione europea. L’esercizio di una competenza concorrente da parte dell’Unione (nel caso della ricerca come delle altre materie sottoposte al regime di competenze concorrenti)2 è subordinato alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà (articolo 5 del Trattato Ce): ogni atto adottato dal legislatore comunitario dovrà quindi dimostrare che gli obiettivi che si prefigge non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati, in maniera più compiuta, a livello comunitario. La competenza concorrente comunitaria in materia di Rst è stata attribuita dagli Stati membri alla Comunità con l’Atto unico europeo (Tue) entrato in vigore il 1° luglio 1987 e si è concretizzata nell’inserimento del titolo XVIII “Ricerca e sviluppo tec-


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nologico” nel Trattato di Roma. A oggi l’azione dell’Unione europea in materia di ricerca può quindi contare su una base giuridica esplicita nel Trattato che rende possibile l’istituzione dei programmi-quadro per la ricerca. Le modalità di adozione del principale provvedimento legislativo in tema di ricerca (il programma-quadro o PQ) è quella della codecisione tra i due organi legislativi comunitari, il Parlamento e il Consiglio, che contribuiscono, in eguale misura, alla formazione del regolamento istitutivo finale. Con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, il 1° maggio 1999, la regola del voto all’unanimità in seno al Consiglio in materia di ricerca è stata sostituita da quella del voto alla maggioranza qualificata. Nel caso del regolamento istituente le regole di partecipazione al PQ (modalità di partecipazione delle imprese, dei centri di ricerca e delle università al PQ, regime di protezione della proprietà intellettuale, ammissibilità delle spese, procedura di selezione, caratteristiche dei proponenti) la procedura in vigore è, anche qui, quella della codecisione, mentre nel caso dei programmi specifici all’interno del PQ (all’interno del VII PQ i programmi Cooperation, People, Ideas e Capacities) il Consiglio agisce come unico legislatore (alla maggioranza qualificata dei voti espressi) e il Parlamento europeo svolge unicamente un ruolo consultivo. Gli obbiettivi della politica di ricerca e sviluppo tecnologico dell’Unione sono, oggi, enunciati negli articoli 163 e 164 del Trattato: “La Comunità si propone l’obiettivo di rafforzare le basi scientifiche e tecnologiche dell’industria della Comunità, di favorire lo sviluppo della sua competitività internazionale e di promuovere le azioni di ricerca ritenute necessarie ai sensi di altri capi del presente trattato. A tal fine essa incoraggia nell’insieme della Comunità le imprese, comprese le piccole e le medie imprese, i centri di ricerca e le università nei loro sforzi di ricerca e di sviluppo tecnologico di alta qualità; essa sostiene i loro sforzi di cooperazione, mirando soprattutto a permettere alle imprese di sfruttare appieno le potenzialità del mercato interno...”. L’attenzione del legislatore comunitario si rivolge principalmente alla competitività dell’industria europea, con un approccio di ricerca applicata che solo con il lancio del VII PQ e con la creazione dell’European Research Council (Erc) si è aperto an-


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che al sostegno della ricerca di base. Inoltre l’azione comunitaria, proprio per le ragioni di sussidiarietà insite nella natura concorrente della competenza dell’Unione in materia, deve concentrarsi sulla promozione di una ricerca collaborativa basata sulla cooperazione tra attori della ricerca provenienti da diversi Stati membri (Stati associati e candidati all’adesione) e non può che incidentalmente sostenere attività di ricerca svolte da soggetti attivi in un unico Stato dell’Unione. Gli strumenti di cui si avvale l’Unione europea in attuazione della propria competenza in materia di ricerca e sviluppo sono di due tipi: • Azioni dirette promosse dal Centro comune di ricerca (Joint Research Centre) o Ccr, direzione generale della Commissione europea direttamente legata al commissario alla ricerca (per il periodo 2004-09 Janez Potocˇnik, di nazionalità slovena)3. Il Ccr svolge la funzione di fornitore indipendente di conoscenze scientifiche e tecnologiche a supporto all’elaborazione delle diverse politiche dell’Unione. ll Ccr si occupa inoltre della ricerca in materia nucleare assolvendo agli obblighi che discendono dal trattato Euratom. Il suo finanziamento è assicurato direttamente dai programmi-quadro, nonché da risorse proprie derivanti dalla conclusione di contratti con soggetti terzi. Il Ccr si compone di sette istituti specializzati in diversi ambiti scientifici. • Azioni indirette (ovvero i programmi-quadro). Le azioni di ricerca promosse indirettamente dall’Unione attraverso il programma-quadro possono essere ricondotte a tre tipologie: - progetti di ricerca condotti da un’équipe composta da soggetti giuridici provenienti da diversi Stati membri, paesi associati o candidati all’adesione (in genere almeno 3) e finanziati dall’Unione a un tasso compreso tra il 50% e il 75% a seconda dell’identità del soggetto (imprese, Pmi, università ecc.); - azioni di supporto o coordinamento alle attività di ricerca finanziate al 100% dall’Unione; - azioni tese a favorire la mobilità dei ricercatori, finanziate al 100% dall’Unione.


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Lo Spazio europeo della ricerca (Ser) La creazione di uno Spazio europeo della ricerca è stata proposta dalla Commissione nel gennaio 2000,4 quale progetto politico volto a ovviare alle debolezze del sistema europeo della ricerca e a creare, a termine, un vero e proprio mercato unico della ricerca, sul modello delle già raggiunte libertà di circolazione all’interno dell’Unione di merci, servizi, capitali e persone. L’obbiettivo temporale di riferimento per il funzionamento efficace del SER è fissato dalla Commissione per l’anno 2020 circa.5 La decisione di promuovere la creazione di un mercato comune europeo della ricerca trova la sua origine nella constatazione di numerosi fattori di criticità che contraddistinguono la ricerca scientifica in Europa nel 2000:6 • L’Europa investe una parte sempre più ridotta della sua ricerca in ricerca e sviluppo: gli investimenti in Rst rappresentano mediamente l’1,8% del Pil comunitario (anche se notevoli sono le differenze tra gli Stati membri) rispetto al 2,8% degli Stati Uniti e al 2,9% del Giappone. Tale divario si è notevolmente ampliato durante gli anni Novanta. • La bilancia commerciale dell’Europa per i prodotti ad alta tecnologia registra ogni anno un deficit di circa 20 miliardi di euro; tale deficit è in continuo aumento. • In termini di posti di lavoro il peso dei ricercatori sul totale della forza lavoro è molto inferiore in Europa (2,5%) rispetto ai suoi competitori diretti: Stati Uniti (6,7%) e Giappone (6%). • Il numero degli studenti europei che compiono studi di livello universitario negli Stati Uniti è oltre il doppio di quello di studenti americani che svolgono studi in Europa e oltre il 50% degli europei che effettuano un dottorato negli Usa vi risiedono per un lungo periodo dopo il completamento degli studi. • L’immagine che gli europei hanno della scienza si è, con il tempo, deteriorata: uno dei risultati è un tasso decrescente di iscrizioni alle facoltà scientifiche in Europa. La risposta fornita dalla Commissione alla situazione di debolezza della ricerca europea constatata nel 2000 consiste nella


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creazione del Ser, ovvero di un’area all’interno della quale possa essere garantita una libera circolazione di ricercatori, di conoscenze e di tecnologia al fine di stimolare la cooperazione tra attori della ricerca e di rafforzare la concorrenza addivenendo a una migliore allocazione delle risorse in Europa (“mercato unico” europeo della ricerca). Il concetto di Ser si compone di tre elementi: la costituzione di un “mercato unico” europeo della ricerca all’interno del quale possano circolare liberamente ricercatori, tecnologie e conoscenze; un coordinamento efficace a livello europeo delle attività, dei programmi e delle politiche di ricerca nazionali e regionali: e, infine, le iniziative elaborate e finanziate direttamente a livello europeo. Oltre alla creazione di un mercato unico della ricerca la Commissione prevede di intensificare il coordinamento tra attività di ricerca promosse dagli Stati membri a livello nazionale e regionale (le quali incidono per l’80% sulla spesa totale in Rst in Europa) attraverso lo schema EraNet in maniera tale da arginare l’eccessiva frammentazione degli sforzi intrapresi individualmente dai singoli Stati e dalle Regioni (e la duplicazione che, inevitabilmente, ne deriva). EraNet è uno strumento elaborato allo scopo di fornire sostegno al coordinamento e all’avvio congiunto di programmi di ricerca regionali e nazionali: i partner (enti o agenzie governative nazionali o regionali) hanno la possibilità di studiare i reciproci programmi di finanziamento della ricerca per poi addivenire alla formulazione di programmi di ricerca congiunti che finanzino attività di ricerca transnazionale. Nel quadro del VI programma-quadro si contano circa 75 programmi EraNet in attività. Le iniziative finanziate direttamente dell’Unione si dividono in azioni dirette di ricerca svolte dal Centro comune di ricerca a supporto dell’elaborazione delle politiche comunitarie e in azioni indirette all’interno del programma-quadro svolte da consorzi transnazionali di ricerca e secondo le indicazioni tematiche e metodologiche fornite dall’Unione. Al di fuori del Ser, ma sempre nell’ambito di un rafforzamento del coordinamento tra le politiche della ricerca nazionali, la Commissione ha inoltre proposto la creazione di Piattaforme


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tecnologiche europee. Si tratta di strutture d’incontro, coordinate dall’industria, in cui i portatori di interesse dei settori di punta dell’industria europea7 (esponenti del mondo industriale, accademico e istituzionale) si riuniscono per definire le strategie di ricerca (“strategic research agenda”) a medio lungo termine e garantire, simultaneamente, stabili fonti di finanziamento, contribuendo ad aumentare la certezza giuridica degli operatori. È da notare che la Commissione europea partecipa alle attività delle Piattaforme ma non si considera vincolata a sottoscrivere gli indirizzi di ricerca da esse scaturiti, che, ciò nonostante, considera un utile strumento di concentrazione tra gli attori coinvolti. Dal punto di vista politico la volontà di creare un Ser è stata rafforzata dall’approvazione, nel marzo 2000 (ovvero due mesi dopo l’adozione della comunicazione sul Ser da parte della Commissione), della strategia di Lisbona. Tale ambizioso programma, a cui gli allora 15 Stati membri dell’Unione si sono formalmente impegnati ad aderire, prevede di rendere l’Unione europea l’economia basata sulla conoscenza più competitiva del mondo entro l’anno 2010 anche attraverso un importante innalzamento della spesa in ricerca e sviluppo nei paesi dell’Unione. Il Consiglio europeo di Barcellona nel 2002 si è occupato di quantificare l’aumento necessario al raggiungimento degli obbiettivi di Lisbona: la spesa totale in Rst deve raggiungere il 3% del Pil europeo (il dato di partenza, nel 2002,8 è di 1,9%) e il numero di ricercatori europei deve salire fino a 700.000 unità. L’aumento della percentuale del Pil europeo dedicato alla Rst dovrebbe essere attribuito per i due terzi all’investimento privato e, per un terzo, all’investimento pubblico in ricerca. I progressi degli Stati verso la realizzazione degli obbiettivi di spesa enunciati a Barcellona sono oggetto di confronto tra gli Stati membri attraverso il Metodo aperto di coordinamento (Open Method of Coordination, Omc), lo strumento di soft law utilizzato dall’Unione europea nelle politiche che rilevano della competenza degli Stati e, di conseguenza, permangono di dominio intergovernativo. Essa si fonda sull’individuazione di obiettivi e indicatori condivisi tra gli Stati (in questo caso, gli obbiettivi di Barcellona) e su un processo di peer review tra i paesi membri tesa a verificare i rispettivi progressi (peer pressure).


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La Commissione svolge, nell’ambito Omc, un mero ruolo di osservatore. Il rilancio della strategia di Lisbona all’insegna della crescita e dell’occupazione, deciso dai capi di Stato e di governo nel 2005 per rinvigorire l’impatto della strategia sull’economia europea, ha implicato una maggiore attenzione ai temi della ricerca e dell’innovazione tecnologica. A seguito del rilancio della strategia di Lisbona diverse iniziative comunitarie sono state intraprese a sostegno della ricerca e dell’innovazione in Europa. In questa sede ci limiteremo a presentare il nuovo programma europeo per la competitività e l’innovazione (Cip),9 la strategia europea per l’innovazione e l’utilizzo della politica di coesione comunitaria (fondi strutturali) al servizio dell’innovazione. Il Cip ha una dotazione finanziaria di 3,6 miliardi di euro e si prefigge di finanziare gli investimenti delle imprese europee (prevalentemente Pmi) che intendano aumentare la loro capacità di innovazione. Esso si compone di tre programmi specifici. Il programma per l’innovazione e l’imprenditorialità, dotato di uno stanziamento di 2,170 miliardi, intende facilitare l’accesso delle Pmi al credito anche attraverso gli strumenti finanziari offerti dal Fondo europeo d’investimento (Fei), mira a una migliore integrazione delle reti esistenti di servizi alle imprese in ambito europeo (fusione delle reti Euro Info Centre e Innovation Relay Centre) e finanzia direttamente attività innovative poste in essere dalle reti esistenti in materia (Europa innova, Pro Inno Europe). Il programma di sostegno alla politica in materia di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) dotato di uno stanziamento di 730 milioni, intende sviluppare l’adozione e l’utilizzo efficace delle Tic in particolare attraverso il sostegno di azioni pilota per la loro diffusione nei servizi pubblici d’interesse generale. Il programma Energia Intelligente Europa, invece, dotato anch’esso di uno stanziamento di 730 milioni di euro, interviene sostenendo l’efficienza energetica, le fonti rinnovabili e le soluzioni tecnologiche per ridurre le emissioni di gas a effetto serra nel settore dei trasporti. Nel 2006 la Commissione ha adottato una strategia europea per l’innovazione,10 stabilendo una correlazione necessaria tra


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i progressi realizzati in materia di innovazione e il successo della strategia di Lisbona rinnovata. In questo contesto è stato approvato un nuovo quadro normativo per gli aiuti di stato in materia di ricerca e innovazione11 e dei nuovi orientamenti per lo stimolo dell’innovazione attraverso delle misure di natura fiscale.12 La Commissione si è inoltre fatta promotrice di una strategia per il potenziamento giurisdizionale del brevetto europeo13 (per ovviare alle difficoltà emerse nella creazione di un brevetto comunitario) e per l’azione sui “lead markets”, i mercati promettenti perché connotati da una forte intensità tecnologica. Nell’ambito della strategia europea per l’innovazione la Commissione ha inoltre presentato una proposta14 per la creazione dell’Istituto europeo di tecnologia (Iet), concepito come un centro di formazione e ricerca di eccellenza in Europa nei settori dell’innovazione, della ricerca e dell’istruzione superiore, sul modello del Mit. Nell’idea della Commissione l’Iet sarà dotato di un massimo di 2,4 miliardi di euro per il periodo 20082013, di provenienza pubblica e privata, per stimolare la modalità di ricerca collaborativa tra università e imprese, dando così vita a vere e proprie “comunità della conoscenza e dell’innovazione” (Kic)15 di portata europea. Il 23 novembre 2007 il Consiglio Competitività ha raggiunto un accordo politico sull’Eit e il suo finanziamento, a seguito di una risoluzione in merito del Parlamento europeo approvata nel settembre 2007. Contestualmente è stato deliberato un finanziamento per il 2008 pari a 309 milioni di euro. Un’altra importante iniziativa intrapresa a sostegno della strategia di Lisbona e, di conseguenza, per la politica della ricerca e dell’innovazione è stata quella di legare gli investimenti che gli Stati membri dell’Unione e le loro regioni potranno fare nel quadro della politica di coesione (308 miliardi di euro per i 27 Stati membri a cui si devono aggiungere i cofinanziamenti di origine nazionale e regionale) agli obbiettivi perseguiti dall’Unione con la strategia di Lisbona: almeno il 60% della spesa dei fondi strutturali nelle Regioni convergenza (quelle il cui Pil è inferiore al 75% del Pil medio comunitario) e almeno il 75% della spesa nelle Regioni competitività regionale e occupazione (tutte le altre che beneficiano dei fondi strutturali) deve essere


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finalizzato a una categoria di spesa prevista nella strategia di Lisbona: è questo il motivo per cui i fondi strutturali 2007-2013 sono destinati ad avere un impatto infinitamente maggiore sulla politica di ricerca e innovazione di quanto non avessero avuto nel corso del precedente periodo di programmazione comunitario (2000-2006). Il processo di costituzione del Ser è giunto a una prima fase di valutazione nel 2007. La Commissione ha pubblicato in data 4 aprile 2007 un Libro Verde sul Ser,16 proponendo un bilancio dei risultati ottenuti e una consultazione delle altre istituzioni comunitarie e degli stakeholder della ricerca e dell’innovazione. Questi ultimi sono invitati a esprimersi sulle misure necessarie per la realizzazione del Ser in maniera da alimentare la riflessione sull’elaborazione di nuove proposte legislative previste per il 2008. I ricercatori, i policy makers implicati nella politica della ricerca e dell’innovazione, nonché qualsiasi altro cittadino interessato sono stati coinvolti in una consultazione pubblica sul Ser conclusasi nell’ottobre 2007. I risultati di tale consultazione saranno utilizzati come spunto di riflessione per il pacchetto legislativo per il Ser che la Commissione presenterà nel 2008 al Consiglio e al Parlamento. Per il fine tuning della politica di creazione dello Spazio europeo della ricerca la Commissione si è dotata, a partire dal 2001,17 di un Comitato consultivo sulla politica europea della ricerca, Eurab (European Research Advisory Board). Questo Comitato, su richiesta della Commissione o di propria iniziativa, elabora pareri per le istituzioni comunitarie circa le misure per la realizzazione del Ser, nonché sull’orientamento delle priorità tematiche del programma-quadro. Formato da 45 membri, esponenti del mondo accademico e industriale, Eurab funge inoltre da punto di raccordo con le rappresentazioni d’interesse a livello europeo nella politica della ricerca. Il VII programma-quadro per la ricerca (2007-2013) “Il VII programma-quadro non sarà esclusivamente un altro programma-quadro. Esso è stato concepito come un contributo imprescindibile per la realizzazione della strategia di Lisbona e dello Spazio europeo della ricerca e si pone l’ambizioso


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obbiettivo di contribuire a realizzare il mercato interno europeo della conoscenza”. Così il commissario alla ricerca Potocˇ nik ha salutato l’adozione da parte del Consiglio e del Parlamento europeo del VII programma-quadro avvenuta il 18 dicembre 2006.18 Il VII programma-quadro ha una durata di sette anni (anziché di quattro anni come i programmi-quadro precedenti), che lo pone in sintonia con la programmazione comunitaria dei fondi strutturali (2007-2013), e dispone di una dotazione finanziaria di 50.521 milioni di euro19 (ovvero un aumento di più del 60% rispetto alla dotazione di 19.113 milioni di euro del VI programma-quadro). Oltre all’armonizzazione della sua durata con il ciclo di programmazione comunitaria e all’aumento della dotazione finanziaria, il VII PQ si differenzia dai precedenti programmi-quadro in particolare per quanto riguarda il suo nuovo ruolo di finanziamento della ricerca di base. Il Consiglio ha infatti deciso di estendere il sostegno comunitario anche ai progetti di ricerca di base, presentati da singoli ricercatori o da équipe di ricerca, in tutte le discipline scientifiche e umanistiche. Il processo di selezione dei progetti sarà gestito dall’European Research Council (Consiglio europeo della ricerca), composto da ventidue eminenti studiosi europei nominati dalla Commissione europea.20 Le borse di studio offerte dall’Erc si rivolgono a ricercatori junior (starting grants per proponenti con meno di 10 anni di esperienza di ricerca dopo l’ottenimento del dottorato di ricerca) e ricercatori senior e coprono l’interezza dei costi del progetto. L’unico criterio di selezione dei progetti di ricerca sarà quello dell’eccellenza scientifica. L’obbiettivo dell’Erc è di finanziare 1400 starting grants entro il 2013. La cooperazione transnazionale rimane la principale modalità di intervento anche nel VII programma-quadro nell’ambito delle dieci aree tematiche individuate dalle istituzioni comunitarie. Esse ricalcano le aree d’intervento del VI PQ con l’eccezione della ricerca nel settore della sicurezza dei cittadini, introdotta ex novo nel VII PQ.21 La formazione e la mobilità dei ricercatori europei vengono sostenute dal programma specifico People, che raccoglie l’eredità delle azioni Marie Curie. Il programma-quadro aumen-


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ta sensibilmente la quota di finanziamento per la partecipazione delle piccole e medie imprese nell’ambito del programma specifico Capacities che sostiene, inoltre, la collaborazione tra Regioni e tra distretti, nonché il potenziamento delle infrastrutture di ricerca in Europa.

2.3 Meccanismi di governance nazionale In linea con gli obiettivi della strategia di Lisbona il sistema scientifico nazionale ha visto negli ultimi anni una profonda rivisitazione dei propri strumenti di intervento. La necessità di stabilire un raccordo con la dimensione europea e internazionale ha ispirato la predisposizione delle “Linee guida per la politica scientifica e tecnologica” approvate dal consiglio dei ministri e dal Cipe nell’aprile 2002. Tali linee guida sono state recepite dal Piano nazionale della ricerca del 2002-2004, che, nel quadro delle azioni coordinate fra Miur (oggi Mur) e Regioni, ha definito le missioni per il sistema italiano di ricerca e ha identificato alcuni obiettivi strategici. Tra questi, particolare enfasi è stata dedicata all’adozione di misure per favorire le sinergie tra i diversi attori del sistema e la concentrazione delle risorse su obiettivi strategici: è in questa direzione che si iscrive il concetto di distretto tecnologico. I distretti tecnologici vengono, infatti, delineati come un nuovo strumento di governance locale delle attività di ricerca ispirato al raggiungimento di tre obiettivi fondamentali: consentire la collaborazione delle tre reti del sistema italiano della ricerca, cioè le università, gli enti pubblici di ricerca e le imprese; orientare il sostegno pubblico a programmi di ricerca e sviluppo principalmente verso settori strategici per l’economia e l’industria; consentire di aggregare più imprese attorno a programmi ad alto contenuto tecnologico e con forti ricadute applicative. Sia nel decreto legge del 2005 sulla competitività (poi convertito in legge, n. 80/2005), sia nel quarto asse del Programma nazionale per la ricerca 2005-2007, viene ribadita la centralità dei distretti tecnologici quale strumento di policy per favorire il recupero di competitività e l’emergere di eccellenze scientifiche e tecnologiche attorno a poli territoriali.


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La forte valorizzazione del concetto di distretto tecnologico, definita nei documenti programmatici a livello nazionale sopracitati, è naturalmente in linea con quelli che sono gli obiettivi e gli strumenti proposti a livello europeo. Tra i diversi strumenti proposti a livello comunitario vi sono infatti i cosiddetti poli di innovazione, che sembrano corrispondere, anche se solo in parte, al concetto italiano di distretto tecnologico. Il sostegno allo sviluppo e al potenziamento dei poli di innovazione avverrà, nella nuova programmazione comunitaria per il periodo 2007-2013, principalmente mediante tre strumenti finanziari: Fondi strutturali comunitari, il VII programma-quadro comunitario di ricerca e sviluppo tecnologico, che all’interno dell’asse Capacity promuove una serie di misure per lo sviluppo e il rafforzamento di cluster high-tech, e il programma quadro comunitario per la competitività e l’innovazione. A partire dal 2002 il Mur ha stipulato protocolli di intesa per la costituzione di 15 distretti tecnologici, mentre un certo numero di ulteriori candidature sono attualmente in fase di definizione. A fronte di tali processi di riconoscimento, le agende di ricerca proposte dai distretti sono state finanziate mediante specifici accordi di programma quadro Governo-Regioni. Inoltre, le attività dei distretti prevedono l’utilizzo di ulteriori risorse finanziarie, definite attraverso la predisposizione di bandi mirati del Mur, per il finanziamento di specifici progetti di ricerca proposti dagli attori del distretto. In tale contesto, il sostegno allo sviluppo e al potenziamento dei distretti tecnologici avviene, e avverrà, a livello statale, principalmente attraverso i seguenti strumenti finanziari, canalizzati verso di essi dal DL competitività del 2005: • Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e agli investimenti in ricerca (Legge finanziaria 2005 - art. 1, comma 354 legge 30 dicembre 2004, n. 311). Una quota pari ad almeno il 30% del nuovo “Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca” è destinata anche a “favorire la realizzazione o il potenziamento di distretti tecnologici, da sostenere congiuntamente con le Regioni e gli altri enti nazionali e territoriali”.


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• Fondo aree sottoutilizzate (Legge finanziaria 2003 - art. 61, legge 27 dicembre 2002, n. 289). Il Cipe può riservare una quota di questo fondo al finanziamento di nuove iniziative imprenditoriali a elevato contenuto tecnologico nell’ambito dei distretti tecnologici. Tale fondo è stato recentemente impiegato per due convenzioni siglate tra Mur e Sviluppo Italia per il sostegno ai distretti tecnologici: la prima prevede la costituzione di un fondo rotativo di 40 milioni di euro per il sostegno alla realizzazione di programmi di ricerca da parte di piccole e medie imprese e l’avvio di start-up tecnologici; la seconda ha una copertura finanziaria di 25 milioni di euro e intende promuovere il marketing territoriale per l’attrazione di investimenti nei distretti tecnologici e nelle filiere hightech del mezzogiorno. • Altri strumenti (art. 6, comma 10, della legge 80/2005). Il Cipe orienta e coordina strumenti e risorse finanziarie esistenti per la realizzazione di progetti di sviluppo dei distretti tecnologici di intesa con le Regioni interessate, anche facendo ricorso alle modalità delle programmazione negoziata (patti territoriali, contratti di programma e contratti d’area). Il riconoscimento dei distretti tecnologici da parte del MUR avviene sulla base di alcuni criteri, riportati nella delibera CIPE 17/2003, che identificano una serie di caratteristiche dei distretti tecnologici e che riflettono la necessità di tener conto di alcune criticità per lo sviluppo di questi nuovi sistemi territoriali per l’innovazione. In primo luogo viene posta la necessità di definire efficaci sistemi di governance, di individuare l’eccellenza scientifica e tecnologica già presente sul territorio, di alimentare il processo innovativo lungo la filiera produttiva e, ancora, di aprire il distretto verso le reti internazionali di ricerca. Pur a fronte della presenza di questi criteri generali per la candidatura a distretto tecnologico, le prime esperienze dei distretti mostrano una elevata eterogeneità sia nei dossier di candidatura, sia nei modelli di governance proposti. In alcuni casi la gestione del distretto è stata affidata a preesistenti strutture regionali, mentre più spesso si è ricorsi alla costituzione di società consortili partecipate dai principali stake-


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holder locali pubblici e privati coinvolti nel progetto del distretto. Sebbene le risorse erogate a livello statale siano state indirizzate prevalentemente al finanziamento di bandi per progetti di ricerca e sviluppo precompetitivo da parte dei soggetti locali, i distretti sono chiamati a una missione che prevede una effettiva molteplicità di obiettivi. In questa prospettiva, l’impatto “differenziale” dei distretti rispetto a misure tradizionali di supporto alla ricerca è correlato tanto alla capacità di favorire l’emergere di reti di ricerca e innovazione, quanto alla capacità di erogare servizi complementari e fattori di contesto abilitanti per la generazione di ricadute industriali. In questo ambito vanno intese le azioni per il supporto alla proprietà intellettuale, per favorire l’accesso al capitale di rischio e per il supporto alle pratiche manageriali. Rispetto all’attuale sviluppo dell’esperienza dei distretti tecnologici si pone la necessità di affrontare alcune questioni rilevanti, sia di carattere locale sia a livello di coordinamento nazionale. Una prima questione di valenza locale è riferita al rischio di sovrapposizione delle attività dei distretti tecnologici rispetto precedenti misure di carattere generalista già presenti sui territori regionali, in relazione ad attività di trasferimento tecnologico, promozione territoriale, sostegno all’imprenditorialità. Peraltro una gestione efficace di servizi, quali il supporto alla valorizzazione dei diritti di proprietà intellettuale, richiede una massa critica sia di risorse in input sia di utenti finali probabilmente non compatibile con le dotazioni dei singoli distretti. In tale prospettiva è auspicabile l’avvio di progetti per la condivisione interdistrettuale delle risorse e infrastrutture altamente specializzate nell’erogazione di quei servizi in cui la sussidiarietà geografica non rappresenta un vincolo stringente. Da un punto di vista di politica nazionale per l’innovazione, sembra porsi invece la questione dell’integrazione delle esperienze dei distretti tecnologici rispetto agli indirizzi delineati all’interno del DDL 2015, che traccia una strategia di medio periodo fondata sull’individuazione di grandi assi di sviluppo attorno a progetti chiaramente privi di una connotazione territoriale. In questa prospettiva, pur non trascurando la rilevanza geografica


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nei processi di creazione e diffusione di conoscenza innovativa, sembra opportuno definire dei meccanismi di coordinamento che favoriscano la partecipazione dei distretti a tali progetti di rilevanza nazionale. Le specializzazioni tecnologiche di diversi distretti già attivi garantiscono la possibilità di generare importanti sinergie in questa direzione. Una delle questioni più rilevanti per lo sviluppo dei distretti tecnologici è quella relativa all’accountability delle attività da essi condotte sul territorio. Sebbene la natura stessa degli interventi messi in atto dai distretti implichi obiettive difficoltà nella misurazione nel breve periodo di ricadute tangibili sulle economie locali, la condivisione di modelli relativamente omogenei per la valutazione ex post delle misure adottate è un passaggio fondamentale. L’osservazione della attuale distribuzione geografica dei distretti tecnologici mostra una sostanziale distribuzione omogenea sulle regioni italiane. In questo senso è importante che i futuri processi di candidatura non siano interessati da effetti di carattere redistributivo rispetto ai singoli governi regionali. Le risorse dedicate agli attuali e futuri distretti tecnologici dovranno essere addizionali rispetto ad altre politiche per il sostegno all’innovazione. In questa prospettiva, all’impiego di risorse finanziarie derivanti da fondi quali il Far potrebbe essere preferibile la costituzione di fondi espressamente dedicati a questa tipologia di interventi. Le misure della Finanziaria 2007, con cui nella nuova legislatura si è inteso dare nuovo impulso alle attività di sostegno alla ricerca e all’innovazione di origine privata, indicano un percorso nel quale le politiche di natura non sembrano assumere un ruolo centrale. In realtà, il finanziamento dei distretti è affidato oggi alle decisioni del tavolo interministeriale costituito tra i dicasteri dello sviluppo economico, dell’università e ricerca e dell’innovazione, ma non appare prossima la riattivazione di una linea di finanziamento esplicita. Al contrario, la ridefinizione delle politiche di origine nazionale si orienta, almeno nella sua costituente fondamentale, a una più stretta adesione alla nozione di piattaforma tecnologica sviluppata in ambito europeo. In questa direzione si inquadra il finanziamento di 5 progetti


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di innovazione industriale, individuati nell’ambito di altrettante aree tecnologiche: efficienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie della vita, nuove tecnologie per il made in Italy, tecnologie innovative per i beni e le attività culturali, scienza della vita, tecnologie innovative per il patrimonio culturale. Per l’individuazione dei contenuti di ciascuno dei progetti viene nominato un responsabile di progetto scelto, in relazione alla complessità dei compiti, tra i soggetti in possesso di comprovati requisiti di capacità ed esperienza per realizzare gli obiettivi tecnologici e produttivi da perseguire. La Finanziaria 2007 ha istituito inoltre il Fondo per la competitività, che finanzierà sia i progetti di innovazione industriale, sia gli interventi di sostegno agevolato alle imprese di competenza del ministero dello Sviluppo economico. A questo scopo sono stanziati 1,1 miliardi di euro nel prossimo triennio. Il nuovo Fondo, in cui confluiscono tutti gli strumenti di agevolazione, rivoluziona il meccanismo finora esistente, in base al quale a ogni strumento di agevolazione ha corrisposto una forma tecnica di intervento agevolativo. La pubblica amministrazione potrà così avere a disposizione una sorta di “cassetta degli attrezzi” funzionale al raggiungimento dei diversi obiettivi da realizzare. Inoltre, la Finanziaria 2007 ha istituito il Fondo per la finanza d’impresa, cui destina uno stanziamento pari a 300 milioni di euro nel prossimo triennio. L’intervento mira a facilitare l’accesso al credito, alla finanza e al mercato finanziario da parte delle piccole imprese e a razionalizzare le modalità di funzionamento dei fondi pubblici di garanzia e di partecipazione al capitale di rischio. Grazie a questo nuovo Fondo sarà, dunque, possibile fornire una sponda certa a quelle operazioni che il sistema bancario metterà in atto, qualora esse abbiano finalità coerenti con gli obiettivi di rafforzamento e riqualificazione del sistema delle piccole e medie imprese. Infine, per ciò che attiene alle politiche di respiro regionale, la Finanziaria 2007 ha esteso alle Regioni, che si faranno carico dei relativi oneri per interessi, il Fondo rotativo della Cassa depositi e prestiti, finalizzato al sostegno alle imprese e agli investimenti in ricerca.


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2.4 Le politiche regionali a sostegno della ricerca e dell’innovazione A partire dalla fine degli anni Novanta le Regioni hanno assunto un ruolo sempre più significativo nell’ambito delle politiche di promozione dei processi di innovazione e di sostegno alla ricerca. Tale processo di progressiva acquisizione di competenze e spazi di intervento è risultato determinato da due dinamiche parallele. Da un lato, dal vertice di Lisbona in poi, le istituzioni europee, nell’indicare la centralità dell’innovazione, della ricerca e della conoscenza nell’ambito del processo di qualificazione dell’economia e, più in generale, della società europea, hanno soprattutto sottolineato ed enfatizzato la dimensione locale e partecipativa dei processi di innovazione e alcune decisioni prese a livello europeo hanno senza dubbio favorito le Regioni, identificandole come il soggetto più idoneo all’applicazione di politiche comunitarie. Dall’altro, le trasformazioni in senso federalista (fiscale e politica) dello Stato italiano hanno contribuito all’identificazione delle Regioni quali tassello chiave per la pianificazione economica, e quindi anche per le politiche per l’innovazione, il trasferimento tecnologico e la ricerca. La prima significativa attribuzione di competenze alle Regioni nell’ambito della politica di sostegno alla ricerca e all’innovazione si è avuta nel 1998, con il decreto legislativo n. 112 (“Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”), che ha offerto anche alle Regioni a statuto ordinario la possibilità di strutturare il proprio intervento in materia di politica industriale e tecnologica. Più precisamente, l’art. 19 di tale decreto prevedeva una delega alle Regioni per le erogazioni degli incentivi e la verifica di condizioni e contesti per l’applicazione degli interventi relativi alla politica industriale e alla ricerca industriale, materie mantenute comunque nella competenza statale. Restava, infatti, a livello nazionale la formulazione delle politiche e della loro declinazione in via fondamentale, lasciando al livello territoriale una


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competenza esecutiva rispetto alle erogazioni o limitata a quell’insieme di interventi non rilevanti, ma congruenti, con le politiche decise a livello nazionale. Successivamente, tuttavia, un maggior grado di autonomia regionale viene riconosciuto con la legge n. 340 del 24 novembre 2000, dove all’art. 19, c. 1, viene attribuita alle Regioni la possibilità di “... modificare ... le disposizioni delle leggi vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge, con riguardo sia alle spese ammissibili, sia alla tipologia e alla misura delle agevolazioni, sia alle modalità della loro concessione ed erogazione”. Nel 2001, inoltre, con legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre (7), l’autonomia delle Regioni risulta ancora rafforzata alla luce della riformulazione dell’art. 117 del Titolo V della Costituzione, per il quale la ricerca scientifica e tecnologica e il sostegno all’innovazione per i settori produttivi divengono materia concorrente tra Stato e Regioni; di conseguenza spetta a queste ultime “la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. L’art. 117, inoltre, non annovera la legislazione di incentivazione per i settori produttivi tra le materie di competenza esclusiva dello Stato o di competenza concorrente, rimandando tale materia alla diretta competenza regionale. Infine, nel 2003, la legge nazionale n. 131 chiarisce che “Le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione regionale continuano ad applicarsi, in ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia”, demandando quindi alle sole Regioni la scelta tra mantenersi nell’ambito di quanto stabilito a livello statale o passare a una maggiore caratterizzazione regionale degli interventi. Il processo di acquisizione delle competenze in campo di sostegno alla ricerca e all’innovazione da parte delle Regioni è stato caratterizzato da una estrema variabilità di approcci e metodologie, sia nella scelta degli strumenti sia nella definizione degli obiettivi. Secondo una recente analisi di Piccaluga e Primiceri (2005) le cause di tale varietà di comportamenti sono riconducibili ad alcuni fattori, tra cui in particolare:


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• la diversità del contesto politico-istituzionale, ma soprattutto socioeconomico, dal momento che le tradizioni imprenditoriali e industriali già presenti sul territorio regionale hanno fortemente condizionato le scelte a sostegno dell’innovazione e del trasferimento tecnologico, imponendo nella definizione di obiettivi di lungo periodo un confronto con le problematiche immediate delle piccole e grandi imprese locali e con la loro capacità di diventare soggetto attivo nella negoziazione delle politiche; • le caratteristiche dei soggetti di riferimento per la pianificazione regionale, in particolare di università e i centri di ricerca pubblici e privati, i cui punti di forza e di debolezza e la cui capacità di interfacciarsi con il legislatore regionale hanno significativamente condizionato la definizione del piano regionale per l’innovazione. Dal punto di vista legislativo, il periodo successivo al 1998 è stato caratterizzato in tutte le Regioni da una significativa accelerazione dell’attività normativa e di regolazione in questo ambito, anche se ciascuna Regione ha utilizzato strumenti diversi. Un recente studio sul ruolo delle Regioni nell’economia della conoscenza (Cavallaro, 2007) individua 106 leggi regionali sulla ricerca e l’innovazione promulgate a partire dal 1999, proponendone una classificazione per tipologia: in alcuni casi l’intervento normativo è consistito in un riordino della legislazione definita prima del processo di decentramento – è il caso, ad esempio, dell’Abruzzo, che si era dotato di una legislazione specifica nel 1991 –, in altri, invece, si è avuto un recepimento della materia “ricerca e innovazione” nell’ambito delle leggi di bilancio – è il caso, ad esempio, di Lazio e Lombardia – e di incentivazione alle imprese – è il caso, ad esempio, dell’Umbria–, in altri pochi casi si è scelto di inserire norme relative alla ricerca e all’innovazione all’interno di leggi di sviluppo settoriale, o dedicate alla costituzione di enti o agenzie regionali o emanate per intervenire sulle politiche di sviluppo. Alcune Regioni, infine, hanno invece scelto di dotarsi di uno strumento legislativo specifico, per il coordinamento organico di tutte le misure e gli interventi in materia di ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico:


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• Basilicata, l.r. 2 gennaio 2003, n. 4, Disciplina delle attività di ricerca, sviluppo tecnologico ed innovazione. • Campania, l.r. 28 marzo 2002, n. 5, Promozione della ricerca scientifica in Campania. • Emilia-Romagna, l.r. 14 maggio 2002, n. 7, Promozione del sistema regionale delle attività di ricerca industriale, innovazione e trasferimento tecnologico. • Piemonte, l.r. 30 gennaio 2006, n. 4, Sistema regionale per la ricerca e l’innovazione. • Friuli Venezia Giulia, l.r. 30 aprile 2003, n. 11, Disciplina generale in materia di innovazione. • Liguria, l.r. 16 gennaio 2007, n. 2, Promozione, sviluppo, valorizzazione della ricerca, dell’innovazione e delle attività universitarie e di alta formazione. • Valle D’Aosta, l.r. 7 dicembre 1993, n. 84, Interventi regionali in favore della ricerca, dello sviluppo e della qualità nel settore industriale (successivamente modificata con l.r. 15 novembre 2004). È da sottolineare, comunque, che, in quasi tutti i casi, anche le Regioni che non hanno definito leggi specifiche hanno comunque individuato piani strategici per il sostegno alla ricerca e all’innovazione, che riconducono a una visione sistemica le linee di intervento in questo ambito (si pensi, ad esempio, al Documento strategico per la ricerca e l’innovazione della Regione Lombardia o al Piano regionale per lo sviluppo dell’innovazione e della società dell’informazione della Regione Lazio). Anche dal punto di vista della scelta del modello di governance sono stati seguiti modelli e approcci diversi. Nella maggior parte dei casi le Regioni hanno scelto di istituire un assessorato specifico o di affidare a un assessorato esistente la delega all’innovazione e alla R&S. Tale scelta non è stata seguita soltanto da Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia, Valle D’Aosta e dalla Provincia autonoma di Bolzano. Anche rispetto alla definizione degli obiettivi e all’individuazione degli interlocutori si osserva una significativa eterogeneità nelle scelte compiute dalle Regioni. In generale, quasi tutte le Regioni hanno ritenuto le imprese loro interlocutrici prioritarie e hanno optato per politiche indirizzate alla domanda piuttosto


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che al sostegno all’offerta (in particolare pubblica) o a interventi di valorizzazione dei risultati di ricerca attraverso la loro diffusione, in primo luogo informativa, presso le imprese. Fanno parzialmente eccezione Calabria, Campania, Molise e Sicilia, in cui la strategia di sostegno alla ricerca e all’innovazione risulta fortemente focalizzata su misure rivolte al finanziamento di centri di ricerca e università, al loro potenziamento, ammodernamento o alla riorganizzazione dell’attività. In tutte le Regioni, inoltre, con la sola eccezione delle Marche, l’obiettivo di incrementare le azioni di finanziamento della ricerca industriale e pre-competitiva, condotta dalle imprese in cooperazione con enti di ricerca e università, viene esplicitato in almeno una misura. Il sostegno alla domanda delle imprese viene attuato pressoché ovunque con la presenza di misure per il finanziamento di servizi per l’innovazione delle imprese, ad esempio servizi per la gestione della proprietà intellettuale o di audit tecnologico. Anche le tipologie di aiuti sono molteplici: contributi e sovvenzioni a fondo perduto, in conto capitale e interessi, mutui agevolati, partecipazioni, crediti di imposta, agevolazioni tariffarie, de minimis. Ovviamente non tutte le normative fanno riferimento a tutte le tipologie di aiuti previste. Si può dire che hanno la maggior frequenza i contributi e le sovvenzioni a fondo perduto, in conto capitale e le partecipazioni. L’eterogeneità fin qui presentata si ritrova naturalmente anche rispetto ai destinatari degli interventi: università ed enti pubblici di ricerca, imprese, consorzi o associazioni di enti pubblici e privati, distretti industriali, parchi scientifici e tecnologici, fondazioni, società di servizi, fino ai fondi chiusi o ai consorzi di garanzia fidi e ai giovani. Quasi tutte le Regioni, infine, hanno riservato al tema della selezione e della valutazione un’attenzione particolare, prevedendo la costituzione di comitati, la cui composizione, durata, dimensione, funzione o il cui collocamento si diversifica quasi in ogni Regione: si trovano infatti comitati o consulte per l’innovazione, comitati tecnici, comitati scientifici e comitati di esperti. La loro funzione va dalla garanzia del processo e della rispondenza con la programmazione, a quella consultiva fino a quella di valutazione dei singoli progetti, dei loro risultati, dell’effica-


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cia degli interventi. La loro composizione può essere di esperti delle varie materie, di rappresentanze delle parti sociali e istituzioni coinvolte, con durate pluriennali definite o legate alle legislature regionali.

2.5 Conclusioni Lo scenario delineato nelle sezioni precedenti evidenzia chiaramente quali e quanti siano stati i cambiamenti nei ruoli e nel mix di strumenti presenti a livelli diversi e con una variabile distribuzione geografica per sostenere direttamente o indirettamente la domanda e l’offerta di ricerca e innovazione. Questo cambiamento è principalmente dovuto a un allargamento dei soggetti chiamati a intervenire su questi ambiti e anche all’ampliamento delle competenze usualmente attribuite agli stessi soggetti. Se, dunque, è di per sé difficile verificare puntualmente l’efficacia delle politiche pubbliche di sostegno alla ricerca e all’innovazione, tale difficoltà risulta ulteriormente amplificata dall’interazione tra questi diversi strumenti e soggetti. In chiave positiva, questo significa che le interazioni e i possibili effetti moltiplicatori devono essere oggetto di esplicita attenzione. In chiave negativa e forse più realistica, si corre il rischio concreto di un cosiddetto effetto “crowding out”, con un eccesso di strumenti che si concentrano essenzialmente sugli stessi ambiti. Il tema del coordinamento tra i diversi livelli istituzionali emerge dunque in chiave di governance come un elemento di attenzione primario, ancor più che non i singoli strumenti o i diversi tipi di approccio al problema. Questo snodo istituzionale deve e può essere affrontato in modi radicalmente differenti nel rapporto tra Stato e Unione europea piuttosto che nel rapporto Stato-Regioni. Questo ultimo passaggio, in particolare, riveste grande delicatezza a valle di alcuni anni di sostanziale immobilismo a livello nazionale e un notevole dinamismo nelle Regioni del paese che più pesano in termini di input e output del processo di ricerca e innovazione.


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Note 1 Le competenze esclusive dell’Unione europea, ovvero gli ambiti nei quali l’Unione agisce sola in nome degli Stati membri (cha hanno acconsentito a una totale perdita di sovranità) sono: la politica di concorrenza nei suoi aspetti essenziali per il funzionamento del mercato unico, la politica monetaria, la politica commerciale comune e la protezione delle risorse derivanti dalla pesca. 2 Le principali competenze concorrenti dell’Unione europea riguardano i seguenti ambiti: agricoltura, ambiente, coesione economica e sociale, mercato unico, pesca, protezione dei consumatori, trasporti, energia e giustizia e affari interni. 3 Ex ministro degli Affari esteri della Slovenia, responsabile del negoziato di adesione della Slovenia all’Unione, avvenuta il 1° maggio 2004. 4 Comunicazione della Commissione COM (2000) 6 del 18 gennaio 2000, “Verso uno Spazio Europeo della Ricerca”. 5 SEC (2007) 412. 6 La Comunicazione COM (2000) 6 si fonda sui dati forniti da Eurostat per l’anno 1998. 7 Si contano, a oggi (maggio 2007), 31 Piattaforme tecnologiche europee: Advanced Engineering Materials and Technologies (EuMaT), Advisory Council for Aeronautics Research in Europe (ACARE), Embedded Computing Systems (ARTEMIS), European Construction Technology Platform (ECTP), European Nanoelectronics Initiative Advisory Council (ENIAC), European Rail Research Advisory Council (ERRAC), European Road Transport Research Advisory Council (ERTRAC), European Space Technology Platform (ESTP), European Steel Technology Platform (ESTEP), European Technology Platform on Smart Systems Integration (EPoSS), Food for Life (Food), Forest based sector Technology Platform (Forestry), Future Manufacturing Technologies (MANUFUTURE), Future Textiles and Clothing (FTC), Global Animal Health (GAH), Hydrogen and Fuel Cell Platform (HFP), Industrial Safety (ETP), IndustrialSafety, Innovative Medicines for Europe (IME), Integral Satcom Initiative (ISI), Mobile and Wireless Communications (eMobility), Nanotechnologies for Medical Applications (NanoMedicine), Networked and Electronic Media (NEM), Networked European Software and Services Initiative (NESSI), Photonics21 (Photonics), Photovoltaics (Photovoltaics), Plants for the Future (Plants), Robotics (EUROP), Sustainable Chemistry (SusChem), Water Supply and Sanitation Technology Platform (WSSTP), Waterborne ETP (Waterborne), Zero Emission Fossil Fuel Power Plants (ZEP). 8 Il dato è stabile anche nel 2006: 1,9%. 9 Acronimo dal nome inglese del programma: Competitiveness and Innovation Programme, istituito dalla decisione 1639/2006 del 24 ottobre 2006 per una durata di sette anni (2007-2013). 10 COM (2006) 502 del 13 settembre 2006. 11 GUUE 323 del 30 dicembre 2006, p.1. 12 COM (2006) 728 del 22 novembre 2006. 13 COM (2007) 165 del 4 aprile 2007. 14 COD (2006) 197.


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Knowledge and Innovation Communities, nella più corrente traduzione inglese. COM (2007) 161, Lo Spazio Europeo della Ricerca: nuove prospettive. 17 Decisione 531/2001 del 16 giugno 2001. 18 Decisione 1639/2006. 19 La Commissione nella sua proposta iniziale del 6 aprile 2005 aveva proposto una dotazione di 67.082 milioni di euro. Il Consiglio ha però deciso di diminuire tale dotazione nel corso dell’iter legislativo anche a seguito dell’accordo sulle Prospettive finanziarie dell’Unione europea raggiunto faticosamente nel dicembre 2005. 20 L’Erc conta due membri di nazionalità italiana: Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, e Claudio Bordignon, professore di Ematologia e direttore scientifico dell’Istituto San Raffaele di Milano. 21 I dieci temi di ricerca del programma specifico Cooperation di ricerca collaborativa transnazionale sono: Information and Communication technologies (euro 9.1 bn), Health (euro 6 bn), Transport (including Aeronautics) (euro 4.1 bn), Nanoproduction (euro 3.5 bn), Energy (euro 2.3 bn), Food, agriculture and biotechnology (euro 1.9 bn), Environment (including climate change) (euro 1.8 bn), Security (euro 1.4 bn), Space (euro 1.3 bn), Socio-economic sciences and the humanities (euro 0.6 bn). 16


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3. Università e ricerca di Carmelo Mazza, Paolo Quattrone e Angelo Riccaboni

3.1 Introduzione Il ruolo e le funzioni delle università sono oggetto di un intenso dibattito a livello internazionale da diverso tempo, che sottolinea l’inattualità di molte soluzioni storicamente caratterizzanti molti paesi tra i quali l’Italia. Senza limitare in alcun modo la funzione e gli aspetti fondativi delle istituzioni universitarie legate all’avanzamento dei saperi e alla formazione avanzata, si lamenta da più parti un distacco crescente tra il mondo accademico e la società “reale”, particolarmente critico alla luce dell’evoluzione dello scenario economico e sociale a livello internazionale. Anche non volendo caricare sulle spalle delle università eccessive responsabilità e tralasciando di considerare tutti gli altri attori ugualmente coinvolti, come imprese, amministrazioni pubbliche, sistema politico, diviene sempre più evidente come il sistema necessiti di un radicale rinnovamento, al fine di fornire risposte adeguate alle domande che arrivano dalla società contemporanea. Questo capitolo è quindi dedicato a un approfondimento della situazione specifica della realtà italiana, attraverso un’attenta disamina di elementi puntuali e di processo, finalizzata a sintetizzare le decisioni non più rinviabili di intervento lungo direzioni che consentano un effettivo allineamento della realtà italiana alle sfide poste dalla competizione internazionale. Non v’è dubbio che la situazione attuale nel paese abbia cause complesse, e che sia caratterizzata da differenze e asimmetrie rilevanti che devono esser considerate con attenzione per


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sostenere e accompagnare con efficacia il necessario processo di cambiamento. In questo capitolo verranno presentati alcuni punti essenziali, come la necessità di elaborare appropriati strumenti di valutazione nell’allocazione delle risorse e l’avvio di cambiamenti nei modelli di governance, per i quali è indispensabile intervenire senza indugi.

3.2 Lo scenario attuale L’università si è da sempre caratterizzata come Universitas Studiorum, comunità dedicata sia alla definizione dei contenuti e dei confini delle conoscenze, sia alla trasmissione di queste ultime. Oltre che per le tipiche funzioni di produzione e trasmissione del sapere, l’università si qualifica per essere al centro di un’intensa rete di relazioni con molteplici settori della società e dell’economia. Essa rappresenta, infine, anche in Italia, la principale istituzione responsabile della formazione e della selezione della classe dirigente. Tali tradizionali funzioni dell’istituzione università oggi si confrontano con un contesto profondamente mutato. Le università fanno parte di un sistema di organizzazione del sapere che è diventato globale, all’interno del quale stanno emergendo nuovi standard di riferimento per definire ciò che conta come buona ricerca e didattica. Meccanismi “oggettivi” di valutazione si stanno diffondendo in tutti i paesi: la “occupabilità” degli studenti “prodotti” costituisce un criterio essenziale di analisi della validità dei percorsi formativi; i corsi di studio e le attività amministrative tendono ad applicare metodologie di programmazione, gestione e controllo mutuate dalle organizzazioni private; la capacità di attrazione di studenti e studiosi provenienti da altri paesi viene considerato un importante parametro di giudizio. L’affermazione di criteri condivisi per valutare la qualità della ricerca e, sebbene in misura minore, della didattica stimola e favorisce un’esplicita competizione tra atenei a livello nazionale e internazionale. Tale confronto viene favorito, naturalmente, anche dalla crescente scarsità di risorse a disposizione dell’alta formazione, dalla crescente autonomia degli atenei,


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dalla definizione dei primi esercizi di valutazione nazionale (di cui esempi recenti nel nostro paese sono la Valutazione triennale della ricerca, Vtr, 2001-2003 a cura del Comitato d’indirizzo per la valutazione della ricerca, Civr e il recente progetto di costituzione dell’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca) e dagli effetti della riduzione demografica. Anche per quanto riguarda la formazione della classe dirigente, la prospettiva di analisi è generalmente cambiata, in quanto il contributo alla creazione dell’élite è misurato sempre più spesso con riferimento alla produzione della classe imprenditoriale o manageriale piuttosto che della comunità scientifica o intellettuale. La crisi dei tradizionali modelli di produzione capitalistica e l’affermazione dell’economia della conoscenza, inoltre, portano sempre più spesso l’opinione pubblica, la classe politica e gli imprenditori a chiedere all’università di fornire un importante contributo al recupero di competitività del paese. Questo giustifica, fra l’altro, le forti pressioni nei confronti degli atenei ad aprirsi agli interlocutori esterni anche per co-delineare le strategie della ricerca e dell’offerta formativa. La stessa legittimazione sociale dell’università sembra a volte legata alla capacità di fornire un apporto positivo al benessere economico delle nostre comunità. In sintesi, in tutto il mondo i criteri che legittimano l’università come attore centrale nella definizione e trasmissione del sapere contemporaneo stanno modificandosi. Il valore delle università è sempre più basato sul rispetto di criteri riconosciuti a livello internazionale (meritocrazia su basi “globali”), sull’attrazione di risorse umane di diversa estrazione, formazione e provenienza (multiculturalità) e sul contributo al miglioramento delle condizioni economiche e sociali del paese. In tale contesto, da molti segnali emerge come sia i governi nazionali e sopranazionali sia l’opinione pubblica pongano sempre più spesso alla base della reputazione dei singoli ricercatori e delle loro strutture la qualità dei risultati di ricerca, avendo preferibilmente riguardo alle ricadute in termini applicativi, anche per consentire quel miglioramento di produttività (e di benessere sociale: basti pensare al caso della sanità) oggi atteso dall’istituzione universitaria. Per comprenderne meglio la portata nel nostro contesto è


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opportuno, però, ricordare alcuni tratti del sistema italiano della ricerca e di come questo si posizioni nel contesto globale prima accennato. Molteplici sono le analisi che evidenziano come la spesa totale in ricerca e sviluppo sia in Italia chiaramente al di sotto di quanto rilevabile nelle altre principali economie (a tal proposito si rimanda alla figura 1.3 che confronta l’evoluzione della spesa in R&S rispetto al Pil nei maggiori paesi dell’Unione europea tra il 1990 e il 2005). Al di là dell’importo totale, ciò che differisce rispetto ad altre situazioni è la preponderanza dell’intervento pubblico (si veda figura 1.5 e figura 1.6). Probabilmente la ricerca effettivamente condotta dalle imprese italiane è sottostimata per le modalità di rilevazione dei dati di questo genere di analisi, che tendono a non considerare la ricerca realizzata dalle Pmi. In effetti, i dati rappresentati nella figura 3.1, inerenti alle caratteristiche del sistema della ricerca privata italiana, evidenziano una forte concentrazione delle attività di R&S nel segmento delle grandi imprese. Nel 2003 le imprese con almeno 500 addetti sostengono infatti il 72,7% della spesa per R&S del settore, mentre il contributo delle piccole imprese (sotto i 50 addetti) rimane limitato (5,1%). A prescindere dalle difficoltà nella stessa definizione di atti-

Figura 3.1 Spesa per R&S intra-moenia delle imprese per classe di addetti in percentuale del totale spese in R&S delle imprese, 2003 70,0 57,5

60,0 50,0 40,0 30,0 20,0 10,0

5,1

3,4

1-49 addetti

50-99 addetti

8,5

10,2

100-249 addetti

250-499 addetti

15,3

0,0

Fonte: Ricerca e sviluppo in Italia, ISTAT (2006).

500-999 addetti

1000 e oltre addetti


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vità di ricerca, in ogni caso, è inevitabile che in un paese caratterizzato dalle imprese di piccole e piccolissime dimensioni il principale protagonista della ricerca, e in particolare di quella di base, non possa che essere l’operatore pubblico e l’università in primis. Questa considerazione, condivisa da molti osservatori, dovrebbe rendere più consapevoli i decisori pubblici della particolare criticità che nel nostro paese assume la spesa per l’università. Essa, allo stesso tempo, dovrebbe fornire ulteriori stimoli agli atenei a svolgere al meglio la funzione di relazione con il territorio. Gli entusiasmi nei confronti dell’impegno pubblico nei confronti dell’università sono però spesso raffreddati dalle rilevazioni in merito alla performance competitiva complessiva degli atenei in termini di ricerca. I dati che emergono da molte misurazioni, infatti, non appaiono incoraggianti, come quelli relativi al brain drain degli accademici, quelli connessi al rapporto tra studenti italiani che scelgono di andare all’estero (tabella 3.1) e studenti stranieri che vengono in Italia (figura 3.2) e quelli inerenti al numero di studiosi italiani all’estero disponibili a rientrare. Anche il numero di pubblicazioni scientifiche appare sotto la media europea (a tal proposito si rimanda alla figura 1.21). Allo stesso tempo, però, molteplici analisi dimostrano che la produttività italiana rispetto alle (scarse) risorse (perlopiù pubbliche) impiegate è una fra le più alte al mondo. Ad esempio, così come dimostrato dai dati raccolti in tabella 3.2, il nostro paese si colloca fra i primi posti per numero medio di papers per ricercatore. Probabilmente, come accade per altri settori nel nostro paese, anche con riferimento alle performance di ricerca non esiste una omogeneità di situazioni. La stessa Vtr 2001-2003, del resto, evidenzia come ci siano settori caratterizzati da un elevato livello di internazionalizzazione e altri molto meno aperti e che le performance degli atenei dipendono anche dalla loro collocazione geografica. Come al solito, l’Italia è un paese a macchia di leopardo, dove si trovano aree scientifiche e atenei esposti al miglior confronto internazionale e allo stesso tempo situazioni di elevato degrado, anche etico. Il mondo accademico ha lamentato in passato come l’università e la ricerca non costituissero una priorità nell’agenda politi-


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Tabella 3.1 I paesi con il maggior numero di laureati e dottorati emigrati all’estero: percentuale dei laureati e dottorati emigrati in altri paesi Ocse sul totale dei residenti in possesso di laurea o dottorato in ciascun paese (dati anno 2000) Paesi

% Laureati e dottorati emigrati in altri paesi Ocse

1

Irlanda

26,1

2

Nuova Zelanda

24,4

3

Repubblica Slovacca

16,0

4

Lussemburgo

15,4

5

Regno Unito

14,9

6

Austria

13,8

7

Portogallo

11,9

8

Svizzera

10,8

9

Polonia

10,2

10

Ungheria

9,7

11

Grecia

9,4

12

Paesi Bassi

8,9

13

OCSE

8,8

Repubblica Ceca 14

Germania Danimarca Italia

7,3

17

Messico

6,9

18

Finlandia

6,8

19

Belgio

6,4

20

Canada

5,4

Svezia 22

Turchia

4,9

Norvegia 24

Francia

4,4

25

Austria

2,4

26

Spagna

2,3

27

Corea

1,4

28

Giappone

1,1

29

Stati Uniti

0,7

Fonte: OCSE (2006), OECD Factbook.


20

Fonte: OECD, Education database, novembre 2003.

50

10

0

Italia

Messico Islanda

Italia

Repubblica Slovacca

Messico

Repubblica Slovacca

Turchia

Turchia Nuova Zelanda

Portogallo Finlandia

Norvegia Danimarca

Repubblica Ceca

Portogallo

Spagna

0

2500

5000

Numero totale per paese, 2001

7500

10.000

26,183

78,884

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Nuova Zelanda

Repubblica Ceca

Islanda

Belgio Finlandia

Norvegia Austria

Svezia

Canada

Svezia

Austria

Svizzera

Australia

Canada

Australia

Stati Uniti

Danimarca

Spagna

Regno Unito

Stati Uniti

Belgio

Regno Unito

Svizzera

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40 %

Percentuale sul totale dei dottorandi, 2001

Figura 3.2 Studenti di dottorato stranieri nei principali paesi del mondo, in termini percentuali sul totale dei dottorandi iscritti e in termini assoluti

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UniversitĂ e ricerca 67


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68 Università e ricerca

Tabella 3.2 I paesi con i ricercatori più produttivi Paesi

Media papers per ricercatore

1

Svizzera

2,75

2

Italia

2,47

3

Paesi Bassi

2,26

4

Regno Unito

2,23

5

Svezia

1,66

6

Belgio

1,65

7

Austria Irlanda

1,56

8

Danimarca Canada

1,55

9

Australia

1,51

10

Norvegia

1,29

11

Francia

1,28

12

Germania

1,24

13

Islanda

0,99

14

Stati Uniti

0,98

Fonte: CRUI (2006), Elaborazione su dati ISI riferiti al quinquennio 2000-2004.

ca nazionale. I programmi politici delle due coalizioni in occasione dell’ultima campagna elettorale, prima che il fisco rubasse la scena a qualunque altro tema, avevano dato speranze per un ritorno a un interesse della politica sulla valenza di bene pubblico dell’università e della conoscenza, anche per l’attenzione degli opinion leader e dei mass media circa il ruolo della ricerca a sostegno di una declinante competitività delle imprese italiane. Era auspicio diffuso, pertanto, che il governo agisse su strumenti in grado di garantire merito e rispetto di standard internazionali, richiesti da tutti a gran voce come le leve fondamentali per ricominciare a legittimare l’istituzione universitaria. In questo quadro, il progetto di costituzione dell’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca costituisce un’innovazione che potrebbe permettere finalmente di avere un organismo in grado di promuovere il rispetto di standard internazionali in tutte le aree disciplinari, anche quelle più resi-


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stenti alla competizione globale propria ormai di tutta la ricerca scientifica. Essa potrebbe costituire uno strumento adatto per differenziare nettamente le strutture universitarie nelle quali si fa ricerca collaborando con centri di eccellenza esteri e pubblicando su riviste dopo rigidi blind-referee review, da quelle in cui le ricerche si pubblicano sulle riviste di casa su segnalazione del docente di riferimento. E se anche la blind-referee review non fosse, come succede in alcuni casi, uno strumento perfetto, essa sicuramente costituisce un pilastro fondamentale nel riconoscimento del valore della ricerca. Al contempo, le innovazioni previste nei criteri di selezione del corpo docente, che mirano a svincolare le procedure dai meccanismi di cooptazione locale e a renderle competitive e basate sui risultati scientifici conseguiti, sembrano muovere verso la direzione di recuperare la dimensione del merito e della qualità nell’attività delle università. Se a ciò si aggiungessero misure in grado di fornire un adeguato riconoscimento in termini di risorse a disposizione, di livelli retributivi e di prospettive di carriera, allora si potrebbe avviare un auspicabile circuito virtuoso nel processo di produzione della conoscenza. Un altro aspetto che caratterizza il nostro sistema della ricerca è quello della presenza di eccessive forme e canali di finanziamento, che porta a supportare economicamente molti progetti, ma ciascuno con somme inadeguate, invece di privilegiare le proposte veramente di qualità. Questo modello, inoltre, non fornisce i necessari incentivi a una più che auspicabile aggregazione dei ricercatori e delle loro strutture. La costituzione di un fondo unificato (il First) rappresenta un primo passo nella direzione della razionalizzazione e dell’accentramento dei finanziamenti della ricerca, che risulterà vano se non sarà dotato di risorse adeguate e se si ricade nella logica della parcellizzazione dei finanziamenti: il First deve razionalizzare e sistematizzare, non riprodurre logiche di finanziamenti a pioggia. Un ruolo importante, in tal senso, potrà essere svolto dall’Anvur, purché, naturalmente, i criteri per tali assegnazioni siano veramente trasparenti, meritocratici e comunicati tempestivamente. D’altra parte, però, preoccupano i ritardi a oggi rilevabili nel collegare i risultati della Vtr 2001-2003 con i finanziamenti alla


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ricerca. Così come criticabile appare l’intenzione del governo di prevedere che la nuova Valutazione triennale della ricerca sia svolta da parte della costituenda Anvur, che sarà impegnata contemporaneamente su più fronti assai pesanti; questo, infatti, porterà probabilmente a un inopinato rinvio del nuovo esercizio valutativo e in ogni caso causerà la perdita di quella focalizzazione che aveva permesso al Civr di riuscire a fare in pochi mesi quello che nessuno in questo paese aveva nemmeno progettato, ovvero valutare tutte le strutture di ricerca italiane. In termini di avvertenze, occorre fare attenzione ai criteri per individuare i componenti dell’Agenzia. Al timone di un organismo così importante vi devono essere persone di alta qualificazione, che conoscano il mondo della ricerca e della didattica e facciano da “garanti” con l’Accademia della coerenza dei meccanismi adottati con le migliori pratiche internazionali, nonché della correttezza e trasparenza delle procedure. Tali soggetti possono essere rinvenuti certamente anche fuori dalle università, in alcuni centri di ricerca e imprese. Attenzione va posta, invece, ad aprire la porta ai consulenti o alla richiesta ai componenti accademici di “lasciare” l’università per un lungo periodo, criterio che porterebbe all’esclusione di chi vuole restare attivo nella ricerca e nella didattica. L’esperienza del Civr dimostra che l’università italiana è in grado di fornire le competenze e la passione necessarie per valutare e valutarsi senza snaturare la propria carriera, purché vi sia una leadership motivata e capace. Un mix fra diverse tipologie di competenze (accademici di alto standing, esperti di valutazione - accademici e di provenienza amministrativa-, rappresentanti di imprese che nella ricerca e nella formazione possiedono elevata reputazione) costituirebbe probabilmente la miglior soluzione.

3.3 Effetti dei cambiamenti in corso in tema di ricerca La crescente attenzione rivolta dalle istituzioni e dagli opinion leader verso la ricerca e la diffusione di criteri “globali” per la sua valutazione (Impact Factor, Journal Rankings internazionali ecc.) possono certamente contribuire a un maggior grado di internazionalizzazione degli studi e al consolidamento dell’unita-


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rietà della comunità scientifica all’interno della quale operare il confronto delle idee. Gli stessi risultati della Vtr 2001-2003 evidenziano come in molte aree scientifiche il contributo dei ricercatori italiani al dibattito internazionale sia non di rado di sicuro rilievo, anche se con inevitabili differenze fra atenei. Il rafforzamento di tale apertura può certamente consentire un innalzamento dei livelli qualitativi della ricerca italiana. Allo stesso tempo, però, esso può indurre alcune “tensioni”, sintetizzabili in tre tipologie, rappresentate nella figura 3.3: 1. Tensione fra didattica e ricerca. La forte enfasi sulla ricerca può causare una minor attenzione nei confronti delle altre attività istituzionali, e in primis la didattica, nonché verso la partecipazione alle attività amministrative di ateneo e a quelle di natura “sociale”. 2. Tensione fra “ricerca globale” e “ricerca locale”. La consapevolezza che il parametro di successo accademico è rappresentato sempre più spesso dai risultati della ricerca valu-

Figura 3.3 Le tre tensioni dell’università e i relativi rischi Opinione pubblica Studenti/Famiglie

Governo

Attori locali/Imprese

Didattica di qualità

Ricerca applicata

Supporto a competitività

Valutazione della ricerca

Rischi Visibilità ad aree e competitors internazionali Focus su ricerca efficiente

Criteri “ globali ”

Stimolo alla ricerca con ricadute locali

Appiattimento su linee di ricerca “mainstream” Tensione fra ricerca globale ed esigenze locali

Tradizioni di ricerca nazionali


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tata secondo criteri “globali”, inevitabilmente induce i ricercatori a definire strategie di ricerca coerenti con tale impostazione. Ciò può influenzare il comportamento degli studiosi, che possono essere orientati a seguire linee di studio assai omogenee fra loro, tipicamente quelle ritenute più efficienti o premiate dalle riviste più qualificate, inducendo così un pericoloso appiattimento sulla ricerca di tipo “mainstream”. Si potrebbe verificare, inoltre, la perdita di alcune prospettive di analisi e di veicoli di pubblicazione (come gli approfondimenti di tipo monofigura o le pubblicazioni in italiano) che, se vengono opportunamente garantiti i necessari requisiti di qualità, possono consentire di sviluppare nuove linee di studio, specialmente nell’ambito delle scienze sociali. 3. Tensione fra “ricerca globale” ed “esigenze locali”. Il forte focus a pubblicare sulle riviste internazionali porta inevitabilmente ad assumere scelte diverse da quelle necessarie per rispondere alle esigenze delle imprese e della società civile. Quanto pubblicato sulle migliori riviste, infatti, difficilmente si basa su dati o esperienze locali. Più in generale, pubblicare su riviste internazionali implica seguire un dibattito e partecipare a un confronto scientifico, attività che mal si conciliano con la possibilità di rispondere alle esigenze degli attori locali. Tali “tensioni”, insieme ad alcune indubbie difficoltà relazionali che ancora permangono, inducono nelle università alcune difficoltà nel “rispondere” adeguatamente alle esigenze locali. Come conseguenza di tali questioni e delle caratteristiche dei meccanismi di definizione della conoscenza contemporanea, anche altri attori partecipano oggi attivamente alla definizione del sapere e assumono a volte posizioni centrali e più influenti nella rete di relazioni che l’università ha tradizionalmente contribuito a tessere. È così che media, società di consulenza, nuove istituzioni formative e corporate universities stanno sempre più spesso occupando spazi che l’istituzione università non riesce a presidiare. A partire dai primi anni Novanta le università italiane si sono sicuramente aperte nei confronti del territorio, anche mediante la messa in atto di soluzioni innovative. Molti atenei si sono dota-


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ti di specifiche strutture, gli Industrial Liaison Office, intorno alle quali hanno organizzato le proprie attività di trasferimento tecnologico verso il sistema delle imprese, in modo da assicurare un’adeguata interazione tra domanda e offerta di conoscenze trasferibili. Secondo Chiesa e Piccaluga (2000), grazie a queste strutture si è assistito a un incremento “dei legami tra scienza e tecnologia, che ha fatto sorgere diversi meccanismi di interazione e collegamento tra organismi di ricerca e realtà produttive manifatturiere e di servizi, con crescente attenzione ai processi di trasferimento e sfruttamento dei risultati della ricerca scientifica”. Per rendere omogenei principi e criteri cui ispirare le azioni in materia di trasferimento tecnologico, tali strutture hanno costituto nel 2001 un network per la valorizzazione della ricerca universitaria, Netval. Tale rete oggi annovera 49 partecipanti, che rappresentano il 64,9% degli atenei, il 76,9% degli studenti e il 79,5% dei docenti sul totale nazionale. I compiti istituzionali di Netval possono essere riassunti nel modo seguente: • messa punto di “best practices”, quale insieme di principi, criteri, strumenti e processi omogenei cui informare i singoli progetti posti in essere dalle università nel settore di riferimento; • definizione di modelli valutativi del potenziale innovativo di idee brevettabili, delle strategie di protezione legale delle stesse, nonché del relativo valore di mercato e del loro impatto; • valorizzazione dei risultati delle ricerche in termini imprenditoriali, favorendo l’attrazione di investimenti nei settori innovativi, la creazione di spin-off e la promozione di investimenti e di partecipazioni al capitale di rischio di imprese high-tech. Relativamente alle politiche per il trasferimento tecnologico, a conclusione di un’indagine condotta su un campione di 50 università italiane (Piccaluga, 2006), è emerso che quelle maggiormente adottate sono rappresentate dalla protezione della proprietà delle invenzioni (indicate nell’83% dei casi), dalla creazione di imprese spin-off (80,9% dei casi), dalle collaborazioni con l’industria e da ricerche a contratto (57,4% dei casi).


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Per quanto riguarda la spesa per la protezione della proprietà intellettuale, con riferimento alle 32 università rispondenti all’indagine, nel 2005 è risultata di poco inferiore agli 1,4 milioni di euro, con un importo medio di circa 44.000 euro per ateneo, mentre nello stesso anno si contavano 55 contratti di cessione di brevetti. Dal punto di vista quantitativo, il numero di brevetti o domande di brevetto in cui istituzioni accademiche italiane compaiono come titolare è cresciuto sostanzialmente nel corso degli ultimi anni, dimostrando una vivace attenzione per la protezione della proprietà intellettuale (Baldini et al., 2006). Secondo i dati più recenti (project iRis , 2006), a livello italiano si è passati da 35 domande presentate all’Uibm nel 1996 a 181 nel 2006, mentre i dati riguardo la brevettazione presso uffici esteri (Epo, Uspto) presentano situazioni analoghe con 15 brevetti/estensioni nel 1996 e 232 nel 2006. Col termine di “spin-off accademici”, s’intendono comunemente imprese operanti in settori high-tech, costituite da almeno un professore/ricercatore universitario o da un dottorando/ contrattista/studente che abbia effettuato attività di ricerca pluriennale su un tema oggetto della creazione d’impresa. A oggi ne risultano attivi 454 con un tasso di sopravvivenza superiore al 97% (Piccaluga e Balderi, 2006).). Per quanto attiene la loro localizzazione geografica, la creazione di imprese spin-off della ricerca pubblica rappresenta un fenomeno concentrato e consolidato soprattutto al Centro-Nord: oltre il 60% delle imprese identificate è infatti localizzato nell’Italia settentrionale, il Centro ne ospita circa il 24% mentre nella parte meridionale e insulare della penisola risiede il residuo 13,8%. La regione più attiva risulta l’Emilia Romagna (con il 21% degli spin-off), seguita dalla Toscana (13%), Piemonte (12,1%), Lombardia (11,5%) e Friuli Venezia Giulia (6,4%). Un altro indicatore significativo delle attività delle università tendenti ad avvicinare l’alta formazione e la ricerca ai bisogni del territorio è da ricercare nella costituzione di sedi distaccate in cui sono stati istituiti nuovi corsi di laurea basati su specifiche esigenze provenienti dagli stakeholder locali. Nell’anno accademico 2004-2005, secondo i dati Miur, l’offerta formativa dei 60 atenei statali si componeva di 4968 corsi di laurea, così distribuiti:


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• 4048 corsi (83,7%) non delocalizzati; • 512 corsi (10,6%) unilocalizzati in una sede diversa da quella centrale di ateneo; • 204 corsi (4,1%) plurilocalizzati (unica sede amministrativa, più sedi didattiche); • 204 corsi (4,1%) gemellati (facoltà con uguali offerte formative ma sedi distinte). Per certi versi tali interventi sono censurabili, in quanto non di rado hanno provocato un’inopinata dispersione di risorse, portato all’apertura di corsi di studio eccessivamente focalizzati su esigenze meramente locali e spesso si sono basati su forme di docenza precarie. Tanto che, giustamente, il governo è recentemente intervenuto in direzione della limitazione all’apertura da parte degli atenei di nuove sedi decentrate. La proliferazione delle sedi decentrate, peraltro, si è andata a sommare a un altro fenomeno che ha causato un’inopinata dispersione delle poche risorse pubbliche disponibili, rappresentato dall’apertura, negli ultimi due decenni, di troppi nuovi atenei. Tale evoluzione, per fortuna, sembra destinata a fermarsi. In tal senso, non può che essere visto con favore anche il chiaro stop che il governo ha finalmente imposto all’attivazione delle università telematiche. Le molteplici aperture di corsi di studio e master al di fuori delle sedi storiche spesso non sono state il frutto di organiche politiche di ateneo. Sono derivate, invece, da ambiziose mire “espansionistiche” e dall’esigenza di singoli gruppi di docenti o facoltà di trovare nuovi spazi e nuove risorse sul territorio per fini a volte censurabili. L’attivismo e l’efficacia mostrata dagli atenei nel creare nuovi programmi didattici costituiscono, però, tangibili segnali della voglia e della capacità di rispondere alle istanze dei portatori di interesse locali. Alcuni atenei in questo modo hanno dimostrato di saper rispondere positivamente e con convinzione alle richieste, da parte degli attori politici ed economici locali, di aprire nuove strade di comunicazione fra mondo della didattica e della ricerca e il territorio. Salvo poi, in molti casi, trovarsi impegnati in costosi programmi e non poter contare sulle risorse e le relazioni privilegiate inizialmente promesse. Nel rapporto fra università e territorio, insomma, spesso è stato inadempiente il secondo termine della relazione e non il


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primo, come troppo spesso viene denunciato. È ben difficile, oggi, imputare agli atenei l’accusa di costituire delle inavvicinabili “torri d’avorio”, così come avveniva in passato. Probabilmente gli atenei devono migliorare ancora nelle loro capacità relazionali con il loro contesto di riferimento; tuttavia, se i risultati non sono stati sempre all’altezza delle aspettative, la ragione non va ricercata solo nell’isolamento in cui l’università teneva sé stessa, quanto, piuttosto, nella scarsa attitudine “culturale” delle imprese e delle istituzioni a confrontarsi con il mondo universitario. Inadeguatezza, quest’ultima, dovuta principalmente, almeno per le unità economiche, alla loro ridottissima dimensione media, e alle oggettive difficoltà finanziarie che in quest’ultimo decennio hanno caratterizzato le aziende e le pubbliche amministrazioni italiane. Con riferimento al rapporto università-territorio, peraltro, occorre tenere in debito conto la differenza di prospettiva spaziotemporale oggettivamente esistente fra atenei e parti interessate. In relazione alla questione “fisica”, ad esempio, il territorio di riferimento di ciascuna università non può esser fatto coincidere con la provincia o la regione dove essa è fisicamente insediata. Per alcune discipline, infatti, il livello da considerare per apprezzare l’efficacia della didattica o il supporto fornito dalla ricerca più o meno applicata è ben più ampio del perimetro locale. Un’inevitabile distonia fra università e territorio è rilevabile, inoltre, anche per quanto riguarda il profilo temporale, con riferimento alla differente lunghezza del “ciclo di ritorno” degli investimenti in ricerca (e in didattica). Le imprese e le pubbliche amministrazioni, infatti, richiedono quasi sempre di ottenere dalle ricerche universitarie ritorni spendibili velocemente nell’ambito delle proprie attività produttive o delle frequenti scadenze elettorali. La ricerca di base, invece, quella che maggiormente caratterizza l’università, e di cui il nostro tessuto economico avrebbe maggior bisogno, fornisce i propri frutti solo nel medio-lungo termine. Affinché il rapporto università-territorio produca frutti scientifici interessanti per tutti, occorre che chi governa gli atenei, le imprese e le istituzioni abbia ben chiare tali differenze prospettiche e ne tenga adeguatamente conto nelle sue iniziative e nei suoi giudizi.


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3.4 Ambiti d’intervento Una premessa indispensabile Nello scenario appena ricordato, riteniamo che per indurre l’auspicato innalzamento nei livelli della ricerca condotta nel nostro paese occorre prendere in considerazione in maniera sistematica diversi profili di analisi fra loro eterogenei. Prima di affrontare tali questioni è opportuno ribadire l’importanza di due aspetti che hanno sempre qualificato l’istituzione universitaria in Italia e dai quali non si può transigere in qualsiasi analisi che riguarda il miglioramento della ricerca. Il primo di essi è quello delle finalità e del carattere pubblici dell’istituzione universitaria. Sulla natura pubblica dei fini perseguiti dall’università il dibattito nazionale e internazionale è concorde. Per quanto riguarda la natura pubblica di tali istituzioni, gli autori di queste note concordano sul fatto che le istituzioni private possono svolgere un ruolo importante per la ricerca e la didattica; tuttavia l’esperienza del nostro paese dimostra chiaramente le difficoltà dei privati a impegnarsi in settori universitari che non abbiano pronte ricadute economiche positive, come la formazione economica e quella sanitaria. Pertanto, pur auspicando la diffusione di strumenti operativi di diritto privato, e in primis convenzioni, partecipazioni a consorzi, fondazioni e quant’altro, riteniamo che il carattere pubblico degli atenei costituisca un valore fondamentale, specialmente se la ricerca viene ritenuta funzione inderogabile, anche se non esclusiva, delle università. Un altro tema da evidenziare è l’importanza dell’eterogeneità delle singole istituzioni. In altri termini, la complessità interna che caratterizza l’offerta didattica, l’organizzazione della ricerca e i meccanismi di governo e operativi dei diversi atenei costituisce un valore da non disperdere, purché non si traduca in autoreferenzialità, discrezionalità e iniquità. Bisogna evitare, pertanto, che si renda concreto il rischio di un’elevata omogeneizzazione degli strumenti di governo e delle attività di ricerca e di didattica. Gli atenei dovrebbero definire un ambiente idoneo alla miglior ricerca, stando attenti, però, a mantenere le peculiarità e i caratteri positivi che li contraddistinguono. Lo stes-


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so rispetto delle diversità dovrebbe far valutare con attenzione l’effettiva applicabilità alle diverse aree scientifiche di un ateneo delle medesime soluzioni, con riferimento, ad esempio, ai parametri di valutazione degli output o ai meccanismi operativi di gestione interna. Differenziarsi nelle attività che si svolgono e nel modo di eseguirle consente di rispondere meglio ai compiti oggi assegnati alle università. A tal fine le singole facoltà e i singoli dipartimenti devono disporre di maggior autonomia e maggiori responsabilità all’interno di un quadro di ateneo formato da regole certe e da gestione a budget collegato a sistemi di accountability allo stato praticamente assenti. Tutto questo non significa che non vi sia la necessità di regole comuni a tutte le università. Tutt’altro. Le norme di reclutamento devono garantire equità e qualità nelle scelte. Gli ordinamenti didattici devono essere redatti secondo uno schema di riferimento che garantisca allo studente coerenti livelli di apprendimento e possibilità di mobilità nazionale e internazionale. Non si può ritenere, invece, che i problemi della nostra ricerca si risolvano imponendo a tutte le università le medesime soluzioni in termini di governance, di organizzazione e di strumentazione operativa, anche per il tempo che sarebbe necessario per trasformare radicalmente assetti e procedure già esistenti. Non una minore autonomia quindi, ma una maggiore autonomia a condizione che vi sia un sistema di accountability e valutazione degno di questo nome. A proposito di norme, vorremmo evidenziare come una delle ragioni dei problemi attuali dell’università italiana è costituito proprio dalla mancanza di un quadro normativo stabile. Nell’ultimo decennio gli atenei hanno dovuto dedicare molte energie, spesso quelle delle persone più capaci, per introdurre i nuovi ordinamenti didattici, i nuovi meccanismi di valutazione, le nuove procedure concorsuali, le nuove regole sullo stato giuridico, e hanno dovuto lavorare, allo stesso tempo, con quadri normativi inadeguati in materia di rapporti con l’esterno o di assegnazione dei compiti didattici. La successiva tabella 3.3 offre al riguardo una breve rassegna delle principali nuove normative che negli ultimi dieci anni hanno avuto impatto sui processi interni delle università.


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Tabella 3.3 Principali normative che negli ultimi dieci anni hanno avuto impatto sui processi interni delle università. Provvedimento

Titolo provvedimento

Impatto sugli atenei

L. 19.10.1999, n. 370

Disposizioni in materia di università e di ricerca scientifica e tecnologica

D.M. 3.11.1999, n. 509

Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei Riordino di tutta l’offerta didattica, introducendo corDeterminazione delle classi di laurea, corsi di laurea si delle lauree universitarie specialistica, master di I e Determinazione delle clas- II livello totalmente nuovi si delle lauree specialistiche

D.M. 4.8.2000 D.M. 28.11.2000

D.M. 22.10.2004, n. 270

Modifiche del regolamento Rettifiche al D.M. 509/99 recante norme concernenti concernente il riordino dell’autonomia didattica degli l’offerta didattica atenei, approvato con decreto del ministro dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica 3.11.99, n. 509

L. 4.11.2005, n. 230

Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari

Innovazioni rispetto al D.P.R. 382/80 in materia di reclutamento dei docenti universitari

Tutto questo ha reso più pesanti le attività amministrative svolte dal personale docente e da quello tecnico-amministrativo e ha richiesto logoranti processi di implementazione e interpretazione. Spesso si trascura la dimensione del lavoro amministrativo che, in una logica di autogoverno responsabile, i docenti hanno dovuto sostenere per introdurre i molteplici cambiamenti intervenuti nelle varie normative di riferimento e, allo stesso tempo, le difficoltà richieste a svolgere le attività universitarie facendo riferimento a norme che in alcuni casi risalgono agli anni Trenta! Il tutto, peraltro, nell’ambito di una costante riduzione delle risorse reali assegnate agli atenei. Crediamo che


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tutti gli operatori universitari auspichino come prima esigenza non tanto l’incremento dei finanziamenti agli atenei, quanto la definizione di un quadro di riferimento certo e stabile, all’interno del quale potersi dedicare in maniera più focalizzata e sicura alle attività istituzionali. Le questioni da affrontare per migliorare la ricerca Il miglioramento della ricerca in termini di standard internazionali e di maggiore impatto sulla crescita economica richiede di affrontare molteplici questioni. Il primo aspetto da considerare è quello della composizione del corpo accademico. A livello “di sistema” e di singoli atenei sono facilmente rilevabili, infatti, un’età media eccessivamente elevata dei docenti (figura 3.4) e una distribuzione fra i ruoli particolarmente sbilanciata verso le posizioni più alte, quelle di professore ordinario e professore associato (tabella 3.4). Il fatto che i docenti universitari (professori e ricercatori) nell’università italiana siano vecchi è ormai un luogo comune, tanto che, se nel 1985 l’età più diffusa fra i docenti era di 38 anni, nel 2001 questa è salita a ben 54 anni (Cnvsu). La difficoltà dei giovani a inserirsi nel mondo accademico e della ricerca, il problema dei precari di cui si parla spesso e i lunghi periodi in cui le assunzioni sono ridotte al lumicino sono alcune delle principali ragioni per cui in questi ultimi anni si è venuta a creare una struttura anagrafica dei docenti universitari caratterizzata da uno squilibrio tra il personale anziano e quello giovane che non ha eguali negli altri paesi. Il risultato è quindi quello di escludere alcune generazioni dalla docenza universitaria a vantaggio di altre. L’università italiana è quindi quasi priva di docenti e ricercatori nell’età della loro maggiore creatività scientifica e favorisce di fatto la fuga dei cervelli (Zapperi, Sylos Labini 2006). Per fronteggiare questa distorsione è necessario un cambiamento nei comportamenti degli atenei in materia di reclutamento. In questi ultimi anni le limitate risorse disponibili e la centralità attribuita dall’attuale ordinamento agli interessi locali hanno “inevitabilmente” portato gli organi accademici a soddisfare le esigenze di promozione interne ai vari gruppi di ricerca, sacrifi-


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Figura 3.4 Il confronto delle distribuzioni delle età degli accademici in diversi paesi

Fonti: per l’Italia MIURURST e AFAM-Ufficio di Statistica (rilevamento 2004), per la Francia rapporto sulla “Démographie des personelles emeseignant” del ministère de l’Education Nationale (rilevamento 20042005), per il Regno Unito dall’HESA (rilevamento 2000), per gli Stati Uniti dal U.S. Department of Education, National Center for Education Statistics (rilevamento 1999) (in Zapperi, Sylos Labini, 2006).

cando l’accesso di nuove leve alla vita universitaria. A tal risultato ha contribuito anche la riduzione nel grado di attrattività di una carriera, quella del professore universitario, che non garantisce più i livelli retributivi del passato e neppure lo status che, in mancanza dei primi, costituiva comunque un fattore di attrazione. Ai fini dell’innalzamento dei livelli qualitativi, particolare rilievo va posto, inoltre, alle modalità stesse in cui viene “gestita” la ricerca. Occorre, innanzitutto, che l’attenzione alla dimensione internazionale degli studi, sempre formalmente esplicitata, diventi pratica concreta. A tal fine è indispensabile non solo che l’ordinamento definisca modalità concorsuali idonee a incentivare la partecipazione attiva al dibattito internazionale, ma anche che ciascuna comunità e gruppo di ricerca accademico


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Tabella 3.4 Personale docente di ruolo distribuito per qualifica (dati al 31 dicembre di ciascun anno). Anno

Ordinario

Associato

Ricercatore Val. ass. % su tot.

Totale

1997

13.402

1998

13.402

15.618

20.167

41,00%

49.187

15.619

20.186

41,02%

49.207

1999 2000

12.913

18.032

19.556

38,72%

50.501

15.026

17.259

19.668

37,86%

51.953

2001

16.891

17.875

20.090

36,62%

54.856

2002

18.131

18.502

20.900

36,33%

57.533

2003

17.958

18.096

20.426

36,17%

56.480

2004

18.071

18.102

21.229

36,98%

57.402

2005

19.275

18.966

22.010

36,53%

60.251

Fonte: MIUR, Banca dati dei docenti di ruolo.

adotti scelte coerenti in materia di reclutamento e di definizione dei meccanismi di reputazione individuale. E ciò lo si può fare anche in forma indiretta creando un legame tra ottenimento di certi risultati di ricerca e finanziamenti erogati dall’amministrazione centrale. Una migliore “gestione” della ricerca implica, inoltre, la valorizzazione, la riqualificazione e la riduzione nel numero a favore di una maggiore qualità dei dottorati di ricerca, che devono assumere i caratteri di corsi di studio strutturati, aventi chiari obiettivi formativi e idonei percorsi didattici e miranti a “produrre” personale destinato non tanto a clonare la scuola scientifica di provenienza o “il docente di riferimento”, quanto a competere a pieno titolo nel costituendo “mercato” europeo dei giovani ricercatori. Vanno curate, altresì, la riduzione dell’impegno dei dottorandi e dei ricercatori in attività diverse dalla ricerca e la definizione di esplicite strategie di ricerca e di pubblicazione, all’interno delle quali attribuire ampio spazio a collaborazioni internazionali e interdisciplinari. Torneremo su questo punto, che rappresenta un aspetto dirimente per la futura legittimazione dell’istituzione universitaria, nelle considerazioni conclusive. Qui di seguito ci focalizzeremo,


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invece, su due strumenti che ci appaiono particolarmente preziosi al fine di indurre comportamenti virtuosi nelle attività di ricerca e per i quali il dibattito attuale ci appare procedere per luoghi comuni piuttosto che per riflessioni approfondite: i meccanismi di governance operativa e le valutazioni di sistema. Abbiamo in precedenza ricordato che la ricerca si deve anche porre la questione di come rispondere alle esigenze di supporto alla competitività e all’innovazione del territorio di riferimento. È stato evidenziato, inoltre, che tale esigenza può far deviare i docenti dal conseguire i risultati globali particolarmente apprezzati oggi dai meccanismi di valutazione esterni e interni. In altri termini bisogna essere in grado di far fronte alle richieste locali senza deflettere rispetto ai criteri globali di svolgimento della buona ricerca. I meccanismi di governance operativa Una soluzione spesso richiamata per migliorare la qualità della ricerca (e anche quella della didattica) e per consentire una maggior apertura verso l’esterno è quella dell’introduzione di modifiche nei meccanismi di governo degli atenei. In merito al tema del governo, oggi così dibattuto, ci sembra utile svolgere un’analisi più attenta, che distingua fra governo “strategico” degli atenei, che si sostanzia in questioni quali la composizione, le funzioni, la durata del mandato, i meccanismi di relazione degli organi di vertice (rettore, senato accademico e consiglio di amministrazione), e governo operativo, relativo, invece, alle modalità interne mediante cui le scelte di natura strategica si traducono in termini concreti; ci si riferisce ad argomenti quali l’organizzazione delle autonomie e delle responsabilità all’interno degli atenei e il sistema della valutazione e degli incentivi interni. Le proposte avanzate a proposito del governo strategico prevedono quasi sempre una riduzione dell’autogoverno da parte delle componenti la comunità universitaria. Non c’è dubbio che un maggior confronto con l’esterno aiuti a evitare pericolosi fenomeni di autoreferenzialità e di iniquità. Può aiutare, inoltre, a introdurre maggiori capacità pianificatorie degli atenei. Il profilo strategico richiede certamente alcuni necessari aggiustamen-


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ti. Tuttavia, riteniamo che sia maggiormente utile, e agevole, oggi, intervenire in profondità sui profili di governo operativo piuttosto che su quelli strategici. È inevitabile, forse, che l’attenzione degli osservatori si focalizzi su temi affascinanti e intellettualmente stimolanti, come quelli propri del governo strategico. Ciò che veramente conta, però, non è tanto l’eleganza delle soluzioni formali prospettate in merito a come governare un ateneo, quanto indurre comportamenti effettivamente in grado di migliorare la qualità della ricerca (e della didattica). L’analisi dei cambiamenti nei meccanismi concorsuali introdotti in questi ultimi quindici anni, e la consapevolezza delle distorsioni prodotte da ciascuno dei regimi introdotti, evidenzia quanto sia difficile, in una comunità professionale sostanzialmente autogovernata, la traduzione operativa di quelle che teoricamente appaiono soluzioni assai convincenti. Ecco perché ci sembra particolarmente utile soffermarci sul meso-livello della governance operativa, ovvero quello della traduzione in azioni concrete delle grandi e belle dichiarazioni di principio proprie degli statuti e dei quadri normativi. Ci riferiamo, a tal proposito, a temi quali il miglioramento delle relazioni fra facoltà e dipartimenti; l’aggregazione delle strutture di ricerca; il bilanciamento, nel carico di lavoro del singolo ricercatore, fra attività didattica e attività di ricerca; la valorizzazione del contributo del personale tecnico-amministrativo; l’introduzione di meccanismi interni di valutazione “integrati”, che considerino in maniera sistematica ricerca, didattica e attività amministrative. Introdurre alcune mirate iniziative, infatti, può essere per le università molto più utile di imbarcarsi in lunghissimi e spesso simbolici processi di ridefinizione dei generali meccanismi di governance. Va sottolineata, inoltre, l’esigenza di essere cauti nell’introdurre cambiamenti radicali delle forme di governo degli atenei, specialmente in direzione di quelli tipici delle imprese. Le principali direttive possono essere riassunte nei seguenti punti: • L’università deve mantenere il proprio carattere pubblico. • I cambiamenti profondi, anche laddove siano auspicabili e razionali, richiedono spesso tempi lunghissimi per andare a regime in ambienti altamente istituzionalizzati quali l’università.


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• I meccanismi di governance tipici delle imprese spesso inducono rigidità, mentre l’università deve essere caratterizzata da alte dosi di flessibilità. • I meccanismi di governance tipici delle imprese spesso assegnano il potere in mano a poche persone o alla tecnostruttura. In tal modo si riduce il senso di partecipazione a una comunità, aspetto non secondario per lo svolgimento delle funzioni assegnate all’istituzione università anche nello scenario in corso di affermazione. Spesso si discute animatamente della composizione degli organi di governo, prevedendo figure di superamministratori o confidando nelle virtù taumaturgiche di amministratori provenienti dal mondo delle imprese o dalla “società civile”. La rappresentanza di portatori di interessi diversi da chi lavora in ateneo è certamente importante. Ritenere che da tale rappresentanza derivi la soluzione dei problemi dell’università è certamente ingenuo, specialmente considerando l’esperienza in termini di rapporto con il territorio che gli atenei italiani hanno maturato in questi ultimi dieci anni. Sicuramente le imprese e le istituzioni possono fornire interessanti contributi, progettuali e finanziari. Tuttavia, non basta avere come presidente del consiglio di amministrazione un imprenditore per risolvere i problemi dell’università. Anzi, nelle città più piccole, sedi della maggior parte degli atenei, l’attenzione agli interessi particolari, inevitabilmente propria della classe dirigente locale, può tradursi con particolare facilità in una delle molteplici patologie particolarmente pericolose per le università, come il localismo, l’orientamento al breve termine, la creazione di percorsi di studio eccessivamente focalizzati, la considerazione dell’università quale elemento del gioco politico cittadino. Con una battuta, l’università deve essere in grado di portare il sapere e l’esperienza globale nel contesto locale e l’esperienza e il sapere locale nello scenario globale, e non il locale nel locale. Se è vero, infatti, che l’interazione fra agenti economici e ambiente circostante è rilevante nello sviluppo di know how produttivi derivanti da un corpus di conoscenze diffuse nel territorio, e capaci di influenzare in modo decisivo, grazie alla loro


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specificità, la competitività della struttura produttiva locale su mercati molto ampi (Becattini, 1987), altrettanto vero è che il processo di globalizzazione rende oggi i “saperi locali” spesso non più sufficienti a garantire il successo delle imprese di un certo territorio (Riccaboni e Giovannoni, 2005). La stessa globalizzazione, del resto, offre interessanti opportunità di accedere a “saperi globali” da parte dei sistemi locali. Le nuove tecnologie dell’informazione migliorano la capacità di accedere alle conoscenze disponibili nella rete globale e consentono l’interazione con realtà che si collocano sulla frontiera dell’innovazione, anche se localizzate in paesi lontani. Risulta più facile, inoltre, l’accesso al circuito internazionale di divisione del lavoro, selezionando le migliori conoscenze e competenze, nonché le risorse più efficienti, non più su base locale, ma su scala globale (Becattini e Rullani, 1993). Molti osservatori (Dierickx e Cool, 1990) sottolineano come la riproduzione del vantaggio competitivo non possa più fare leva unicamente sulle risorse e sulla capacità di innovazione locale, ma debba partecipare a un più ampio sistema di divisione del lavoro cognitivo che travalica i confini locali. La capacità di un’impresa di stare sul mercato dipende, pertanto, non più solo dal governo di dinamiche di innovazione basate su processi di learning by doing, quanto piuttosto dalla capacità di partecipare a sistemi del valore, a reti di relazioni, di scala internazionale, cioè dalla abilità di riconoscere e acquisire innovazioni, conoscenze, competenze e relazioni prodotte anche in altri contesti, da integrare e valorizzare con le conoscenze e le specificità aziendali e territoriali (Becattini e Rullani, 1993). In questa relazione biunivoca locale-globale l’università può svolgere un ruolo determinante e altamente positivo per sé e per il territorio. Se, invece, per interessi di breve termine, si presta a diventare attore dello scenario locale, impigrendosi rispetto alla rete globale di cui deve far parte, rende un servizio pessimo, non solo con riferimento alla propria missione, ma anche al benessere del contesto di riferimento. Del resto, i politici e gli imprenditori locali sono pronti a considerare come vanto della città il locale ateneo, ne richiedono più volentieri i possibili servizi e ne promuovono le attività, se esso si piazza bene nelle varie classifiche “globali” oggi di-


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sponibili con riferimento alla ricerca, alla didattica o al supporto alla competitività. Se invece l’ateneo locale risulta ai livelli più bassi, chi lo governa viene accusato da quegli stessi attori di inadeguatezza e scarsa attenzione ai problemi dell’economia della conoscenza. I portatori di interesse delle università non chiedono, dunque, di governare loro direttamente, ma di poter riconoscere i risultati positivi delle iniziative universitarie. Senza preoccuparsi se quanto porta al buon piazzamento nelle classifiche internazionali è una tipologia di ricerca di solito distante dalle questioni locali. Se ciò che conta è conseguire i risultati migliori in termini di ricerca e didattica, non crediamo che sia una più robusta presenza di esponenti della vita sociale o economica locale a consentire di raggiungerli. La presenza di alcuni soggetti esterni negli organi di governo, specialmente nell’organo maggiormente dedicato all’amministrazione, è certamente utile per eliminare qualsiasi tentazione di autoreferenzialità. Ma le dimensioni del contributo che possono offrire i consiglieri esterni, spesso poco motivati o non conoscitori della complessità dell’università, non va sovrastimata. Ci sembrerebbe auspicabile, invece, considerare con attenzione alcune questioni inerenti al governo operativo. La prima di esse è costituita da una miglior definizione delle relazioni fra facoltà e dipartimenti. Può essere utile ricordare che nel nostro ordinamento i dipartimenti sono le strutture dedicate alla ricerca mentre le facoltà hanno competenza con riferimento alla didattica. Spetta alle facoltà, però, la competenza, centrale nell’ambito della vita accademica, di decidere in merito ai bandi di concorso per nuove assunzioni di personale docente. I dipartimenti spesso utilizzano risorse (aule, attrezzature, laboratori, personale) della facoltà, senza magari che tale uso venga esplicitamente riconosciuto. I docenti di un certo dipartimento a volte afferiscono tutti a una sola facoltà, a volte, invece, appartengono a diverse facoltà. Le facoltà, che nelle università più consolidate del nostro paese sono comprese in un numero fra dieci e quindici, sono certamente molto più visibili all’esterno rispetto ai dipartimenti. Questi ultimi variano notevolmente di numero; sono comunque sempre molto più numerosi delle facoltà, di solito con un multiplo di quattro o cinque, e portano spesso denominazioni


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farraginose, frutto di estenuanti componenti fra le anime scientifiche che li compongono. In tale situazione si possono avere due tipologie di conseguenze indesiderate che incidono certamente in maniera negativa sulla ricerca: • Innanzitutto, ci possono essere tensioni fra la facoltà e i dipartimenti oppure fra gli stessi dipartimenti. Le prime possono derivare dall’inadeguata regolazione delle risorse comuni o dal considerare in contrasto o prioritari gli obiettivi dei dipartimenti (ricerca) rispetto a quelli delle facoltà (didattica), o viceversa, sebbene le persone che compongono tali strutture siano le medesime. Le tensioni fra i dipartimenti, invece, sono dovute alla mancanza di strategia di ricerca unitaria, rilevabile specialmente laddove vi siano dipartimenti che risultino assai simili per gli argomenti studiati. Va evidenziato, peraltro, che eventuali performance scientifiche poco positive da parte di un ricercatore o di un dipartimento agli occhi degli osservatori esterni ricadono anche sulla reputazione dell’intera facoltà, sebbene questa abbia di solito poca capacità di incidervi. • Dalla netta distinzione fra strutture responsabili per la ricerca (dipartimenti) e per la didattica (facoltà) si possono generare inopinate aree di “irresponsabilità”. La facoltà, infatti, ha delle responsabilità di verifica dello svolgimento delle attività dei docenti esclusivamente con riferimento alla didattica. Per quanto riguarda la ricerca, al di là dei concorsi e delle conferme in ruolo, per le quali vengono redatte più o meno simboliche relazioni che coinvolgono sia la facoltà sia il dipartimento, non vi sono, di solito, altri momenti di verifica delle attività dei singoli. Negli ultimi anni qualche università ha introdotto in maniera sperimentale meccanismi di verifica dei risultati della ricerca, di solito comunque condotti a livello di dipartimento. Per superare le tensioni e le irresponsabilità appena ricordate, sembrerebbe auspicabile prevedere una maggior cooperazione fra facoltà e dipartimenti. La soluzione più drastica sarebbe quella di far coincidere i due perimetri. Una stessa struttura, cioè, sarebbe incaricata di svolgere tutta la ricerca e tutta la di-


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dattica inerente a una determinata area scientifica. Si tratta di un’ipotesi per certi versi assai interessante, tipica delle università britanniche, difficile, però, da importare da noi, per le differenze istituzionali che hanno caratterizzato lo sviluppo delle università nei due paesi. Oltre a una questione dimensionale, ci sarebbe da affrontare, fra l’altro, il tema dell’interdisciplinarietà che caratterizza molti corsi di studio delle nostre facoltà. Una strada più facile da percorrere è quella di definire meccanismi di cooperazione fra facoltà e dipartimenti, sia per quanto riguarda in generale il coordinamento fra le attività dei dipartimenti e quelle di facoltà sia con specifico riferimento al tema della valutazione. Facoltà e dipartimenti, infatti, potrebbero definire insieme dei meccanismi di verifica riguardanti sia l’attività didattica sia quelle di ricerca dei singoli docenti. In tal modo potrebbero essere previsti dei meccanismi attraverso i quali eventuali performance scientifiche di particolare rilievo vengano “premiate” riducendo il carico didattico, il quale sarà maggiore per i docenti che invece non svolgono adeguate attività scientifiche. Secondo gli autori, l’introduzione di meccanismi integrati, nel senso che riguardano didattica, ricerca e attività istituzionali, gestiti in maniera collaborativa dalle facoltà e dai dipartimenti, costituisce una delle iniziative più preziose se si vuole responsabilizzare in maniera opportuna i docenti, i ricercatori e i responsabili delle due strutture. Questo potrebbe essere anche l’inizio di un’evoluzione che porterebbe a compiti didattici differenziati, una delle possibili soluzioni anche rispetto al tema di come consentire la “ricerca per il territorio” senza perdere di vista gli obiettivi di ricerca globali. La valutazione locale della didattica e della ricerca, in ogni caso, dovrà essere svolta in coerenza con i criteri stabiliti a livello nazionale. E, infatti, se il prossimo sviluppo di sistemi di valutazione della ricerca e della didattica fosse legato fortemente al trasferimento di fondi centrali alle facoltà e dipartimenti, ciò renderebbe i responsabili delle due strutture più attenti a questioni di qualità e risultati nelle due aree di competenza (si veda in materia il prossimo paragrafo). A proposito di rappresentanza istituzionale, è importante che il mondo della ricerca trovi il modo di esprimersi al meglio


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non solo in facoltà, attraverso i meccanismi di cooperazione sopra auspicati, ma anche in ateneo. A tal fine occorre garantire, in particolare, il miglior funzionamento degli organi che riuniscono tutti i direttori di dipartimento e un’adeguata rappresentanza di tali strutture all’interno degli organi di governo. Per valorizzare al meglio la ricerca occorre impegnarsi, inoltre, affinché si definiscano meccanismi in grado di stimolare l’aggregazione delle strutture di ricerca. Nelle università italiane la creazione e la vita dei dipartimenti dipendono da scelte, a volte anche da bizze, di singoli docenti o di piccoli gruppi. Questo non risulta più sostenibile, in quanto reitera il nanismo progettuale e operativo, causa infinite discussioni e induce notevoli sprechi di risorse. Con riferimento al perimetro delle strutture di ricerca, un tema di rilievo è quello della coerenza fra l’ampiezza delle aree Cun, nell’ambito delle quali si è articolata fino a oggi la valutazione del Civr e quella, assai inferiore, dei dipartimenti. Al di là delle sei aree “sperimentali”, la prima Vtr si è fondata sulla tradizionale classificazione della ricerca italiana in 14 aree effettuata dal Cun. È ovvio che, se venissero fortemente incentivati i risultati della Vtr nell’attuale configurazione, si produrrebbe un forte stimolo ad avere strutture di ricerca che replicano tale perimetro o, assai più probabilmente, sue subaree non sovrapposte. Il limitato numero odierno delle aree Cun, 14 per l’appunto, rende per ora difficile, ma non impossibile, specialmente per alcune di esse, organizzare dipartimenti tanto grandi da contenere tutta la ricerca nelle discipline giuridiche o chimiche. È innegabile, comunque, che avere una struttura scientifica tutta dedicata a un’area o a una subarea Cun indurrebbe innegabili vantaggi in termini di risultati raggiunti e di uso (ma anche di rinvenimento) delle risorse. Se il legame fra i risultati conseguiti in termini di Vtr e finanziamenti agli atenei e ai dipartimenti fosse particolarmente forte, è probabile che le strutture che raggiungono i risultati meno soddisfacenti sarebbero stimolate a provare tutte le soluzioni, compresa l’aggregazione, per superare il gap in termini di finanziamenti. Tuttavia, se le strutture fossero in grado di raggiungere ottimi risultati malgrado qualche sovrapposizione, ciò significherebbe che in quel contesto la frammentazione paga e dunque potrebbe non valere la pena so-


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stenere gli innegabili oneri legati ai processi di aggregazione. A meno che, naturalmente, non vengano offerti convincenti incentivi locali. Un’altro ambito nei cui confronti i dipartimenti sono spesso inadempienti è quello della programmazione. Così come avviene anche a livello di ateneo e facoltà, in tali strutture è raro rinvenire la redazione di espliciti piani che focalizzano l’uso delle risorse e definiscono i progetti di ricerca nei quali la struttura si impegnerà nel prossimo futuro, individuando con chiarezza obiettivi e responsabilità scientifiche e gestionali e assegnando in maniera coerente le risorse finanziarie a disposizione. Tali processi, peraltro, facilitando il rinvenimento di nuovi fondi, attiverebbero virtuosi percorsi di crescita. Gli atenei dovrebbero inoltre razionalizzare le procedure di assegnazione delle risorse finanziarie interne, attraverso l’aggregazione dei molteplici rivoli mediante i quali viene finanziata la ricerca, e attuare una focalizzazione su interventi pluriennali. Si tratta, tuttavia, di decisioni che collidono con l’esercizio più difficile da attuare nelle università italiane, quello della definizione delle proprie priorità. Nulla è più ostico che assumere decisioni che potrebbero penalizzare qualche gruppo di docenti. Oltre che per il timore di perdere consenso, ciò è dovuto alle oggettive difficoltà nel valutare i punti di forza e quelli di debolezza di un ateneo. Questa costituisce un’ulteriore ragione per cui le valutazioni risultano, in questo momento, di particolare rilievo. Se condotte in maniera corretta, esse permettono di comprendere, infatti, qual è il rilievo delle diverse anime scientifiche dell’ateneo. Particolarmente utili risultano a tal fine le valutazioni di sistema, oggetto del prossimo paragrafo, in quanto consentono il confronto con i risultati conseguiti dalle strutture analoghe di altre università. Disponendo di tali informazioni diventerebbe più agevole individuare le priorità dell’ateneo o del singolo dipartimento. Anche in tale situazione, tuttavia, gli organi di governo accademico hanno a disposizione un’ulteriore opportunità per posporre qualsiasi scomoda decisione. Essi, infatti, devono sciogliere l’annoso dilemma se è meglio premiare le aree forti o sostenere quelle carenti affinché si rafforzino. La questione è certamente di livello più alto di quella precedente. Ma gli esiti possono essere altrettanto scoraggianti.


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Le valutazioni di sistema Le modifiche nel governo operativo sono fondamentalmente rimesse all’autonomia del singolo ateneo. La teoria e l’esperienza insegnano che ai fini del cambiamento organizzativo si rivelano particolarmente preziosi la presenza di leader molto motivati e lo stimolo di forti incentivi esterni. Il meccanismo democratico di elezione del rettore, che ha certamente i suoi vantaggi, rende tuttavia difficile la possibilità che i cambiamenti in oggetto possano derivare soltanto dall’azione di Magnifici particolarmente illuminati. Crediamo molto di più, invece, allo stimolo che può provenire dai meccanismi di “regolazione” esterna. Ci riferiamo, in particolare, alle procedure attraverso le quali gli organi politici monitorano il settore dell’istruzione avanzata, attraverso, ad esempio, la valutazione della didattica e della ricerca e la verifica del rispetto dei requisiti minimi, specialmente se i loro esiti sono opportunamente collegati ai finanziamenti erogati. Si tratta di meccanismi che se ben definiti non sviliscono l’indispensabile autonomia dei singoli atenei ma, anzi, possono esercitare un ruolo essenziale per il miglioramento della ricerca italiana. Basti pensare, ad esempio, al dibattito suscitato nei singoli atenei e nelle varie accademie dalla prima valutazione di sistema, quella sostanziatasi nella Vtr 2001-2003. La generale accettazione da parte del mondo scientifico italiano dei principi e dei risultati della Vtr 2001-2003, condotta in tempi rapidi e a costi ridotti, ha dimostrato che la valutazione della ricerca basata sul principio della peer review si può fare anche nel nostro paese. Ci troviamo, pertanto, di fronte a un’occasione storica, quella di indurre auspicabili comportamenti virtuosi, a patto che una parte cospicua del fondo di finanziamento ordinario venga presto collegato ai risultati della Valutazione della ricerca. Strumenti più precisi di valutazione della ricerca, peraltro, possono rappresentare il punto di riferimento essenziale per qualsiasi sistema universitario, il riconoscimento più oggettivo possibile del merito nell’ambito dei meccanismi di reclutamento dei docenti e, magari, anche per l’assegnazione di incentivi individuali.


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A causa, forse, della turbolenza della vita politica di questi ultimi mesi, l’opinione pubblica, la classe imprenditoriale, gli opinion leader non si sono resi conto che, a differenza di molte altre pubbliche amministrazioni (e anche di molte imprese...), i così tanto vituperati e autoreferenziali professori universitari si sono sottoposti a un approfondito esercizio valutativo che ha prodotto una serie di ranking nazionali per ciascuno dei 20 settori di ricerca individuati. Si tratta di un risultato assai incoraggiante, che per fortuna il governo non sembra intenzionato a far svanire nel nulla. A tal fine è auspicabile, naturalmente, che sia attivata quanto prima una nuova valutazione, quella relativa agli anni 2004-2006, per fornire l’indispensabile messaggio di ciclicità dell’esercizio e non far ritenere che il primo esercizio fosse meramente simbolico. Occorre certamente operare alcuni miglioramenti nella metodologia seguita nella valutazione dei prodotti e delle strutture. Tuttavia il percorso iniziato è estremamente importante, e forse l’unico che può salvare la ricerca italiana da un inopinato declino. Se il successo del Civr ha dimostrato che gli accademici si possono autovalutare con rigore con riferimento alla ricerca, considerazioni simili si possono portare a proposito della didattica, richiamando le metodologie di valutazione utilizzate in centinaia di corsi di studio ed effettuate secondo il ben noto modello definito dalla Crui. È importante che il governo e l’Agenzia sappiano valorizzare tali esperienze e costruire su di esse le prossime iniziative di misurazione, valutazione e finanziamento del mondo universitario. Conciliare criteri “globali” ed esigenze “locali” Come evidenziato in precedenza, è assai probabile che per i singoli docenti o gruppi di ricerca l’esigenza di essere presenti sul territorio si ponga in contrasto con quella di partecipare attivamente al dibattito scientifico internazionale. Abbiamo già evidenziato che, per consentire agli studiosi di non deflettere dai loro obiettivi “globali” e all’università di soddisfare alle esigenze “locali” di essere supporto al territorio, può rivelarsi utile la creazione di spin-off nei quali vi siano competenze universitarie in grado di coordinare persone non interes-


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sate ai percorsi accademici ma capaci di fornire quel tipo di “ricerca applicata” necessaria ai nostri interlocutori locali. Un contributo prezioso può derivare anche dall’utilizzo dei meccanismi “integrati” di analisi delle performance accademiche, mediante i quali individuare docenti che potrebbero svolgere parte dei loro compiti focalizzandosi sulle relazioni con il territorio. Le relazioni con il territorio possono inoltre essere facilitate mediante la predisposizione di nuove strutture integrate di interfaccia, capaci di portare efficacemente all’esterno le notevoli potenzialità dell’università ai fini della competitività di imprese e pubbliche amministrazioni, di supportare i ricercatori nel fundraising e di definire insieme agli interlocutori esterni progetti di ricerca ad hoc. Solo in tal modo l’università potrebbe tornare nuovamente al centro di un crocevia di relazioni che trovano in tale istituzione un momento virtuoso di incontro. In tale prospettiva, il ruolo dei Liaison offices a supporto dell’applicazione industriale della ricerca di base resta inalterato. Se gli atenei vogliono veramente portare un contributo alla crescita competitiva occorre però superare la monodirezionalità insita nel concetto stesso di “trasferimento tecnologico” e integrare i Liaison offices nell’ambito di momenti di dialogo università-territorio di più ampio perimetro. Tali nuove strutture, relazionandosi in maniera attenta con le facoltà e i dipartimenti, dovrebbero fungere da facilitatrici rispetto al lavoro svolto da parte di unità organizzative che di solito già esistono in ateneo ma che spesso non comunicano fra loro. Fra le attività che rientrano in tale perimetro ci sono, ad esempio, la rilevazione sistematica, la classificazione e l’illustrazione all’esterno di tutta l’attività di ricerca condotta in ateneo, la proposizione delle competenze formative esistenti, la stimolazione e l’organizzazione della partecipazione comune, ricercatori-imprese, ai molteplici bandi di finanziamento emanati ai vari livelli istituzionali, il supporto nei confronti dei ricercatori nella predisposizione di business plan e piani di finanziamento, la presentazione alle imprese e alle istituzioni esterne di tutti i servizi che potrebbero risultare loro utili (stage, placement, incontri con gli studenti ecc.). Determinante ai fini dell’auspicato dialogo in oggetto è che le aziende, le associazioni, le pubbliche amministrazioni abbia-


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no di fronte a sé un’unica interfaccia, professionale e affidabile, che apra loro le porte di tutto l’ateneo e che si faccia garante dello svolgimento dei servizi concordati. Ciò eviterebbe inutili incomprensioni e perdite di tempo. Consentirebbe, inoltre, la fornitura di risposte più soddisfacenti nonché la definizione di migliori relazioni con gli interlocutori esterni. Per quanto riguarda più strettamente il tema trattato in queste pagine, l’attivazione di un servizio di interfaccia integrato ridurrebbe l’investimento di tempo altrimenti richiesto ai ricercatori per gestire in maniera diretta alcune delle attività sopra indicate, consentendo così di trovare più tempo ed energie per la ricerca e la sua migliore trasmissione.

3.5 Conclusioni Abbiamo ripercorso in questo capitolo alcune delle problematiche più attuali connesse ai temi dell’università e della ricerca. A partire dal contesto italiano, abbiamo cercato di affrontare quegli aspetti del governo dell’università, in termini strategici e operativi, che affollano il dibattito corrente sull’università. Nel far questo, abbiamo cercato di evitare di delineare soluzioni di sicuro effetto mediatico ma di altrettanto sicura astrattezza. Per questa ragione abbiamo privilegiato l’analisi degli aspetti concretamente operativi, quali i rapporti tra le attese del territorio e le performance delle università e i rapporti all’interno degli atenei tra facoltà e dipartimenti, sottolineando come l’università debba portare il globale nel locale e sfuggire dalla tentazione di portare il locale nel locale, un modo per dire riprodurre quasi gattopardianamente l’esistente. Comunque, non ci sfuggono le rilevanti criticità dell’intero sistema, né ignoriamo la diffusa sensazione per cui per le università si sono tentate tutte le soluzioni ma l’impatto reale delle innovazioni è rimasto sempre modesto. Tuttavia non vogliamo cadere nel cinismo di chi sostiene da una parte l’immutabilità (irrecuperabilità?) dell’istituzione universitaria o, dall’altra, la necessità di soluzioni draconiane certamente inattuabili. E per questa ragione vogliamo chiudere il nostro ragionamento sollevando il tema della gestione della ricerca negli atenei.


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Siamo convinti che in Italia non manchino aree di eccellenza per certi versi formidabili vista la media del sistema. Tuttavia, la nostra esperienza ci dice che tali aree mai diventano motore per la crescita del sistema e spesso sono costrette a rimanere “isole” per non risentire di una diffusa pressione verso l’isomorfismo delle pratiche di gestione della ricerca universitaria. Perché questo accade? Noi azzardiamo due risposte in qualche modo complementari. Da una parte, il sistema universitario, con particolare riferimento all’area delle scienze sociali, risente in modo ancora limitato dell’apertura verso il contesto internazionale. Nelle università è ancora prassi accettata e culturalmente riprodotta la valorizzazione in termini di carriera della collaborazione con il docente di riferimento in alternativa alla pubblicazione in ambito internazionale. Non sono pochi anche gli esempi in cui le pubblicazioni internazionali non rappresentano un effettivo titolo di distinzione ma sono equiparate a lavori non blind-refereed. Gli effetti di tali situazioni tendono in molti contesti a prevalere sugli incoraggianti segnali di apertura che vengono da molti atenei. In quei contesti, gli studenti apprendono sin dal livello undergraduate delle regole di comportamento che non chiederanno di cambiare successivamente e, molto probabilmente, riprodurranno. In altri versi, il sistema mantiene ampi settori che ne prevengono la trasformazione in senso meritocratico (per come la meritocrazia si intende in ambito internazionale). Dall’altra parte, riteniamo che troppo spesso le iniziative di trasformazione dell’università siano state gestite proprio da gruppi e coalizioni scarsamente interessati all’innovazione nei meccanismi di gestione della ricerca. Questo spiega come il sistema universitario, sotto il profilo del proprio cambiamento, si sia caratterizzato per i processi di adverse selection, per i quali iniziative di trasformazione hanno generato la riproduzione di quegli stessi aspetti che volevano cambiare. In questo ambito, il fenomeno del brain drain è un esempio illuminante. La presenza di cervelli italiani all’estero è rilevante. Questi cervelli potrebbero essere comunque una risorsa importante per accelerare processi di internazionalizzazione e per diffondere le practice internazionali di ricerca all’estero. Invece, il programma, pur meritorio, di rientro dei cervelli non riesce a far tornare chi oc-


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cupa una posizione di rilievo perché non mette a disposizione abbastanza risorse e non garantisce flessibilità per collaborazioni durature, serie ma a tempo parziale (si veda la pratica diffusa dei double appointments all’estero). In conclusione, c’è la possibilità che a rientrare siano studiosi in posizione marginale rispetto alle comunità scientifiche. La probabilità che tali studiosi, una volta rientrati nel sistema, ne riproducano gli aspetti più tradizionali è, in linea di principio, elevata. Così si garantisce il permanere di modalità di gestione della ricerca differenziate rispetto a quelle internazionali anche attraverso programmi nati per accelerare l’internazionalizzazione del sistema! Rispetto a tali dinamiche non possono tuttavia sostenersi le ipotesi di “privatizzazione” dell’università che talvolta i quotidiani riportano, le quali ritengono che il mercato possa operare attraverso la sua mano invisibile per scacciare le università cattive e valorizzare quelle buone. Siamo lontani da questa concezione del mercato e, ancora, troppo consapevoli della natura di bene pubblico dell’università. Non riteniamo sia il momento per proporre etichette vuote da riempire con norme, procedure e prassi farraginose. Pensiamo che lo Stato debba agire per portare l’università lì dove c’è più bisogno di discontinuità e dove c’è necessità di un’istituzione che possa fare da motore di sviluppo culturale ed economico. Paradossalmente, l’università serve dove l’economia e l’impresa da sole non ce la fanno, non dove queste istituzioni riescono ad alimentare circoli virtuosi di crescita e sviluppo culturale. Vige ancora la frase attribuita all’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton: “Volete un modo per creare sviluppo economico? Portate in una comunità un aeroporto e un’università!”. Ciò su cui vogliamo porre l’attenzione è quale università bisogna portare. Se è vero che l’università deve portare discontinuità allora deve essere capace di portare il globale nel locale e non essere espressione mera del locale. Da qui la proposta di creare joint research centers, in cui università di prestigio, attraverso i cervelli italiani lì presenti, possano direttamente essere chiamate a formare centri di ricerca seguendo i loro standard di gestione della ricerca e non mutuando quelli locali. Questi joint research centers dovranno localizzarsi nelle aree dove ricercare maggiori discontinuità tecnologiche (aree ad alto svi-


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luppo ma a rischio perdita di competitività) o socio-economiche (il Meridione). Attraverso un simile progetto di intervento potrebbe anche assicurarsi il coinvolgimento dei cervelli migliori che avrebbero assicurata la continuità della qualità del loro ambiente di lavoro. Questo perché dobbiamo essere tutti coscienti che, in molte aree del sistema universitario attuale, un’iniezione di innovazione e di risorse non comporterebbe alcun cambiamento se gestita con gli stessi atteggiamenti che hanno caratterizzato il sistema fino a oggi. E chiudiamo, sperando di suscitare un sorriso ma anche un’acuta riflessione nel lettore, con una parabola cara a due dei coautori siciliani del presente capitolo: la parabola dello Zio Vincenzo (u Zu Vicè). La parabola dice che un giorno Zu Vicè, contadino siciliano, incontra con il suo tipico carretto un giovane che gli suggerisce l’acquisto di un’autovettura con l’argomento che “basta mettere la prima e ci fai 10 volte dalla campagna a Palermo e ritorno”. Dopo una settimana, Zu Vicè convinto all’acquisto della vettura incontra il giovane e lo affronta vistosamente contrariato. “Ma che mi hai consigliato? Io ho messo la prima e dopo un po’ sono rimasto tutto pieno di fumo e con il motore bruciato!” “Ma Zu Vicè,” risponde subito il giovane “la seconda l’hai messa?”. Riempire di benzina un motore non lo fa andare più veloce, a maggior ragione quando chi lo guida ha l’atteggiamento di Zu Vicè. La ricerca internazionale, la valutazione, la meritocrazia, sono tutti elementi che possono essere introdotti con successo se a introdurli sono coloro che queste cose le hanno fatte e non soltanto sentite dire. Una considerazione che deve fare riflettere chi ha la responsabilità di incidere sul cambiamento del sistema universitario del paese.


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4. Domanda pubblica e innovazione di Enrico Forti e Maurizio Sobrero

4.1 Introduzione La società europea contemporanea, avversa al rischio e riluttante ai cambiamenti, attraversa un periodo complesso, in cui le strutture organizzative che durante la seconda metà del secolo scorso gettarono le basi del benessere diffuso sono messe a dura prova e le aspettative di crescita ininterrotta non trovano più riscontro nella realtà. Parallelamente emergono differenze sostanziali tra la retorica celebrativa della politica riguardo le sfide della “Knowledge Economy” e la quotidianità del sistema competitivo che lamenta le esitazioni e s’interroga sul ruolo dello Stato in rapporto al sistema economico. Il cambiamento certamente fa paura e l’incertezza è nemica dei mercati, tuttavia non è possibile ridurre il dibattito alla lacerante dicotomia tra un modello interventista “dirigista” e una “libera” rinuncia alla politica industriale. Le strategie di ieri devono compiere un enorme salto evolutivo di fronte alla scala globale delle sfide di oggi, è necessario riconoscere la centralità strategica dell’innovazione, comunicare questa cultura vincente e potenziarne gli strumenti applicativi. La società tutta è costretta a trovare risposte nuove a fronte di mutamenti radicali nella natura del progresso tecnologico e nell’evoluzione delle economie, e in questo contesto si rendono necessari nuovi approcci alla gestione dell’innovazione e alle politiche industriali per riaffermare la nostra valenza competitiva sullo scacchiere internazionale. In questo capitolo concentreremo la nostra attenzione sul ruolo della domanda pubblica come strumento di sostegno allo sviluppo d’innovazione.


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4.2 Le politiche dell’innovazione e il ruolo della domanda pubblica Il Public Technology Procurement (Ptp), vale a dire l’utilizzo della domanda pubblica di beni e servizi in chiave strategica e come impulso all’innovazione, ha dato vita di recente a un vivace dibattito politico. Interventi di questo tipo promettono miglioramenti dei servizi pubblici a tutti i livelli, uniti a esternalità positive legate in gran parte alle dinamiche specifiche dell’innovazione tecnologica. È evidente, tuttavia, che per canalizzare in quest’ottica il volume di risorse associato al public procurement saranno necessari sforzi importanti, uniti a una migliore comprensione delle dinamiche alla base degli approvvigionamenti pubblici e al fondamentale commitment da parte della classe politica. Un punto fermo per la comprensione dei processi innovativi va ricercato in primo luogo in alcuni concetti chiave che ritroviamo in letteratura. Le teorie economiche contemporanee, a questo proposito, sottolineano la natura sistemica dell’innovazione e si focalizzano sull’apprendimento nell’ambito delle interazioni tra utenti e produttori: la conoscenza circa i bisogni degli enti deve essere trasferita ai fornitori potenziali e la comprensione delle soluzioni tecnologiche da parte dei fornitori deve fluire verso gli acquirenti pubblici. In particolare, al fine di evitare fuorvianti generalizzazioni, occorre definire preventivamente il “contenuto” e il “campo d’azione” della parola innovazione. Essa deve essere intesa come “ricerca, scoperta, sperimentazione, sviluppo, imitazione e adozione di nuovi prodotti, processi o soluzioni organizzative” (Dosi, 1988), ma anche come “processo continuo nel tempo e nello spazio” caratterizzato nelle società moderne da una forte verticalizzazione delle competenze. Tutto ciò implica il riconoscimento di una natura sistemica e non lineare dell’innovazione (Lundvall, 1992), la quale ha luogo sostanzialmente nella condivisione di conoscenza per mezzo di processi d’apprendimento multilaterali nell’ambito delle interazioni produttore-utente (Von Hippel, 1988). A tal proposito, rielaborando queste osservazioni in relazione alla domanda pubblica d’innovazione tecnologica, i risultati di un recente studio condotto a livello europeo


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(Fraunhofer ISI, 2005), suggeriscono che l’approccio sistemico, implica un ruolo del public procurement inteso come “apprendimento interattivo guidato dalle istituzioni”. L’interazione tra soggetti potenzialmente innovatori, di conseguenza, è un presupposto necessario, poiché l’innovazione non si verifica quasi mai in contesti isolati (Edquist e Johnson, 1997), ma trova il suo motore nell’apprendimento, inteso come attività sociale tra persone operanti nell’ambito di istituzioni formali e informali. La politica in questo contesto ha quindi la facoltà di configurare le istituzioni e assicurare il commitment necessario affinché l’innovazione si concretizzi per mezzo delle relazioni. Il contributo dei flussi di conoscenza e dell’apprendimento reciproco si esplicita nel Public Technology Procurement dove il prezzo non contiene da solo tutta l’informazione rilevante per la transazione e si rendono necessarie interdipendenze profonde fra acquirenti e fornitori volte alla costruzione di consapevolezza reciproca in merito ai requisiti funzionali. L’acquisizione di beni o servizi innovativi da parte degli enti pubblici presenta inoltre dinamiche diverse a seconda del timing rispetto allo stadio di sviluppo del mercato e al ciclo di vita delle tecnologie. Nella fase di lancio di un’innovazione, ad esempio, quando ancora non è emerso un mercato di riferimento, la domanda pubblica può agire da market maker, mentre un intervento nelle fasi successive può favorire il consolidamento dei mercati, integrando le nicchie tecnologiche verso uno standard condiviso e tipico di una tecnologia relativamente matura. Se immaginiamo il mercato come un panno teso e i soggetti economici come biglie d’acciaio, l’effetto aggregato dei vari segmenti di “domanda pubblica” è quello di generare una distorsione nel “tessuto” economico che aggrega l’offerta e influenza alcuni processi a essa correlati. Il Ptp è quindi d’interesse particolare sia nelle vesti di sostegno all’offerta che in quelle di mezzo per favorire l’emersione di nuove tecnologie. Tale approccio strategico al procurement ha effetti di vasta portata sulle caratteristiche merceologiche dei beni scambiati e dei servizi offerti, poiché un incremento sostenuto nella domanda di soluzioni tecnologiche innovative in ambiti quali e-govern-


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ment e e-health spinge gli operatori del mercato Ict ad adeguare il paniere di attributi e la propria strategia competitiva. Analogamente, lungi dal caratterizzarsi come intervento discriminatorio, l’efficacia nella selezione dei fornitori può ulteriormente diventare un elemento importante per sostenere dinamiche orientate all’efficienza, limitando le rendite di posizione e favorendo i processi meritocratici orientati all’innovazione del sistema economico. Secondo una prospettiva storica, la domanda pubblica è stata tradizionalmente impiegata come strumento di politica economica per mutare i confini e le dimensioni di settori chiave dell’economia di uno Stato, e proprio in questo senso l’Unione europea si è dotata di regole basilari per evitare comportamenti discriminatori a garanzia della concorrenza e della trasparenza del mercato. In altri termini, tuttavia, la presenza dei governi in alcuni settori strategici attraverso politiche di public procurement cosiddette “discriminatorie” può essere necessaria a incentivare l’ascesa di una cultura orientata all’innovazione, garantendo una rapida diffusione delle esternalità positive verso la collettività nel suo complesso, con effetti positivi per la competitività di molti settori e facilitando la competizione, la cooperazione e i comportamenti virtuosi nel sistema economico. Alcuni studi riguardo all’efficacia del Ptp condotti tra gli anni Ottanta e Novanta (Rothwell e Zegveld, 1981; Geroski, 1990; Edquist, 1998) delineano una situazione coerente con le dinamiche proprie del ciclo di vita delle tecnologie, ma dai forti chiaroscuri. Nonostante molti casi di studio d’eccellenza, rimangono forti difficoltà all’implementazione sistematica di una politica pubblica profondamente complessa nelle modalità realizzative e difficilmente caratterizzabile secondo categorie discrete. Ciò nonostante la letteratura economica generalmente concorda nel classificare il Ptp tra le forme di sostegno all’innovazione più efficaci dal lato della domanda. In tutto il mondo i governi, nell’intento di realizzare le proprie funzioni, investono un ammontare enorme di risorse finanziarie negli approvvigionamenti. È essenziale rispondere a queste sfide attraverso un impiego efficiente delle risorse, per innovare la pubblica amministrazione nell’ambito di una competi-


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zione aperta ed equa fra i potenziali fornitori. Nel caso opposto, le imprese fornitrici sono disincentivate a perseguire l’innovazione, a competere sulla qualità o sul contenimento dei costi e i processi di selezione subiscono distorsioni di varia natura attraverso relazioni pubbliche o private, collusione ed eventualmente corruzione. Il Ptp, creando un “mercato di riferimento” per le nuove tecnologie, è un potente strumento di stimolo all’innovazione. In un’ottica di avversione al rischio, le imprese ricevono un forte incentivo a investire in ricerca per lo sviluppo di soluzioni avanzate, in quanto possono contare sulla willingness to pay del comparto pubblico. Inoltre secondo un approccio sistemico al procurement, con valutazioni d’impatto sull’intero ciclo di vita dell’acquisto, l’azione istituzionale di market making fa sì che tecnologie allo stadio embrionale, sviluppate su commessa pubblica, possano evolvere in soluzioni mature per il mercato privato. Sul finire del 2004, il rapporto Kok sulla strategia di Lisbona ha riconosciuto nel Ptp un importante strumento a sostegno di mercati pionieristici per prodotti e servizi innovation-intensive e, analizzando alcuni casi a livello europeo, si trova confermata un’accresciuta attenzione per l’argomento. Nel Regno Unito il rapporto del governo sull’innovazione nel 2003 ha proposto una serie di misure puntate sugli effetti del Ptp che includono la produzione di una guida destinata ai procurers su “come catturare l’innovazione” e la revisione delle procedure d’acquisto del servizio sanitario nazionale (Nhs). In Spagna la Fondazione Cotec ha prodotto un rapporto su “Approvvigionamento pubblico e tecnologia”. Nei Paesi Bassi una task force governativa sta valutando il potenziale del public procurement per le politiche sull’innovazione. In Germania il cosiddetto “Impulse Circle Innovation Factor State” sta valutando le possibilità di promuovere l’innovazione a partire dal mercato, attraverso una revisione dei criteri di public procurement in una prospettiva di “procurement strategico” verso settori tecnologici selezionati. Il messaggio chiave è che il Ptp può essere promosso con successo senza compromettere il mercato unico e la liberalizzazione degli appalti pubblici. In tal senso la teoria economica


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suggerisce (Aghion et al., 2002), infatti, che il rapporto fra intensità di concorrenza e innovazione non è lineare, ma si articola secondo pochi “balzi in avanti” e lunghi periodi di “inattività” nell’ambito di due possibili configurazioni degli attori: • se le imprese competono testa a testa, la concorrenza stimola un ciclo virtuoso di azioni e reazioni in cui il leader tenta di avvantaggiarsi attraverso l’innovazione, provocando una risposta imitativa del follower volta a recuperare il terreno perduto; • se al contrario c’è una posizione dominante, l’aumento della concorrenza riduce la spinta all’innovazione, poiché la ricompensa per il follower in caso di reazione è comunque vincolata alla rendita di posizione del leader. Nel caso di mercati allo stadio embrionale sostenuti attraverso il Ptp, è necessario prevedere forme di co-sourcing e suddivisione dei finanziamenti per le commesse, in modo da evitare concentrazioni/dipendenze troppo forti e l’emergere di posizioni dominanti. Tuttavia, dal momento che il Ptp può implicare l’acquisto di beni o servizi che ancora non esistono o che richiedono investimenti in ricerca per essere concretizzati, le decisioni di bundling/unbundling delle commesse, dovrebbero essere affrontate comunque in una doppia prospettiva di promozione dei comportamenti innovativi e di gestione delle interdipendenze, dialogando con i fornitori più importanti per rendere trasparente la supply chain e aumentare le occasioni di accesso ai subappalti per i piccoli fornitori. Ne consegue che i contratti dovrebbero limitarsi a specificare requisiti funzionali e vincoli di budget, evitando clausole eccessivamente normative. Ciò finirebbe per impedire l’emersione di comportamenti innovativi, penalizzando i piccoli fornitori che non possono sostenere costi eccessivi per la compliance. Anche i regolamenti alla base dei bandi, quindi, dovrebbero prevedere clausole specifiche riguardo alle varianti, in modo da accettare di buon grado proposte alternative in assenza di solide argomentazioni contrarie. Un ostacolo rilevante verso un utilizzo strategico del procurement è rappresentato dalla frammentazione dei regolamenti.


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Ad esempio nel procurement ospedaliero (il settore healthcare è considerato un’area molto interessante per le potenziali esternalità positive degli acquisti) la decentralizzazione è una tendenza comune, che si concretizza in una varietà di forme, per esempio attraverso livelli multipli di governo (nazionale/regionale/locale), aziende ospedaliere quasi-indipendenti e organizzazioni non governative, tutte operanti in porzioni diverse del territorio. In queste circostanze purtroppo si rischia di dover sostenere elevati costi di transazione per l’individuazione delle necessità comuni e la definizione di una strategia su scala aggregata. A questo proposito nonostante gli acquisti pubblici costituiscano una materia altamente regolamentata dai diversi legislatori nazionali, più di trenta istituzioni europee, operanti nel settore degli acquisti pubblici, partecipano all’EU Public Procurement Learning Lab (Euppll), un laboratorio permanente istituito nel dicembre 2003 con l’obiettivo di condividere in chiave transnazionale esperienze in materia di acquisti pubblici. La valenza di una programmazione strutturata di incontri tra paesi membri dell’Ue è quella di stimolare i partecipanti a confrontarsi sulle problematiche degli acquisti pubblici e a condividere esperienze e best practices da poter essere poi riadattate nelle singole realtà nazionali. Dal punto di vista della diffusione delle idee, molti Stati europei hanno affinato la gestione dei processi d’acquisto, sia nel caso di asset “strategici” che in quello di prodotti “ordinari”. Diverse strategie sono state implementate, rivelando i benefici di un approccio sistemico al procurement. Tuttavia, per la sistematizzazione delle best practices in ambito Ptp saranno necessari professionisti addestrati al ruolo di “clienti intelligenti”. Acquirenti che vantano familiarità con gli ultimi trend riguardo a tecnologie, mercati e competenze dei fornitori, ma anche capacità di specificare i requisiti funzionali valutando le offerte in termini di Tco. Queste osservazioni valgono a illustrare non soltanto il peso specifico del settore pubblico rispetto al tessuto economico, ma anche l’ampio spettro d’implicazioni strategiche per il sostegno all’innovazione. Analogamente, i sempre più rapidi cambiamenti tecnologici, e la necessità da parte dello Stato di definire i percorsi entro cui indirizzare lo sviluppo tecnologico nell’inte-


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Public Technology Procurement nel Regno Unito Il governo inglese attraverso il ministero del Commercio e dell’Industria destina annualmente circa 125 miliardi di sterline all’acquisto di beni e servizi selezionati nell’intento di stimolare l’innovazione, creare nuovi mercati e a favorire le best practices. I programmi del governo mirano a istituzionalizzare il Ptp e, a tale scopo, da un lato aggiornano le imprese con informazioni precise sulle richieste del settore pubblico, dall’altro analizzano i mercati e investono nel technology foresight. Le costruzioni, i rifiuti e i centri sanitari sono stati scelti come mercati pilota, e tra le azioni varate ci sono provvedimenti volti a mitigare le barriere all’ingresso per le piccole aziende. Le Pmi innovative sono numerose, ma la maggior parte non ha le risorse necessarie ad affrontare le gare d’appalto: redigere un’offerta costa almeno 1500 euro e le possibilità di vincita sono nell’ordine del 25%. Le Pmi spesso si limitano a concorrere per commesse di circa 60.000 euro, perché gare di più vasta portata potrebbero costare all’azienda fino a 1-2 milioni di euro soltanto per la compliance. Nel Regno Unito si sono verificati casi di successo riguardo ai partenariati pubblico-privato nell’ambito di programmi di costruzione di ospedali. Il settore privato vuole massimizzare i profitti costruendo strutture caratterizzate da bassi costi di gestione ed elevata longevità, tali requisiti funzionali hanno esercitato una pressione che si è rivelata un potente motore di innovazione e ha prodotto ospedali migliori. L’azione nel settore dei rifiuti è stata troppo tardiva e non è riuscita a stimolare le soluzioni innovative necessarie.

resse della collettività, hanno conferito negli ultimi anni un ruolo nuovo e critico alle attività di regolamentazione. In Italia, data la crescita ridotta e l’elevata inefficienza del settore pubblico, è sempre più urgente lo sviluppo di politiche pubbliche integrate in un’ottica di Public Technology Procurement, a sostegno di una rapida penetrazione della “cultura dell’innovazione” in tutti i settori chiave dell’economia. La maniera in cui il paese raggiungerà questo obiettivo influenzerà la qualità di vita dei cittadini, le condizioni lavorative e la competitività globale dell’industria e dei servizi.


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4.3 L’evoluzione del public procurement e il caso Consip In Italia, nel periodo 2000-2005, la spesa pubblica corrente al netto degli interessi è passata da 475 miliardi di euro (pari al 39,9% del Pil) a 622 miliardi di euro (43,9% del Pil) con un tasso medio di crescita annuo reale del +2,6%, mentre nello stesso periodo il Pil è cresciuto dello 0,6% (Censis, 2006). A partire dall’impulso al contenimento della spesa e dalla necessità pressante di un recupero strutturale d’efficienza nel settore pubblico, la riorganizzazione delle procedure d’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (PA) ha condotto alla successiva istituzione di Consip. In un quadro d’innovazione generale della macchina amministrativa italiana, il ripensamento del public procurement, anche alla luce degli avanzamenti tecnologici, ha portato all’adozione delle aste elettroniche, accanto all’introduzione di nuovi strumenti come i marketplace, i cataloghi elettronici ecc. La finalità perseguita è stata quella di concorrere, in tal modo, a razionalizzare e monitorare più efficacemente la spesa pubblica, così da contribuire a una maggiore competitività complessiva del paese. Tuttavia, a un’analisi più approfondita, la riforma svela aspetti controversi: da un lato persegue la logica delle economie di scala operando una centralizzazione delle condizioni d’acquisto; dall’altro fa leva sull’avanzamento tecnologico diffuso a livello locale per aumentare la produttività delle amministrazioni. Un sistema efficiente di procurement genera, in teoria, economie di scopo o di varietà, ovvero è possibile produrre più beni congiuntamente a costi inferiori rispetto a quelli che sarebbero sostenuti in aggregato da un insieme di amministrazioni ciascuna delle quali ne producesse uno solo. La premessa logica è che Consip, in veste di banditore d’asta, goda di informazioni qualitativamente e quantitativamente più accurate delle singole amministrazioni locali nella scelta dei fornitori, tali da diminuire i rischi di azzardo morale e selezione avversa nei processi contrattuali (Williamson, 1998). In realtà, esistono sia problemi pratici di aggregazione per la domanda differenziata espressa dalle amministrazioni locali che problemi decisionali riguardo gli acquisti di prodotti e servizi


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complessi o con forti ripercussioni sui settori chiave dell’economia (Ict in primis). Emerge pertanto la necessità di forme di coordinamento più o meno volontarie che assicurino da un lato livelli più elevati di efficienza nel sistema degli acquisti della PA e dall’altro una maggior corrispondenza tra i criteri di procurement e le implicazioni strategiche dell’orientamento al Ptp. L’obiettivo di Consip nella trasformazione del sistema degli acquisti della PA si è concentrato in una prima fase sul contenimento della spesa pubblica attraverso le convenzioni nazionali obbligatorie, cioè contratti quadro per le forniture di ampie dimensioni, suddivisi in lotti geografici o per caratteristiche tecniche dei prodotti e servizi forniti. Fattore critico di successo nell’ambito di tale programma era l’implementazione di un sistema di procedure elettroniche d’acquisto al fine di ridurre i costi delle transazioni, standardizzare la qualità delle forniture in tutta Italia e i cicli di procurement. Per stipulare le convenzioni quadro, Consip valuta la domanda aggregata delle amministrazioni a livello nazionale, invita i fornitori a formulare proposte contrattuali per le forniture richieste, seleziona le migliori condizioni contrattuali per la quantità di beni e servizi a livello nazionale e implementa la piattaforma tecnologica per gestire gli acquisti on line. Nell’agosto 2003, tuttavia, sotto la pressione del diffuso “malcontento” delle amministrazioni e dei piccoli fornitori, la legge finanziaria abroga l’obbligo delle convenzioni e la maggior parte delle amministrazioni torna a negoziare liberamente i contratti d’acquisto, con l’unico vincolo di confrontare le condizioni contrattuali con le condizioni offerte nelle convenzioni. Dal sistema centralizzato delle convenzioni quadro si passa così a un regime decentrato in cui le amministrazioni aderiscono alle convenzioni o selezionano autonomamente i propri fornitori, nonché gli strumenti informatici che meglio rispondono alle loro esigenze, ricorrendo alla consulenza e all’assistenza tecnica di Consip per lo sviluppo di tecnologie informatiche e per la gestione di complessi processi di acquisto. La valorizzazione dei sistemi di public procurement è divenuta prioritaria nel settore pubblico, e a ragione. Nelle istituzioni governative circa il 5-10% della forza lavoro è, in qualche modo, coinvolto negli approvvigionamenti. Eppure, nonostante la


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loro evidente importanza, molte decisioni di acquisto non sono coordinate, non sono supportate da informazioni e restano intrappolate nel labirinto della burocrazia. Nonostante l’esistenza di alcuni aspetti critici nella configurazione delle aste, in merito alla massima chiarezza delle regole, alla “usabilità” della piattaforma d’asta, e alla sua “robustezza” nei confronti dei rischi di possibile collusione, e più in generale dei rischi insiti nelle forme di marcata centralizzazione, si reputa comunemente (European Dynamics SA, 2004) che le aste elettroniche possano determinare, se generalizzate, risparmi dell’ordine del 5% sul totale della spesa pubblica, e risparmi tra il 50 e l’80% nei costi di transazione fra le parti coinvolte. Il semplice criterio del massimo ribasso tuttavia, sebbene consenta un’accettabile approssimazione per le commodities, rischia di non considerare variabili chiave, introducendo distorsioni ed eccessive semplificazioni nel processo decisionale, ragion per cui negli ultimi anni comincia a prevalere un orientamento che privilegia, sopra ogni altra cosa, l’efficacia. Il che significa che l’amministrazione deve intraprendere azioni in un’ottica di Total Cost of Ownership (Tco), sulla base di una piena consapevolezza dei bisogni sociali nel settore d’intervento, monitorandone costantemente l’andamento e verificandone l’efficacia attraverso le reazioni dell’utenza. Parallelamente si richiede una gestione sempre più strategica del Ptp, in quanto nell’ambito di un completo orientamento al Tco sarebbe auspicabile una valutazione delle implicazioni degli investimenti anche dal lato dell’offerta. Il criterio d’allocazione, infatti, messo in atto dalla PA attraverso il procurement, impatta inevitabilmente sulle dinamiche alla base dell’innovazione tecnologica, in quanto il volume elevato di risorse che si riversa sul mercato genera delle ripercussioni sull’ecosistema competitivo dei fornitori. D’altra parte, non tutto il public procurement è effettuato per soddisfare le necessità o gli obiettivi diretti dei servizi pubblici. In alcune circostanze l’acquisto di beni o servizi da parte degli organi dello Stato è volto principalmente a influenzare specifici segmenti della domanda dei privati. E proprio a partire da queste considerazioni, in un tentivo di formalizzazione del fenomeno, sono state individuate (Edquist e Hommen, 2000) tre


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classi principali di public procurement: “direct”, “co-operative” e “catalytic”. Essenzialmente, queste categorie si riferiscono ai diversi utilizzatori finali e a corrispondenti classi differenti di bisogni sociali e possono essere estremizzate in una dicotomia fra “direct” e “catalytic”. • Nel direct public procurement, l’agenzia o l’amministrazione pubblica che effettua l’acquisizione è l’utilizzatore finale principale del prodotto in questione e i bisogni che motivano la spesa hanno perciò natura intrinseca al compratore. L’acquisto di un treno ad alta velocità da parte di una società di trasporto ferroviario di proprietà pubblica costituisce un classico esempio di questo tipo di approvvigionamento. • Per catalytic public procurement, s’intendono gli acquisti di beni e servizi per conto di utilizzatori finali diversi dall’agenzia o amministrazione pubblica acquirente; i bisogni sociali che vengono soddisfatti possono essere definiti come estrinseci, individuabili soprattutto all’interno del settore privato, fra le imprese o i consumatori. Un tipico esempio è l’acquisto e la fornitura da parte dello Stato di riduttori di flusso per i rubinetti, il risparmio d’acqua nel lungo termine ha effetti anche sulle aziende di pubblica utilità, ma l’obiettivo primario è quello di ridurre il consumo d’acqua delle utenze domestiche. • Infine, in caso di co-operative public procurement, l’amministrazione pubblica che effettua l’acquisizione è tra gli utilizzatori finali del prodotto in questione, ma non ne è l’unico e i bisogni che motivano l’acquisizione sono compartecipati con altri utenti finali. L’acquisizione di pannelli fotovoltaici è tra gli esempi di questo tipo di procurement, il bisogno alla base dell’acquisto è condiviso con la società più in generale e lo stesso prodotto potrebbe essere acquistato anche dai privati. Lo scopo principale del public procurement, in questo caso, è l’avvio di un mercato di riferimento. In questa ottica e per valutare appieno le conseguenze dei processi di ristrutturazione della domanda pubblica, è necessario non dimenticare che l’introduzione di infrastrutture d’approvvi-


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gionamento informatizzate, oltre a risparmi di spesa, ha dato il via alla riallocazione di un enorme volume di risorse, influenzando specifici settori del sistema economico. Il processo di razionalizzazione della spesa tramite il ricorso a strumenti di eprocurement ha attraversato, negli ultimi anni, una notevole evoluzione, caratterizzata dal susseguirsi di fasi diverse, nelle quali l’attenzione è venuta progressivamente spostandosi da obiettivi inizialmente di natura “tattica” a finalità nettamente più “strategiche”, attinenti ai criteri cui ispirare la gestione della spesa nella sua totalità. Su scala aggregata, la PA genera un volume di acquisti talmente elevato da influenzare significativamente la natura stessa dell’offerta intervenendo nelle dinamiche evolutive di standard e procedure. La stessa attività di e-procurement per le commodities di fatto agisce già in questo senso, in quanto spinge le imprese a partecipare come fornitori ai sistemi elettronici di procurement e incentiva di conseguenza l’adozione di piattaforme simili per le proprie forniture. In una prima fase l’obiettivo prevalente è stato costituito dalla riduzione dei prezzi unitari di acquisto, resa possibile dalla creazione di economie di scala, attraverso l’aggregazione del volume di spesa e la negoziazione sui prezzi. Queste esperienze tuttavia hanno messo in evidenza la necessità di affrontare in modo più radicale la modificazione dei processi di acquisto per sfruttare appieno i potenziali benefici negoziali dell’e-procurement, declinando nel contempo gli acquisti della PA secondo un’ottica di Tco in una prospettiva seminale di Ptp orientato alla generazione di valore aggiunto. L’obiettivo di rimodulazione del fabbisogno di acquisto è quindi passato da un puro esercizio di riduzione dei costi in relazione agli obiettivi dell’organizzazione a un’ottica di migliorata e più strategica definizione delle risorse da impiegare e dei volumi da acquistare. In questo senso, l’elevato impatto economico, l’alto profilo di rischio intrinseco e la specificità della relazione tra cliente e fornitore nell’acquisto di tecnologie e di servizi informatici rendono opportuna la definizione di un contesto relazionale costruito su regole chiare e condivise, sia sotto il profilo operativo, sia sotto il profilo di tutela delle responsabilità delle parti. L’analisi del public procurement ancora oggi è fondata in


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gran parte sulla teoria classica delle aste competitive. In quest’ottica l’informazione disponibile è completa e l’approvvigionamento è considerato come un gioco, in cui entrambe gli attori (PA e fornitore) tentano di sfruttare a proprio vantaggio le debolezze della controparte. Sfortunatamente però, le dinamiche alla base del Ptp si discostano molto dal classico approvvigionamento di prodotti standardizzati, poichè le acquisizioni di soluzioni tecnologiche superano i confini della teoria economica classica. In caso di Ptp l’acquirente spesso detiene informazioni essenziali sulle caratteristiche della soluzione che sarà sviluppata, una forma di conoscenza tacita che deve essere trasferita al fornitore in un’ottica cooperativa, nell’intento di massimizzare l’utilità complessiva generata dall’investimento. In contrasto con il classico sistema di aste, la teoria alla base dei processi innovativi guarda al Ptp come un caso particolare di interazione collaborativa produttore-utente basata sulla condivisione di conoscenza (Von Hippel, 1988). Cuore dei sistemi innovativi è, infatti, l’apprendimento, che caratterizzandosi come attività fondamentalmente relazionale e sociale è mal descritto dall’anonimità dei processi d’asta. Nel tentativo di individuare i settori maggiormente interessati dal Ptp, il focus è ancora nella natura sistemica dei progetti di procurement e dei processi cooperativi di condivisione di conoscenza, in quanto si selezionano i settori target a seconda del livello di correlazione con le dinamiche dell’innovazione tecnologica e in particolare Ict. L’obiettivo finale, indipendentemente dal settore specifico, è quello di creare un mercato di riferimento per la tecnologia, laddove i rischi da affrontare sono così elevati da rendere proibitivo l’investimento nella ricerca da parte delle singole imprese. In alcuni settori, come la Difesa, l’implementazione dei concetti di Network Centric Warfare/Network Enabled Capability, che vede impegnati in uno sforzo coordinato e parallelo tutti i maggiori paesi, a partire da quelli della Nato, è destinata a segnare profondamente il futuro sia delle forze armate, in qualità di utilizzatori, che dell’industria Ict, in qualità di fornitore. Analogamente, in nuovi settori, tra cui e-health e e-government, si sta assistendo a una trasformazione di grande portata, caratte-


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rizzata anche in questo caso da una crescente domanda pubblica di soluzioni Ict. Il Ptp rappresenta pertanto il luogo ideale per sperimentare nuove forme di collaborazione pubblico-privato. L’obiettivo principale consiste nell’individuare le caratteristiche desiderabili del sistema di procurement nazionale, alla luce dell’esperienza Consip e delle altre amministrazioni che si stanno dotando di strumenti moderni di procurement. Vi è inoltre la necessità di costruire un quadro coerente di azione tra i soggetti che si occupano di tecnologie dell’informazione all’interno dell’amministrazione centrale, al fine di cogliere tutti i benefici collaterali legati alla disseminazione delle tecnologie. Gli effetti di tali cambiamenti, se opportunamente governati, si manifesteranno non solo sul piano tecnologico, ma anche sul piano operativo e su quello economico.

4.4 Innovazione sistemica e tecnologie Ict La permeabilità dei sistemi economici alle soluzioni Ict e la loro conseguente diffusione svolgono un ruolo centrale nel determinare i livelli di produttività nelle economie avanzate. È ormai assodato come esse ricoprano un ruolo trainante nella nuova economia della conoscenza e nel processo di ristrutturazione delle moderne economie di mercato. Tra i settori che offrono grandi potenzialità verso la creazione di un sistema economico “innovation friendly” l’Ict (di cui Internet è l’emblema e il motore) è considerato la chiave di volta per il posizionamento dell’Italia sulle frontiere tecnologiche più avanzate. Questo entusiasmo nei confronti della tecnologia è spiegato dall’emergere di un nuovo modello organizzativo “enabling” che ricombina risorse e competenze modificando alla base le dinamiche competitive, favorendo la crescita economica, creando nuovi e migliori posti di lavoro, aumentando la prosperità e la qualità della vita. Le analisi sulla produttività effettuate da Eito partendo dai dati Ocse mostrano chiaramente che i livelli di produttività e competitività dei vari paesi sono strettamente legati agli investimenti Ict uniti a condizioni di effettiva concorrenza e imprendi-


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torialità diffusa. Il contributo degli investimenti Ict alla produttività Usa nella seconda metà degli anni Novanta ad esempio è stato calcolato pari all’80%, contro il 40% in Europa, e molti studi individuano le cause scatenanti del calo di produttività dell’economia italiana proprio nella scarsa attenzione allo streamlining dei processi produttivi, unito a un evidente ritardo nell’assorbimento di nuove soluzioni Ict (aspetto a sua volta connesso alle modeste dimensioni medie delle imprese). Mentre la dotazione di computer è indipendente dalla dimensione aziendale, il re-engineering dei processi produttivi attraverso l’Ict è fortemente frenato dalle piccole dimensioni delle imprese e la frammentazione delle soluzioni adottate non consente il perseguimento delle economie di scala di cui necessita il settore. In Italia ulteriori difficoltà sono legate a una bassa “domanda di innovazione”, in gran parte sbilanciata sul segmento consumer e molto poco sviluppata sul segmento PA e imprese. Un recente studio (Aho Group Report, 2006) ha dimostrato, infatti, che un basso livello di early adopters, consumatori positivamente orientati verso le novità tecnologiche e con una willingness to pay molto positiva, diventa una barriera molto forte nei confronti dell’innovazione da parte delle imprese. Per ottenere un cambiamento radicale che consenta la penetrazione dell’innovazione anche nei settori maturi occorre lavorare contemporaneamente su due fronti: facilitare la nascita di imprese innovative e favorire la diffusione dell’IT nelle imprese e nelle amministrazioni esistenti. Tali fronti spesso vengono contrapposti. In realtà, sono inseparabili. Il primo riguarda il futuro e la collocazione italiana nella competizione globale. Il secondo interviene in modo selettivo sul tessuto produttivo in essere per elevarne la competitività. Come già ampiamente discusso, è impossibile perseguire un obiettivo senza cogliere anche l’altro. I processi innovativi hanno natura sistemica e nascono dal mash-up delle competenze in un complesso di relazioni sociali. Di conseguenza, non è possibile ottenere miglioramenti generalizzati senza favorire processi d’apprendimento multilaterali nell’ambito di interazioni produttore-utente. Accanto all’innovazione più strettamente tecnologica, che riguarda l’introduzione di nuovi prodotti e pro-


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cessi o il loro miglioramento, opera anche una componente immateriale legata al miglioramento multilaterale delle competenze. Non esiste una priorità della prima rispetto alla seconda o viceversa, ma ambedue concorrono a determinare la competitività delle imprese della PA, delle nazioni. Di qui nasce la necessità di politiche strategiche di Ptp orientate ad aggregare i comportamenti virtuosi, istituzionalizzando (anche con l’utilizzo di apposite clausole contrattuali) i processi d’apprendimento e la condivisione della conoscenza tra le parti. L’informatica italiana nel 2006 ha ripreso a crescere incrementando il trend degli ultimi anni, con un discreto +1,6% a fronte del timido +0,9% del 2005 e del segno negativo (–0,4%) del 2004. Il divario rispetto ai tassi di crescita internazionali dovuto anche al gap nella capacità di produzione di nuove soluzioni tecnologiche, resta tuttavia importante. Negli ultimi anni gli investimenti in Ict cominciano a costituire una quota rilevante del Pil, in particolare in paesi come Stati Uniti, Finlandia o Svezia, dove il rapporto tra investimenti in Ict e prodotto raggiunge il 4%. La quota degli investimenti Ict rappresenta in Usa il 20% degli investimenti fissi totali contro un 10% per l’Europa (Assinform, 2007). Tenuto conto dei livelli non dissimili tra Usa ed Europa, relativamente agli investimenti e alla domanda di telecomunicazioni, il divario è particolarmente grave a livello IT. Ed è quindi su offerta e domanda di IT che è necessario concentrare l’attenzione in Italia. La spesa italiana per IT in rapporto al Pil è del 2% contro il 3% della media Ue e il 5% degli Usa, ma soprattutto per l’Italia tale debolezza dell’offerta IT vincola la possibilità di sviluppo e utilizzo efficace degli investimenti ai fini della competitività del sistema economico. Contrariamente a quanto accaduto in altri paesi avanzati, l’adozione di soluzioni Ict non ha determinato una corrispondente crescita della produttività, e tale divario rispetto al resto delle economie avanzate dimostra chiaramente un sottodimensionamento negli investimenti e nei tassi di penetrazione delle soluzioni tecnologiche. Dal punto di vista del “capitale umano”, inoltre, si possono rilevare ulteriori fragilità del sistema italiano. Valutando il numero di addetti al settore Ict rispetto al totale degli occupati nell’intera economia, si nota come l’Italia, pur collocandosi su valori simili a quelli dei principa-


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li partner europei, sconta un numero elevatissimo di piccole o micro-imprese spesso operanti in settori tradizionali a bassa intensità tecnologica. Circa la metà degli occupati è collocato in imprese con meno di 50 dipendenti mentre in paesi come Francia e Regno Unito la quota scende al 30%. A fronte di circa 87.000 imprese nel settore Ict italiano e quasi un milione di occupati, solo 20 hanno oltre 1000 dipendenti, le prime 10 hanno il 50% del mercato e le prime 50 arrivano al 90%. Si verifica quindi, contemporaneamente, grande concentrazione e grande frammentazione. Se confrontiamo la crescita dell’Ict in Italia con i dati analoghi a livello mondiale, possiamo osservare come la spesa Ict abbia un enorme ritardo rispetto ai livelli medi raggiunti oltre confine, tuttavia a partire dal 2004 si è verificata una crescita sostenuta che ha garantito una progressiva attenuazione del divario passando dal –5,8% del 2003 al –4,2% nel 2006. I settori più vivaci sono legati ai consumatori, ai cittadini, agli enti territoriali e ai nuovi servizi, ove sono richieste nuove applicazioni per soddisfare le esigenze emergenti e utilizzare al meglio le nuove infrastrutture Tlc (fisse e mobili). La classica giustificazione del ritardo italiano, attribuita al basso livello di spesa Ict da parte delle piccole imprese (che in Italia sono circa il 98% sul totale), non riesce tuttavia a spiegare il fenomeno nella sua interezza e parte della responsabilità dovrebbe essere ricercata anche nelle scarse capacità innovative dell’industria Ict nazionale (la quale non ha saputo rispondere con strumenti adeguati alle necessità delle Pmi italiane) e soprattutto nella frammentazione della domanda di tecnologie. In Italia l’innovazione in ambito Ict rimane relegata a pochi casi isolati e non è ancora riuscita ad assumere un ruolo strutturale nello sviluppo del paese. Dal lato della domanda ciò significa implementare soluzioni spesso poco adatte al soddisfacimento dei requisiti funzionali tipici delle Pmi italiane, rimanendo esposti a crescenti difficoltà nella competizione mondiale. È necessario riconoscere che il circolo virtuoso generato dall’innovazione tecnologica in Italia non è mai pienamente decollato e occorre ritornare a investire in modo massiccio in strumenti e strategie di ampio respiro a sostegno dell’innovazione e dell’offerta di soluzioni Ict, scommettendo sulla capacità di


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generare nuove applicazioni e soluzioni informatiche con ricadute positive intersettoriali sulla struttura produttiva nazionale e sul sistema della PA. Un miglioramento in un’ottica di semplificazione del sistema d’incentivi alla ricerca può essere un primo passo in avanti, tuttavia le analisi empiriche esistenti per altri paesi suggeriscono un limitato effetto positivo sulla propensione a innovare da un migliorato sistema di incentivi. I sovvenzionamenti si dimostrano, infatti, poco efficaci a indurre le piccole imprese a sviluppare, da sole, più innovazioni. Folksonomics: l’apporto della connettività allo sviluppo Alcuni esempi famosi di enabling technologies tra cui Bluetooth, Java, Jini e WiFi permettono di comprendere meglio la natura sistemica delle innovazioni e l’impatto che può avere l’Ict in termini di applicazioni accessibili entro e oltre i confini organizzativi. Questa natura propulsiva dell’industria Ict in quanto insieme di tecnologie “abilitanti” è oggi di grande attualità in rapporto alle politiche industriali delle nazioni, è stata più volte sottolineata anche in sede comunitaria (Aho Group Report, 2006) e costituisce l’anima del settimo programma quadro per l’innovazione secondo il quale: “Ict is the very core of the knowledge based society”. Al di là della retorica politica, tuttavia, l’industria italiana per reagire prontamente alle istanze della società, richiede un coordinamento degli investimenti per l’innovazione industriale, l’efficienza nei servizi, lo sviluppo delle Pmi, ma anche, e soprattutto, per la modernizzazione e l’integrazione dei sistemi nella PA. L’introduzione massiccia di Ict, in questo senso costituisce l’occasione per ripensare dalle fondamenta l’impianto organizzativo della pubblica amministrazione e convogliare al tempo stesso ingenti risorse sugli operatori privati di un settore chiave dell’economia quale l’industria Ict; tuttavia, senza un progetto strategico di lungo periodo che rivoluzioni l’impianto organizzativo della pubblica amministrazione, la semplice e destrutturata trasposizione di tecnologie informatiche su una macchina organizzativa obsoleta e farraginosa sortirebbe solo effetti limitati.


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Una volta spesi i fondi, si ritroverebbero inefficienze simili a quelle di partenza. Ciò che occorre è il varo di un piano strategico nazionale, per governare le opportunità legate alla modernizzazione della PA attraverso una gestione innovativa del public procurement, affrontando senza pregiudizi di dirigismo le problematiche che abbassano il livello di competitività del paese. In questo senso, affrontare le sfide connesse al digital divide e all’offerta frammentata di banda larga è un passo essenziale sulla strada dell’innovazione sistemica, poiché può consentire sia un’implementazione fruttuosa delle politiche per il sistema di servizi al cittadino, sia un rilancio dello sviluppo economico su scala nazionale. Le disuguaglianze nell’accesso e nell’utilizzo dell’informazione hanno ripercussioni sulla qualità della vita e sulle opportunità professionali e culturali, che vanno ad amplificare sul piano tecnologico i tradizionali meccanismi di stratificazione sociale. Internet come tessuto connettivo del mercato è “il” mezzo di lavoro e l’assenza di connessione conduce al sottosviluppo. Le grandi disparità nei livelli di connessione e nelle conseguenti modalità di utilizzo della rete da parte di imprese, PA e singoli cittadini determinano di conseguenza una distribuzione non uniforme dei benefici economici e sociali derivanti dalla tecnologia, consolidando pertanto disparità già esistenti. Analizzando la problematica del digital divide sul territorio italiano, si riscontra che l’assenza di un accesso veloce alla rete nella propria città o nella propria abitazione interessa tuttora circa il 20% della popolazione (Assinform, 2007), un numero importante di cittadini, piccole imprese e pubbliche amministrazioni locali. Di solito questo accade perché, soprattutto nelle piccole comunità montane, isolane o nei centri molto piccoli, i provider che offrono l’accesso a internet valutano i costi fissi legati alla copertura di zone limitate troppo elevati in rapporto al potenziale ritorno economico. Contestualizzando il problema secondo le peculiarità del tessuto sociale e imprenditoriale italiano, appare qui in tutta la sua enorme importanza il contributo della connettività verso lo sfruttamento pieno della “Long Tail” di internet anche alla luce dei recenti e radicali sviluppi in senso “social” del business in rete.


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Se fino a pochi anni fa anche per il web valeva la legge di Pareto per cui il 20% dei prodotti genererà l’80% dei fatturati, ora questo è stato smentito. È in atto una rivoluzione che grazie a bassi costi di produzione e di distribuzione dei contenuti dà ai consumatori la possibilità di scegliere e al piccolo produttore l’occasione per farsi trovare attraverso la semplice presenza in rete. Il paradigma della “Long Tail” tratteggiato da Chris Anderson, chief editor di “Wired”, osserva di fatto che, pur nella preponderanza dell’offerta sulla domanda tipica delle società postindustriali, ci troviamo a fronteggiare una paradossale scarsità di beni di consumo determinata dalla sostanziale omologazione dell’offerta, per quanto ampia, nonché dalla necessità dell’industria di produzione di focalizzare tutta l’attenzione del mercato sui prodotti in grado di generare apprezzabili margini o volumi. Se gli scaffali dei più forniti negozi non potranno mai esporre una tale massa di prodotti da soddisfare la più piccola nicchia di domanda, la distribuzione on line valorizza al contrario la dimensione aggregata di contenuti residuali, caratterizzati da bassi volumi o bassa domanda, e può rivaleggiare con la quota di mercato e i relativi margini generati dai pochi bestseller nel mainstream. Questo avviene perché la rete annulla il limite dello spazio (non c’è un limite fisico dove allocare i prodotti) e azzera quella che possiamo definire “soglia di distribuibilità” di un bene (scompaiono i vincoli che obbligano a distribuire e/o mantenere accessibili solo quei prodotti in grado di generare cospicui margini). La connettività unita alle potenzialità di Internet apre quindi innumerevoli possibilità nei confronti dei piccoli soggetti, indipendentemente dal loro peso economico in rapporto al mercato globale, e le tecnologie informatiche, unite alla virtualizzazione dello spazio fisico, giocano il ruolo principale, poiché riducono i costi di transazione e di conseguenza favoriscono l’emersione delle nicchie e l’accesso ai mercati. Sulle infrastrutture a banda larga, quelle che consentono un accesso veloce e affidabile alla rete, il messaggio è chiaro: bisogna accelerare, non solo per portare l’Italia ai livelli dei paesi Ue


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più avanzati, ma anche e soprattutto per porre fine all’attuale situazione di forte squilibrio tra le diverse aree del territorio, garantendo a tutti i soggetti l’accesso alle opportunità di sviluppo connesse alla “Long Tail” di Internet. Assodato che un’onda lunga formata da piccole quote totalizza una massa notevole (per esempio, quasi il 60% del fatturato di Amazon) e offre opportunità evidenti per il sistema economico nel suo complesso, la presenza in rete delle piccole realtà italiane assume un ruolo di primo piano ed emerge la necessità di definire in maniera chiara il ruolo strategico della connettività a banda larga in rapporto alle decisioni di politica pubblica. Al di là dei problemi pratici e dei risvolti economici, infatti, se fosse percepita come un bene essenziale e irrinunciabile, la copertura dell’intero territorio nazionale diventerebbe prioritaria sia per le imprese che per lo Stato. Il problema non riguarda soltanto zone montane irraggiungibili. Il Sud Italia è ancora in gran parte scoperto e con una realtà produttiva frazionata in piccole e medie imprese come la nostra, escludere centri abitati da diecimila abitanti significa “lasciar fuori” molte attività, PA locali e privati cittadini. Le difficoltà degli operatori associate ai costi di copertura portano a chiedersi quale debba essere il ruolo dello Stato in rapporto a un fenomeno critico per la competitività del paese. Prima riflessione: è ipotizzabile un ruolo attivo dello Stato attraverso una gestione strategica del Ptp? Seconda riflessione: è possibile escludere una porzione di società da un servizio se questo servizio è essenziale? Terza riflessione: possiamo affermare che la banda larga rappresenta oggi un servizio essenziale per lo sviluppo del paese? In economia, un fallimento del mercato è una situazione in cui i mercati non organizzano la produzione in maniera efficiente, o non allocano efficientemente beni e servizi ai consumatori. Come ci si potrebbe aspettare, il tema dei fallimenti del mercato, soprattutto con riferimento ai cosiddetti monopoli naturali, è fonte di un vivace dibattito tra diverse scuole di pensiero. Il termine si riferisce normalmente a situazioni in cui l’inefficienza risultante è notevole, o quando istituzioni esterne al mercato potrebbero essere impiegate per raggiungere un risultato preferibile. Nel linguaggio di tutti i giorni, d’altra parte, esso è impro-


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priamente utilizzato per designare situazioni in cui le forze di mercato non appaiono servire ciò che è percepito come “interesse pubblico”. Gli economisti della scuola della“Public Choice (Buchanan e Tullock, 1962) affermano che il fallimento del mercato non implica necessariamente l’esigenza o l’opportunità dell’intervento dello Stato, in quanto i costi legati a potenziali fallimenti del governo potrebbero superare quelli legati al fallimento del mercato che si cerca di regolare. In alternativa, si argomenta che i risultati definiti “fallimenti del mercato” non sarebbero in realtà tali, in quanto condizioni che molti considererebbero negative sono spesso viste come effetti della distorsione delle forze del mercato da parte dell’intervento dello Stato. Numerosi oppositori all’intervento pubblico, inoltre, affermano che in molti mercati la riduzione dei costi di transazione associata al progresso tecnologico e le economie di scala derivanti dalla virtualizzazione riescono da sole a minimizzare l’incidenza dei fallimenti di mercato. Per quanto ci riguarda, e con riferimento alle reti di comunicazione, ci sentiamo di dissentire, almeno in parte, da queste osservazioni. Questo perché, nonostante l’innovazione tecnologica abbia mitigato le determinanti di alcuni monopoli naturali (i.e. e-mail VS servizi postali), la maggior parte dei servizi di pubblica utilità (elettricità, gas, telefonia ecc.) rimane tuttora caratterizzata da alti costi fissi e bassi costi marginali. È molto costoso fondare una nuova rete di telecomunicazioni, ma relativamente economico gestirla. Pertanto l’intensità di uno specifico fallimento di mercato dipende da molteplici fattori e risulta più marcata in relazione alle modalità competitive del settore Ict, con amplificazione nelle aree in maggiore ritardo di sviluppo. Secondo Joseph Stiglitz, analizzando le determinanti del digital divide come ostacoli all’esistenza del mercato, il problema più rilevante appare la necessità di connettere i nodi periferici, stimolando l’offerta di connettività in maniera da garantire l’esistenza e il funzionamento del mercato laddove gli operatori di telecomunicazioni non riescono a far fronte ai margini ristretti o negativi legati ai costi fissi delle infrastrutture. In conclusione quindi, fatta salva l’importanza della variabile tecnologica per ridurre i costi fissi nel contesto di riferimen-


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to, si segnala l’esigenza di politiche di Ptp orientate alla creazione di un backbone nazionale, intendendo la connettività come servizio pubblico a sostegno della diffusione di conoscenza e innovazione. Dal punto di vista delle soluzioni possibili, in meno di una decade dal suo debutto come tecnologia commerciale per accesso ad aree limitate, il Wi-Fi si ripresenta ora, sotto il concetto di Wi-Fi mesh network (architettura mobile tesa a aggregare isole di access points Wi-Fi), come valida alternativa al broad band access di tipo terrestre. Dispiegati in misura di alcune decine e interconnessi tra loro, mesh di Wi-Fi possono offrire copertura ad aree quali quelle di un paese o di una piccola città, ma dispiegati in misura di centinaia o migliaia, mesh di Wi-Fi possono offrire copertura a intere metropoli (si vedano i casi di studio di Philadelphia e San Francisco negli Usa). Inoltre la tecnologia mesh è poco costosa, scalabile e inoltre, tecnicamente parlando, consente di mantenere sotto una soglia minima i livelli di fuori servizio. Da considerare per il broad band access è anche WiMax. Al di là della tipica idea di utilizzare la tecnologia WiMax per raggiungere siti con asperità geografiche in alternativa al satellite, in un certo senso, è la stessa emergenza di Wi-Fi mesh network che apre le porte a eventuali implementazioni WiMax. Mentre le Wi-Fi mesh, infatti, incrementano la proliferazione dell’accesso alla banda larga con mobilità, WiMax può essere usato come aggregatore di topologie Wi-Fi mesh e hotspot, con utenti Wi-Fi nel backend. In definitiva, i benefici ottenibili dalla combinazione delle due tecnologie sono: soluzioni realmente efficaci in termini di costo e performance veramente considerevoli sull’ultimo miglio. In Italia, sembrano ormai superati gli ostacoli per l’assegnazione delle frequenze e gli sviluppi recenti in chiave regolamentare fanno ben sperare nell’ottica di un’effettiva implementazione sul territorio di queste tecnologie. Nell’ottobre 2007 l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha intrapreso la procedura d’asta per l’assegnazione di licenze nelle bande di frequenza 3,4 - 3,6 GHz. Nella seconda metà di gennaio 2008, verranno battute 35 licenze in totale, ma suddivise in categorie diverse: per 14 autorizzazioni all’esercizio del WiMax potranno concorrere tutti, altre 21 licenze, invece, saranno aggiudicate su base regionale e saranno destinate a “nuo-


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vi entranti”, cioè a società che non siano già attive nella larga banda mobile attraverso il protocollo Umts. Per ciascuna regione italiana e le province autonome di Trento e Bolzano saranno assegnate fino a 2 licenze (in un blocco pari a 7 MHz per ciascuna parte dello spettro accoppiato) e ulteriori 2 licenze saranno assegnate su base provinciale. In ogni caso, a uno stesso soggetto sarà assegnata una sola licenza per area di estensione geografica, ma non è escluso un network nazionale se un gruppo riuscirà a vincere un’autorizzazione per ognuna delle 7 macroaree. Al fine di garantire condizioni di effettiva concorrenza per le società aggiudicatarie che non possiedano potere di mercato sulle reti fisse, l’Autorità ha stabilito (delibera n. 400/01/CONS del 10 ottobre 2001) che gli operatori con notevole forza di mercato non possano avviare alcun servizio commerciale che utilizzi le frequenze in questione per almeno 24 mesi dal conseguimento della licenza. La base d’asta decisa è di 45 milioni di euro, ragion per cui l’introito ipotizzabile per le casse dello Stato non è paragonabile con le alte cifre raggiunte in ambito Umts. Le licenze WiMax avranno una durata di 15 anni e, secondo un principio di neutralità tecnologica, non ci sarà limite all’utilizzo finale. Il WiMax consentirà, infatti, due tipi di impiego: connessioni fisse e mobili. Dal punto di vista dell’impatto sulla collettività, la normativa prevede che entro 24 mesi dal rilascio della licenza, i licenziatari implementino una rete radio a banda larga punto-multipunto in standard WiMax, garantendo la fornitura del servizio ad almeno il 60% della popolazione residente nelle aree ove siano assegnatari di frequenze. Per tutti i licenziatari vige anche l’obbligo di realizzare almeno il 25% della copertura in “aree di Digital Divide”. Riguardo alla connettività mobile, accogliendo la richiesta della Commissione europea per il riutilizzo dello spettro Gsm con tecnologia Umts (e successive evoluzioni, Hsdpa, Hsupa), l’Autorità ha aperto una consultazione pubblica dalla quale nascerà una delibera sul cosiddetto “refarming” delle frequenze 2G. Si cerca di raggiungere, nella pratica, una redistribuzione delle frequenze utilizzate, sia a 900 che a 1800 MHz, includendo anche lo spettro liberato dalla vecchia tecnologia analogica Tacs e le frequenze inutilizzate di Ipse, il quinto operatore mobi-


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le mai partito, rientrate nella disponibilità del ministero delle Comunicazioni. Innanzitutto si dovrà decidere se e come la capacità trasmissiva aggiuntiva (Tacs, Ipse e frequenze della Difesa) dovrà essere ridistribuita tra gli attuali operatori (Telecom, Vodafone, Wind e H3g) o se invece c’è spazio per una gara per un quinto operatore mobile. L’Autorità potrebbe concedere le nuove frequenze agli incumbent a fronte di un’apertura agli operatori virtuali, riducendo in tal modo le barriere all’entrata per gli operatori non strutturati (senza una rete di trasmissione proprietaria) che potranno acquistare capacità di trasmissione dagli operatori tradizionali.

Il caso Lepida La Regione Emilia-Romagna a partire dal Piano telematico regionale 2002-2005 ha avviato importanti investimenti per potenziare le infrastrutture di rete. Il progetto, in corso di realizzazione, collega tra loro la Regione, i 341 comuni, le 9 province, le 18 comunità montane, università, aziende sanitarie, ospedali e scuole favorendo la realizzazione di servizi on line per cittadini e imprese. Per l’implementazione della rete Lepida (così chiamata in onore di Marco Emilio Lepido, il console romano che nel secondo secolo a.C. realizzò la Via Emilia) sono utilizzate tre diverse tecnologie: • Fibra ottica: posata in 243 aree comunali; • Hdsl: sarà portato in 51 aree comunali; • Satellite: servirà 47 aree comunali prevalentemente montane. Il backbone in fibra di oltre 50.000 km sarà di proprietà della Regione EmiliaRomagna e delle altre pubbliche amministrazioni; gli altri enti, invece, saranno proprietari delle reti urbane (Man) necessarie al collegamento degli uffici distribuiti nelle città. Lepida è realizzata in collaborazione tra Regione Emilia-Romagna e aziende multiservizi. Queste ultime posano il tratto in fibra di proprietà della Regione e una rete complementare di ulteriori 230.000 km, che resterà di loro proprietà e attraverso cui potranno essere assicurati a cittadini e imprese servizi a banda larga.


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4.5 Verso l’e-government Facendo leva su connettività e disintermediazione delle procedure, le amministrazioni sono in grado di virtualizzare gli sportelli fisici, fornendo a cittadini e imprese nuovi e più efficienti modelli di interazione per mezzo delle tecnologie. Per e-government si intende un articolato complesso di soluzioni tecnologiche applicate alla PA, contestualmente ad azioni di business process re-enginering sul piano organizzativo. Tale strategia consentirebbe di trattare la documentazione e di gestire i back office in maniera sempre più automatizzata attraverso l’Ict, ottimizzando l’operatività degli enti, abbattendo i costi della PA e offrendo a cittadini e imprese servizi sempre più efficienti. Secondo un recente studio (Accenture Outlook, 2006) il valore creato nel settore pubblico non è confinabile al solo contenimento dei costi, ma si basa su due criteri paritari: i risultati prodotti e la riduzione di spesa. Minimizzando i costi, si cerca correttamente di fare la cosa giusta e nel modo giusto, ma le PA realmente efficienti definiscono la propria mission in base a esigenze, aspettative e percezioni degli utenti in un’ottica di creazione di valore. A questo proposito, tuttavia, le amministrazioni pubbliche di tutto il mondo si trovano spesso schiacciate tra le crescenti aspettative degli utenti e i vincoli finanziari dovuti al contenimento della spesa e, nonostante l’impegno politico per il cambiamento, molte iniziative di riforma hanno deluso le aspettative. In alcuni casi vincoli esterni, quali l’insediamento di nuove amministrazioni o lo spostamento delle priorità legislative, hanno creato ostacoli che hanno soffocato il rinnovamento. In altri, vincoli interni, quali la mancanza di competenze, la riluttanza al cambiamento, la lunghezza dei processi e l’inadeguatezza delle tecnologie hanno pregiudicato l’attuazione delle riforme innovative. Riguardo alla valutazione dei risultati degli enti pubblici e agli strumenti di benchmarking, la responsabilità purtroppo è stata a lungo confinata alla contabilità finanziaria, valutando la prestazione delle PA in termini di input e output, senza perfezionare indicatori sul valore generato per gli utenti. In realtà, il cittadino-cliente è poco interessato a quanto il governo spende per la singola procedura amministrativa, mentre è molto sensibile


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al livello di corrispondenza tra il risultato dei servizi erogati e le singole richieste specifiche. Le amministrazioni, per soddisfare i cittadini, non solo devono misurare e segnalare la spese, ma devono monitorare anche l’efficacia e l’efficienza del servizio. Tuttavia, per costruire un tale sistema di amministrazioni pubbliche orientate al servizio e alla creazione del valore, è necessario un cambiamento culturale fondamentale che introduca a tutti i livelli del sistema la consapevolezza di essere parte di un organismo complesso, che comprende e supera i semplici confini del settore pubblico, che intreccia e coltiva relazioni con altri soggetti del sistema economico. L’operatività delle imprese moderne, infatti, pubbliche o private, si sviluppa necessariamente all’interno di un ampio network di relazioni che comprende altri enti statali, soggetti politici, organizzazioni non governative, imprese private e la comunità dei cittadini. Questi elementi si influenzano reciprocamente in svariati modi – rapporti di fornitura, scambio di competenze, pressioni finanziarie e politiche –, rappresentando al tempo stesso un enorme bacino di risorse su cui far leva per il raggiungimento dei propri obiettivi. Gran parte delle amministrazioni faticano a reperire le informazioni di cui hanno bisogno per una gestione efficace; se vogliono eccellere, quindi, devono investire pesantemente sull’organizzazione e la progettazione dei processi, eliminando le funzioni che non danno alcun contributo alla missione principale, snellendo le attività operative, ridisegnando i processi e utilizzando la creativit, per stimolare attivamente la ricerca di nuovi metodi lavorativi. Le tecnologie informatiche in questo ambito possono snellire le transazioni, permettendo l’erogazione di un servizio migliore ai cittadini e agli stessi dirigenti, i quali attraverso l’Ict possono approfondire e rivedere le strategie e i metodi di servizio. Molte amministrazioni purtroppo non si sono rese conto dei benefici dell’applicazione di queste tecnologie, concentrandosi sul binomio tecnologia-procedura piuttosto che sui risultati. Per poter organizzare questo processo, sempre più complesso, di erogazione di “soluzioni per l’utente”, è spesso necessario integrare dati provenienti da fonti eterogenee tra loro, mentre molti upgrade tecnologici negli enti pubblici non sono andati di


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pari passo con una revisione dei processi, sommando alle obsolete procedure operative il mancato allineamento con i nuovi sistemi. È chiaro che la PA, declinando la tecnologia in termini di gestione delle relazioni con gli utenti, non è ancora in grado di utilizzare attivamente le informazioni sui cittadini per modellare servizi, canali e operazioni. Tale gestione attiva dei dati, che nelle imprese private è definita Crm (Customer Relationship Management), si occupa di raccogliere e analizzare le transazioni studiando i diversi segmenti di utenza, per ideare e posizionare i servizi, personalizzando i canali di erogazione e massimizzando il valore globale attraverso una forma di apprendimento bilaterale basato sulle relazioni. Le amministrazioni che mirano all’efficienza devono innanzitutto sostenere una cultura basata sull’informazione, formando il personale affinché percepisca l’importanza della qualità delle informazioni e l’effetto che queste hanno sull’erogazione e il costo del servizio. La PA deve gestire attivamente le iniziative Ict per massimizzarne il valore, selezionando i progetti attraverso un’analisi rigorosa del contributo fornito, a livello di risultati e di riduzione dei costi, ma soprattutto coordinando gli sforzi a livello nazionale, per garantire l’interoperabilità dei sistemi e superare la frammentazione delle soluzioni tecnologiche. La determinazione della priorità degli investimenti nell’Ict può essere positiva in quanto tale, ma come piano d’azione è solo un primo passo. Le vere opportunità stanno nella possibilità di creare un valore completamente nuovo per il business attraverso l’Ict. Dal punto di vista del Ptp, il finanziamento selettivo dei miglioramenti consentiti dall’Ict, giustificato da un processo rigoroso volto a comprendere le opportunità capaci di creare valore, amplia il significato strategico dell’Ict stessa. Espande inoltre la visione della politica industriale, perché permette di affrontare assieme la razionalizzazione della spesa e gli investimenti propulsivi, secondo un orientamento al mercato e al di fuori delle logiche di sovvenzionamento. La difficoltà sta nel distinguere gli investimenti essenziali da quelli inutili o controproducenti, coordinando gli sforzi verso standard tecnologici affidabili e condivisi.


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Condivisione della conoscenza: il progetto Icar La realizzazione di progetti e di servizi di e-Gov richiede la disponibilità di infrastrutture “fisiche”, per far circolare i dati, e “logiche”, per permettere il dialogo e lo scambio d’informazioni tra sistemi ed enti differenti. In sostanza, occorre individuare standard e metodologie che garantiscano la cooperazione e lo scambio in sicurezza di dati tra sistemi differenti, utilizzati da enti differenti, con funzioni eterogenee. Proprio con queste finalità è nato il progetto Icar, i cui obiettivi sono: • realizzare l’infrastruttura di base per l’interoperabilità e la cooperazione applicativa a livello interregionale; • gestire i Service Level Agreement (Sla) a livello interregionale; • realizzare un Sistema federato interregionale di autenticazione; • sviluppare case-study applicativi ai fini della sperimentazione e della dimostrazione delle funzionalità dell’infrastruttura; • realizzare interoperabilità e cooperazione applicativa in ambiti specifici. Icar propone una nuova visione di insieme sia sul tema dell’infrastruttura che su quello dei contenuti attraverso lo sforzo congiunto di Regioni e province autonome. Il progetto si articola in un insieme di interventi progettuali paralleli, coordinati e integrati fra loro: tre interventi di carattere infrastrutturale che potremmo definire di tipo orizzontale e sette interventi di tipo verticale per lo sviluppo di casi di studio applicativi. Questo perché è vero che le infrastrutture sono indispensabili per veicolare tutte le banche dati di cui le amministrazioni dispongono, ma è altrettanto vero che occorre una metodologia condivisa per conoscere come sviluppare e operare in ambito applicativo concreto. Scendendo nel dettaglio, gli interventi orizzontali a cui partecipano le amministrazioni regionali coinvolte riguardano l’infrastruttura di base per cooperazione applicativa interregionale (fisica e logica); la gestione di Sla, gli strumenti comuni per la gestione del monitoraggio dei livelli di servizio; ed infine il sistema federato di autenticazione.

4.6 Il ruolo dell’e-health Il complesso ambiente dell’assistenza sanitaria è uno dei punti centrali della politica e dell’attività di governo, in Italia e in tutte le nazioni avanzate. Dal punto di vista dei policy makers, gli obiettivi principali vanno dal controllo dei costi a un servizio ai pazienti sempre più personalizzato ed evoluto attraverso l’adozione di piattaforme e-health. Su un piano strettamente operati-


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vo, accelerare la penetrazione dell’IT nella sanità ha un ruolo fondamentale nel processo di trasformazione, ma si rende necessario un contestuale mutamento tecnologico, organizzativo e soprattutto culturale per superare il gap tra le soluzioni esistenti e le aspettative dei cittadini e degli operatori della salute. Da un lato c’è la consapevolezza che alcune tecnologie non sono più un lusso ma un asset competitivo e strategico, dall’altro si scontano investimenti in IT che sono non la metà, ma decine di volte inferiori a quelli a disposizione di altri sistemi sanitari europei e occidentali. Eppure tutti concordano nel ritenere la leva tecnologica una delle strade principali per dare al sistema sanitario la possibilità di rispondere con maggiore efficacia ed efficienza alle richieste di assistenza, di qualità, di tempestività che vengono dalla società. Non più, dunque, un’area tecnica riservata ai responsabili Ced, ma un tema di forte coinvolgimento per direttori generali e sanitari, e per il management pubblico in generale. Il Ptp in questa ottica può contribuire in modo determinante a vincere la sfida, sostenendo gli operatori della salute con infrastrutture adeguatamente selezionate, incentivando l’offerta di soluzioni innovative e favorendo implementazioni su vasta scala di tecnologie avanzate applicate alla sanità, con ripercussioni positive sul sistema economico in generale, in termini di apprendimento e scambio di conoscenza tra acquirenti e fornitori. Se combinato con l’esigenza di politiche orientate al change management il potenziale dell’e-health può condurre a cambiamenti tecnologico-organizzativi che, oltre a ridurre i costi vivi del sistema sanitario, garantiscono la creazione di un sistema cittadino-centrico in grado di ridistribuire il contributo marginale dei miglioramenti soprattutto sulle classi più deboli. Affrontando il problema su scala europea, inoltre, si potrebbe far leva su effetti di scala sia dal punto di vista dell’adozione di standard comuni sia da quello della customizzazione secondo le specificità locali e le esigenze multiculturali dovute ai flussi migratori. Secondo i dati dell’Ue, oggi almeno quattro medici su cinque in Europa sono regolarmente connessi a Internet e il 25% degli europei è abituato ad accedere al web per trovare risposte alle proprie domande riguardo ai problemi di salute. Ci sono numerosi esempi di successo riguardo all’implementazio-


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ne di piattaforme Ict su scala continentale (health information networks, telemedicina, portali dedicati ecc.), tuttavia il potenziale insito nella connettività standardizzata attraverso i protocolli internet è ancora tutto da sfruttare. Nel corso degli anni numerosi programmi di ricerca europei hanno erogato risorse a progetti di e-health per un co-finanziamento complessivo di 500 milioni di euro all’inizio degli anni Novanta. Molti di quei progetti sono stati concretizzati trasferendo l’innovazione nelle strutture sanitarie, e numerosi altri continuano a essere finanziati e sviluppati consentendo all’Europa da un lato di mantenere un ruolo di primo piano nell’ambito delle applicazioni digitali per la sanità (cartella clinica digitale, smart card ecc.), dall’altro di fertilizzare un vivace ecosistema di nuove imprese operanti nei segmenti e-health e Ict. Sempre secondo i dati comunitari, il settore e-health, tuttora in espansione, ha le carte in regola per diventare una delle tre maggiori industrie del comparto sanità con un turnover di 11 miliardi di euro e una quota di mercato potenziale per il 2010 stimata in circa il 5% del budget complessivo per la sanità in Europa. Attualmente l’industria e-health europea, principalmente composta da Pmi, gode di un vantaggio competitivo nei confronti dei competitors a livello globale; tuttavia i potenziali di crescita per il futuro sono strettamente legati alle decisioni di policy a livello comunitario riguardo alla creazione di un mercato reattivo verso prodotti e servizi innovativi. Focalizzandoci sul mercato italiano, la situazione attuale dell’Ict in sanità risente di alcuni aspetti critici che, nell’arco del tempo, ne hanno condizionato lo sviluppo e l’evoluzione. Mentre nel passato la situazione si è determinata più per motivi organizzativi e culturali che per problemi di risorse, oggi il crescente costo della sanità e il suo impatto sul bilancio del paese riducono le risorse che possono essere destinate alle tecnologie in genere e in particolare all’Ict. L’assenza di politiche coordinate di Ptp, unita all’esiguità della domanda, sia in termini economici, sia funzionali, ha influenzato l’offerta e le strategie dei fornitori, limitandone la capacità d’investimento per lo sviluppo di nuove soluzioni; di fronte a un numero ridotto di clienti, queste sono state realizzate come progetti isolati e non pensate come prodotti industriali.


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La complessa organizzazione delle aziende sanitarie, articolata in un elevato numero di dipartimenti, unità operative, reparti e servizi, spesso dotati di ampia autonomia decisionale, ha frammentato la domanda in tante richieste, alcune molto specialistiche e particolari, dividendo la già esigua capacità di spesa in tanti rivoli. La frammentazione a sua volta ha determinato una proliferazione di sistemi informativi estremamente difformi sia in termini architetturali (piattaforme hardware, tecnologie software e reti), sia in termini applicativi e funzionali (interfacce, comandi e processi), con un effetto aggregato sul sistema sanitario nel suo complesso in termini di incomunicabilità e futuri costi per integrazione. In aggiunta a una situazione non rosea, si sta affermando, inoltre, un approccio federalista alla sanità, che si esplicita in una sempre maggiore differenziazione sul territorio dei processi e dei flussi amministrativi. Questa scelta ha avuto un importante impatto sui fornitori di soluzioni Ict e, di conseguenza, sui loro utenti, che devono dedicare sempre più risorse per lo sviluppo e la manutenzione dei programmi per la gestione amministrativa e sanitaria senza poter raggiungere nessun tipo di economia di scala a causa delle dimensioni regionali delle singole iniziative. L’approccio tradizionale e parcellizzato che vede i singoli fornitori ricercare, sviluppare, distribuire e implementare le proprie soluzioni mostra, ogni giorno di più, i propri limiti. Gli investimenti necessari per sviluppare sia il livello di base del software sia il livello applicativo sono incompatibili con i profitti attuali e futuri. La situazione è insostenibile anche per aziende dotate di un consistente portafoglio clienti e di un’articolata struttura commerciale. Nonostante le problematiche appena descritte, lentamente si sta diffondendo anche in Italia una consapevolezza crescente riguardo alle soluzioni e-health e la domanda si sposta verso implementazioni via via più sofisticate nelle quali integrazione, interoperabilità e condivisione dei dati diventano sempre più importanti. Si fa sentire l’esigenza di soluzioni fruibili non soltanto nei tradizionali ambiti operativi, ma anche in un contesto allargato nel quale rientrano i medici di famiglia, le farmacie, gli operatori sociosanitari e i pazienti stessi.


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Questo fenomeno è destinato a rafforzarsi nel breve futuro con l’affermarsi di nuovi modelli e richieste del mercato, come il fascicolo sanitario in rete (Ehr), la continuità di cura, la deospedalizzazione e l’assistenza domiciliare. L’e-health ha una serie importante di ricadute per il settore Ict. La necessità di scambiare e condividere informazioni cliniche implica, prima di tutto, la capacità di raccogliere, collegare e standardizzare tutti i documenti prodotti all’interno delle aziende sanitarie, razionalizzando e organizzando tutti i flussi informatici, eliminando la carta grazie a infrastrutture di knowledge management per archiviare, ricercare e condividere i documenti e creando un network attivo tra dipartimenti e singoli all’interno delle aziende dalla sanità. Il passo immediatamente successivo prevede la creazione delle infrastrutture di collegamento tra i processi sanitari interni alle aziende e il mondo esterno, coadiuvando la continuità di cura con un flusso ininterrotto d’informazioni, rendendo accessibili dall’esterno alcuni processi aziendali con un’architettura orientata ai servizi (Soa - Service Oriented Architecture), così da consentire, per esempio, non solo la prenotazione via web, ma anche la condivisione delle risorse in ambiti locali o regionali, come nel caso dei Cup, oppure l’accesso alla cartella clinica del paziente da parte del medico di famiglia. System & business integration per la sanità: il ruolo degli operatori Ict Dal punto di vista tecnologico il paese ha bisogno di perfezionare l’informatica sanitaria attraverso architetture coerenti con i nuovi modelli, ma soprattutto occorre un chiaro commitment da parte delle istituzioni e un forte coordinamento a livello nazionale. Perseguire una visione integrata e un approccio sistematico all’IT attraverso il Ptp è l’unica via che permette di ottenere economie di scala e interoperabilità dei sistemi. Negli ultimi anni, infatti, uno dei fattori chiave del successo della tecnologia è il pieno supporto ai principali standard informatici per garantire la massima apertura e interoperabilità. L’architettura service oriented in questo senso è una visione caratterizzata da una particolare spinta verso l’integrazione,


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esemplificata dall’uso di Xml come fondamentale meccanismo per la strutturazione e la distribuzione delle informazioni come “servizio”. Health Level Seven (HL7), ad esempio, è un organismo internazionale che punta a sviluppare il futuro standard, basato su Xml per la condivisione, la gestione e l’integrazione dei dati in supporto al trattamento clinico del paziente e per la gestione, l’erogazione e la valutazione dei servizi sanitari. È probabilmente lo standard per la comunicazione di messaggi più diffuso al mondo nel settore dell’Ict in sanità. È stato sviluppato inizialmente per il sistema sanitario degli Stati Uniti e ha accumulato una notevole esperienza nell’utilizzo quotidiano nella maggior parte degli ospedali e il suo sviluppo ormai coinvolge l’intera comunità internazionale. HL7 ambisce a diventare il linguaggio utilizzato per costruire le cartelle cliniche digitali e mettere in relazione diretta le applicazioni e i servizi che assicurano la presa in carico e la gestione, anche amministrativa, dei pazienti e più in generale di tutti i soggetti del sistema sanitario informatizzato. Al centro dei benefici connessi con l’e-health c’è una fitta ragnatela di rapporti tra gli operatori della salute e tra questi e i pazienti attraverso un’offerta di servizi che dovranno essere sempre più ricchi e personalizzati, utilizzando tutti i canali disponibili: dagli sportelli fisici per le prenotazioni ai pc dei pazienti, sfruttando anche la convergenza in atto tra laptop e telefoni cellulari di prossima generazione. L’integrazione delle informazioni e dei processi deve essere sempre più realizzata attraverso la rete, connettendo sistemi informativi eterogenei mediante standard condivisi e permettendo a differenti programmi e procedure informatiche di scambiarsi dati in un linguaggio comune. Questo d’altronde è lo scenario dominante nel mercato, in tutti i settori si sviluppano strategie di system & business integration che l’industria IT sta indirizzando attraverso i web service. La forte eterogeneità dei sistemi informativi esistenti, infatti, ha posto le condizioni per l’ascesa di componenti applicativi programmabili, accessibili per mezzo di protocolli standard e destinati ad assicurare l’interazione delle applicazioni, dei servizi e dei dispositivi di accesso tramite interfacce standard.


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Le architetture service oriented rappresentano una risposta concreta alle esigenze di cooperazione applicativa caratteristiche del settore sanitario: interoperabilità delle applicazioni indipendentemente dalla piattaforma su cui sono realizzati i servizi, integrazione a basso costo con i sistemi esistenti e adozione di standard aperti per gli strumenti e per le policy di sicurezza. Inoltre, favorendo l’aggregazione dei servizi prodotti da amministrazioni diverse, le strutture sanitarie possono integrare i sistemi legacy esistenti, realizzare nuovi servizi ed erogarli via web alle altre amministrazioni e ai cittadini. Fortunatamente si stanno diffondendo, anche in Italia, linguaggi e protocolli per semplificare e standardizzare lo scambio di dati sanitari sia amministrativi, sia clinici, come HL7, Dicom e Ihe, tuttavia su questo fronte si ripropone in tutta la sua criticità la necessità di coordinamento e indirizzo strategico degli investimenti in Ict. Senza un ruolo forte dello Stato, attraverso politiche di Ptp, superare l’attuale frammentazione dei sistemi informativi sanitari sarà un percorso lento, difficile e costoso. In quest’ottica una strategia integrata per l’Ict in sanità a livello nazionale, mirata a coordinare la domanda frammentata a livello locale verso standard implementativi di provata efficacia, costituirebbe un gioco win-win con benefici evidenti per tutti gli attori coinvolti.

4.7 Il ruolo della domanda militare Un ulteriore ambito nel quale storicamente il public procurement ha svolto un ruolo d’indirizzo dell’attività di ricerca è quello della Difesa. Non esiste nessun altro settore della ricerca scientifica nei paesi più industrializzati in cui l’intervento statale abbia peso maggiore. Gli effetti della ricerca bellica sono peraltro molteplici ed è particolarmente significativo il loro impatto sull’economia e il loro effetto sull’innovazione tecnologica e quindi sull’aumento della produttività in molti settori correlati. Per quanto riguarda la realtà italiana manca uno studio organico in merito alle relazioni intercorse tra ricerca militare e sviluppo tecnologico civile, tuttavia sarebbe un errore considerare il valore della ricerca militare limitatamente all’output dell’industria bellica dal momento che, nel medio-lungo periodo, il feno-


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meno è permeabile nei confronti del sistema economico nel suo complesso e genera importanti ricadute per la ricerca di base civile e il miglioramento dell’innovazione nelle imprese. Analizzando il fenomeno a un livello macro anche alla luce delle consolidate iniziative statunitensi è più facile comprenderne la portata. Nel corso degli ultimi cinquant’anni il Pentagono ha finanziato le ricerche di circa il 58% dei premi Nobel per la chimica e del 43% dei laureati in fisica, mentre istituzioni di ricerca bellica come il Darpa continuano a sovvenzionare molti dei progetti di ricerca più avanzati della società contemporanea come il famoso Grand Challenge Race, che si propone l’obiettivo di accelerare lo sviluppo di sistemi di guida robotizzati per veicoli completamente autonomi. Ciò riflette il ruolo duale della ricerca bellica quale motore per gli avanzamenti nazionali nell’innovazione e strumento di competizione mondiale per la supremazia tecnologica. Si tratta in sintesi di un “motore pubblico per l’innovazione”, che in Europa, nonostante le spinte verso l’aggregazione del public procurement militare su scala comunitaria, non ha ancora trovato un corrispettivo. Chiaramente il focus attuale degli investimenti pubblici europei è sulla ricerca di base e l’Ict, con possibili risvolti a lungo termine per l’innovazione della Pmi e l’anticipazione dei bisogni futuri, tuttavia non dobbiamo dimenticare le esperienze degli Stati Uniti, che rivelano come il nucleo dello sforzo federale non vive nell’Nsf (National Science Foundation) e negli altri istituti tecnologici (Nist, Acp), ma è costituito da un solido gruppo di iniziative mission oriented finanziate in gran parte dal budget per la sanità e da quello militare. Una recente ricerca (Bozeman e Dietz, 2001), che ha cercato di valutare l’impegno in ricerca militare degli Stati Uniti durante il periodo di minor espansione della spesa bellica, ha evidenziato che il settore Difesa erogava i 3/4 delle risorse federali per la ricerca industriale, la metà dei finanziamenti dei laboratori federali ed era fra i tre maggiori sostenitori delle università. Queste cifre sono sufficienti per dimostrare la predominanza e gli effetti della ricerca militare in ambito civile, di cui il precursore di Internet, Arpanet, è il simbolo più noto all’opinione pubblica. Oggi gli Usa da soli contribuiscono per oltre il 75% alla ricerca militare dei paesi dell’Ocse. Ne consegue che, fuori dai natu-


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rali contrasti di tipo ideologico, è lecito interrogarsi in merito al ruolo dei paesi europei in quest’ambito, così da comprendere gli effetti di una spesa militare frammentata tra i singoli Stati e valutare l’opportunità di costituire un “motore europeo” per l’innovazione. Vale la pena di coordinare gli investimenti militari e i fondi per la ricerca bellica dei singoli membri in un’unica politica integrata a livello comunitario? Dovremmo seguire l’esempio degli Usa e sviluppare un’incisiva politica europea riguardo alla ricerca militare? La prima domanda ci chiede di considerare il modo in cui la scienza e la tecnologia vengono prodotte. È comune attribuire un ruolo importante alla domanda pubblica dei governi in relazione allo sviluppo economico dei decenni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. I grandi programmi (militari in Usa, soprattutto civili in Europa) sono stati tradizionalmente considerati di importanza fondamentale nello sviluppo di innovazioni radicali. Per questo motivo, il coordinamento degli investimenti su vasta scala può rappresentare una decisione positiva e coerente con il resto delle politiche per lo sviluppo dell’innovazione che si attivano per mezzo di programmi quadro a livello comunitario. Cercare risposte alla seconda domanda è più complesso. In prima istanza si presta a facili strumentalizzazioni ideologiche, ma soprattutto implica una difficile rimodulazione di obiettivi e risorse nel budget comunitario per la ricerca e comporta sforzi enormi nell’ambito del processo d’integrazione delle politiche militari.

4.8 Public technology procurement e risvolti organizzativi Alcune iniziative dello Stato centrale tentano di rispondere alle richieste d’investimenti a favore dell’innovazione da parte delle associazioni di imprese Ict, attraverso investimenti mirati e distribuiti a tutti i livelli della pubblica amministrazione, destinati a impattare sull’operatività, la trasparenza e l’offerta di servizi al cittadino ma anche a causare una rivoluzione culturale adeguata alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie.


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Nel macromodello organizzativo che prevedibilmente prevarrà in ambito pubblico, un ruolo importante verrà giocato dalla condivisione di soluzioni, sia dal punto di vista organizzativo che strettamente tecnologico, al fine di ottimizzare le risorse disponibili, ma anche per generare valore aggiunto, con la creazione progressiva di comunità professionali in tema di Ptp. Il crescente uso di soluzioni tecnologiche aperte, inoltre, consentirà l’operatività del già annunciato Portale della PA, una sorta di marketplace riservato agli applicativi open source interamente dedicato a rendere noti e condividere i progetti in essere nelle diverse amministrazioni, per generare massa critica ed economie di scala, diffondendo rapidamente le soluzioni migliori e facilitando l’adozione di standard comuni su scala nazionale. Unitamente alla condivisione delle best practices, un’altra prospettiva innovativa si propone di mettere in condivisione i processi di servizio, superando la tradizionale frammentazione e le barriere interne alle amministrazioni attraverso i cosiddetti “Shared Services”, intesi come condivisione di processi e servizi comuni a più amministrazioni o unità organizzative attraverso le tecnologie Ict. Si tratta di un nuovo modello organizzativo, basato sull’erogazione comune a più amministrazioni dei servizi di back-office, che consente di ridurre drasticamente i costi di funzionamento della PA, tagliare inefficienze e funzioni ridondanti, concentrare risorse su servizi e funzioni core e standardizzare processi e tecnologie. Tale approccio alla riorganizzazione della PA richiede certamente un cambio di paradigma, ma offre un’effettiva opportunità per re-ingegnerizzare e semplificare i processi di servizio, migliorando l’efficienza complessiva del sistema amministrativo a favore di una migliore erogazione dei servizi al cittadino. Il Codice della PA digitale, a tal proposito, favorisce la condivisione, riprendendo alcune norme preesistenti, come quelle contenute nella legge 340/2000. Esso stabilisce, ad esempio, che le pubbliche amministrazioni titolari di programmi applicativi realizzati su commessa pubblica hanno obbligo di concederli in formato sorgente, completi della documentazione disponibile, in uso gratuito ad altre amministrazioni che li richiedono e che intendano adattarli alle proprie esigenze.


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Intesa come parte essenziale del servizio pubblico, la tecnologia deve essere concepita, attraverso un radicale salto culturale, come strumento per favorire e misurare il risanamento della PA, perché implementazioni in “via sperimentale” di servizi ad alto contenuto di Ict non hanno più senso, devono diventare la prassi ed entrare a far parte dell’operatività ordinaria, mettendo al centro la tecnologia per obiettivi primari, come il controllo dei flussi finanziari, la trasparenza amministrativa e la personalizzazione del servizio. La PA dovrà essere intesa come un grande sistema di comunicazione e le attuali procedure dovranno migrare massicciamente su nuove piattaforme tecnologiche. L’architettura di base deve essere indirizzata all’integrazione tra le grandi anagrafi del paese, sollecitando le singole amministrazioni ad abbandonare la cultura del “possesso” dei dati dell’utente in favore di quella dell’accesso, i dati sono del cittadino e devono essere facilmente accessibili alle altre amministrazioni e a tutti i soggetti che ne hanno diritto. In questo senso il problema non sono mai le tecnologie – l’interoperabilità tra i sistemi è facilmente raggiungibile –, il vincolo più complesso rimane di origine culturale. A tal proposito il Codice della PA digitale rende esplicito il collegamento tra informatizzazione e riorganizzazione, legando, in particolare, l’uso delle nuove tecnologie a un approccio orientato all’efficacia dell’azione amministrativa. Sinora ha prevalso proprio la tendenza contraria, quella di considerare in maniera separata le questioni tecnologiche e quelle organizzative. Abbiamo scontato e continuiamo a scontare un diffuso atteggiamento di scetticismo, quando non addirittura di diffidenza, nei confronti del cambiamento e della tecnologia a esso associata. Per quanto importante sia l’investimento in innovazione, l’idea di una cultura dell’innovazione è probabilmente una delle cose più difficili da costruire. Partnership: il ruolo della collaborazione Il ruolo di traino della domanda di Ict è attualmente molto condizionato da quella pubblica, spesso ripiegata su sé stessa in un circolo assai poco virtuoso, ristretto al binomio Stato-


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cliente e fornitore di sé stesso che non riesce a sfruttare appieno le potenzialità offerte da relazioni di partnership pubblicoprivato. Un’evoluzione in senso cooperativo garantirebbe di poter individuare aree e progetti specifici per periodi anche limitati, facendo fronte a un contesto fortemente caratterizzato dal cambiamento tecnologico. Le aziende innovative, infatti, progettano le strutture in modo che siano flessibili e creano programmi pilota per testare nuove idee e progetti. A livello strutturale sono spesso decentrate, istituiscono rapporti di partnership con privati e consentono ai dipendenti a ogni livello di assumersi personalmente la responsabilità dei processi e delle attività che li interessano, stimolando in tal modo la cultura dell’imprenditorialità. Se l’obiettivo è costruire amministrazioni pubbliche innovative e di successo, tuttavia, l’individuazione di potenziali partner è solo il primo passo verso la creazione di valore. Le PA devono necessariamente articolare il valore strategico della cooperazione e fare in modo che sia complementare al modello operativo, migliorando il proprio funzionamento e adeguandosi nel tempo all’evoluzione dei rapporti. La formula del partenariato pubblico-privato ha caratterizzato lo sviluppo di alcuni casi di successo a livello locale, legati alla necessità di poter disporre di competenze adeguate e al grado di efficienza più facilmente assicurato da attori operanti sul mercato. Tale strada inoltre appare percorribile anche attraverso la creazione di società strumentali dedicate all’erogazione e manutenzione di servizi particolari. Questo soprattutto per garantire il superamento delle problematiche connesse a una struttura complessa, a esclusivo controllo pubblico, completa di tutte le professionalità necessarie, e per ragioni legate alla sostenibilità economica e al rischio di duplicazione inefficiente di competenze a costi non competitivi. Le partnership possono assumere svariate forme, dalla collaborazione con fornitori privati e appaltatori di servizi, fino alla cooperazione con altri enti pubblici, nel quadro di progetti multifunzionali. L’abbattimento delle barriere tra i diversi enti inoltre permetterebbe di estenderne la portata nonché di ridurne i costi. Ciò che è stato ampiamente dimostrato in ambito privato è che le aziende ad alte per-


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formance individuano e attirano partner provenienti da svariati settori con cui operano per incrementare il valore prodotto per il pubblico.

4.9 Conclusioni La normativa attuale in merito al public procurement non rappresenta adeguatamente le implicazioni sistemiche delle tecnologie digitali e costituisce un ostacolo verso l’utilizzo della domanda pubblica di Ict in chiave strategica. Il Public Technology Procurement è un soggetto relativamente trascurato nella letteratura economica e parallelamente le criticità comunemente associate a misure supply-side in regime di libero mercato hanno condotto i decisori a evitare questo strumento di politica per l’innovazione. In Italia, sul solco della normativa comunitaria, è stata perseguita una generale standardizzazione dei processi d’acquisto da parte della PA al fine di garantire trasparenza e imparzialità, evitando distorsioni e sovvenzionamenti discriminatori verso privati da parte delle commesse pubbliche. Nello specifico, tuttavia, la domanda pubblica italiana rimane associata a una dimensione di inefficienza, nel quadro di una regolamentazione essenzialmente orientata al contenimento dei costi per mezzo di regimi d’asta competitiva. Per contro, le dinamiche alla base del Ptp superano i classici criteri d’approvvigionamento di commodities, mentre la comprensione delle conseguenze associate alle diverse alternative tecnologiche richiede un approccio sistemico in una prospettiva di Total Cost of Ownership. Il Ptp, al di là degli aspetti quantitativi, va inteso come “condivisione di conoscenza guidata dalle istituzioni”, ed è proprio in tale prospettiva che le risorse investite in tecnologia diventano uno strumento di politica industriale. Da un lato nelle vesti di sostegno all’offerta di Ict, dall’altro come impulso alla creazione d’innovazione. In Europa negli ultimi anni si è verificato un graduale risveglio dell’attenzione verso politiche market driven a sostegno dell’innovazione, viste come strategie concrete per cogliere e andare oltre i meccanismi d’asta del public procurement. L’obiettivo diventa una spesa pubblica orientata alla


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creazione di valore anziché una semplice politica dei tagli. Si scopre, in altre parole, che il vero elemento di differenziazione della performance di un paese non è tanto la riduzione della spesa totale per gli apparati della pubblica amministrazione, quanto l’allocazione efficiente delle risorse a favore di miglioramenti della competitività del sistema guidati dall’Ict. L’Italia deve passare ad azioni concrete nel quadro di interventi coordinati, su scala nazionale e comunitaria. È necessario sfruttare il peso economico della PA per trasformare la domanda pubblica in un motore di crescita per il paese, convogliando le risorse verso alcune principali direttive strategiche, nel rispetto delle normative su trasparenza e concorrenza, in un’ottica di impulso alla nascita di innovazione.


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5. I capitali per l’innovazione di Mario Calderini e Marco Nicolai

5.1 Introduzione La capacità di innovazione di un sistema economico risulta strettamente interconnessa sia alle risorse imprenditoriali del sistema medesimo, sia all’effettiva disponibilità di adeguate risorse finanziarie. Le imprese ad alto contenuto tecnologico, che per propria natura sono fortemente innovative, presentano delle caratteristiche e dei fabbisogni specifici che richiedono un sistema finanziario adeguato a supportarle. La dimensione locale del sistema finanziario assume, dunque, un’importanza rilevante per la nascita e lo sviluppo di iniziative imprenditoriali “innovative”. Il presente capitolo si pone come obiettivi descrivere le problematiche relative al finanziamento delle attività imprenditoriali innovative, fornire un quadro degli interventi di sostegno sperimentati in diversi contesti nazionali e locali, e discutere delle misure di intervento maggiormente rispondenti ai fabbisogni espressi dal sistema produttivo italiano.

5.2 I capitali per l’innovazione Le ragioni della difficoltà nel reperimento di risorse finanziarie per gli scopi innanzi citati sono da ricercare nella natura stessa delle imprese innovative. L’“innovazione” di un’impresa deriva anche dalla capacità informativa e quindi dalla sua capacità di sviluppare interazioni strategiche con potenziali finanziatori. Il fallimento di questa interazione porta alla non concretizzazione


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del finanziamento oggetto della transazione. Le difficoltà nel condurre con successo interazioni o transazioni strategiche, e quindi di accedere a finanziamenti, sono ancora più accentuate nel caso di investimenti per innovazione rispetto ad investimenti generici in attività produttive, in quanto i primi sono di più complessa valutazione. In tale contesto, è ragionevole pensare che il finanziamento delle imprese innovative avvenga non solo con l’autofinanziamento e il credito bancario, ma anche coinvolgendo altri operatori finanziari, con esiti tuttavia molto eterogenei. Tra questi operatori, grande importanza rivestono i venture capitalist nel finanziare imprese del segmento dell’early stage. In Italia, tuttavia, popolata prevalentemente da piccole e medie imprese a forte valenza locale e con assetti manageriali ancora largamente inadeguati a instaurare rapporti con il grande capitale internazionale, dati il numero ridotto di imprese quotate e l’esiguità del mercato italiano del capitale di rischio (sia per raccolta sia per investimenti), le fonti esterne di finanziamento afferiscono quasi esclusivamente al settore bancario. Per quanto riguarda la raccolta di capitale di rischio, il valore nel mondo ha fatto registrare, nel 2004, un andamento decisamente positivo, con ben 138 miliardi di dollari raccolti, rappresentanti il 60% in più rispetto al 2003; in Europa, nel 2005, sono stati raccolti 71,8 miliardi di euro, oltre il 160% in più rispetto al 2004 (36,9 miliardi di euro). A fronte di ciò, l’Italia mostra una netta controtendenza: 1,3 miliardi di euro raccolti nel 2005, con un decremento del 20% rispetto al 2004. I dati relativi agli investimenti in capitale di rischio confermano tale trend. Si rileva a livello mondiale, un andamento sostanzialmente stabile degli investimenti (110 miliardi di dollari, il 4% in meno rispetto al 2003) e un trend in forte crescita a livello europeo (raggiungimento della cifra record di 47 miliardi di euro, il 27% in più rispetto al 2004). Al contrario, l’Italia si accontenta di una performance modesta, mantenendo inoltre invariato il trend rispetto all’anno precedente (2 miliardi di euro circa). Concentrando l’analisi sul segmento dell’early stage, ovvero agli investimenti in imprese in fase di avvio e in successiva fase di start-up, si osserva che il gap italiano risulta ancora più marcato. Nonostante l’incidenza degli investimenti in early stage


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sul totale sia sempre stata abbastanza marginale nel mondo (essa rappresenta mediamente non oltre il 12% degli investimenti complessivi), in Italia questo peso è ancora più contenuto, raggiungendo un ammontare medio annuo pari a solo l’8% del totale. Se prendiamo in esame le operazioni di investimenti in imprese cosiddette “high-tech”, il gap italiano trova ulteriore conferma: mediamente, ogni anno, solo il 17% degli investimenti italiani in capitale di rischio riguarda imprese di questo tipo, a fronte dell’oltre 45% mediamente investito nel mondo. Con riferimento a iniziative finanziarie di supporto per la creazione e lo sviluppo di Pmi innovative, si segnalano alcuni modelli di intervento attivati all’estero che hanno ottenuto risultati di assoluto interesse, e in particolare, i fondi di fondi a capitale misto pubblico-privato, con vocazione all’investimento in fondi di seed e di venture capital gestiti da strutture di carattere prevalentemente privatistico. In tale contesto, l’interesse destato da tali iniziative nasce dalla modalità, molto efficace, di impiego della risorsa pubblica come leva finanziaria nel coinvolgimento di risorse private L’adozione di misure di intervento similari a favore delle start-up rivestirebbe grande importanza per l’Italia, paese a diffusa imprenditorialità nei settori tradizionali e nel commercio, ma ancora troppo poco vitale per quanto riguarda i settori ad alta tecnologia. Ciò è imputabile in parte all’assenza di grandi corporation nei settori high-tech che fungano da bacini per la creazione di start-up. Aziende come Telettra hanno agito negli anni Settanta da naturale incubatore di imprenditoria hightech. Con il venire meno negli anni di queste imprese, è aumentata la potenzialità e l’importanza dell’altro grande bacino di start-up ad alta tecnologia, costituito dalle università e dai centri di ricerca. Ed effettivamente qualcosa si è mosso e ancora si sta lentamente muovendo a conferma della strategicità del mondo della ricerca, come mostra il caso degli Stati Uniti, nei quali, negli anni Novanta, il numero medio annuale di start-up per ateneo è quadruplicato. Occorre, pertanto, adottare anche in Italia quelle giuste condizioni che consentano di creare un vero e proprio circolo virtuoso di investimenti in imprese giovani e innovative. A tal fine, devono essere risolti alcuni problemi di tipo strutturale, in pri-


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mis la creazione di un mercato finanziario focalizzato sullo sviluppo di impresa, incentivando la nascita di nuovi operatori dedicati e favorendo loro il reperimento di risorse finanziarie. Ciò è avvenuto in tutte quelle realtà in cui sono state avviate iniziative di successo, quali i fondi di fondi cui si accennava precedentemente. Le politiche di sviluppo dell’imprenditorialità innovativa adottate negli Stati più sviluppati e innovativi a livello mondiale si caratterizzano anche per la previsione e l’attuazione di interventi diretti e mirati al sostegno degli operatori del venture capital. Si pensi, a titolo esemplificativo, allo Small Business Investment Companies Program (Sbic) negli Stati Uniti, ai Regional Venture Capital Funds, al UK High Technology Fund e al Challenge Fund Scheme nel Regno Unito, ai fondi (sia seed capital sia venture capital) attivati con il supporto della cassa depositi e prestiti nazionale in Francia, al Btu Fruephasenprogramm e al High-Tech Master Plan in Germania, allo Scottish Co-investment Fund (Scf) in Scozia, al fondo Yozmà in Israele.

5.3 Gli strumenti di sostegno pubblico al capitale di rischio per l’innovazione In questi ultimi anni, l’Italia sta mostrando segni di maggiore vitalità, almeno per quanto riguarda l’introduzione di iniziative pubblico-private per la promozione di start-up innovative. Sulla scorta delle buone pratiche internazionali e degli indirizzi forniti dalle istituzioni comunitarie in tal proposito, anche in Italia si è cercato di introdurre misure a favore dello sviluppo del mercato del capitale di rischio sia a livello nazionale sia a livello regionale/locale. Molteplici sono le possibili modalità di intervento pubblico a sostegno del capitale di rischio. La maggior parte di esse è riconducibile alle seguenti tipologie: • Costituzione di fondi di investimento (fondi di capitale di rischio) nei quali lo Stato possa entrare come socio, investitore o aderente, anche a condizioni meno vantaggiose rispetto agli altri investitori.


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• Contributi per la copertura di parte delle spese amministrative e dei costi di gestione dei fondi di capitale di rischio. • Strumenti finanziari in favore di investitori in capitale di rischio o di fondi di capitale di rischio (per incentivarli a mettere a disposizione ulteriori capitali per gli investimenti). • Garanzie prestate a favore di investitori in capitale di rischio o di fondi di capitale di rischio a copertura di parte delle perdite legate agli investimenti, ovvero garanzie prestate in relazione ai prestiti a favore di investitori/fondi per investimenti in capitale di rischio. • Incentivi fiscali a favore degli investitori affinché effettuino investimenti in capitale di rischio. In questa gamma di strumenti, relativamente ampia, il sottoinsieme di modalità di intervento attivate in Italia risulta alquanto scarno. Tra le principali misure avviate a livello governativo figurano, infatti, l’articolo 106 della legge n. 388 del 2000; l’articolo 11 del decreto ministeriale n. 593 del 2000 e il Fondo High-Tech per il Mezzogiorno (decreto ministeriale del 18 aprile 2005). L’art. 106 della legge 388 del 2000, relativo allo sviluppo di nuove imprese innovative, si pone l’obiettivo di favorire l’accesso al capitale di rischio di nuove Pmi in aree svantaggiate mediante la concessione di anticipazioni finanziarie pubbliche a intermediari finanziari, finalizzate all’acquisizione di partecipazioni temporanee e di minoranza, a fronte di programmi pluriennali di sviluppo. Le risorse stanziate sono pari a circa 204,3 milioni di euro. All’inizio del 2007 rimanevano a disposizione del ministero dello Sviluppo economico ancora più di 190 milioni di euro. I dati evidenziano un sostanziale sottoutilizzo della misura in esame, registrando, nel corso del triennio precedente al 2007, un impiego complessivo (in termini di risorse impegnate) pari a meno di 7 milioni di euro, poco più del 3,3% delle risorse stanziate. Se estendiamo l’analisi all’ammontare effettivamente versato, il dato è ancora meno consistente (2,9 milioni di euro, circa l’1,4% delle risorse stanziate). Il decreto ministeriale n. 593 del 2000 ha reso operativa la legge n. 297 del 1999 che razionalizza l’intero sistema di agevolazioni per la ricerca e l’innovazione. In particolare, l’articolo 11


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del D.M. 593/2000 prevede la possibilità di contribuire al finanziamento di progetti di ricerca finalizzati a nuove iniziative economiche ad alto contenuto tecnologico, ossia a progetti di spinoff. Grazie a tale misura, dal 2001 al 2005, sono pervenuti al Miur 81 progetti di spin-off, 38 dei quali (quasi il 50%) sono stati accolti, beneficiando di una contribuzione complessiva pari a circa 13,7 milioni di euro. Il 91% dei progetti finanziari sono di tipo accademico,1 la restante parte è costituita da spin-off universitari.2 In nove progetti di spin-off hanno partecipato direttamente operatori finanziari e venture capitalist. Tra le misure non ancora pienamente operative, rientra il D.M. del 18 aprile 2005 ossia il Fondo High-Tech per il Mezzogiorno, promosso dall’allora ministero dell’Istruzione università e ricerca (Miur), un fondo di fondi di 100 milioni di euro destinato a sottoscrivere quote di fondi mobiliari chiusi che effettuino investimenti nelle aree del Mezzogiorno, inclusi Abruzzo e Molise, con lo scopo di introdurre innovazioni di processo o di prodotto con tecnologie digitali. Il fondo dovrebbe operare secondo meccanismi di funzionamento tipici del mercato del capitale di rischio e applicare criteri meritocratici di valutazione delle opportunità di investimento. La stessa Commissione europea ha riconosciuto al capitale di rischio un ruolo di primaria valenza nell’ambito dei propri programmi di indirizzo per lo sviluppo della competitività dell’Unione europea. Lo strumento principe a livello comunitario è, senza dubbio, il Fondo europeo degli investimenti (Fei), nato dagli sforzi congiunti della Commissione europea e della Banca europea degli investimenti. Il Fei è un fondo di fondi che investe direttamente negli operatori di capitale di rischio europei, individuando e partecipando, in logica sussidiaria, a iniziative ad alto impatto sul sistema economico-competitivo europeo. La modalità principalmente adottata dal Fei è la sottoscrizione di quote di fondi di venture capital. Il Fei opera esclusivamente tramite specifici mandati di gestione, in parte conferitigli dal proprio azionariato, in parte acquisiti esternamente presso i governi degli Stati membri. All’inizio del 2007, il Fei aveva sottoscritto 220 fondi di capitale di rischio per un ammontare complessivo pari a 3,2 miliardi di euro, circa il 17% della raccolta totale di capitale di rischio (18,2 miliardi di euro), con un effetto leva di 1 a 5.


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Nell’ultimo quinquennio, il Fei ha fornito mediamente ogni anno l’1,2% del totale delle risorse raccolte sul mercato europeo. Tra i fondi sottoscritti vi sono 17 fondi mobiliari chiusi italiani (pari a circa il 7,5% del totale), per un ammontare complessivo di 244 milioni di euro, che rappresentano il 14% del totale complessivamente raccolto (1784 milioni di euro), con un effetto leva di 1 a 6. Tali fondi rappresentano il 12% (in termini di ammontare) del capitale di rischio raccolto in Italia dal 1998 al 2005 (circa 15 miliardi di euro). Tornando alle iniziative adottate in Italia, oltre alle misure promosse a livello governativo, sono presenti diverse iniziative regionali. Tali iniziative possono essere ricondotte, da una parte, ai piani di utilizzo dei cosiddetti Fondi strutturali europei, per il tramite dell’implementazione delle cosiddette misure di finanza innovativa o di ingegneria finanziaria; dall’altra parte possono essere associate a specifiche misure di intervento regionale, condotte in partnership con operatori finanziari privati. Relativamente alle prime, i regolamenti comunitari relativi ai Fondi strutturali precisano che sono considerati strumenti di ingegneria finanziaria quegli strumenti capaci di attivare, a livello finanziario, un effetto moltiplicatore delle risorse comunitarie, favorendo il massimo ricorso possibile a fonti di finanziamento private, allo scopo di aumentare le risorse disponibili per investimenti e assicurare al tempo stesso che l’esperienza del settore privato influisca sui metodi di gestione dei programmi. Vengono considerati tali: • fondi di capitale di rischio (diretti o indiretti), • fondi di garanzia, • fondi di finanziamento (prestiti a tasso agevolato, prestiti partecipativi, mezzanine finance ecc.). Le risorse complessivamente stanziate in Italia nell’ambito di misure di finanza innovativa, “effettivamente” attivate, sono pari a 88 milioni di euro, di cui il 25% nel Mezzogiorno, il 36% nel Centro e il 39% nel Nord. Tali risorse, a loro volta, hanno raccolto l’adesione di investitori privati per circa 25 milioni di euro, di cui il 27% nel Mezzogiorno, il 33% al Centro e il 40% al Nord. In totale, quindi, sono state mobilitate risorse per più di 110 milioni di euro.


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Relativamente alle iniziative regionali, ossia a quelle attivate con il concorso di risorse regionali e non comunitarie, sei sono le iniziative di venture capital avviate, nella forma di fondi mobiliari chiusi, in partnership con operatori/investitori privati. Le Regioni interessate sono Lombardia, Toscana e Piemonte. Un’iniziativa similare, che vede come promotore Regione Sicilia, è in fase di attuazione. In totale sono stati attivati 246 milioni di euro, 185 dei quali da parte di investitori privati, con un effetto leva quindi di 1 a 3. La parte del leone spetta alla Toscana e alla Lombardia. Nel primo caso, attraverso la società di gestione del risparmio Sviluppo imprese Centro Italia Sgr (a sua volta controllata dalla finanziaria regionale Fidi Toscana), sono state lanciate due iniziative, Centroinvest e Toscana Venture, con una dotazione complessiva di circa 89 milioni di euro (con un effetto leva su risorse pubbliche di 1 a 11,5). Regione Lombardia, con Finlombarda Gestioni Sgr Spa (controllata dalla propria finanziaria regionale, Finlombarda Spa) ha, anch’essa, lanciato due iniziative: Next ed Euromed, per 87 milioni di euro (con un effetto leva su risorse pubbliche di 1 a 1,3). Infine, Regione Piemonte si è fatta promotrice di due iniziative distinte: Innogest Capital, gestito da Innogest Sgr (controllata da Fondazione Torino Wireless) con 40 milioni di euro (effetto leva di 1 a 5,6) e Sviluppo Nord Ovest, gestito da Strategia Italia Sgr (partecipata da Unionfidi) con 30 milioni di euro e un effetto leva di 1 a 1. Per completare il quadro sinora raffigurato, occorre accennare alle politiche per la ricerca e l’innovazione nel loro complesso e non solo limitatamente alle iniziative di capitale di rischio. Da un loro esame, si rileva in Italia una media di 4-6 interventi per regione. Tuttavia, se da una parte le regioni del Centro-Nord (a esclusione di Marche e Lazio) preferiscono sostenere le attività di sostegno all’innovazione attraverso il ricorso a proprie linee di intervento, d’altra parte le regioni meridionali fanno maggiore ricorso agli strumenti regionalizzati3 (in particolare attraverso l’articolo 11 della legge n. 598 del 1994)4. Per le regioni meridionali, infatti, le erogazioni regionali costituiscono solo il 2,5% della spesa totale. Gli strumenti regionalizzati hanno subito un progressivo depotenziamento: dai 120 milioni di euro circa di finanziamenti erogati nel 2003, si è passati nel 2005 a poco più di 74 milioni di euro. A fronte di questo anda-


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mento, le regioni hanno dovuto potenziare gli strumenti di propria e diretta competenza: da un ammontare di 26 milioni di euro nel 2003 si è passati a una dotazione di 80 milioni di euro nel 2005 per le iniziative regionali a favore della ricerca e dell’innovazione. È da rilevare che, nonostante il peso crescente delle misure regionali, la spesa per il sostegno delle attività di ricerca si concentra ancora per l’85% sugli strumenti nazionali.5 L’impegno per il supporto della ricerca e dell’innovazione non si distribuisce in misura paritetica tra le regioni. Emilia Romagna e Toscana dedicano una percentuale elevata delle proprie risorse6 a misure di supporto alla ricerca (con percentuali superiori al 50%), seguite da Veneto e Piemonte (con valori superiori al 40%), mentre le regioni meridionali presentano quote inferiori al 10%. La Lombardia si attesta al 35% e le Marche al 31%.

5.4 Innovazione e politiche di credito Come già ricordato, le difficoltà che il sistema bancario deve affrontare nella valutazione delle richieste di finanziamento per progetti di innovazione e di ricerca derivano dalla natura prevalentemente immateriale di quei progetti. L’incertezza di ritorni legati a investimenti in R&S, la frequente non disponibilità di garanzie reali, in particolar modo per le Pmi, l’inadeguatezza degli standard contabili che non danno chiara evidenza delle spese in R&S nel bilancio (frequentemente imputate nel conto economico), le difficoltà di valutazione degli intangibles, e infine l’asimmetria informativa che si instaura tra finanziatori e imprenditori hanno nel complesso contribuito negli anni scorsi a creare il cosiddetto problema del razionamento del credito per l’innovazione, condizionando e contenendo il ruolo del sistema bancario nel finanziamento dell’innovazione. Non sorprende, dunque, che, poiché le più recenti proposte di prodotti bancari specializzati per il finanziamento dell’innovazione hanno riscontrato una debole risposta dal mercato, le banche si siano in gran parte riposizionate su prodotti per investimenti meno rischiosi e più tradizionali. Eppure, in Italia, dove i mercati azionari sono ancora scarsamente sviluppati, appare difficilmente sostenibile l’ipotesi di un


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sistema nazionale di innovazione totalmente scollegato dal contributo che può fornire il sistema bancario. Ad oggi, nel nostro paese solo il sistema bancario, infatti, dispone di un struttura capillarmente distribuita su tutto il territorio nazionale e quindi di più facile accesso alle imprese, e in particolare alle piccole e piccolissime imprese che costituiscono prevalentemente l’industria italiana. Gli stessi distretti industriali e le loro più recenti evoluzioni morfologiche7 fondano la loro genesi ed evoluzione sul rapporto col sistema bancario. Le banche locali hanno consentito lo sviluppo di nuove imprese distrettuali, con la partecipazione al finanziamento dell’acquisto dei mezzi tecnici per mettersi in proprio e la copertura del fabbisogno del capitale di esercizio. Inoltre, è stato rilevato come relazioni durature tra imprese e banche abbiano prodotto effetti positivi sull’innovazione, di prodotto e di processo, così come sulla propensione a investire in R&S. Il ruolo di braccio finanziario della diversificazione risulta tanto più vero in un momento in cui i distretti si stanno sempre più orientando verso una rispecializzazione produttiva, anche attraverso nuove forme di aggregazioni “virtuali” di imprese e centri della conoscenza. Risulta, quindi, di importanza primaria interrogarsi sul ruolo che gli intermediari finanziari intendono rivestire nel finanziamento alle piccole medie imprese italiane, sia nei confronti di quelle che stanno cercando di ricollocarsi sullo scenario competitivo internazionale, sia verso quelle più innovative e tecnologiche, che con grande difficoltà riescono a instaurare un rapporto con il mercato dei capitali. Nonostante i risultati non proprio soddisfacenti ottenuti dal sistema bancario nel finanziare l’innovazione, le banche stanno dimostrando di voler agire con maggiore incisività nel rafforzare il rapporto banche-imprese avviando tra l’altro programmi di sostegno finanziario a progetti di innovazione tecnologica. Anche Basilea II (in vigore a partire da gennaio 2008) sembra aprire verso la possibilità di fondare il rapporto banca-impresa (e le relative valutazioni di rischio) sulla conoscenza specifica delle tecnologie e del profilo dell’attività innovativa dell’impresa. Tradizionalmente, le istituzioni bancarie si basavano esclusivamente su un’analisi soggettiva del rischio di credito


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dei prenditori e i cosiddetti “sistemi esperti” utilizzavano tutt’al più criteri quali reputazione, grado di indebitamento, volatilità dei profitti e garanzie collaterali per raggiungere un giudizio largamente soggettivo riguardo la possibile concessione di un prestito. Tale sistema, perlopiù incentrato su pratiche informali di relationship lending, contribuiva a penalizzare giovani imprese a elevata potenzialità di sviluppo che, non avendo un rapporto consolidato e di fiducia con la banca e non essendo in grado di fornire garanzie o informazioni di bilancio puntuali, risultavano soggette a razionamento del credito. Oggi le banche, alla vigilia dell’implementazione sistematica dell’accordo di Basilea II, tendono a utilizzare in misura crescente l’approccio degli Internal Rating Systems (Irb), i quali prevedono che vengano calcolati internamente i parametri per stimare il rischio. Basilea II, inoltre, prescrive che nei sistemi di rating interno occorra affiancare a parametri di natura quantitativa anche variabili qualitative. Ne deriva che fattori legati alle attività di innovazione delle imprese possono essere inseriti nei modelli di rating, contribuendo ad attenuare le asimmetrie informative tra prenditori e investitori. Se, infatti, tra le variabili qualitative vengono considerate informazioni relative all’attività innovativa dell’impresa (brevetti, marchi, intensità delle spese in R&S, capacità di innovazione di prodotto/processo), imprese giovani e dinamiche, potenzialmente non idonee al debito perché prive di garanzie reali o con limitati track records, potrebbero comunque ricevere finanziamenti bancari mostrando un elevato rating qualitativo. In altri termini, attraverso un ampliamento della valutazione del rischio di credito dei prenditori che tenga conto anche di fattori di innovazione e di altre informazioni qualitative, le imprese innovative potrebbero teoricamente vedere ridurre il numero di situazioni di razionamento del credito. È evidente che l’efficacia di tali interventi è largamente condizionata dalla capacità del sistema finanziario, anche con il supporto del settore pubblico, di ampliare il proprio portafoglio di prodotti di finanza agevolata per le imprese e di adeguare e ammodernare il sistema di garanzie necessarie per l’accesso al credito. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, appare particolar-


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mente importante il ruolo dei consorzi fidi, i quali potrebbero orientare al meglio gli spazi aperti da Basilea II verso un più virtuoso rapporto tra credito e innovazione. I confidi, infatti, possono fornire un contributo decisivo a migliorare l’accesso delle Pmi ai finanziamenti, con effetti positivi sulle potenzialità d’investimento e di crescita e sul riequilibrio della struttura finanziaria. Basilea II non limita direttamente l’attività dei confidi, ma mette in condizione le banche e le imprese con cui normalmente operano i consorzi e le cooperative di garanzia, di valutarne l’effetto concreto dal punto di vista della mitigazione del rischio. È quindi cruciale che il sistema dei confidi evolva verso un modello che consenta di revisionare le tipologie di garanzie attualmente in essere, sì che possano costituire effettivamente strumenti di mitigazione del rischio. L’evoluzione dei principali confidi verso il modello dell’intermediario finanziario vigilato (ex art. 107 del Tuf), accompagnato da un processo di concentrazione del mercato, costituisce un’opportunità di fondamentale importanza. L’evoluzione verso tale modello rappresenta non solo un recepimento efficace e organico delle prescrizioni di Basilea II, ma anche un passaggio essenziale e ineluttabile per fornire una più efficace assistenza ai consorziati, in special modo nei processi di crescita basati sull’innovazione. Oltre all’ammodernamento del sistema delle garanzie, altrettanto importante è la diversificazione degli strumenti intermedi di finanziamento, quali in particolare il prestito partecipativo e il mezzanino, con i quali la pubblica amministrazione può trovare nuovi spazi e nuove forme di assistenza alla carenza di risorse finanziarie per l’innovazione. Il prestito partecipativo è uno strumento finanziario con il quale si instaura un rapporto triangolare tra banca, impresa finanziata e terzi co-obbligati affinché l’impresa, indebitandosi, possa realizzare programmi di sviluppo aziendale e di innovazione, accrescendo il proprio valore e aumentando il patrimonio aziendale. Le caratteristiche del prestito partecipativo sembrano, quindi, particolarmente adatte a soddisfare le esigenze di imprese che si propongono di procedere a un rafforzamento patrimoniale, a fronte di situazioni di eccessivo indebitamento con il sistema bancario, ovvero hanno l’esigenza di sostenere programmi


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di sviluppo senza tuttavia avere la capacità di reperire e immettere nuovo capitale sociale. Il ricorso a questo strumento può, infatti, consentire il consolidamento dei debiti a breve di natura bancaria oppure può costituire una soluzione ponte in attesa della ricapitalizzazione dell’azienda da parte dei soci. Pur appartenendo alla stessa categoria dei prestiti di natura ibrida, lo strumento finanziario in esame si differenzia sotto molteplici aspetti dal mezzanine finance (debito mezzanino). In particolare, contrariamente a quest’ultimo, i prestiti partecipativi non prevedono alcuna condizione di subordinazione. L’assenza di tale clausola, da un lato riduce il costo per interessi gravante sul cliente, dall’altro porta, in genere, l’impresa a dover periodicamente rimborsare sia una quota capitale che una quota interessi, analogamente a quanto si osserva in un mutuo. Un altro importante elemento di diversità tra i due strumenti è rappresentato dalla natura delle garanzie a supporto della relazione creditizia. Il prestito partecipativo è solitamente assistito da una garanzia di natura personale, individuale o collettiva, mentre nel debito mezzanino si ha spesso la presenza di una garanzia di tipo reale. Il mezzanino è, in sintesi, una tipologia di finanziamento che, per la durata, le modalità di rimborso e la sua remunerazione, si colloca in una posizione intermedia tra il capitale di rischio e il capitale di debito. Costituisce uno strumento di quasi equity, la cui configurazione tecnica è data da una durata del finanziamento di medio-lungo termine, da un unico rimborso alla scadenza fissata e da una remunerazione basata su un mix composto da un tasso d’interesse minimo garantito e un ritorno aggiuntivo correlato alla performance del valore economico dell’impresa finanziata. La combinazione tra caratteristiche e condizioni porta a considerare il mezzanino come un debito ad alto costo o un capitale di rischio a basso costo. Con specifico riferimento all’innovazione, è importante osservare che, nella valutazione del rischio, l’istituto di credito procede non solo all’analisi dei dati storici di bilancio dell’impresa (in base ai criteri di affidabilità del credito ordinario), ma anche all’analisi delle previsioni finanziarie (contenute in un business plan che presenti varie ipotesi attinenti a scenari diversi) per verificare la capacità dell’impresa di produrre nel


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tempo flussi di cassa sufficienti a fare fronte agli impegni assunti. All’interno di queste valutazioni è evidente che può e deve auspicabilmente trovare ampio spazio un’accurata valutazione technology-based. In questo caso, il mezzanino potrebbe costituire un importante strumento di accompagnamento alla patrimonializzazione di imprese a elevato contenuto innovativo. Occorre, infine, menzionare le opportunità di intervento pubblico offerte dalla nuova programmazione comunitaria (2007-2013) in termini di sviluppo di strumenti per l’accesso a finanziamenti, tra i quali quelli sopra descritti, allo scopo di superare il problema del razionamento del credito per l’innovazione. Il Programma quadro sulla competitività e l’innovazione della Commissione europea (2007-2013) ha reso disponibili 1,1 miliardi di euro per l’attuazione di programmi di promozione dell’accesso ai finanziamenti da parte delle imprese. Si stima che tale apporto dovrebbe liberare fino a 30 miliardi di euro a favore di circa 400.000 Pmi. L’iniziativa offre elementi di flessibilità tali da consentire modalità di utilizzo degli strumenti finanziari molto diversificate. Ad esempio, le garanzie potranno essere impiegate per assistere un range eterogeneo di strumenti che vanno dal tradizionale mutuo al debito mezzanino passando per i microcrediti. Le risorse potranno anche essere utilizzate per supportare le banche nel raggruppare e vendere i propri portafogli di prestiti alle Pmi, oltre a sostenere programmi tesi a incoraggiare le Pmi ad adottare nuove tecnologie ambientali. Altri fondi sono stati previsti con il programma Jeremie (Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises), iniziativa che fa parte della politica di coesione comunitaria (ovvero della nuova programmazione dei fondi strutturali). Destinata a migliorare l’accesso ai finanziamenti per le Pmi delle regioni beneficiarie dei fondi strutturali sotto forma di microcrediti, capitali di rischio, prestiti e garanzie, Jeremie intende sostenere in particolare l’assistenza tecnica, la creazione e l’espansione delle imprese e l’innovazione. La combinazione e la natura complementare di questi fondi dovrebbero assicurare una transizione morbida dall’attività di ricerca alla commercializzazione del prodotto. Il finanziamento comunitario fungerà da catalizzatore per attrarre ulteriori investimenti e, si auspica,


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porterà a un aumento dei finanziamenti privati e a una minore dipendenza dalle sovvenzioni pubbliche. Tra le forme di sostegno indiretto al miglioramento del rapporto tra capitale di credito e innovazione, ricordiamo, infine, il ruolo che il sistema della ricerca pubblica potrà svolgere per ridurre le inefficienze legate alle difficoltà con cui il sistema bancario accede, in presenza di attività fortemente technology-based o science-based, a informazioni rilevanti e affidabili per la valutazione del rischio e per la relativa concessione del credito. In questa chiave, può costituire un’opzione di grande interesse la formulazione di una strategia di accordi con istituzioni e centri di ricerca pubblici e privati, dove risiedono le competenze necessarie alle attività di technology assessment e di prospezione tecnologica. Va, tuttavia, sottolineato che la mediazione informativa dei ricercatori non potrà, da sola, risolvere gli elevati costi transazionali che caratterizzano il rapporto banca-impresa nel campo della ricerca e dell’innovazione: è necessario che i tre attori – banche, imprese e sistema della ricerca – interagiscano in un ambiente in cui la conoscenza diretta, la vicinanza fisica, la ricorrenza e l’intensità dei rapporti professionali e sociali contribuiscano a creare i valori di reputazione e fiducia che abilitano una sinergia virtuosa tra imprese e mercato del credito.

5.5 Conclusioni Il mercato italiano del venture capital, in primo luogo quello legato alle imprese innovative, sta attraversando una fase negativa, soffrendo della crescente competitività dei principali competitor internazionali. La scarsa presenza di venture capitalist alimenta un circolo vizioso che non agevola il già complesso mercato italiano dell’innovazione e dell’high-tech, con ripercussioni sul posizionamento competitivo dell’intero paese. Per uscire da questa impasse occorre un intervento dell’operatore pubblico, che distingua le soluzioni da proporre per rispondere ai fallimenti di mercato emergenti sul lato dell’offerta da quelle per i fallimenti sul lato della domanda di capitale. Complessivamente, le attuali politiche di incentivo al capita-


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le di rischio non sembrano adeguate all’ampiezza del gap che distanzia l’Italia dal resto degli altri paesi, sia per ammontare sia per modalità di intervento. È necessario ridefinire gli strumenti di intervento seguendo modelli che premino la nascita e il consolidamento di operatori specializzati nell’high-tech e nell’early stage financing, ampliando il loro bacino di risorse funzionali all’acquisizione e allo sviluppo di nuove imprese ad alto potenziale ma, nello stesso tempo, non snaturandone il ruolo di operatore privato. In questa prospettiva si fa sempre più impellente la necessità di risolvere alcuni problemi di tipo strutturale, quali la creazione di un mercato finanziario dedicato allo sviluppo di impresa. I paesi più sviluppati a livello mondiale hanno avviato già da alcuni anni politiche finalizzate al sostegno finanziario di imprese innovative, per il mezzo delle quali si è proceduto alla costituzione di fondi di fondi pubblico-privati. Tali iniziative, in cui il pubblico mantiene il proprio ruolo istituzionale, garantendo e co-finanziando, e il privato seleziona gli investimenti e vi compartecipa assumendosi gran parte dei rischi d’impresa, si sono rivelate molto efficaci. La Francia ha mobilitato 1718 milioni di euro in 45 fondi, l’Irlanda 546 milioni di euro in 30 fondi, il Regno Unito 2449 milioni di euro in 9 fondi e Israele 172 milioni di euro in 10 fondi. L’elemento qualificante di queste iniziative è riconducibile principalmente al fatto che la loro gestione è esercitata da strutture prevalentemente indipendenti dal soggetto pubblico. Infatti, con poche eccezioni (Irlanda), i fondi di fondi a capitale pubblico prevedono un intervento poco invasivo dell’operatore pubblico nella gestione del fondo. L’Italia, se si esclude l’esperienza della Regione Lombardia con il fondo dei fondi Next, è sprovvista di un fondo sul modello delle principali esperienze internazionali. La scarsa sensibilità al tema della promozione del capitale di rischio da parte delle politiche governative è una delle cause della limitata vitalità del tessuto imprenditoriale italiano. Infatti, non si può che constatare come in Italia venga impiegata una strumentazione di intervento a sostegno dell’innovazione non sempre adeguata. Va rilevato che una politica di incentivo delle attività di ricerca e di innovazione nelle imprese tende, in generale, ad asse-


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condare la domanda da parte del sistema produttivo, attraverso strumenti finanziari graditi alle aziende e con interventi in grado di sostenere un processo innovativo relativamente diffuso. Ciò è in parte dovuto alla struttura del sistema industriale italiano, costituito in prevalenza da Pmi e generalmente debole in quei settori in cui le opportunità innovative derivano direttamente da avanzamenti scientifici, oppure laddove la gestione dell’innovazione richiede tecnostrutture complesse ed estese capacità di management. Il nostro paese appare invece più forte in settori nei quali predominano attività relativamente informali di innovazione oppure dove l’innovazione è incorporata nelle macchine e nei beni intermedi acquistabili sul mercato. In questo senso, quindi, dopo aver affrontato il problema della riforma strutturale dal lato dell’offerta di capitale di rischio, apparirebbe rilevante che si ponesse mano anche alla riforma strutturale della domanda di capitale di rischio, creando un sistema misure di intervento che consentano agli operatori specializzati di sostenere investimenti fissi e attirare deal flow compatibili col proprio posizionamento di mercato. Fondato è il sospetto che in questo momento vi sia un consistente strabismo a favore del sostegno all’offerta di capitali di rischio e una sistematica sottovalutazione del fatto che, senza un mutamento strutturale, per dimensione e portafoglio di specializzazione, dell’industria italiana, ben difficilmente l’offerta di strumenti finanziari sempre più evoluti potrà sostenere la crescita competitiva del paese. Una politica di sostegno all’innovazione largamente rivolta a supportare l’innovazione di processo (prevalentemente di natura incrementale) finisce per ignorare gli stimoli che provengono dal lato della domanda, ossia la ricerca e le competenze che stanno a monte, e l’interazione con gli utilizzatori che stanno a valle. Inoltre, rischia di canalizzare risorse finanziarie in maniera indiscriminata, con un’alta probabilità di sostenere progetti che le imprese avrebbero comunque realizzato e con l’effetto aggiuntivo di non conseguire nessun risultato in termini di maggiore specializzazione produttiva nazionale (o regionale/locale) in settori strategici per lo sviluppo della competitività. Se da un lato è sicuramente positiva la capacità di raggiungere una maggior quantità di imprese con misure di sostegno all’innovazione,


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dall’altro lato l’entità effettiva di tali interventi tende a essere estremamente modesta e la loro efficacia poco evidente. Scarse sono state le risorse, come si evince dai dati presentati, dedicate a favorire i rapporti con i centri di ricerca, il sostegno agli spin-off e al capitale di rischio. Da queste considerazioni scaturiscono alcuni elementi di riflessione. In primo luogo, è evidente che, lo sforzo dei policy makers deve continuare a essere quello finalizzato alla costruzione un sistema di strumenti sufficientemente diffusi per sostenere lo sforzo innovativo delle imprese italiane. A tale riguardo è necessario non solo superare il vincolo posto alle politiche di R&S dalla scarsa dotazione finanziaria, ma anche definire meglio strumenti e processo allocativo delle risorse. Un primo principio da tenere in considerazione nella programmazione di tali strumenti è che per disegnare una politica dell’innovazione efficace occorre individuare priorità strategiche, di cambiamento strutturale e di cambiamento tecnologico, sulle quali concentrare l’azione del pubblico. Si tratta, quindi, di selezionare quelle priorità verso cui indirizzare le scarse risorse per l’innovazione, introducendo un approccio selettivo, che individui specifiche attività economiche, settori produttivi e campi di ricerca, tipologie di imprese e soggetti sociali a cui riconoscere un ruolo strategico per lo sviluppo economico, una capacità particolare di creazione di conoscenza, di diffusione dell’innovazione e di creazione di valore aggiunto. Solo accanto al riorientamento delle priorità della spesa pubblica può rifiorire una politica efficace di incentivo al capitale di rischio. Sembra opportuno, a tale riguardo, ipotizzare la formazione di istituzioni finanziarie in parte pubbliche, anche se rigorosamente indipendenti dall’amministrazione e dai governi in carica, che favoriscano la nascita e il consolidamento di giovani imprese high-tech. Va sicuramente riconosciuto che le politiche per la ricerca e l’innovazione tecnologica sono caratterizzate da estrema complessità, varietà di attori, specificità di contesti e che quindi non si prestano a semplificazioni strumentali ma necessitano di una gamma coordinata e sufficientemente eclettica di modelli d’intervento. Proprio tenendo in debito conto tale presupposto, e quindi senza la pretesa di proporre una soluzione unica ed esau-


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stiva, è importante sottolineare l’importanza del ricorso al capitale di rischio per le politiche della ricerca e dell’innovazione. Una recente ricerca8 stima che, nonostante le performance non equiparabili a quelle di altri paesi, l’ammontare complessivo del capitale di rischio investito per il finanziamento dello sviluppo in Italia nel solo periodo 2000-2004 abbia creato 37.000 nuovi posti di lavoro di cui circa 9000 al finanziamento di nuove imprese. A dimostrazione di quanto il capitale di rischio incida sulle performance delle imprese venture backed, lo studio evidenzia come, negli ultimi quattro anni, a livello occupazionale ogni milione d’investimento abbia generato mediamente almeno 13 posti di lavoro e prodotto valore aggiunto per 0,6 milioni e produca un investimento in capitale immobilizzato per 1,7 milioni. Considerato il contributo che il venture capital può offrire alle politiche di sviluppo e nello specifico a quelle della ricerca e innovazione tecnologica, le esperienze più recenti dimostrano come l’intervento con capitale di rischio abbia consentito di affrontare sia il deficit quantitativo sia il deficit qualitativo del finanziamento dell’innovazione. Questo consentirebbe anche all’Italia di circoscrivere la patologia che caratterizza il nostro sistema e che nasce dal connubio tra scarsità di risorse finanziarie del sistema pubblico e necessità di razionalizzare l’impiego degli incentivi, oggi poco selettivi e meritocratici e in gran parte oggetto di effetti distorsivi del mercato. Il panorama internazionale delle esperienze relative ad azioni di promozione del capitale di rischio a favore delle politiche per l’innovazione è, infatti, sufficientemente articolato per offrire interessanti spunti di riflessione. Si potrà, quindi, valutare come, in tale azione di promozione, il soggetto pubblico possa adottare diversificati modelli d’intervento caratterizzando il credit enhancement pubblico secondo metodiche sofisticate, tutte ugualmente tese a fare leva sulla risorsa privata, ovvero massimizzando l’effetto che può essere prodotto a favore del sistema, a parità di contributo privato. Poiché ad oggi sono gli investitori privati a guidare i mercati del capitale di rischio, è necessario che l’intervento pubblico si sposi con l’offerta di risorse finanziarie (leva finanziaria privata elevata) e professionali (knowhow degli operatori professionali) provenienti dal settore priva-


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to, sfuggendo alla tentazione di avviare iniziative a totale matrice pubblica. È importante precisare che, in relazione alle difficoltà cicliche dei mercati di equity, il sistema bancario può difficilmente rinunciare a sostenere completamente le imprese impegnate in attività innovative. Solo un sistema territorialmente distribuito come quello bancario può, infatti, incidere profondamente su un sistema industriale come quello nostrano. È quindi auspicabile che il sistema bancario continui a giocare, semmai con maggiore incisività, un ruolo significativo nel supportare il processo di crescita innovation-based del tessuto imprenditoriale italiano, accompagnando le imprese verso soglie dimensionali e capacità manageriali adeguate a farle accedere ad altre forme di finanziamento, strutturalmente più adeguate al profilo di rischio dell’attività innovativa. In particolare, la nuova disciplina derivante dagli accordi di Basilea II offre la possibilità di incidere considerevolmente sulle asimmetrie informative che limitano la capacità di finanziamento, facendo leva sugli elementi di valutazione qualitativa introdotti per la valutazione del rischio di credito. In questa direzione, un’opportunità strategica risiede nella specializzazione tecnologica settoriale, tipica ad esempio di molti venture capitalist, accompagnata dalla crescita di competenze specifiche interne.

Note 1 Gli spin-off accademici hanno come scopo l’utilizzazione imprenditoriale, in contesti innovativi, dei risultati della ricerca attuata all’interno di un ateneo e lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi che da questa scaturiscono. In tale ambito, l’università non partecipa nel capitale di rischio della società neocostituita ma si limita a rendere disponibili risorse e/o servizi per facilitarne l’avvio e il primo sviluppo. 2 Per spin-off universitari si intendono quelle società alle quali l’università partecipa come socio con una quota massima del 10% del capitale, anche attraverso il conferimento di beni in natura. 3 Si intendono per strumenti di “legislazione nazionale ad attuazione regionalizzata” quegli interventi la cui competenza è stata devoluta dallo Stato alle Regioni (come ad esempio la legge n. 140 del 1997 “Misure fiscali a sostegno dell’innovazione nelle imprese industriali” e la legge n. 598 del 1994 articolo 11 “Agevolazioni per investimenti produttivi e per la finanza d’impresa”).


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I capitali per l’innovazione 163 4 Infatti, oltre il 50% degli strumenti regionali risulta afferente alle regioni settentrionali, il 17% a quelle dell’Italia centrale e il 25% a quelle meridionali. 5 Rapporto Met 2006. 6 Il riferimento deve essere fatto alle risorse effettivamente spese a valere sulle iniziative per R&S oggetto di ricognizione (Rapporto Met 2006). 7 Si pensi per esempio ai meta-distretti lombardi, introdotti nel 2001 con delibera di giunta regionale n. 7/6356 del 5 ottobre 2001, che rappresentano una realtà dove ai rapporti di contiguità fisica tra le imprese si sostituiscono i rapporti di rete e una crescente interazione tra imprese produttive, centri di ricerca e della conoscenza e attività di servizio della filiera. 8 Si veda lo studio di Aifi e PricewaterhouseCoopers (2006).


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La ripresa dello sviluppo dell’economia italiana passa attraverso la risoluzione di una serie di nodi strutturali. L’analisi dello scenario del sistema dell’innovazione in Italia continua a evidenziare una minore propensione a innovare e investire in ricerca e sviluppo unita allo scarso dinamismo di nuove imprese nei settori a più elevato contenuto tecnologico. Il tema del Technology Transfer, cioè del rapporto fra ricerca e imprese risulta cruciale, così come il Public Technology Procurement si candida a livello strategico come mezzo per favorire l’emersione di nuove tecnologie. Le difficoltà nell’implementazione dell’innovazione richiamano tuttavia al ruolo fondamentale della governance, attraverso un deciso miglioramento delle politiche nazionali e locali. Infine permane il rischio di una dispersione dei finanziamenti e duplicazione di ruoli e attività, a conferma del ruolo trainante dei sistemi finanziari e della loro collocazione in funzione del ciclo di sviluppo dei settori che caratterizzano l’economia del paese. Le osservazioni contenute in questa sezione del Libro Verde cercano di mettere a fuoco alcuni ambiti di intervento sui quali riteniamo importante attirare l’attenzione per lo sviluppo di iniziative concrete a vari livelli, tutte concentrate sull’obiettivo fondamentale di creare le condizioni necessarie per un recupero di produttività attraverso la ricerca e l’innovazione.


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Governance Ruolo e significato delle responsabilità di coordinamento Le politiche sull’innovazione sono identificate a livello europeo come il grande ambito di intervento industriale sul quale rimane forte il ruolo dei singoli Stati e la possibilità di azione. Con il rafforzamento dell’indirizzo delle politiche per la concorrenza a livello europeo, il progressivo indebolimento dell’autonomia sul fronte della politica monetaria a seguito dell’integrazione, l’insieme coordinato degli interventi a supporto dell’innovazione tecnologica deve catalizzare l’attenzione riformatrice e propulsiva. Per segnalare questa centralità, in chiave di governance, appare fondamentale concentrare le responsabilità di coordinamento presso la presidenza del Consiglio dei ministri, attraverso la costituzione di un comitato permanente, in grado di coinvolgere i diversi ministeri interessati e le rispettive competenze e aree di responsabilità; affidare la responsabilità diretta di tale coordinamento alla presidenza, inoltre, è un segnale del ruolo centrale attribuito alle politiche per l’innovazione tecnologica. Natura degli interventi e ruolo dei singoli ministeri L’accentramento del coordinamento sopra menzionato non deve in alcun modo comportare una deresponsabilizzazione dei singoli ministeri o un loro depauperamento in chiave di interventi diretti e di gestione di specifici provvedimenti e relativi capitoli di spesa. Al tempo stesso, tuttavia, è necessario ripensare fortemente all’esigenza di collaborazione concreta dei singoli ministeri per superare una frammentazione strutturale che ha caratterizzato il modus operandi del passato e che non è più compatibile con le sfide del futuro. Indipendentemente dalle denominazioni che possono essere modificate per scelte politiche o come effetto di riforme strutturali, accanto ai dicasteri responsabili storicamente di industria e commercio e di università e ricerca, devono essere coinvolti a livello di coordinamento centrale non solo il ministero per le Politiche regionali e il ministero per l’Innovazione nella PA, ma anche gli Esteri, il Lavoro, il Welfare, la Salute e l’Ambiente. La partecipazione allargata a un tavolo di coordinamento permanente, infatti, serve a segna-


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lare il ruolo in chiave complessiva degli interventi di politica per l’innovazione tecnologica e a farli uscire da una logica meramente funzionale, che appare superata non solo a livello teorico ma anche a livello pratico. Coordinamento permanente con le Regioni Un secondo livello di coordinamento particolarmente importante a seguito dell’evoluzione della riforma del titolo V della costituzione e dell’accresciuto ruolo delle Regioni sul fronte dell’innovazione e della ricerca deve trovare soluzioni istituzionali ancora inesistenti o affidate a strumenti poco adatti. Vista la centralità ribadita nei due punti precedenti, appare essenziale definire un tavolo di confronto permanente, collegato alla Conferenza Stato-Regioni, ma specificamente finalizzato alla discussione degli interventi relativi alle politiche per l’innovazione tecnologica e per la ricerca, per garantire, anche a livello verticale, il coordinamento orizzontale già discusso. Inoltre, vista l’estrema eterogeneità in termini di attivazione su questi ambiti che si registra confrontando tra loro le Regioni, questa opportunità di coordinamento offrirebbe occasioni concrete di diffusione di procedure e strumenti attuativi attraverso la condivisione di esperienze positive e negative. Infine, le ben note asimmetrie territoriali che caratterizzano il paese dovrebbero portare in questa sede alla definizione di politiche sovreregionali, per macroaggregazioni che, se prese individualmente, non sarebbero in grado di esprimere una dimensione minima in grado di portare a risultati concreti, ma, anzi, foriera di sprechi e duplicazioni inefficienti. Chiara differenziazione tra ruoli e strumenti Una profonda riorganizzazione dei ruoli e delle responsabilità a livello istituzionale deve anche essere accompagnata da interventi altrettanto chiari sul fronte degli strumenti e delle aree di attenzione lungo il ciclo della ricerca e dell’innovazione. In questo senso, ancorché apparentemente molto stilizzata, una distribuzione di competenze per dimensione degli interventi, tipologia prevalente dei destinatari e fase del ciclo richiede di immaginare nuove articolazioni dei vari strumenti, dai fondi, agli in-


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terventi sul costo del capitale, alla mobilità dei ricercatori, alle varie forme di integrazione tra ricerca privata e ricerca pubblica. Lo Stato dovrebbe diventare l’unico soggetto responsabile per la fissazione di obiettivi strategici e il conseguente finanziamento di grandi programmi pluriennali, evitando fortemente ogni forma di concorrenza implicita o esplicita da parte delle amministrazioni regionali su questi ambiti. Analogamente, a livello centrale dovrebbero essere mantenute la responsabilità e l’indirizzo delle attività di ricerca più di base. Viceversa, i territori dovrebbero giocare un ruolo fondamentale nel coinvolgimento delle piccole e medie imprese e nell’attivazione dei rapporti tra strutture pubbliche e strutture private. Questa impostazione generale, al di là delle soluzioni specifiche, richiede una riflessione profonda sul significato di autonomia locale e sull’arricchimento che alla stessa deriva da un proficuo coordinamento con altre realtà locali e con lo Stato centrale, non come elemento che sminuisce le possibilità di intervento, ma come pilastro fondamentale per un’efficace allocazione delle risorse disponibili e un obiettivo più generale di crescita armoniosa dell’intero paese. Il coordinamento con le politiche europee Questa forte attenzione al coordinamento interno non deve tuttavia risolversi in una focalizzazione eccessiva sulla dimensione nazionale. La rilevanza dei fondi europei e la profonda revisione dell’insieme di organismi e istituzioni coinvolte nell’Europa a 25 sul fronte della ricerca e dell’innovazione rafforza un’esigenza, in passato spesso fortemente disattesa, di estrema attenzione a una presenza strutturata e istituzionale permanente a livello europeo non di tipo politico, ma tecnico. Diverse istituzioni nazionali sono più o meno attive in sede di programmi quadro, di organismi tecnico-consultivi e di indirizzo, ma il paese non ha mai curato con attenzione un approccio coordinato e sistematico alla definizione di una propria rappresentanza organica. Questo gap va colmato, soprattutto considerando quanto meno spazio rispetto al passato lasci l’allargamento in termini di nomine, individuazione di ruoli decisionali chiave e quanto, per converso, diventi strategico definire attività di lobbying isti-


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tuzionali come una priorità permanente. Questo, per non arrivare impreparati a momenti decisionali chiave nei quali inserirsi con soluzioni spesso conflittuali e dovute al mancato coordinamento di parti diverse del paese che, muovendosi in assoluta e giusta autonomia, finiscono tuttavia per impedire un effetto-sistema imprescindibile in chiave futura.

Università Il ruolo centrale dei meccanismi allocativi Il sistema italiano rimane fortemente incardinato a un ruolo pubblico centrale delle università e ogni forma di privatizzazione dello stesso rimarrebbe comunque vincolata a partecipazioni rilevanti di istituzioni, anch’esse legate al pubblico, ancorché magari con una maggiore vocazione territoriale. Ciò non impedisce, tuttavia, di ridefinire in maniera innovativa i criteri di distribuzione delle risorse pubbliche alle stesse università, spingendo fortemente su una dimensione di merito e incentivi, abbandonando progressivamente l’attuale approccio ancora poggiante sul principio del riequilibrio. La variazione del mix dei parametri considerati per il riequilibrio, infatti, pur non avendo efficacemente affrontato il problema alla radice come necessario, anche in virtù della riduzione delle risorse allocate che ha caratterizzato questi ultimi anni, ha avuto il merito di sollevare il problema dell’importanza dell’introduzione di meccanismi incentivanti al fine di generare scelte coraggiose e portare a comportamenti virtuosi. Questo percorso deve essere perseguito con forza ribadendo il principio degli incentivi come il meccanismo cardine di ogni tipo di intervento sia a livello istituzionale (la singola università), sia a livello più micro (le facoltà e i dipartimenti), sia a livello personale (i singoli docenti e ricercatori). Maggiore autonomia con forte verifica La definitiva istituzionalizzazione di un sistema di incentivi non può non accompagnarsi a un rafforzamento dell’autonomia, un passaggio ancora largamente inesplorato anche a seguito dell’implementazione di provvedimenti centrali che hanno portato


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ad aumentare la dipendenza delle università dal ministero sotto diversi ambiti, magari poco evidenti, ma che nel complesso hanno determinato un depauperamento del principio di autonomia. Ciò richiede la disponibilità ad accettare situazioni transitorie di disparità territoriale non riequilibrabili nel breve, pena l’arretramento dell’intero sistema e l’impossibilità di creare casi di successo che possano rappresentare un esempio virtuoso da seguire per altri. Il rafforzamento dell’autonomia comporta un ripensamento del ruolo del ministero, come anche l’introduzione simultanea di provvedimenti cogenti sul fronte della valutazione, ma rappresenta l’unica possibilità concreta a fronte di un innegabile fallimento di un approccio molto centralizzato e incompatibile anche con il maggior ruolo progressivamente attribuito alle Regioni. La valutazione come strumento di policy Secondo quanto sopra delineato, la valutazione cessa di essere un esercizio meramente tecnico e diventa uno strumento diretto di policy. Per questo, la sua collocazione nel sistema di governance della ricerca e dell’innovazione deve essere di immediata contiguità al governo e non a un organo ministeriale specifico. La caratterizzazione originaria di Civr e Cnsvu come organi di consulenza del ministro dell’Università non sembrano dunque compatibili con le caratteristiche innovative attribuite alla istituenda Agenzia nazionale per la valutazione, così come non lo sono le prerogative di coordinamento delle nomine attribuite al ministero. Pensare alla valutazione come strumento di policy richiede anche di connotarla fortemente sul fronte delle professionalità tecniche richieste, piuttosto che sulla rappresentatività dei diversi assetti e interessi istituzionali. Inoltre, diventa necessario impostarne correttamente i differenti aspetti di controllo, confronto e certificazione con una forte prospettiva internazionale. Appare importante sottolineare come l’elemento guida che dovrebbe accompagnare questo processo sia il principio del ranking come modalità per identificare classi di prestazioni, più che l’idea di “classifica” puntuale, che non appartiene ad alcuna esperienza analoga già implementata in altri contesti e in altri paesi.


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Ridefinizione del ruolo del ministero dell’Università e della ricerca Un intervento serio che si muova in maniera coordinata su tutti questi fronti non può non accompagnarsi a una ridefinizione del ruolo del ministero dell’Università e della ricerca, da strutturare non più come componente del governo centrale direttamente responsabile dell’intero sistema, ma come organismo fondamentale per un’azione efficace di regolazione e controllo. La semplificazione dell’attuale assetto dei settori scientifico-disciplinari e delle corrispondenti aree, la ridefinizione delle procedure concorsuali, la gestione e finalizzazione dei fondi di sostegno alla ricerca attraverso i vari strumenti disponibili, la ridefinizione delle regole e caratteristiche dei dottorati di ricerca, l’accreditamento dei percorsi formativi ai vari livelli, la fissazione dei parametri prestazionali su cui concentrare l’attenzione sono tutti ambiti naturali e preziosi di intervento. La fissazione delle regole e la verifica del loro rispetto, tuttavia, non richiedono interventi attuativi pesanti o la moltiplicazione delle procedure e dei passaggi attualmente in vigore che diluisce responsabilità e tempi, di fatto svilendo autonomia e ruolo centrale di coordinamento e indirizzo. Un sistema universitario più forte ha bisogno di un ministero più forte, che sappia reintepretare in chiave moderna il ruolo dello Stato senza cadere nella tentazione inattuale di governo diretto dell’intero sistema. Sono da potenziare, viceversa, meccanismi indiretti non solo legati alla fissazione delle regole, ma, tra gli altri, per esempio, all’allocazione delle risorse addizionali destinate al sistema della ricerca. Valorizzazione della ricerca come presupposto per il technology transfer Deve essere sottolineato con forza come un dato di fatto che non merita discussione, vista l’assoluta convergenza dei dati e delle analisi in merito, la centralità della ricerca scientifica per assicurarsi l’opportunità di uno sviluppo economico fortemente incentrato sull’innovazione e l’applicazione commerciale di nuova conoscenza. Per favorire lo sviluppo economico, dunque, non si deve affatto disincentivare la ricerca di base a favore di quella applicata. Al tempo stesso, tuttavia, è fondamentale rico-


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noscere che il trasferimento con successo della nuova conoscenza nel sistema economico non può avvenire solo grazie alla disponibilità di una maggiore e migliore “scienza”. Contemporaneamente al forte sostegno alla ricerca nelle sue diverse forme, dunque, è fondamentale investire sia attraverso fondi dedicati, sia attraverso un radicamento forte sul territorio dei numerosi programmi europei, sia attraverso un coinvolgimento importante delle Regioni, nelle diverse forme del cosiddetto “technology transfer”. Ciò può essere fatto in primo luogo rafforzandone i presupposti istituzionali, quali ad esempio il controllo degli Ipr da parte delle università e l’esplicita introduzione nel sistema premiante di indicatori legati al trasferimento tecnologico. In secondo luogo, è auspicabile l’identificazione di questa area specifica come una delle aree di attenzione istituzionale stabile da parte del ministero nell’accezione sopra delineata, come strumento di naturale coordinamento con altri attori istituzionali impegnati sul fronte delle politiche di supporto all’innovazione. Istituzionalizzazione dei processi di peer-review Tra i vari aspetti più operativi trasversali ai diversi ambiti di applicazione, l’istituzionalizzazione dei meccanismi di peer-review appare essere un elemento centrale, di facile attuazione, con un forte significato simbolico e la possibilità di raggiungere in tempi brevi risultati importanti. Pur nelle sue diverse accezioni e caratterizzazioni che ne connotano differenze intersettoriali anche significative, esso rappresenta il sistema di riferimento adottato a livello europeo nell’ambito dell’European Research Center e un cardine per lo sviluppo dell’intera area europea della ricerca. Le sperimentazioni avviate in Italia con le esperienze dei primi Prin ne confermano la piena applicabilità anche nel nostro paese e non giustificano più alcun ritardo operativo. Forte sostegno centrale alla mobilità Un ulteriore elemento prioritario risulta essere la mobilità come proprietà del sistema. Questo attiene alla mobilità studentesca nelle sue diverse forme, all’inizio degli studi, durante gli studi, tra


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le sedi, a diversi stadi del percorso degli studi, tra ambiti disciplinari differenti. Ma attiene anche alla mobilità dei docenti, anch’essa declinabile territorialmente, disciplinarmente, verticalmente in chiave di stadi di carriera, ma anche orizzontalmente, in chiave di flessibilità non solo in ingresso, ma anche in uscita dal sistema della ricerca e dell’università. Per rendere possibili reali cambiamenti in questo senso è necessario lavorare su incentivi non solo istituzionali, quali ad esempio gli attuali fondi per la mobilità del personale docente o il trasferimento per il diritto allo studio ai vari atenei, ma anche individuali, quali ad esempio la predisposizione di fondi per la rilocalizzazione da destinare direttamente ai docenti per sostenere i costi legati al cambiamento di sede o borse di studio direttamente assegnate agli studenti e da questi liberamente spendibili sul territorio di loro scelta.

Public procurement Assetti legislativi e impatto sull’innovazione L’Unione europea è intervenuta da non molto tempo con una revisione importante della legislazione sugli appalti pubblici attraverso le direttive 2004/17 e 2004/18, individuando il 2010 come momento fissato per una revisione dell’impatto delle stesse sui processi di R&S e innovazione. Dando seguito alle raccomandazioni indirizzate ai paesi membri, appare necessario procedere con tempestività all’analisi dell’evoluzione del percorso legislativo nazionale conseguente all’emanazione di tali direttive. La sua strutturazione dovrà provvedere opportuni stimoli per la domanda di prodotti innovativi, indirizzando le traiettorie tecnologiche in ambiti fondamentali, quali ad esempio Ict e sanità, attraverso corrette pratiche di gestione della domanda pubblica. Foresight e sviluppo dei mercati L’utilizzo e la rilevanza di analisi di scenario futuro e di applicazioni settoriali delle diverse tecniche di foresight si va sistematicamente affermando come un elemento centrale nell’indirizzo di numerose attività caratterizzate da elevato contenuto tecnologi-


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co. Questo tipo di approccio vede tipicamente coinvolti soggetti di natura privata, interessati o in quanto produttori o in quanto utilizzatori di tecnologie. Assai meno diffusa, se non assente il più delle volte, è la consapevolezza di un ruolo centrale giocato in questo senso anche dalle diverse amministrazioni pubbliche direttamente coinvolte o come utilizzatori diretti o come erogatori di servizi incentrati sull’evoluzione delle nuove tecnologie. Una sensibilizzazione generale e un indirizzo più specifico, da strutturare secondo modalità diverse a seconda degli ambiti di interesse, a una sistematico sviluppo di attività di foresight anche all’interno della pubblica amministrazione rappresenta un intervento imprescindibile per incidere positivamente sia su dimensioni più soft, quale un cambiamento della cultura organizzativa nei confronti del ruolo del public procurement, sia su aspetti più direttamente operativi, quale la diffusione di una conoscenza aggiornata dello stato dell’arte che possa portare a pratiche di acquisto svincolate da un mero confronto di convenienza economica – spesso comunque difficilmente applicabile in contesti a elevato contenuto e specificità tecnologica. Procedure di bando, valutazione e assegnazione dei contratti Le raccomandazioni contenute nelle numerose indicazioni a livello europeo sulle modalità di intervento procedurale in grado di influenzare positivamente le dinamiche di stimolo della domanda attraverso il public procurement convergono su alcuni punti. In primo luogo, la necessità di includere esplicitamente nei bandi dei criteri sui quali misurare l’innovatività dei prodotti/soluzioni proposte e oggetto del bando. Conseguentemente, definire procedure di selezione che consentano di dare adeguata importanza a tali criteri, mantenendo al contempo, tuttavia, una forte attenzione ai termini di garanzia di prestazioni, di responsabilità e di vincoli all’implementazione che, a seconda dei livelli di innovatività della soluzione proposta, vadano oltre un classico problema di tutela del contraente e dei soggetti eventualmente coinvolti nel servizio, accettando, laddove possibile e secondo le specificità legislative nazionali, le attività di fornitura anche come opportunità di sperimentazione e aggiusta-


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mento dei bisogni e delle prestazioni correlate. Questo tipo di raccomandazioni porta direttamente alla necessità da parte delle amministrazioni di prefigurare organi propri, o meglio terzi, a cui appoggiarsi per valutazioni di carattere tecnico-scientifico, che possano fungere da supporto non solo nella valutazione delle proposte, ma anche nella fissazione dei criteri di selezione, nella loro articolazione e nella definizione di scenari contrattuali compatibili con le esigenze dell’acquirente e con le caratteristiche di innovatività della commessa. Gestione dei diritti di proprietà intellettuale Ogni attività di public procurement orientata a prodotti e soluzioni innovative pone automaticamente il problema dei diritti di proprietà intellettuali coinvolti nella transazione. Nella sua forma più semplice ciò riguarda una mera definizione dei limiti associati all’uso, replicazione e condivisione dei beni e servizi oggetto della transazione così come sarebbe il caso con un qualsiasi interolocutore privato. La potenzialità di traino insita nel public procurement e la rilevanza commerciale futura a essa potenzialmente collegata, tuttavia, rende potenzialmente un interlocutore pubblico fortemente anomalo rispetto a uno privato, anche con riguardo alle aspettative sulla circolazione o meno dei diritti di proprietà intellettuale sia direttamente associati alla transazione, sia indirettamente derivabili da un suo sviluppo previsto o non previsto. In questo ambito specifico, preservando in ogni forma il principio del libero mercato come elemento di riferimento per gli output immateriali della transazione, appare comunque possibile prefigurare scenari molto diversi in termini di crescita complessiva delle conoscenze del paese derivabile da attività di indirizzo di ricerca e innovazione attraverso la domanda pubblica. Appare dunque importante definire linee di indirizzo generale in proposito che servano da principi di riferimento per l’intero settore pubblico in tutte le sue forme, al fine di garantire omogeneità di condizioni e svincolarle dall’arbitrarietà della singola amministrazione o di porzioni del territorio.


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Finanza Aumentare la dotazione di finanza pubblica Il problema della scarsa dotazione finanziaria a favore delle politiche per l’innovazione e la ricerca non appare risolvibile strutturalmente; una redistribuzione a monte tra risorse destinate ad altri macrosettori appare di difficile attuazione, a tutti i livelli di governo, europeo, nazionale e regionale. Non essendo plausibile nel breve periodo lo spostamento di quote anche piccole delle risorse allocate ai settori di intervento tradizionali, è pertanto opportuno attivare forme di coordinamento leggero tra competenze politiche (e quindi capitoli di bilancio) che incorporano strutturalmente la necessità di finanziare l’innovazione, quali in primo luogo le politiche energetiche, sanitarie, agricole e dei trasporti. Ciò si concretizza nell’impegno per i diversi settori di concertare una quota fissa del budget di spesa allocandola a favore di iniziative che coniughino obiettivi di efficienza statica ed efficienza dinamica. La capacità di utilizzare lo stesso euro sia per le politiche tradizionali sia per le politiche a sostegno dello sviluppo e della competitività può consentire di mobilitare risorse di un ordine di grandezza superiore di quelle oggi disponibili a sostegno dell’innovazione. È opportuno quindi che ai diversi livelli di decisione politica si attivino forme di progettualità trasversale, volte a integrare più strettamente politiche di settore e politiche dell’innovazione. Strumenti per il capitale di rischio: l’offerta Complessivamente, le attuali politiche di incentivo al capitale di rischio non sembrano adeguate all’ampiezza del gap di mercato che distanzia l’Italia dal resto degli altri paesi, sia per ammontare sia per modalità di intervento. È necessario ridefinire gli strumenti di intervento seguendo modelli che premino la nascita e il consolidamento di operatori specializzati nell’high-tech e nell’early stage financing, ampliando il loro bacino di risorse funzionali all’acquisizione e allo sviluppo di nuove imprese ad alto potenziale ma, nello stesso tempo, non snaturandone il ruolo di operatore privato. Questo obiettivo può essere colto in maniera bilanciata attraverso la costituzione di fondi di fondi a capitale


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misto pubblico-privato. In tali iniziative, il soggetto pubblico mantiene il proprio ruolo istituzionale, garantendo e co-finanziando, mentre il soggetto privato seleziona gli investimenti e vi compartecipa assumendosi gran parte dei rischi d’impresa. L’efficacia dei fondi di investimento è legata principalmente al fatto che la loro gestione venga esercitata da strutture prevalentemente indipendenti dal soggetto pubblico. I fondi di fondi a capitale pubblico prevedono un intervento poco invasivo dell’operatore pubblico nella gestione del fondo, quasi esclusivamente delegata a una società privata. Strumenti per il capitale di rischio: la domanda Dopo una lungo periodo di difficoltà nella fase di raccolta e quindi di disponibilità di capitali di rischio per il sostegno all’imprenditorialità innovativa, la situazione attuale è caratterizzata dalla difficoltà di allocare anche le scarse risorse raccolte. La necessità di riequilibrare domanda e offerta passa attraverso la risoluzione di alcuni problemi di tipo strutturale, sulla base di una nuova interpretazione della nozione di sussidiarietà tra capitale pubblico e capitale privato. Il riequilibrio tra domanda e offerta di capitali di rischio passa attraverso la creazione di un sistema di opportunità, capace di generare, con l’ausilio dei tradizionali strumenti della politica per l’innovazione, imprese caratterizzate da un profilo di rischio adeguato al portafoglio dei venture capitalist. In questo senso, oltre a una necessaria forma di sinergia con il mercato del credito o quello intermedio del mezzanino, appare opportuno dotarsi di una serie di strumenti atti a sostenere e a facilitare il transito nella fase early stage delle imprese provenienti da settori science-based. Tra gli strumenti da attivare appaiono particolarmente rilevanti l’affiancamento di competenze di carattere manageriale e legale-societario di alto profilo alle imprese nella fase seed (eventualmente attraverso un sistema di voucher) e l’abbassamento dei costi di avvio della attività, ivi compresi in particolare quelli legati all’eventuale fallimento. Coinvolgere i mercati del credito In relazione alle cicliche difficoltà che investono i mercati del-


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l’equity, appare difficilmente sostenibile l’ipotesi che il sistema bancario possa rinunciare completamente a sostenere le imprese impegnate in attività innovative. Solo un sistema territorialmente distribuito come quello bancario può infatti incidere profondamente su un sistema industriale del tutto peculiare, caratterizzato da imprese spesso molto piccole, con forte valenza locale e assetti manageriali ancora largamente inadeguati a instaurare rapporti con il grande capitale nazionale e internazionale. È quindi auspicabile che il sistema bancario possa giocare un ruolo estremamente rilevante nelle fasi di avvio di un processo di crescita innovation-based del nostro sistema industriale, accompagnando quest’ultimo verso soglie dimensionali e capacità manageriali adatte ad accedere ad altre forme di finanziamento, strutturalmente più adeguate al profilo di rischio dell’attività innovativa. In particolare, la nuova disciplina derivante dagli accordi di Basilea II offre la possibilità di incidere considerevolmente sulle asimmetrie informative che limitano la capacità di finanziamento, facendo leva sugli elementi di valutazione qualitativa previsti nella valutazione del rischio di credito. In questa direzione, un’opportunità strategica risiede nella specializzazione tecnologica settoriale, tipica ad esempio di molti venture capitalist, accompagnata dalla crescita di competenze specifiche interne. Dall’altro potrebbe costituisce un’opzione di interesse politico la formulazione di un quadro di accordi con istituzioni e centri di ricerca pubblici e privati, dove tipicamente risiedono le competenze necessarie alle attività di technology assessment e di prospezione tecnologica. Particolarmente interessante appare il sostegno pubblico a programmi di formazione congiunta on the job tra giovani ricercatori e funzionari preposti all’erogazione del finanziamento. In secondo luogo, il coinvolgimento del capitale di credito deve essere favorito attraverso un intervento strutturale sul sistema di concessione di garanzie, ad esempio prevedendo fondi destinati alla mutualizzazione del rischio di attività tra imprese giovani e di piccola dimensione operanti in settori ad alta tecnologia.


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Personalità coinvolte

Lilia ALBERGHINA, Università degli Studi di Milano Bicocca Paolo ANNUNZIATO, direttore Public Affairs, Telecom Italia Michele APPENDINO, direttore generale, Net Partners Francesco ARCHETTI, direttore generale, Consorzio Milano Ricerche Arturo ARTOM, presidente, Netsystem Paolo BACCOLO, direttore generale, DG Industria, Pmi e cooperazione, Regione Lombardia Andrea BAIRATI, assessore, Regione Piemonte Fabrizio BARCA, dirigente generale, ministero dell’Economia e delle finanze Roberto BARONTINI, ordinario di finanza aziendale, Scuola superiore Sant’Anna di Pisa Marisa BEDONI, presidente, Finlombarda Spa Andrea BIANCHI, direttore generale Sviluppo produttivo e competitività, ministero dello Sviluppo economico Patrizio BIANCHI, rettore, Università di Ferrara Pietro BIZZOTTO, direttore Marketing e sviluppo clienti, Csi Piemonte Andrea BONACCORSI, professore ordinario, Università di Pisa Giampio BRACCHI, presidente, Aifi - Associazione italiana del Private Equity e Venture Capital Raffaele BRANCATI, presidente, MET Srl Luciano CAGLIOTI, pro-rettore per la Ricerca e sviluppo, Università degli Studi di Roma La Sapienza Armando CAMPAGNOLI, assessore Attività produttive, sviluppo economico, piano talematico, Regione Emilia Romagna Sergio CAMPO DALL’ORTO, consigliere delegato per la Ricerca, Consorzio Politecnico Innovazione Giovanni CONSO, presidente, Accademia nazionale dei Lincei


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Eugenio CORTI, presidente, APSTI - Associazione dei Parchi scientifici e tecnologici italiani Daniela D’ALOISI, responsabile di progetti, fondazione Ugo Bordoni Lina D’AMATO, responsabile Area coordinamento società regionali, Sviluppo Italia Adriano DE MAIO, sottosegretario alla Presidenza con delega all’Alta formazione, ricerca e innovazione, Regione Lombardia Enrico DECLEVA, rettore, Università statale di Milano Nevio DI GIUSTO, amministratore delegato, Centro ricerche Fiat Paolo DIPRIMA, direttore del Corporate Center, San Paolo Imi Private Equity Sergio DOMPÉ, presidente, Dompé farmaceutici Massimo EGIDI, rettore, Luiss Guido Carli Gianni FABRI, amministratore delegato, Fondazione Torino Wireless Roberto FALAVOLTI, presidente e direttore generale, Innovazione Italia Gabriele FALCIASECCA, presidente, fondazione Guglielmo Marconi Ferruccio FERRANTI, consigliere delegato, Sviluppo sistema fiera, fondazione Fiera Milano Ennio FRANCESCHETTI, presidente, Consorzio per l’innovazione tecnologica Inn. Tec. Paolo FUNDARÒ, amministratore Unico, Congenia Srl Riccardo GALLO, presidente, Ipi - Istituto per la promozione industriale Silvio GARATTINI, direttore, Istituto Mario Negri Gaudenzio GARAVINI, direttore generale, Regione Emilia Romagna, direzione generale Organizzazione, personale, sistemi informativi e telematica Anna GERVASONI, direttore generale, Aifi - Associazione italiana del Private Equity e Venture Capital Claudio GIULIANO, direttore Finanza, Fondazione Torino Wireless Pietro GUINDANI, amministratore delegato, Vodafone Omnitel Sonia KOHN, presidente, Bank Medici AG Linda LANZILLOTTA, ministro, ministero degli Affari regionali Mauro MALLONE, dipartimento Innovazione, IPI - Istituto per la promozione industriale Gabriello MANCINI, presidente, fondazione Monte dei Paschi di Siena Gaetano MANFREDI, consigliere del ministro, ministero per le Riforme e innovazione nella Pubblica Amministrazione Carlo MANGO, Programme Officer Senior, Fondazione Cariplo Alfredo MARIOTTI, direttore generale, Ucimu - Sistemi per produrre Patrizia MATTIOLI, responsabile Area innovazione tecnologica e professioni, Cgil


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Nicola MELIDEO, direttore Area innovazione per le Regioni e gli enti locali, Cnipa - Centro nazionale per informatica nella Pubblica Amministrazione Francesco MERLONI, presidente, Merloni finanziaria Vincenzo MILANESI, rettore, Università degli studi di Padova Luciano MODICA, sottosegretario, ministero dell’Università e della ricerca Massimo MONDINI, amministratore delegato, Strategia Italia Annibale MOTTANA, professore ordinario, Università degli studi Roma Tre e Accademia dei Lincei Edoardo NARDUZZI, presidente, Lait Spa Marco NICOLAI, direttore generale, Finlombarda Spa Luigi NICOLAIS, ministro, ministero per le Riforme e innovazione nella pubblica amministrazione Fabio PAMMOLLI, direttore e professore di Economia e management, Imt Alti Studi di Lucca Angelo Maria PETRONI, segretario generale, Aspen Institute Italia Nicola PIAZZA, presidente, Sviluppo Italia Francesca PASQUINI, dirigente Innovazione, Agenzia regionale - Sistema di istruzione e lavoro Andrea PICCALUGA, ordinario di Economia e gestione delle imprese, Università degli Studi di Lecce Alberto PIERI, Segretario generale, Fast - Federazione delle associazioni scientifiche e tecniche Lucio PINTO, direttore, Fondazione Silvio Tronchetti Provera Elserino PIOL, presidente, Pino Partecipazioni Spa Gianfranco POLILLO, capo di gabinetto, ministero per l’Attuazione del programma di governo Giuseppe PROVENZANO, docente di Finanza aziendale, Università degli Studi di Brescia Giovanni A. PUGLISI, rettore, Iulm - Istituto universitario di lingue moderne Alberto QUADRIO CURZIO, professore ordinario di Economia politica, Università Cattolica del Sacro Cuore Raffaele RANUCCI, Sviluppo economico, ricerca, innovazione e turismo, Regione Lazio Renato RAVASIO, presidente, Finlombarda Gestioni Sgr Spa Maria Pia REDAELLI, direttore di funzione specialistica Progetto Alta formazione, ricerca e innovazione, Regione Lombardia Luigi RICCIARDI, direttore, Biopolo Scrl Riccardo RIFICI, direzione generale Salvaguardia ambientale, ministero dell’Ambiente Carlo RIZZUTO, presidente, Sincrotrone SCpA


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Gianfelice ROCCA, vicepresidente Area Education, Confindustria Aldo ROMANO, professore ordinario di Economia dell’innovazione, Università degli Studi di Lecce Umberto ROSA, amministratore delegato, Sorin Group Rita ROSSI, direzione Attività produttive, Regione Abruzzo Claudio ROVEDA, Consigliere delegato per la ricerca, Fondazione Rosselli Silvio RUBBIA, presidente, Gramma Srl Tommaso SALTINI, Associate Industrial Investment Analyst, Unido Giorgio SALVINI, presidente onorario, Accademia nazionale dei Lincei Fabio SATTIN, presidente, Private Equity Partners Sgr Spa Alberto SILVANI, direttore Centro d’ateneo per l’innovazione e il trasferimento tecnologico, Università statale di Milano Giuseppe SILVESTRI, rettore, Università degli studi di Palermo Gianpiero SIRONI, professore ordinario della facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali, Università statale di Milano Walter TOCCI, deputato del Partito Democratico, Camera dei Deputati Gianni TONIOLO, professore ordinario di Storia economica, Università degli studi di Roma Tor Vergata Guido TROMBETTI, presidente, Crui Luca UNGARELLI, partner, Value Partners Giuseppe VALDITARA, senatore di Alleanza Nazionale, Senato della Repubblica Stefano VENTURI, vicepresidente, Cisco Systems Inc. Giuseppe VEREDICE, amministratore delegato, Telespazio Roberto VERGANTI, professore ordinario di Gestione dell’innovazione, Politecnico di Milano Giuseppe VIESTI, professore straordinario, Università di Padova Raffaello VIGNALI, presidente, Compagnia delle Opere Mario ZANONE POMA, presidente, Intesa Mediocredito Vincenzo ZANNI, presidente, Elsag


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Bibliografia

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Gli autori

MARIO CALDERINI è professore straordinario presso il dipartimento di Sistemi di produzione ed economia dell’azienda del Politecnico di Torino, dove insegna Strategia e management dell’innovazione. È inoltre vicedirettore della Scuola di dottorato del Politecnico di Torino e responsabile scientifico della Summer School in Management of Innovation dell’Alta scuola politecnica dei Politecnici di Milano e Torino. Dal 2005 è presidente di Finpiemonte, la finanziaria di sviluppo della Regione Piemonte. I suoi interessi di ricerca si concentrano nel campo dell’economia e del management dell’innovazione, con particolare riferimento alle politiche pubbliche per l’innovazione, allo studio delle determinanti dell’attività innovativa delle imprese, al finanziamento dell’innovazione e all’utilizzo strategico della proprietà intellettuale. FRANCESCO CRESPI è assegnista di ricerca presso la facoltà di Economia dell’Università degli Studi Roma Tre. È autore di diverse pubblicazioni internazionali su temi relativi all’economia del cambiamento tecnologico e cura per la Fondazione Cotec il Rapporto annuale sull’innovazione. ENRICO FORTI è research fellow e presso il dipartimento di Scienze aziendali dell’Università di Bologna. Si occupa di economia e marketing dell’innovazione, con particolare attenzione ai beni esperienziali, alle esternalità di rete e alla relazione tra strategia dell’impresa e appropriabilità del surplus dell’innovatore. È autore di pubblicazioni internazionali su temi relativi all’economia dell’innovazione. CARMELO MAZZA è professore affiliato presso il dipartimento di Organizational Behavior della Grenoble École de Management, e visiting


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professor di Teoria organizzativa presso l’Istituto de Empresa (Madrid). Collabora, inoltre, con la facoltà di Economia R. Goodwin dell’Università degli Studi di Siena. I suoi interessi di ricerca si concentrano nel campo della teoria istituzionalista delle organizzazioni, con particolare riferimento al tema della trasformazione e delle persistenza delle istituzioni. Le sue pubblicazioni in ambito internazionale comprendono anche studi sulla creatività nelle organizzazioni. MARCO NICOLAI è direttore generale di Finlombarda Spa, la finanziaria della Regione Lombardia e amministratore delegato di Finlombarda Gestioni Spa. È professore a contratto di Finanza aziendale straordinaria presso l’Università degli Studi di Brescia, facoltà di Economia, e di Finanza pubblica presso il Politecnico di Milano, facoltà di Ingegneria gestionale. È membro del consiglio di amministrazione di Aifi, responsabile della commissione Infrastrutture e sviluppo territoriale e consigliere della Fondazione Rosselli, per la quale è anche direttore scientifico del Centro di Ricerca Ifip - Istituto per la finanza innovativa e pubblica. È autore di numerose pubblicazioni in ambito finanziario e collabora stabilmente con alcuni quotidiani economici nazionali. PAOLO QUATTRONE è lecturer in Management Studies alla Saïd Business School dell’Università di Oxford e official student a Christ Church. È tra i fondatori di Italian Studies at Oxford, un network interdisciplinare che si occupa dello studio della cultura, società, economia e politica dell’Italia contemporanea. Si occupa dello studio della diffusione e del successo delle pratiche amministrative e di controllo aziendale. La sua ricerca si sta indirizzando verso lo studio delle pratiche di governance dei processi di formazione delle élite, di gestione dei flussi migratori e sulla accountability delle istituzioni coinvolte in tali processi. ANGELO RICCABONI è preside della facoltà di Economia Richard Goodwin dell’Università di Siena. Professore ordinario di Economia aziendale, è componente del Management Committee (Consiglio direttivo) della European Accounting Association. La sua attività di ricerca è focalizzata sui temi del governo e controllo aziendale e del cambiamento nelle università. Ha pubblicato molteplici monografie, anche con case editrici internazionali, quali Kluwer e Routledge, e articoli su riviste nazionali ed estere. MAURIZIO SOBRERO è professore ordinario di Gestione dell’innovazione presso l’Università di Bologna, dove dal 2006 dirige il dipartimento


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di Scienze aziendali. È membro del Comitato di esperti per l’innovazione tecnologica e la ricerca della Regione Emilia Romagna e membro indipendente non esecutivo del consiglio di amministrazione di Zignago Vetro Spa. Si occupa di economia e gestione dell’innovazione tecnologica, con particolare attenzione alle attività di sviluppo prodotto, al rapporto tra struttura proprietaria e investimenti in R&S, alla relazione tra investimenti in R&S e valore di mercato dell’impresa. Su questi temi ha pubblicato cinque libri e numerosi articoli in riviste internazionali e nazionali. RICCARDO VIALE è docente stabile di Politica della ricerca e dell’innovazione presso la Scuola superiore della Pubblica Amministrazione di Roma e professore ordinario di Logica e Filosofia della scienza presso la facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Membro e visiting scholar di diversi atenei stranieri, è fondatore e presidente della Fondazione Rosselli; direttore generale della Fondazione Cotec, direttore del Laboratorio sull’innovazione, la ricerca e l’impresa (Lira) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca; direttore scientifico dell’Istituto di metodologia della scienza e della tecnologia di Torino. Attualmente è editorialista de “Il Sole 24 Ore”.


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Finito di stampare nel febbraio 2008 Dalla L.E.G.O Spa, stabilimento di Lavis (Trento) Il Sole 24 ORE Spa


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