Š 2009 - Testo di Angelo R. Todaro
Angelo R. Todaro
ieri ed oggi Quasi una guida sull’antico itinerario per un viaggio affascinante
La via della seta
Il filo sottile che legò l’Oriente all’Occidente Questo libro vuol essere un viaggio avventuroso e immaginario sulla storica “Via della seta”, ma anche una utile guida per chi volesse percorrere oggi lo stesso itinerario. Scopriamone la storia, perché nacque e fu sviluppata, ma anche come si presenta oggi quella “via” a distanza di vari secoli dal suo massimo splendore. L’antica Via della seta terrestre partiva da Chang’an ed arrivava a Roma. Chang’an era la capitale della Cina oltre 2000 anni fa e corrisponde all’attuale Xi’an, capoluogo della provincia dello Shaanxi, nella parte centro-settentrionale del paese. Per portare le merci della Cina in Occidente e viceversa occorreva, quindi, attraversare la maggior parte del continente asiatico. Tra i due estremi, l’impero cinese e il mondo classico e iranico, si trova dunque l’Asia Centrale, un’immensa regione prevalentemente stepposa e desertica, interrotta soltanto dalle catene montuose dell’Altai, dei Tianshan e dei Nanshan. In questa regione fiorirono, fin da epoche molto antiche, due diversi sistemi di vita e di economia, opposti e ostili fra loro ma destinati a interagire l’uno con l’altro. Ad oriente dell’Asia Centrale fioriva l’impero cinese, che era in contatto con le regioni centroasiatiche attraverso la provincia nordoccidentale del Gansu, attraversata dal cosiddetto «corridoio di Hexi», passaggio naturale che conduce dal cuore della Cina verso le regioni dell’Asia Centrale. Ad occidente troviamo invece i grandi imperi persiani e achemenide, ai quali seguirono, dopo le conquiste di Alessandro Magno, i regni «indo-greci» di Battriana e Sogdiana. Il primo regno è famoso perché fu patria di origine del mezzo di trasporto maggiormente utilizzato lungo la Via della seta, il cammello battriano; la Sogdiana è stata invece per generazioni terra di abili mercanti che spesso hanno monopolizzato il commercio tra Asia Orientale ed il Mediterraneo. Non sappiamo precisamente quando i mercanti abbiano iniziato i loro traffici lungo la via, tuttavia dai dati storici emerge che il periodo più prospero risale al secondo secolo d.C. Da allora, per oltre mille anni fino alla metà del XIV secolo, attraverso questa antica via, la Cina e i vari paesi occidentali (cioè l’Asia centrale, meridionale, ed occidentale, l’Africa e l’Europa), hanno avuto ampi scambi in molti settori. Grazie a questa via, la seta, la siderurgia, la carta, la porcellana, la tecnica di scavo dei pozzi, il tè e molto altro furono esportati dalla Cina in Occidente, mentre gli articoli di lana, il vetro, l’agata, il cotone, l’uva, i cocomeri ed altro furono introdotti in Cina. 5
La via della seta
1 Il lungo viaggio della seta Per migliaia di anni la Via della seta, il fascio di strade che univa la Cina al Mar Mediterraneo, è stata il più importante canale di transito, oltre che della seta e di altri merci, anche delle idee e delle culture tra l’Asia e il mondo occidentale. La ripercorriamo in un viaggio ideale che ci porta dai cortili della Città Proibita, oggi aperti alla curiosità dei turisti, fino alle città dell’inquieta area tra Siria e Iraq e, infine, a Damasco in Siria. Un viaggio attraverso meraviglie naturali e archeologiche e tutte le difficoltà di un mondo millenario
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oche altre denominazioni, oltre quella di «Via della seta», hanno in sé la capacità di possedere un forte potere evocativo, di suscitare emozioni e far viaggiare la nostra immaginazione su sconfinati scenari naturali che hanno segnato il destino di popoli e culture. Infatti, per un periodo di oltre duemila anni, dal 500 avanti Cristo al 1500 dopo Cristo, una rete fatta di strade e tratte carovaniere, che divenne lunga oltre 7000 chilometri, costituì il percorso lungo il quale furono trasportate merci e conoscenze tra la Cina, l’India, il Medio Oriente e l’Europa, ma anche viceversa. Erano quelli allora i quattro territori principali del mondo civilizzato. Un secolo fa, lo studioso e geografo tedesco Ferdinand von Richtofen (foto a lato) coniò la frase «via della seta» per sintetizzare efficacemente gli intensi traffici commerciali e gli scambi culturali intercorsi tra Oriente e Occidente. Con quella denominazione egli voleva indicare più precisamente quell’insieme di percorsi carovanieri e rotte commerciali che congiungevano la Cina al bacino del Mediterraneo, lungo il quale nei secoli sono transitate carovane di cavalli e cammelli carichi della preziosa seta, della quale la Cina ha conservato a lungo il segreto della lavorazione, garantendosi il monopolio del prodotto tanto ricercato nell’impero di Roma. 6
Ancor oggi il termine «via della seta» è sinonimo di esotismo, avventura, viaggio in terre lontane, ma anche d’intensi e prolungati rapporti tra Oriente e Occidente, un nome-simbolo vivo e attuale, sovente utilizzato come denominazione per progetti culturali e interdisciplinari di ampio respiro che vedono coinvolti studiosi, archeologi e scienziati sia orientali che occidentali. La cosiddetta «via della seta» dovremmo in realtà chiamarla al plurale perché tante erano le rotte carovaniere che, attraverso le vaste regioni dell’Asia Centrale, mettevano in contatto popoli tanto diversi. Attraverso i secoli, su queste molte rotte si sono spostati mercanti delle piú diverse provenienze e nazionalità coi loro prodotti (seta, profumi, spezie, oro, pelli, metalli, porcellane, medicinali, schiavi, ecc.), si sono mossi condottieri con i loro eserciti, uomini di fede, esploratori, ambasciatori ed emissari, pellegrini, artisti e così via. La «Via della seta» ebbe quindi la funzione di diffondere anche esperienze culturali e religiose dalle piú diverse matrici: classica, iranica, indiana, cinese. Ecco perché noi ci siamo chiesti: cosa vedremmo, oggi, se percorressimo la stessa rotta degli antichi mercanti? se rifacessimo quello stesso viaggio partendo dal cuore della Cina, attraverso gli stessi territori e le stesse città? Sicuramente nei secoli ci sono cose che si sono modificate, le città e le genti, chi più chi meno,
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Due vecchie carte con il tracciato della Via della seta.
ma altre sono rimaste quasi immutate, come ad esempio le vaste pianure, il deserto del Gobi e i monti del Tibet, e i fiumi e i laghi che farebbero da cornice al nostro favoloso viaggio. Così abbiamo scoperto che, viaggiando sulla «Via della seta», potremmo non solo vedere come sono diventate oggi quelle città e quelle genti, ma anche visitare i luoghi che il passare del tempo ha trasformato in interessanti siti archeologici. Ad esempio la Grande Muraglia che si estendeva in lunghezza per oltre 7000 km per difendere il nord della Cina dai Mongoli; gli ottomila soldati di terracotta che Qin Shihuang, il primo imperatore cinese, fece disporre a protezione del suo mausoleo alle porte di Xi’an; le Grotte di Mogao, meta importante perché
ospitava i Buddha e i Bodhisattva (cioè gli “Illuminati” che pronunciavano i loro voti); le suggestive rovine di Jiaohe, un avamposto militare creato in epoca Han per la protezione della frontiera; l’antica e fascinosa Persepoli, con le tombe dei re persiani Serse e Dario; Palmyra, la più ricca e famosa delle città carovaniere; la vicina e folgorante Damasco, edificata 3500 anni fa e celebre per le sue stoffe, e tanto altro… Però, quale via intraprendere? Oggi gli itinerari che prendono il nome «Via della seta» si moltiplicano, anche inventati, nei depliant dei tour operator e, inoltre, i percorsi seguiti dai viaggiatori lungo le antiche rotte sono spesso mutati nel tempo, seguendo le al7
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terne fortune delle vicende politiche dei vari Stati attraversati dalle carovaniere. Però qualcuna di quelle vie è rimasta invariata nei secoli e noi una di quelle abbiamo scelto; abbiamo preferito una via «classica», una via che, partendo dall’antica capitale cinese Chang’an, che Tolomeo chiamava Sera Metropòlis e che oggi ha nome Xi’an, raggiungeva l’oasi di Dunhuang (cioè Raggio luminoso); poi correva in doppio tracciato lungo i bordi del deserto di Taklamakan (l’immenso deserto del Sinkiang cinese che confina con quello sassoso del Gobi), si ricongiungeva a Kashgar (la più occidentale di tutte le città cinesi), proseguiva verso la “Torre di Pietra” (il misterioso Lithinos Pyrgos de-
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scritto da Tolomeo); da questo tronco principale si diramavano tortuose carovaniere che solcavano l’immensa Kashgaria degli antichi cartografi, attraversavano montagne vertiginose in direzione di Samarcanda, Persepoli o dei grandi mercati della Persia, fino a raggiungere le rive del Mediterraneo a Damasco o ad Antiochia, oppure ad Alessandria, da dove proseguivano per Roma. Ecco il nostro viaggio… un viaggio affascinate, non credete? Un viaggio che si snoda tra ben sette Stati, tra grandi e piccoli: Cina, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Iran, Turchia (al posto dell’Iraq) e Siria. Che intanto potrete intraprendere in “anteprima” attraverso le
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queste pagine. Conosceremo le città e le genti che oggi s’incontrano su questa via e, nel frattempo, menzioneremo i numerosi protagonisti di questo affascinante e straordinario viaggio lungo le vie carovaniere che hanno segnato i percorsi della storia; spiegheremo cosa oggi è possibile visitare nei dintorni della via scelta, quali le culture e i luoghi archeologici più interessanti, in modo che tutto ciò possa far da guida ai più avventurosi, a coloro che vorranno percorrere personalmente la «Via della seta». E ciò non è impossibile. Certamente oggi il Medio Oriente non è luogo da consigliarsi ad un turista e ci sono zone dove è proprio
impossibile recarsi. In questa situazione una carovana d’oggi, giunta a Samarcanda, devierebbe il suo percorso, magari inoltrandosi nella Russia per raggiungere l’Italia attraverso l’Ucraina, la Romania e l’Illiria; oppure, giunta in Siria, devierebbe verso la Turchia, e così potremmo fare noi… Ad ogni modo il percorso da Xi’an fino a Samarcanda è abbastanza tranquillo e sicuro. Nel prossimo capitolo inizieremo il nostro viaggio, partendo da Xi’an, anche se il turista che raggiunge la Cina con un volo internazionale deve necessariamente arrivare prima a Beijing, cioè Pechino, e da là portarsi a Xi’an. Il percorso del nostro viaggio inizia da Xi’an e si snoda su ben sette nazioni fino a Damasco. La via originaria (tratteggiata in rosso) passava per l’attuale Iraq.
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Le fibre tessili in Occidente e la seta d’Oriente
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on sappiamo in quale periodo e per quale ragione gli uomini, per vestirsi, abbandonarono le pelli e cominciarono ad intrecciare fibre vegetali ed animali. I ritrovamenti dei tessuti più antichi sono avvenuti in Egitto ed in Sud America proprio perché il clima particolarmente asciutto di quei territori ha consentito la loro conservazione; quei tessuti risalgono all’Era Mesolitica, vale a dire da 4600 a 3200 anni prima di Cristo.
Su questo kilyx attico del 470 a.C. alcune donne filano la lana. In basso: vicino alle rovine Inca di Chinchero, in Perù, nel piccolo mercato domenicale le donne, con lo stesso gesto delle greche, filano le lane in attesa dei clienti.
La lana ha sempre avuto grande importanza e diffusione nella storia dell’uomo, che in tempi antichissimi cominciò a dedicarsi all’allevamento degli animali che potevano essere tosati: pecore, capre, cammelli, vigogna, lama, ecc. Da ritrovamenti archeologici risulta che la lavorazione della lana era diffusa in molti luoghi, dall’Egitto alle Ande, dall’Europa Settentrionale all’Asia. Roma importava lana grezza dalla Grecia, dalle Gallie e dall’Africa per lavorarla nelle proprie manifatture. La Spagna fu un grande centro di produzione e tessitura della lana e, in seguito, l’allevamento della pecora merino segnò una grossa svolta nell’industria laniera. La morbidezza e la struttura sottilissima della fibra merino permetteva di realizzare stoffe damascate bellissime e resistenti. Nei paesi caldi, però, i tessuti di lana erano indub-
biamente meno confortevoli da indossare, anche se realizzati con fili sottili. In Egitto, nelle tombe dei Faraoni morti migliaia di anni fa, sono stati rinvenuti pezzi di stoffa di lana, ma già dal quinto millennio avanti Cristo gli Egizi preferivano produrre stoffe adoperando una fibra vegetale: il lino. Essi avevano imparato a macerare le fibre della pianta chiamata Linum Usitatissimum per poi, attraverso diversi passaggi, ricavarne sottili fili intrecciati adatti alla tessitura. La pianta di lino coltivata dagli Egizi fu anche adoperata dai Fenici, dai Babilonesi e da altri popoli del Medio Oriente che ne diffusero l’uso tra i Greci e i Romani. Tra gli antichissimi popoli del Mediterraneo, la cui vita era invece legata al mare, si produceva il bisso. Gli industriosi Cretesi, i Un dipinto egizio su lino del I millennio a.C. col simbolo del sole e, a lato, la pianta chiamata Linum Usitatissimum dalla quale si ricava la fibra tessile. Fenici, provetti commercianti, i 10
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La Pinna nobilis si attacca alle rocce del fondo marino tramite dei filamenti chiamati bisso. Dalla cardatura dei filamenti di bisso si ottiene una specie di bambagia setosa, scura al buio ma dorata alla luce del sole; nella foto a destra, la tessitura sul telaio a tavola.
Caldei, più lontani ma raffinatissimi tessitori e tintori, e gli Egizi furono i maggiori protagonisti della millenaria storia del bisso. Anche Taranto fu grande produttrice di questo filamento particolarmente fine e pregiato che, grazie alla sua duttilità, permetteva di ottenere una stoffa morbida, dall’aspetto lucido e brillante molto simile alla seta, che possedeva, inoltre, una naturale colorazione dorata, quel riflesso aureo che assumeva a seconda dell’incidenza della luce e che le conferiva un aspetto unico. Il bisso, il cui termine deriva dal latino byssus e dal greco bussos, a sua volta di origine fenicia, è un prodotto della Pinna nobilis, la più grande bivalve presente nel mar Mediterraneo che può raggiungere la lunghezza di un metro. Il mollusco si àncora alle rocce del fondo marino tramite dei filamenti che esso genera, che venivano usati dai tessitori come materiale grezzo da cui trarre la seta di bisso. La produzione della seta era laboriosa e richiedeva molte tappe di lavoro, dalla raccolta all’estrazione, la pulitura, la pettinatura del filamento a mano, la tessitura e la lavorazione a maglia. Alla fine si otteneva una stoffa particolarmente bella, preziosa e costosa, che per la sua rarità era destinata alle famiglie nobili e comunque danarose. La Pinna nobilis un tempo era molto diffusa nel Mediterraneo ma oggi è una specie protetta perché rischia di scomparire. Eppure le conoscenze di questa tradizione artigianale non sono del tutto scomparse e l’interesse rinato per il bisso marino, patrimonio culturale dell’Italia del Sud, è andato perfino aumentando negli ultimi anni. Si ha notizia che uno staff di ricercatori dell’Università di Atene sta bioingegnerizzando un comune mollusco bivalve, la Pseudochama gryphina, per incrementarne le sue caratteristiche naturali: l’innata capacità di filtratura delle acque marine e la già considerevole produzione di bisso, filato ormai introvabile. Secondo Dimitris Mpoyrantas, coordinatore della ricerca, rivalutare l’antichissima tradizione ellenica della filatura del bisso rappresenterebbe un recupero culturale estremamente importante per la Grecia moderna.
Dal mare si ricavava anche la tinta di porpora, usata per tingere le stoffe di lana. Era ricavata dalle ghiandole dei murici, molluschi con conchiglia a spirale. I murici avevano spiccate qualità tintorie nei mesi da marzo a giugno, periodo di fecondazione in cui si radunavano in grandi quantità. Questa tinta preziosissima, ottenuta diluendo e trattando con acqua e orina il succo di migliaia di murici, era fin dall’epoca della Magna Grecia tenuta in grande considerazione. Per il suo pregio, a Roma divenne il simbolo del massimo potere: un largo bordo di porpora ornava la toga dei senatori e una più sottile quella dei cavalieri, mentre una toga ricamata e interamente purpurea era privilegio degli imperatori. Il cotone, il cui nome deriva dall’arabo katun ovvero “terra di conquista”, veniva già coltivato in Asia ottomila anni avanti Cristo. Anche gli Egizi conoscevano la pianta del cotone, portato nelle loro terre dalle carovane, ma essi utilizzavano la pianta soltanto per
Operai cinesi scaricano balle di cotone.
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Bachi da seta e bozzoli su foglie di gelso. A destra, tessuto cinese in seta con ricami in oro.
ornare le proprie case. Invece gli Indiani sfruttavano il cotone come fibra tessile e lo diffusero in Malesia, nell’arcipelago della Sonda ed in Persia. Le prime notizie intorno al cotone, o “lana che cresce sulle piante”, come si diceva allora, giunsero in Occidente dall’India. Lo storico greco Erodoto scrisse che in India cresceva su alcune piante una lana migliore di quella delle pecore. Infatti i Greci conobbero il cotone quando Alessandro Magno si recò a conquistare l’Asia e le prime coltivazioni di questa pianta furono fatte nell’isola di Tilo, nel Golfo Persico. Perciò i Greci e i Romani già conoscevano e acquistavano tessuti di cotone, ma essi non tentarono mai coltivare la pianta del cotone nei loro territori più caldi. Bisognò aspettare l’arrivo degli arabi, nel nono secolo, perché in Italia s’iniziasse la coltivazione del cotone, ma poiché questa fibra era più difficile della lana da filare e da tessere, il tessuto di cotone rimase per lungo tempo un prodotto di lusso al pari della seta. Il cotone si diffuse maggiormente quando i conquistadores spagnoli giunsero in America e trovarono, nel Messico, nel Perù e nel Brasile, il cotone già coltivato e manifatturato dai nativi. Erano colture di specie locali, diverse da quelle del vecchio mondo. Le nuove tecniche messe a punto dagli anglossasoni e dai francesi permisero poi la coltivazione di grandi piantagioni, che portarono ad un’immensa produzione di cotone già nel diciassettesimo secolo. La seta, invece, ha una storia particolare e misteriosa, perché i furbi Cinesi conservarono il segreto della sua fabbricazione per centinaia di anni. La seta, ricavata dal filamento del bozzolo del baco chiamato Bombyx Mori, ebbe la sua origine come fibra tessile circa 2600 anni prima di Cristo in Cina o, secondo alcuni, in India. Tuttavia la seta cinese, ottenuta da un filo continuo lungo dai 600 ai 900 metri, era la più pregiata per struttura e colore, mentre la seta indiana veniva prodotta utilizzando fibre corte, questo perché 12
gli Indiani non conoscevano il sistema di bollitura e dipanatura dei bozzoli necessario per ottenere il filo continuo (un altro segreto gelosamente conservato dai Cinesi). Alla fine del terzo secolo a.C. i mercanti asiatici iniziarono a percorrere vie carovaniere, dall’Oriente attraverso l’Asia Centrale fino ai porti del Mediterraneo, per portare a noi le preziose sete. Ciò nonostante la sua fabbricazione restò avvolta nel più fitto mistero, ed infatti i poeti scrissero che i Cinesi estraevano la seta dai più splendidi fiori del Celeste Impero, oppure si disse che la seta si otteneva dalle fibre della parte interna della corteccia di un raro albero. L’albero c’entrava davvero, poiché si trattava del gelso, ma soltanto in quanto esso ospita i bachi che si cibano delle sue foglie; infatti i bachi per produrre trenta grammi di seta devono divorare sette chili di foglie di gelso. La seta, in definitiva, è il bozzolo che essi tessono per il loro letargo, durante il quale il baco si trasforma in crisalide e poi in farfalla. I Cinesi, che consideravano la seta come un dono divino, custodirono gelosamente il segreto delle varie fasi della sericoltura: leggi imperiali punivano con la morte coloro che lo rivelavano o che tentavano di portare fuori dal paese bachi da seta o foglie e semi di gelso. Ma poi, pian piano, in Occidente giunsero notizie sempre più precise, finché si capì che la seta veniva filata da particolari bachi. Perciò nel 551 d.C. l’imperatore Giustiniano, per assicurarsi la fornitura di bachi da seta, inviò due monaci persiani in Cina e costoro fecero ritorno a Costantinopoli con bastoni di bambù riempiti di bachi da seta e semi di gelso.
ieri ed oggi Ma esiste anche un’altra leggenda, secondo cui la seta sarebbe giunta in Occidente, intorno agli inizi del V secolo d.C., a seguito del matrimonio tra un re di Khotan e una principessa cinese. Quando si trattò di andare a prelevare la sposa in Cina, il re di Khotan suggerí all’emissario di ricordare alla principessa che, qualora lei avesse voluto indossare abiti di seta, doveva portare con sé il prezioso materiale perché l’oasi di Kotan era sprovvista di piantagioni di gelso. La principessa cinese nascose, dunque, alcuni semi della pianta e i bachi da seta all’interno della propria elaborata acconciatura per eludere i severi controlli alla frontiera cinese. Fu cosí che la seta giunse a Khotan da dove, attraverso graduali passaggi, il segreto si sarebbe poi finalmente trasmesso all’Occidente, determinando la fine del monopolio cinese della sericoltura. Infatti, secondo questa leggenda, Khotan sarebbe stata la mi-
steriosa Serindia da cui il baco fu introdotto di contrabbando a Bisanzio, dando inizio alla produzione della seta in Occidente. Quindi, come accadde veramente? Può anche darsi che i monaci persiani abbiano preso i loro bachi nell’oasi di Khotan. Comunque sia, intorno a quel periodo cominciò la tradizione del baco da seta in Occidente che si diffuse in tutta Europa. Nel 1140 il prezioso insetto entrò in Sicilia e nei secoli a seguire la produzione della seta in Italia raggiunse un notevole sviluppo grazie alla grande richiesta delle famiglie nobili che amavano indossare le splendide sete. Ma intorno al 1850 un’epidemia uccise i bachi da seta e il mercato occidentale subì un forte colpo; così l’Europa dovette ancora una volta dipendere sempre più dall’Estremo Oriente per ottenere il prezioso tessuto.
Come Roma conobbe la seta
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All’inizio dell’estate del 53 avanti Cristo, sospinto dall’invidia per i trionfi militari di Cesare e Pompeo, Marco Licinio Crasso partì alla volta della Persia con ben sette legioni: voleva sfidare l’esercito dei Parti, che allora dominavano non solo la pianura della Persia ma anche la Mesopotamia, e tornare a Roma carico di bottino e di onori. Ma le cose non andarono come egli prevedeva, tant’è che il povero Crasso, uomo esperto più di commerci che di battaglie, pagò quell’imprudenza non solo con una sonora sconfitta, ricordata nella storia romana sotto il nome di battaglia di Carre, ma anche con la vita. Per quanto funesto, quell’episodio segnò l’occasione in cui per la prima volta i Romani vennero in contatto con la seta. Infatti i guerrieri Parti innalzavano vessilli colorati fatti di un insolito tessuto che proveniva dalla Cina, chiamato dai cinesi see e dai mongoli sirgk, termine che dette origine alla parola inglese silk. Nel secondo secolo dopo Cristo lo storico romano Lucio Anneo Floro ricorda l’episodio della battaglia di Carre; la sua è la prima menzione della seta nelle fonti letterarie occidentali. Ma vediamo di capire quando i Cinesi cominciarono a lavorare la seta e come essa giunse in Occidente. Secondo la tradizione sarebbe stata la sposa di Huangdi, mitico Imperatore Giallo e leg-
gendario padre della civiltà cinese vissuto intorno al 3000 a.C., ad aver per prima scoperto le proprietà del filamento prodotto dai bachi da seta. Effettivamente le scoperte archeologiche confermano che le origini della sericoltura sono antiche quanto dice la leggenda. Infatti, nonostante la seta sia un materiale organico, e perciò molto fragile e soggetto a rapido deterioramento, sono stati riportati alla luce antichi reperti in seta che provengono da siti della cultura tardo-neolitica di Liangzhu, fiorita tra il 3300 e il 2200 avanti Cristo nella Cina orientale, là ove si trovano oggi le moderne città di Hangzhou e Shanghai. Si tratta di pochi frammenti di tessuto e resti di una cintura in seta che, tuttavia, attestano come quella fibra fosse già nota
Marco Licinio Crasso e, a destra, un’immagine che raffigura Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina.
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La via della seta
Una strada della parte vecchia di Hangzhou; a destra, un defilè a Singapore con tessuti di seta.
agli antichi Cinesi dell’epoca dell’Imperatore Giallo e la sua consorte. Inoltre quei reperti dicono che la lavorazione della seta si è inizialmente sviluppata nelle regioni meridionali della Cina, che infatti poi ospitarono i principali centri di produzione dei preziosi tessuti: Hangzhou, con la regione del lago Tai, e a ovest, risalendo il corso del Fiume Azzurro, Chengdu, la capitale della provincia sudoccidentale del Sichuan. Il «segreto» dell’estrazione del prezioso filamento ha davvero una storia molto antica ed è lecito supporre che già allora l’uso della seta rappresentasse uno status symbol. La seta cominciò ad essere esportata dalla Cina solo verso la fine del III secolo a.C., al tempo della dinastia Han. In quel periodo la Cina si trovò a fronteggiare la pressione alle frontiere di una popolazione nomade denominata Xiongnu, che già effettuava incursioni nel territorio cinese. Gli Xiongnu riuscirono a occupare la regione dell’Ordos, compresa entro la grande ansa settentrionale del Fiume Giallo, e arrivarono a trattative con l’imperatore Gaozu. Fu cosí che una giovane donna della casa imperiale cinese fu data in moglie al sovrano Xiongnu, e da allora, ogni anno, come sappiamo da fonti cinesi, ai nomadi venivano offerti in dono seta filata e tessuti in seta, oltre a generi alimentari. I Cinesi consideravano la seta, giustamente, il piú prezioso e raro dei loro prodotti e quindi quanto di meglio essi potessero offrire al sovrano straniero che guidava le temibili orde nomadi, per accattivarselo. Infatti quei doni avevano lo scopo di evitare che i nomadi si rifornissero da soli di tali prodotti, saccheggiando periodicamente il territorio cinese. Ma tra gli Xiongnu, nomadi della steppa che vestivano di pelli, i delicati tessuti e i filati di seta non potevano certo trovare largo impiego, così essi li utilizzavano come preziosa merce da scambiare con altri popoli dell’Asia. In questo modo 14
ebbe inizio la diffusione della seta fuori dei confini della Cina. La seta «contrabbandata» arrivava in India e da qui in Asia Occidentale, ma non oltrepassava mai i confini di questi due paesi, per cui il commercio della seta si sviluppò oltre questi territori soltanto quando i Cinesi iniziarono a controllare direttamente le vaste regioni dell’Asia Centrale. La cauta politica dei sovrani cinesi cambiò quando salí al trono l’imperatore Xiaowu il quale modificò l’atteggiamento della Cina verso gli Xiongnu. Egli inviò loro, anziché la preziosa seta, le sue potenti armate al comando di generali decisi a farsi valere. L’imperatore cinese cercò poi alleati che lo affiancassero nello scontro militare e inviò verso Occidente un suo rappresentante di nome Zhang Qian. Costui, dopo una lunga serie di peripezie, riuscì a raggiungere un territorio situato a nord, corrispondente a parte delle attuali repubbliche di Uzbekistan e Tagikistan; poi si spinse a sud, giungendo nell’odierno Afghanistan settentrionale, dove egli fece una importante scoperta: nei mercati di Daxia venivano smerciati prodotti e tessuti provenienti dall’India ma originari dello Yunnan e del Sichuan, le due provincie sud-occidentali della Cina. Com’era possibile? Sicuramente doveva esserci una via collegante la Cina all’India: tale via infatti esisteva e raggiungeva il bacino del Gange attraverso i monti della Birmania. Lungo questo tragitto fioriva un commercio non controllato di prodotti che passavano di mano in mano, di popolo in popolo, e tra le merci che transitavano vi erano anche i tessuti di seta cinesi. Zhang Qian, che era stato il primo cinese a spingersi in territori cosí lontani e a raccogliere informazioni su terre e popoli stranieri di cui in Cina si ignorava persino l’esistenza, visitò anche la Partia, la regione del Golfo Persico. Zhang Qian si rese anche conto che in tutti i territori visitati, compresi quelli controllati dai
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Un antico arciere cinese in un parco di Hangzhou.
Parti, la seta era del tutto assente. Per la Cina ciò significava l’apertura di nuovi mercati per un prodotto di cui era l’esclusivo produttore. Risolta la questione Xiongnu, relegando quel popolo a nord del deserto del Gobi, l’imperatore cinese affidò a Zhang Qian una nuova missione di «politica internazionale» per trovare nuovi alleati. Cosicché Zhang Qian partì nuovamente con un seguito di trecento uomini, migliaia di capi di bestiame e doni preziosi in oro e seta dal valore altissimo, per meglio intrecciare relazioni diplomatiche con i nuovi Paesi di cui egli era venuto a conoscenza. Quindi, in quest’occasione, ai Parti fu donata un’adeguata quantità di seta in nome dell’imperatore cinese. E alcune di quelle stoffe divennero i vessilli delle armate persiane che videro i Romani. Intorno al 100 a.C. la Cina condusse due spedizioni militari in Afghanistan, per punirlo di aver rifiutato una fornitura di cavalli. Quella spedizione segnò l’inizio dell’egemonia cinese sull’Asia Centrale e il graduale declino di quella Xiongnu. Con la conquista e sottomissione di questo vasto territorio, la Cina assunse il controllo totale delle due importanti vie carovaniere costituenti l’itinerario «classico» della Via della seta: quella che passava per le oasi settentrionali del Taklamakan e quella che passava per le oasi meridionali. Entrambi i percorsi si diramavano dalla città di Dunhuang e terminavano ai piedi del massiccio del Pamir: la via settentrionale a Kashgar (città nota ai cinesi come «Shulo») e quella meridionale a Yarkand. Questo era il sistema viario che nel corso del tempo, arricchitosi di diramazioni e varianti, Ferdinand von Richtofen sinteticamente e romanticamente chiamò «via della seta». Dal I secolo a.C. le merci viaggiavano regolarmente tra la capitale cinese Chang’an ed il Mediterraneo, coprendo via terra una distanza di oltre 7000 chilometri. I prodotti venivano trasportati da carovane formate da
cavalli e cammelli che si spostavano sulle piste della Via della seta sostando nelle oasi e nelle città carovaniere, dove mercanti di ogni provenienza effettuavano le loro transazioni. Nessuna carovana ricopriva l’intero percorso: nei luoghi di scambio i prodotti passavano di mano proseguendo il loro cammino verso la tappa successiva. Terreni aspri e difficili e condizioni climatiche spesso avverse richiedevano pesanti contributi alle carovane e ai loro carichi, facendo così lievitare il costo delle merci trasportate. Anche le bande di predoni costituivano un pericolo per il commercio, nonostante fossero in qualche modo controllate dalle milizie dei vari Stati, ma la protezione militare, che si estendeva anche alla salvaguardia delle vite dei mercanti nei centri di scambio, aveva tuttavia il suo prezzo sotto forma di tasse e balzelli. Pertanto quando alcune tratte divenivano troppo insicure, o costose, i mercanti si spostavano verso rotte piú tranquille; e quando il rischio si faceva troppo alto, il commercio veniva interrotto in attesa di tempi migliori. Allora, gli Stati che si venivano a trovare lungo la nuova Via della seta cercavano di trarre il massimo beneficio possibile da quel commercio, poiché la rete carovaniera consentiva loro di poter indirizzare verso i mercati stranieri anche i prodotti locali. I Romani, quindi, conobbero la seta in occasione della battaglia di Carre; essa ebbe luogo a circa sei anni dall’istituzione, da parte della Cina, del protettorato generale dei Paesi d’Occidente dopo la conquista dell’Asia Centrale. Infatti la diffusione commerciale della seta su scala internazionale si avviò non appena i Cinesi ebbero cominciato a controllare essi stessi e in modo regolare il commercio del prezioso materiale. Nemmeno mezzo secolo dopo quella tragica battaglia, la «serica» (così chiamata perché fabbricata dal lontano popolo dei Seri, come i Romani chiamavano i Cinesi) divenne il tessuto più ambito, simbolo della nobiltà romana che ne faceva sfoggio in ogni occasione di mondanità. Ma sebbene Roma e Cina tentassero di inviarsi l’un l’altra ambasciatori, esse non giunsero mai a contatto diretto perché erano separate da due grandi imperi: i Parti in Persia e i Kushana nei territori degli attuali Afghanistan e Pakistan. Così i Romani non seppero nulla circa l’origine della seta e della lavorazione necessaria per tesserla. Infatti Plinio il Vecchio diceva che i Seri erano «famosi per la lana delle loro foreste» e che essi «…staccano una peluria bianca dalle foglie e la innaffiano; le donne quindi eseguono il doppio lavoro di dipanarla e di tesserla». Dei bachi da seta non dava alcuna notizia. In Cina, d’altronde, il segreto di quel prodotto così importante era custodito con la massima cura, tanto che l’esportazione dei bachi da seta era proibita da una legge severissima. 15
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2 Da Beijing a Xi’an Una breve permanenza a Pechino, tappa obbligata per coloro che raggiungono il centro della Cina. Con già alcuni luoghi interessanti da visitare che non manchiamo di illustrare, prima di intraprendere l’antica Via della seta
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echino non fa parte del nostro viaggio sulla «Via della seta» ma, partendo in aereo dall’Italia si deve necessariamente raggiungerla. Da qui, poi, occorre spostarsi verso Xi’an, la nostra prima tappa, la quale, conosciuta in passato con il nome di Chang’an, fu la capitale di ben undici dinastie imperiali finché durante la dinastia Song (dal 960 al 1279 d.C.) il centro politico della Cina fu spostato più ad est. Fin da tempi antichi, da Xi’an partiva la famosa Via della seta che in direzione ovest raggiungeva, dopo un percorso di 7000 chilometri, la costa orientale del Mediterraneo. Per cominciare il nostro viaggio in Cina potremmo
anche fare scalo a Shanghai e da lì prendere il volo interno per Xi’an. Ma sarebbe preferibile cominciare da Pechino, perché avremmo la possibilità di visitare l’attuale capitale della Cina e almeno altre due mete turistiche piuttosto note: la Città proibita e la Grande Muraglia. Vediamo, quindi, di conoscere meglio questa città e cosa essa può offrire al visitatore. Pechino, che i Cinesi chiamano Beijing, cioè “Capitale del nord”, è senza dubbio la maggior meta commerciale ed anche turistica della Cina. Al turista sarebbe utile sapere che Beijing, pur trovandosi alla stessa latitudine di Napoli, a causa della Grande Pianura settentrionale cinese ha
Le due rotte obbligate per raggiungere Xi’an: da Pechino e Shanghai.
Aeroporto di Pechino. Da qui inizia il nostro viaggio.
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ieri ed oggi un clima continentale con delle escursioni, tra una stagione ad un’altra, davvero pazzesche; infatti, in gennaio la temperatura oscilla tra i -7 e i -4°C con punte di -15 gradi, e in agosto tra i 25 e i 26°C con punte di 38 gradi e molta umidità; e siccome luglio e agosto costituiscono anche la maggiore stagione piovosa, sarebbe preferibile visitare Pechino in primavera o in autunno. Senza contare che, nel periodo estivo, il viaggiatore in Cina subisce un continuo susseguirsi di sbalzi di temperatura tra le zone all’aperto, dove il caldo è insopportabile, e gli interni (aeroporti, taxi, hotel, ristoranti, centri commerciali, ecc.) dove è d’obbligo l’aria condizionata. A nord di Pechino una catena di bassi monti la divide dalla piana della Manciuria e contribuisce a frenare le tempeste di sabbia provenienti dal Deserto del Gobi, che comunque, quand’è forte, arriva in città; su quei monti corre la Grande Muraglia. La moneta locale è lo Yuan, chiamato anche Renminb (lo troverete scritto con la sigla RMB), il cui valore è 10 yuan = 1 euro circa. Il consiglio è cambiare il denaro in aeroporto, ricordandosi di conservare la ricevuta per poter ricam-
biare le eventuali banconote rimanenti a fine soggiorno in Cina. Il trasferimento dall’aeroporto alla città dura all’incirca 45 minuti e costa circa 80 yuan, cioè più o meno 8 euro. Il viaggiatore occidentale che visita la città potrebbe restare perplesso dal fatto che Pechino non ha un centro vero e proprio, un centro antico, se non quello costituito dalla Città proibita e dalla famosa Piazza Tian An Men, dove il 1° ottobre 1949 fu proclamata la Repubblica popolare cinese e dove si sono svolti e si svolgono i più importanti avvenimenti della Cina. Oggi grandi viali squadrati stringono Beijing in una morsa urbanistica moderna fatta di residenze popolari recenti, ma che appaiono già superati. E allora i vecchi edifici con i vecchi hutong, cioè i vicoli, sono continuamente demoliti per lasciare il posto a nuovi edifici, e le piccole strutture danno spazio a grandi imprese. Molti cambiamenti sono in atto a Beijing. Dimenticatevi i rivoluzionari maoisti vestiti di tuniche grigie abbottonate sul davanti e i gruppi di operai che si dedicano al Tai chi sulla grande piazza. Oggi, nel nuovo millennio, i giovani di Pechino sono interessati più a MTV Ad una Pechino moderna fanno ancora contrapposizione i vecchi quartieri con i loro hutong, i vicoli fatiscenti.
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A sinistra: una veduta serale di Pechino con insegne luminose scritte in cinese ma anche in inglese. La sigla KFC sta per Kentucky Fried Chicken, la nota catena america di pollo fritto. Quindi non regna soltanto la Coca Cola. Qui sopra, due foto che mostrano il veicolo più diffuso a Pechino: la bicicletta.
che a Mao, nonostante i grandi manifesti con la sua effigie che ancora campeggiano in città; gli slogan della rivoluzione culturale hanno lasciato il passo alle scritte in inglese sulle magliette e gli immigrati, i turisti, gli investitori stranieri e la mania per il telefono cellulare (esattamente come da noi) si mescolano agli abitanti tradizionalisti della città. Certo, questo stile di vita veloce e affrettato non piace a tutti. I “vecchi rivoluzionari” si lamentano dei giovani d’oggi, che a loro dire sono presuntuosi e privi di qualsiasi valore, ma la capitale della Repubblica Popolare Cinese non sembra avere intenzione di rallentare i propri ritmi, anzi essa si è gettata a tutto spiano e di prepotenza nel mercato globale divenendo lo spauracchio di molte nazioni. Tuttavia, nonostante tutta questa modernità, sono fortunatamente sopravvissute in Pechino alcune isole di antichità. Infatti, camminando per le sue vie potrete imbattervi, ad esempio, nel parco Tiantan, nel quale La Cina si è gettata a tutto spiano, e di prepotenza, nel mercato globale divenendo lo spauracchio di molte nazioni.
A destra, la stazione ferroviaria di Pechino.
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l’architettura degli edifici tipicamente Ming gli conferisce un valore simbolico, tant’è che il suo nome viene tutt’ora usato per promuovere prodotti diversi, dal Balsamo di tigre alle attrezzature idrauliche. È un grande parco di 267 ettari, con mura e quattro cancelli in corrispondenza dei quattro punti cardinali, originariamente utilizzato per riti e rituali solenni; ed infatti ciò lo si deduce anche dai bei nomi degli edifici che sono all’interno del parco, edificati un tempo per legare gli dèi agli uomini mortali: l’Altare Rotondo, la Volta Celeste Imperiale, il Palazzo della Preghiera per i Buoni Raccolti, ecc. Oggi, invece, il Parco Tiantan è un importante punto d’incontro per gli abitanti di Pechino, i quali amano recarvisi per iniziare la giornata eseguendo danze, giochi o sport particolari. Ma dopo le nove del mattino il parco torna ad essere soltanto un parco; quindi, se desiderate vedere cosa vi vanno a fare gli abitanti prima di colazione, dovrete alzarvi di buon’ora. Altro luogo interessante nel quale potete imbattervi è lo Yonghe Gong, il Tempio dei Lama, chiamato anche Tempio tibetano, con i suoi bellissimi giardini,
ieri ed oggi
Il parco Tiantan, con edifici tipicamente Ming. Qui sopra, il Palazzo della Preghiera per i Buoni Raccolti, chiamato anche il Tempio del Cielo perche gli imperatori Ming vi si recavano per pregare il Cielo affinché desse un buon raccolto. In basso: Pechino, Tempio dei Lama, chiamato anche tempio tibetano.
i suoi meravigliosi affreschi e arazzi e i suoi incredibili lavori in legno. È un tempio di grande fascino, con all’interno una statua di Buddha in legno di sandalo alta 18 metri, scolpita da un unico albero. Dalla testa del Buddha proviene un suono dolce e armonioso, ma se osservate bene scoprirete che esso è generato dai molti fischietti attaccati alle zampe di piccioni. In Cina la dottrina più diffusa è il confucianesimo, ma si pratica anche il taoismo e il buddismo. Dobbiamo considerare che nella tradizione cinese è perfettamente normale rivolgersi, per diversi rituali e necessità della vita, sia al confucianesimo che al taoismo e al buddhismo senza che neppure si possa parlare di tripla “appartenenza”. Nella storia della Cina ci sono stati spesso tentativi di imporre una religione di Stato, ma sono stati tentativi effimeri perché hanno sempre incontrato la resistenza della popolazione, così come accade oggi. Ad ogni modo, il tempio di cui si parla è un monastero tibetano tuttora in attività, perciò al mattino presto è ancora chiuso per le preghiere.
Ma quando lo visitate non domandate alla guida se quelli che vedete sono veri monaci tibetani, perché non solo vi risponderebbero di sì, ma direbbero pure che la presunta oppressione del Tibet da parte della Cina è soltanto una propaganda inventata dal Dalai Lama, perché in realtà i tibetani amano i cinesi e l’esistenza di quel tempio lo testimonia. Così l’attuale Dalai Lama viene considerato da tutti in modo diverso: per i buddhisti tantrici egli è la reincarnazione di Avalokiteshvara, il Bodhisattva della Compassione; per i tibetani è il loro quattordicesimo e divino re; per i cinesi è un monarca feudale dal quale essi hanno liberato il Tibet. Quindi, a chi credere? Di sicuro il Tibet, dal 1950, fa parte della Repubblica Popolare Cinese. Però alcuni dicono che i Tibetani si sentono oppressi dalla «occupazione cinese illegale e repressiva» e il Dalai Lama, che è capo di stato e guida spirituale del Tibet, pur cercando di coesistere pacificamente con i cinesi, tenta ancora di ottenere l’indipendenza del suo Paese sulla base di un trattato stipulato nell’anno 821
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L’enorme Piazza Tian An Men con il mausoleo del Presidente Mao Zedong e in primo piano il Monumento Commemorativo agli Eroi Popolari, la cui prima pietra fu deposta proprio da Mao il 30 settembre 1949. Qui sotto la farmacia a Piazza Tian An Men.
d.C., fra il re del Tibet ed il re della Cina, trattato che sanciva: “Tutto il territorio che si trova ad oriente (dei confini al momento del trattato) appartiene al paese della Grande Cina, mentre tutto quello che si trova ad occidente, senza alcuna possibilità di contestazione, appartiene al paese del Grande Tibet. Da questo momento in avanti, non vi saranno più guerre né spartizioni di territori, né dall’una né dall’altra parte del confine...”. Nella nostra visita alla città di Pechino non dimentichiamo Piazza Tian An Men (cioè Piazza della Pace Celeste), l’enorme piazza lunga 800 metri e larga 500! Essere in quella piazza dà una sensazione unica ed irripetibile, non solo per la sua maestosità ma anche dalla totalità dei monumenti che sono attorno ad essa: il Mausoleo di Mao a sud, il Palazzo dei Musei ad est, il Palazzo dell’Assemblea del Popolo ad ovest, la Città proibita a nord e al centro il Monumento agli Eroi del Popolo. A Pechino vedrete circolare non molte auto ma moltissime biciclette, davvero usatissime per girare in città. Per quanto ci riguarda il mezzo che conviene prendere per L’ingresso alla Città Proibita da Piazza Tian An Men sormontato da un grande ritratto di Mao.
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spostarci e il taxi, che non è costoso, anche se può sembrarvi strano, abituati come siamo ai costi dei taxi delle nostre città; qui, invece, ce ne sono tantissimi ed è un mezzo economico. Infatti per un percorso di circa un’ora in centro città si spendono al massimo 50 yuan, vale a dire 5 euro. E non pensiate che siano soltanto i turisti ad usufruire dei taxi, perché i cinesi che li prendono sono davvero tantissimi; infatti, se per gli spostamenti brevi preferiscono usare la bicicletta per i percorsi lunghi tutti si affidano ai taxi. Per questo il taxi ha molto successo. Ne troverete di diversi colori che stanno ad indicare le varie società di appartenenza, però in genere quelli di colore rosso sono auto più vecchie, mentre quelli di colore verde e giallo sono auto nuovissime, e quelli neri sono di un livello soli-
ieri ed oggi tamente superiore. A voi la scelta… però sappiate che le tariffe sono le stesse. Altra considerazione da fare, una volta per tutte, per il nostro viaggio in Cina è la cucina. Se conoscete già la cucina cinese e la amate non avrete problemi. Però dimenticate quella che avete conosciuto in occidente, perché la cucina che troverete in Cina non è la stessa: molti dei piatti che avete mangiato nel ristorante cinese della vostra città qui non li troverete (come ad esempio il pollo alle mandorle), perché sono ricette inventate dai cinesi americani per andare incontro al gusto occidentale. Tuttavia in Cina la cucina è molto buona, ma varia da regione a regione; in totale esistono non meno di 5.000 varietà di piatti tra i quali scegliere. In linea generale si mangia riso, carne, pesce e verdure varie con salse particolari. Quindi non date retta a coloro che parlano di formiche, vermi vari, carne di cane e serpente, ecc. ecc. perché non è così. E se ciò avviene è ubicato in zone particolari e remote
della Cina che non fanno parte degli itinerari turistici, abitudini alimentari considerati anche dagli stessi cinesi come delle stranezze, se non addirittura vietati. La cucina cinese può essere suddivisa in quattro principali categorie regionali: cucina settentrionale (alla quale appartiene Pechino), cucina orientale (ad esempio a Shanghai), cucina meridionale (Canton, la più diffusa) e cucina occidentale (Sichuan). La cucina di Pechino è una cucina tradizionale ricca d’ingredienti finemente tagliati e di condimenti. È ricca ma non grassa, leggera ma non scarsa; è infatti più leggera rispetto a quella delle regioni periferiche. Ci sono oltre trenta metodi per cucinare l’arrosto, il fritto rapido, la rosolatura a fiamma viva con sugo denso e lo stufato. Il riso è consumato in quantità minori rispetto alle altre regioni (infatti, di solito, ve lo portano verso la fine del pasto). Il grano è uno degli alimenti di base della dieta e sono molti i piatti a base di pasta: ravioli (jiaozi), spaghetti, tagliatelle, gnocchetti di pasta, frittelle e pane al vapore (baozi), costituiscono il fulcro della cucina del nord. La carne di manzo, montone e agnello qui sono molto usate, forse per l’influenza data dalle invasioni mongole, e viene cotta senza grassi. Lo spezzatino di capra è servito con salse piccanti e cumino. Ma le specialità più note sono l’anatra arrosto laccata alla pechinese (chiamata kaoya, una squisitezza), la terrina mongola (terrina che viene posta in tavola per far bollire carne di montone, verdure, formaggio di soia chiamato tofu e spaghetti di riso) e il misto mongolo di carne alla brace. Infine ci sono la «cucina del Palazzo Imperiale» (chiamata anche Mandarina) e la cucina alla Tan. Delle altre cucine parleremo più avanti, quando ci sposteremo nelle varie province cinesi. Tuttavia, se proprio non vi piace la cucina cinese, E per la cucina nessun problema. Cosa preferite? Gustosi e delicati spaghetti cinesi con verdure miste, accompagnati dagli involtini Primavera, oppure la tradizionale T-bone steack americana?
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E dopo cena cosa vorreste fare? Andare all’Opera per assistere ad uno spettacolo teatrale, con canti e danze cinesi, oppure assistere ad uno show ginnico-acrobatico? Ce n’è per tutti i gusti.
potrete recarvi nei ristoranti con cucina internazionale, che poi è quella di gusto prettamente americano e mangiare, ad esempio, il T-bone steak (bistecca con osso) o Fish and chips (pesce con patate) oppure Cicken and chips (pollo e papatine). E la vita notturna? A Pechino, così come nelle altre grandi città, ce n’è per tutti i gusti. Se vi piace potete andare in discoteca (una delle più famose si chiama Banana, che ospita fino a tremila ragazzi impazziti, che ballano a ritmo di musica house), oppure potete trascorrere la fine serata in un locale tranquillo a cenare e bere, oppure in un ristorante o caffè italiano (non mancano mai), o in un teatro ad assistere a spettacoli tipicamenti cinesi. Bene, parliamo in breve della storia di questa città. Nel 1215 d.C. Pechino, che allora si chiamava Youzhou, fu messa a fuoco dal Mongolo Gengis Khan e suo nipote Khubilai Khan la riedificò nel 1279 nell’attuale ubicazione di Beijing, denominandola Dadu, cioè la Grande Capitale. Khubilai Khan vi stabilì il suo centro di potere per decentrare gli interessi dei Cinesi intorno alla ex capitale Chang’an, a Nanchino (Nanjing) e a Luoyang (Henan), pertanto Dadu divenne progressivamente il centro politico di tutta la Cina. Facendo ciò, Kubilai Khan mise anche fine alla dinastia dei Song del Sud per dare inizio alla dinastia Yuan. Fu in questo periodo che Marco Polo visitò Dadu, che egli chiamava col nome di Cambaluc (Khanbaluq, dal mongolo Khan Balic: la città del Khan) e ne ha lasciato una descrizione entusiastica. Nel 1368, il monaco buddista Zhu Yuanzhang ro22
vesciò la dinastia Yuan fondando la dinastia Ming. La capitale fu trasferita a Nanjing, mentre Dadu fu ribattezzata Beiping, cioè Pace del nord, e relegata a città secondaria. La Pechino di oggi nacque nel 1403, quando Yongle, il terzo imperatore della dinastia Ming, vi riportò la Capitale ribattezzandola Beijing. Fece costruire la Città Proibita cinta di alte mura e intorno a questa edificò la Città Imperiale, dove risiedeva la sua corte; esternamente a queste mura nacque una terza città abitata dalla popolazione. Nel 1644 Shunzhi rovesciò la dinastia dei Ming iniziando quella dei Qing, che durò fino al 1911. I Cinesi furono scacciati dalla terza città e al loro posto vi si stabilirono gli invasori Manciù; essi la chiamarono Città Tartara isolandola, con una terza cinta di mura, dalla nascente quarta città esterna nella quale andarono a vivere i Cinesi, che da allora furono costretti a portare il costume e la treccia mancesi, il caratteristico codino che abbiamo visto in tanti film d’avventura, pena la decapitazione. Sotto i Qing, Beijing si allargò, arricchendosi di templi, pagode e palazzi ma, a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, divenne teatro di violenze che riassumo in breve: la rivolta Taiping, lo strapotere della reggente Cixi, gli interventi anglo-francesi del 1860, la rivolta dei Boxer del 1900, l’invasione giapponese del 1937, le tensioni originate dal Kuomintang e dai Signori della Guerra, la presidenza di Yuan Shikai e infine la Liberazione della città nel 1949, con la conseguente proclamazione della Repubblica Popolare Cinese da parte di Mao Zedong (Mao Tse-tung) in
ieri ed oggi Piazza Tian An Men, davanti ad una folla di mezzo milione di persone. Questa è in breve la storia di Pechino, che è anche la storia della Cina, la quale si estende nell’arco di più di cinquemila anni. Chi ama la storia può andare a documentarsi meglio leggendo qualche buon libro, seguendo la cronologia prima descritta. A proposito di storia, il mausoleo degli imperatori Ming si trova a 50 km a nord-ovest di Pechino; si tratta di un complesso con tredici tombe di questa dinastia. Non sarebbe male farci una capatina, anche perché vi aspetterebbe una splendida passeggiata lungo la Via Sacra, punteggiata da imponenti statue raffiguranti dignitari e animali sacri. Ora, però, andiamo a scoprire una delle meraviglie di Pechino: la Città proibita, così chiamata perché l’ingresso era severamente vietato al popolo. Le tombe dei Ming. A destra: la statua dell’imperatore Zhu Di, salito al trono nel 1402. Sotto: la Porta Din Ling dà accesso ad un lungo viale alberato costeggiato da varie statue, oltre il quale si accede al Museo che espone oggetti di epoca Ming.
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La Città Proibita
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i appare monumentale, gigantesca, elegantissima, splendida, con il grande ingresso che dà sulla Piazza Tian An Men. Al tempo del suo massimo splendore questa piazza non esisteva ancora, ma la Città Proibita, Gugong in cinese, era ancora più bella, più ricca e più ampia perché comprendeva il parco Beihai e le Colline di Carbone; inoltre conservava ancora tutti gli arredi e le preziose opere d’arte poi saccheggiate delle truppe anglo-britanniche e da quelle di Chiang Kaishek. La città l’abbiamo ammirata nel film del 1987 di Bernardo Bertolucci L’ultimo imperatore che narra le vicessitudini di Pu-Yi, l’ultimo imperatore della dinastia Ching, signore e padrone assoluto di uno sterminato Impero, il quale da fanciullo di tre anni passò la sua infanzia nella mitica Città. Gugong ha 9.999 sale, tutte non nomi molto fantasiosi, e si estende su un’area di circa 5 kmq. I padiglioni che si visitano oggi risalgono in maggior parte al diciottesimo secolo, per via degli incendi che si sono precedentemente susseguiti: in effetti, essendo tutti di legno, bastava una scintilla o una lanterna rotta per metterli a fuoco e il vento che arrivava dal Deserto del Gobi diffondeva le fiamme facilmente. Anche i Manciù incendiarono la Città proibita quando invasero Pechino, ma poi la ricostruirono; successivamente altri incendi furono appiccati volutamente da eunuchi o ministri che si arricchivano con la ricostruzione.
La Città proibita è circondata da un fossato largo 50 metri, ancora pieno d’acqua, e da una cinta muraria alta 13 metri; grandi torri sono poste ai quattro angoli e tutte le costruzioni interne hanno tetti coperti con ceramica giallo-oro, mentre i templi le hanno verdi. Questo vasto Palazzo imperiale si sviluppa su tre assi paralleli; gli assi laterali ospitavano quartieri abitati da eunuchi, concubine, personale di servizio, cucine, laboratori per la manutenzione, templi minori e così via. La Porta Wumen è la più ampia del complesso, in legno massiccio e risale al 1420; è divisa in due battenti, ognuno ornata con nove file di nove borchie ciascuna ed è sormontata da un padiglione centrale e da due altri padiglioni posti sui lati. Dal padiglione centrale sulla porta si affacciava l’imperatore per calare, con un cesto dorato, le leggi che gli araldi consegnavano poi al Ministro dei Riti. Costui li faceva copiare in tanti esemplari quante erano le province. Ogni capitale di provincia ripeteva l’operazione finché i nuovi editti raggiungevano tutte le città e i distretti della Cina. Attraversata la grande Porta ci si trova in un ampio cortile dove scorre da est il Jinshuihe (Ruscello dalle Acque dorate), scavalcato da cinque ponti che rappresentano le cinque virtù. Ai due lati del cortile altre porte introducono ai palazzi laterali. Attraversato il cortile, una splendida coppia di leoni bronzei fa ala ai gradini del 24
Il muro alto 13 metri e l’ampio fossato ancora circondano la Città Proibita.
palazzo frontale dove si apre la Taihemen, la Porta dell’Armonia Suprema. Varcata questa, doveva aprirsi agli occhi dell’ospite uno straordinario spettacolo quando, nell’enormità del cortile interno, una folla fino a centomila persone assisteva alle udienze collettive. A destra e a sinistra vi sono i depositi imperiali, allora colmi di vasellame prezioso, bronzi rari, pellicce, pietre e marmi rari, perle e stoffe in seta artisticamente ricamate. In epoca Ming la Sala Grande, che è a sinistra, era riservata al principe ereditario. Invece la Sala Grande a destra era l’abitazione e il luogo d’udienza imperiale. Tutt’intorno ai muri perimetrali del cortile ci sono corridoi coperti che ospitavano enormi bacini in bronzo sempre colmi d’acqua per spegnere gli eventuali incendi, costantemente in agguato; di fronte sono posizionati diciotto bruciaprofumi che inondavano di nubi profumate al sandalo e al pino il Palazzo dell’Armonia Suprema, il quale sorge frontalmente. La Taihedian, la Sala dell’Armonia Suprema, è anch’essa interamente in legno, con incastri senza chiodi. È enorme, col tetto sorretto da ventiquattro colonne, e ospita un trono elevato su sette gradini e uno splendido paravento finemente inciso con nove draghi e due elefanti, simboli della pace. Il soffitto è a cassettoni, con al centro la cupola centrale, decorata con il drago imperiale che gioca con la perla infuocata. I mattoni del pavimento appaiono sempre lucidi perché furono cotti in olio di lino. In questa sala si celebravano le grandi cerimonie, come incoronazioni, nozze e genetliaci imperiali, mentre le orchestre riempivano il palazzo di suoni, suonando su campane d’oro e su carillon di lastre di giada. Qui i funzionari e i dignitari venivano a prostrarsi davanti al trono dove sedeva l’imperatore e gli offrivano doni in onore del nuovo anno e del solstizio d’inverno, cerimonia alla quale nessuna donna poteva assistere. Sul suo trono, immerso in un fumo irreale, il «Figlio del Cielo», intermediario tra Dio e gli uomini, poteva assaporare a piacere l’Armonia Suprema, mentre riceveva i generali di prima nomina, oppure i candidati per gli esami imperiali per avere accesso alle cariche pubbliche, che si
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La Porta Wumen, in legno massiccio e divisa in due battenti, ognuno ornata con nove file di nove borchie.
svolgevano ogni tre anni. Infatti, secondo la tradizione confuciana, l’imperatore sceglieva i candidati solitamente tra i nobili e gli aristocratici per mantenere meglio il suo potere. La selezione si basava dapprima su esami locali, durante i quali i candidati riconosciuti divenivano letterati, poi su esami provinciali e infine su quelli imperiali, presieduta dall’imperatore. La seguente Zhonghedian, la Sala dell’Armonia Perfetta, è invece di dimensioni più ridotte, essendo un luogo di riposo e di riflessione. Al centro vi è un altro trono, dove sedeva l’imperatore quando metteva a punto il cerimoniale prima di accedere alla Sala dell’Armonia Suprema, oppure quando dettava i messaggi che venivano letti nel Tempio degli Antenati, o ancora quando doveva esaminare, una volta all’anno, le sementi dei raccolti. In questa sala, inoltre, accettava le felicitazioni dei suoi ministri e le lettere credenziali degli ambasciatori stranieri. E sempre qui gli imperatori bambini ricevevano l’educazione relativa alle loro funzioni. Due portantine sono visibili ai fianchi del trono. Dobbiamo sapere che l’imperatore non camminava mai al di fuori delle stanze o dei giardini imperiali, ma si spostava in portantina; egli aveva diritto a quarantotto portatori, mentre per l’imperatrice ne bastavano “appena” trentadue. Comunque, in quel periodo, tutti i personaggi importanti si spostavano in portantina, ma un ministro o un ufficiale superiore aveva diritto solo a sedici portatori, un mandarino di provincia aveva diritto ad una portantina portata da otto uomini e mandarino di distretto ad una portata da quattro uomini. In questa sala si possono anche ammirare i doni offerti dalle delegazioni straniere, che venivano a Beijing per negoziare accordi commerciali con l’Impero di Centro. La maggior parte di questi doni oggi in mostra è stata ritrovata intatta ancora chiusa nelle rispettive casse d’imballaggio. Dopo questo palazzo, a seguire c’è il terzo chiamato Baohedian, con la Sala dell’Armonia Protetta ampia come la prima sala. In epoca Ming, fino ai tempi del quarto imperatore Qianlong, questa sala fu usata per
udienze e cerimonie minori e sostituì la Sala dell’Armonia Perfetta nell’ospitare gli esami imperiali. Qui vi si celebrava anche la festa delle lanterne, il 15° giorno della prima luna, durante la quale l’imperatore offriva sontuosi banchetti alla nobiltà delle minoranze nazionali e ai suoi ministri. Conduce alla parte nord di questo palazzo un’imponente lastra di marmo di centosettanta centimetri di spessore e del peso di duecento tonnellate, conosciuta come il “tappeto di marmo”, ornata con nove draghi e posta all’epoca dei Ming. Un breve cortile introduce alla Qianqingmen, Porta della Purezza Celeste, attraverso la quale si accede ai Palazzi interni. Nel Qianqinggong, il Palazzo della Purezza Celeste, dormivano gli imperatori Ming e i primi Qing, poi divenne sala per le udienze private con gli ambasciatori. Il secondo palazzo interno si chiama Jiaotaidian, Sala dell’Unione, e ospitava prima il trono dell’imperatrice, successivamente i sigilli imperiali. Il terzo palazzo è detto Kunninggong, della Tranquillità Terrestre; durante la dinastia Ming ospitava la stanza da letto delle imperatrici, ma durante l’ultima dinastia la coppia imperiale vi trascorreva solo la prima notte di nozze. Oltre la Porta della Tranquillità Terrestre vi è il giardino imperiale costruito in epoca Ming: 7000 mq di parco con al centro il Padiglione della Pace Imperiale; alla sua sinistra il Padiglione dei Mille Autunni e a destra il Padiglione delle Mille Primavere. La città, ovviamente, non è tutta qui. Ci sono altri palazzi dove abitarono le mogli secondarie degli Imperatori; infatti ogni imperatore poteva avere tre mogli, più sei favorite e settantadue concubine (ma Qianlong ne ebbe addirittura tremila. Cosa se ne facesse, poi…). Ci sono i sei Palazzi Orientali che oggi ospitano musei con bronzi, ceramiche e artigianato Ming. Ci sono le cucine, suddivise in cinque padiglioni, il Tempio degli Antenati della famiglia imperiale e la Sala del Digiuno, nella quale pare che l’imperatore digiunasse per due giorni prima di recarsi al Tempio del Cielo e a quello della Terra. E ci sono anche le sale del Tesoro. O meglio, tre sale che conservano quanto si è salvato del Tesoro dopo il furto operato da Chiang Kaishek. Tuttavia possiamo ancora ammirare la Corona della Fenice in piume di pescatore, malachite e pietre preziose, e una seconda corona in filo d’oro, entrambe trovate nella tomba di Wanli. Ci sono anche due serie di sedici campane d’oro, scettri letterari in pietre dure, sigilli in oro, posateria e vasellame da tavola in oro e argento, piatti e ciotole in giada imperiale e tanto altro, comprese due vesti imperiali: un’armatura in maglie d’argento e un abito di corte tessuto in piume multicolori, con onde fatte in perle vere, coralli, giade e lapislazzuli. Insomma, sono talmente tante le cose da ammirare, tra architettura, oggetti d’arte e d’arredamento, che soltanto coloro che resistono alla stanchezza e che hanno tutto il tempo e la calma necessari potranno continuare il giro nella Città imperiale. Altrimenti sarebbe meglio 25
La via della seta riprendere il tour il giorno seguente. Infatti, com’è possibile rinunciare, ad esempio, a visitare i tre piani del Padiglione delle Diecimila Sorgenti, che offre anche il più bel panorama sul complesso della Città Proibita, oppure farsi indicare l’albero sul quale s’impiccò l’ultimo imperatore Ming, Chongzhen, per non cadere vivo nelle mani dei rivoltosi che stavano sfondando le porte della Città proibita? Tariffa d’ingresso alla Città Proibita: 100 yuan in estate (10 euro), 40 yuan in inverno (4 euro). Qui sotto: il giardino imperiale con il Padiglione della Pace Imperiale; dovunque si ergono statue in bronzo. A destra: all’interno della Città Proibita si possono ammirare figuranti in posa che indossano abiti e armature dell’epoca imperiale. In basso: l’edificio che ospita la Taihedian, la Sala dell’Armonia Suprema, e una bella maniglia.
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In alto a sinistra: uno degli splendidi leoni in bronzo che fanno da ala ai gradini del palazzo dove si apre la Taihemen, la Porta dell’Armonia Suprema. Qui sopra: la porta della Sala della Coltivazione Mentale. A lato: la Sala del Trono. In basso, a sinistra: il Qianqiggong, Palazzo della Purezza Celeste, con la sala per le udienze private con gli ambasciatori. Qui sotto: un bambino raffigura Pu-Yi, l’ultimo imperatore della dinastia Ching.
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La Grande Muraglia
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inita la visita al comun deterrente per le piccole inplesso del Palazzo impecursioni di frontiera. Per questo riale passiamo alla motivo la Grande muraglia fu Grande muraglia cinese. mantenuta efficiente fino al A dire il vero, la Grande mu1500. raglia è visibile nelle diverse proLa muraglia, che ha un’alvince settentrionali della Cina, tezza variabile da 4,5 a 12 metri avendo essa una lunghezza di e uno spessore che raggiunge i 3.460 chilometri, a cui vanno 9 metri e mezzo, inizia il suo peraggiunti 2.660 km di ramificacorso a est dal golfo di Chihli (Bo zioni e contrafforti. Ma qui a Hai) presso la cittadina di Quinnord ovest di Pechino è particohuangdao (a est di Tianjin) e larmente interessante, come raggiunge, ininterrotta, gli mostrano queste foto. Infatti le estremi limiti occidentali della sezioni di Badaling, Mutianyu, provincia di Gansu, presso DunIl tracciato della Grande Muraglia. Jinshanling e Simatai sono le più huang. Contiene più di quaranintegre. tamila fortezze e torri di guardia. La Grande muraglia cinese è una gigantesca costru- La forma attuale risale alla dinastia Ming (1368-1644). zione in muratura edificata durante il regno di Qin Shi In cinese la Grande muraglia si chiama Wanli chanHuang, che andò dal 246 al 210 avanti Cristo. La sua gchang, che significa letteralmente “muro lungo 10.000 realizzazione richiese dieci anni di lavoro. La funzione di li”, dove “li” è un’unità di misura cinese pari a 500 metri. questa ciclopica impresa fu quella di proteggere i confini Per cui, secondo i cinesi, la muraglia misurava 5.000.000 settentrionali della Cina dai popoli nomadi del nord, per di metri, cioè 5.000 km. Secondo alcuni archeologi cilo più di origine mongola, collegando una serie di for- nesi sembra che la prima sezione della Grande muraglia tezze e mura già esistenti. Sulla muraglia correva una sia stata costruita intorno al 688 a.C., ossia quattrocento strada che permetteva ai messaggeri, in caso di pericolo, anni prima dell’epoca di Qin Shi Huang. Essa fu realizdi dare l’allarme e di far accorrere le truppe. Ma questo zata senza l’ausilio di strumenti meccanici, usando solo enorme baluardo non riuscì a contenere i nemici più pericolosi, tant’è che la Cina fu conquistata da Gengis Khan Qin Shi Huang, primo imperatore di Qin ed anche primo imperatore della Cina. e poi dai Manciù; tuttavia costituì una efficace barriera e
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pietre locali e nessun adesivo. Gli ottocento chilometri più antichi attraversano le attuali città di Lushan, Ye Xian, Fangcheng e Nanzhao, nel sud-ovest della provincia di Henan. Esistono vari punti dove recarsi per visitare la Muraglia ma, se non amate la folla, evitate di andare in quello a ridosso di Pechino (a Juyongguan Pass) e recatevi invece a Badaling, oppure a Mutianyu, dove raggiungerete un punto della Muraglia sì più lontano dalla capitale, ma decisamente più caratteristico e con un minor numero di turisti. Arrivati al parcheggio farete un breve tratto a piedi tra le bancarelle che vendono le classiche mercanzie, per poi trovarvi di fronte all’alternativa di salire sulla sommità (dov’è la muraglia) a piedi oppure usando la cabinovia, al costo corsa di 40 yuan; questa sarebbe da preferire, perché fareste meno fatica, godreste di un paesaggio meraviglioso ed in pochi minuti arrivereste nei pressi della Muraglia. Il costo del biglietto d’ingresso per visitarla è di 35 yuan. A questo punto inizia il vostro viaggio sulla lunga e tortuosa muraglia. Ogni 200330 metri circa c’è una torretta dove i turisti cercano un po’ di riparo dal sole, prima di proseguire il cammino. Dopo circa un chilometro e mezzo si arriva in un punto dove bisogna scendere, o con la funivia, oppure col tobogan, che consiste in un carrellino aperto (tipo bob per intenderci) che vi darà fortissime sensazioni. Si scende giù al parcheggio in circa 7-8 minuti al costo di 40 yuan.
Nella pagina precedente e qui sopra: due immagini della Grande muraglia della dinastia Ming. A destra: l’interno di due torri di osservazione. In basso: le immancabili bancarelle che vendono gli oggetti per i turisti.
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3 A Xi’an In passato Xi’an era un importante crocevia dei percorsi commerciali che andavano dalla Cina orientale al Mediterraneo e giunse a contendere, prima a Roma e poi a Costantinopoli, il titolo di città più grande del mondo. Oggi Xi’an è l’asso nella manica dell’industria turistica cinese
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el precedente capitolo abbiamo visitato Beijing, cioè la capitale Pechino e i suoi dintorni. Da là ora ci spostiamo a Xi’an, la prima tappa del nostro viaggio sull’antica «Via della seta». Xi’an dista da Pechino sedici ore di treno, per cui se avete tempo e spirito d’avventura potete prendere questo mezzo per raggiungerla, altrimenti, se potete spendere un po’ di più, il tragitto in aereo costa circa 100 euro. Xi’an è la moderna capitale della provincia di Shaanxi, che è situata nel cuore stesso della Cina. Qui vi scorre la parte centrale del Fiume Giallo (Huang He in cinese), che in totale è lungo ben 4845 km; vi fanno da cornice la Mongolia interna e varie altre province cinesi: Shanxi, Henan, Hubei, Sichuan, Gansu e Nin-
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gxia. Il clima della provincia di Shaanxi è temperato e semiarido nel nord, mentre è subtropicale ed umido nel sud. La temperatura media annuale è fra 8° e 16°C, e nel periodo estivo piove parecchio, con intensi acquazzoni ma solitamente di breve durata. Quindi, poiché l’estate è spesso piovosa e gli inverni sono freddi, meglio sarebbe raggiungere Shaanxi in primavera o in autunno. Shaanxi, oltre ad essere erede di una ricca storia, tanto che la possiamo considerare come la culla della civiltà cinese, abbonda anche in bellezze naturali. Oggi essa vanta una popolazione di oltre 36 milioni di abitanti su una superficie di 200.000 chilometri quadrati, ma già un milione di anni fa questa regione fu abitata dai primi Cinesi che poi diffusero la loro cul-
ieri ed oggi tura lungo i territori del Fiume Giallo. In definitiva, per la sua storia ricca d’eventi, le vestigia culturali e le rovine archeologiche che abbondano e che possono essere visitate, sia in superficie che sottoterra, la provincia di Shaanxi è considerata come il «museo della vera storia» della Cina. Per quanto riguarda le bellezze paesaggistiche, a 120 chilometri ad est di Xi’an sorge una delle cinque montagne più note in Cina e sacri al Taoismo: il Monte Huashan, famosa per i suoi dirupi a picco e il paesaggio mozzafiato circostante. La cascata Hukou, sul Fiume Giallo, la seconda più grande in Cina, è magnifica e spettacolare e meriterebbe di essere visitata. Nei dintorni di Xi’an ci sono molti luoghi interessanti da vedere mentre ci staremo dirigendo verso la nostra seconda tappa: Lanzhou. Uno dei più antichi è rappresentato dalle rovine del villaggio di Bampoo, un sito vecchio di oltre 6000 anni che appartiene all’età neolitica. Vicino alla città ci sono settantadue tombe antiche con i loro resti, compreso il Mausoleo dell’imperatore Xuanyuan (l’Imperatore Giallo) della dinastia Tang, colui che iniziò a civilizzare la Cina. Ma l’attrazione più interessante nei dintorni di
La provincia di Shaanxi con i siti di maggior interesse turistico.
Qui sotto: la spettacolare cascata Hukou sul Fiume Giallo. Più in basso: il Monte Huashan, sacro al Taoismo, del quale parleremo più approfonditamente nel prossimo capitolo.
Xi’an è sicuramente il Mausoleo di Qin Shi Huang, che occupa un sito sulla collina di Liangshan a Lintong, una località ubicata a cinquanta chilometri a nord dalla città. Laggiù si può visitare un museo stupefacente, con guerrieri e cavalli in terracotta posti come custodi di un luogo considerato ormai l’ottava meraviglia del mondo. Ai piedi del monte Lishan, poi, c’è la sorgente denominata Huanqing Chi, cioè “Calde Primavere”, che fu un luogo molto popolare per quasi mille anni perché durante tutto l’anno le sue acque restavano, e restano anche oggi, calde ad una piacevole temperatura. Il luogo abbonda di leggende fantasiose, come ad esempio quella di una commovente storia d’amore fra l’imperatore Xuanyuan e la sua concubina Yang Gui31
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fei. Di tutte queste località e relative leggende parleremo più dettagliamene più avanti. La capitale di questa regione è quindi Xi’an, città che ha origini antichissime, conosciuta in passato con il nome di Chang’an. Per oltre mille anni Xi’an (che significa “Pace Occidentale”) fu la capitale di ben undici dinastie imperiali, tra le quali gli Zhou (11° sec-221 a.C.), Qin (221-206 a.C.), Han (206 a.C.-220 d.C.), Sui (589-618) e Tang (618-907); poi, durante la dinastia Song (960-1279), il centro politico fu spostato più ad est. Il suo massimo splendore Xi’an lo raggiunse nel periodo Tang, quando arrivò ad avere un milione di abitanti, costituendo probabilmente il centro più popoloso al mondo. A Xi’an fioriva il commercio, non solo perché era la capitale ma anche perché si trovava al crocevia degli scambi commerciali e culturali con i paesi stranieri. Da qui, infatti, partiva la famosa «Via della seta» che, dirigendosi verso est, si snodava per quasi 7000 Km attraverso l’Asia centrale (le province cinesi di Shanxi, Gansu e Xinjiang, l’altopiano del Pamir) e il Medio oriente raggiungendo la costa orientale del Mediterraneo. In quel tempo, intorno alla città di Xi’an si estendevano ben cen32
tootto quartieri abitativi; ogni quartiere era cinto da un muro, le cui porte venivano chiuse ogni sera. In questi quartieri si concentravano residenti e mercanti stranieri, afgani, persiani, turchi, arabi, siriani e indiani, ognuno autorizzato a commerciare ma anche a predicare la propria fede e cultura, e c’erano ovviamente grandi depositi per le merci che poi venivano indirizzate sulla Via della seta. Quindi, prima della nascita del commercio marittimo, i mercanti utilizzarono questa ed altre vie similari per portare i prodotti cinesi verso ovest, da dove gli stessi o altri commercianti riportavano in Cina nuove e differenti merci. Al termine della dinastia Tang, Xi’an ebbe un lungo periodo di declino, tuttavia rimase un punto di passaggio per i trasporti est-ovest e il centro più importante della Cina nord-occidentale. In seguito, nel 1564, gli imperatori Ming costruirono le attuali mura
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Nella pagina precedente: una via della Xi’an moderna. Qui sopra: un modernissimo centro commerciale è sorto al fianco dell’antica Torre della Campana, che i cinesi chiamano Zhong Lou. A lato: anche a Xi’an, come in altre città cinesi, coesistono edifici antichi e moderni. In basso: ecco ciò che si vede dalla Torre della Campana: tre grandi viali vi convergono, suddivisi da edifici costruiti di recente, con agli angoli due grandi e moderni centri commerciali.
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Le antiche mura Ming, viste dall’alto, sono state di recente restaurate. Il muro è alto 12 metri e largo alla base 18. Formano praticamente un rettangolo della lunghezza di 12 km attorno al centro di Xi’an. Potete passeggiarci sopra affittando una bicicletta oppure un veicolo simile a quello dei campi da golf, ma potete anche spostarvi tramite un piccolo bus. Nella foto a destra, la Torre del Tamburo (Gu Lou) sovrasta una delle porte del muro. È visibile la pubblicità dell’immancabile McDonald’s.
della città. Oggi si può ancora vedere l’antico muro che fu edificato durante la dinastia Han (circa un secolo prima dell’era cristiana); è il muro cittadino più antico e meglio conservato esistente in Cina. Ma si possono anche ammirare le mura dei Ming, che sono state in gran parte restaurate e riportate all’antico splendore, con l’aggiunta perfino di lampioncini rossi per rendere più bella la visione notturna, come mostrano le foto in alto. All’esterno, queste mura presentano seimila merli, che però non si vedono dall’interno, quattro torri di difesa agli angoli e una torre di guardia vicino ad ognuno degli ingressi fortificati posti ai punti cardinali. Il fossato esterno è stato ricoperto e non è più visibile. All’interno delle mura ci sono ristoranti e negozi, molto carini d’aspetto, che vendono un po’ di tutto. Oggi Xi’an è una metropoli con oltre tre milioni di abitanti e un traffico da impazzire nei suoi sette quartieri, ma se comprendiamo gli abitanti dei sei distretti rurali raggiungiamo la cifra di più di sei milioni di persone. La tradizione vuole che i cinesi siano gialli, piccoli e brutti, ma non è così, perché ci sono quelli di pelle giallognola ma anche bianca, sono bassi ma pure alti a seconda delle etnie, e comunque buona parte della gioventù d’oggi è realmente bella. Ho visto ragazze cinesi alte, ben tornite e dalle gambe lunghe e slanciate che indossavano minigonne oppure, nei locali di sera, lunghe vesti con spacco laterale sulla gamba si34
nistra. Solo nei quartieri più poveri si vedono vecchi con segni evidenti di una vita di pesante lavoro e malnutrizione. Una cosa è comunque certa: i cinesi sono tanti! Affollano i marciapiedi cittadini come orde impazzite e ti spintonano da ogni parte, oppure stanno in gruppo, accovacciati nella loro tipica posizione di attesa o di riposo; ed anche riempiono le piazze ed i parchi, intenti a vendere o acquistare qualsiasi cosa. Girando nei quartieri popolari noterete che l’ingresso di ogni casa è sempre provvisto di un gradino, affinché gli spiriti maligni, che volano radenti il terreno, non possano entrare; noterete che è quasi sempre presente il santuario di famiglia, o fuori o dentro casa (spesso la porta resta aperta), che ospita gli antenati, le “anime celesti” (hun) che sono più di una per ogni persona: esse rinascono in Cielo come spiriti divini, o si reincarnano in Terra, o ancora risiedono negli emblemi posti nel santuario, davanti ai quali vedrete porre piatti contenenti cibi freschi affinché se ne possano cibare. Così si faceva nell’antica Roma con i Lari, le effigi degli antichi dèi protettori della casa. In questi quartieri più popolari, lungo i bordi delle strade ci sono sempre piccoli locali, solitamente con la cucina a vista, dove i cinesi consumano il loro pasto; oppure ci sono bancarelle dove si cucina all’aperto in un pentolone a cono rovesciato chiamato wok, il quale viene usato per friggere, arrostire, saltare e persino cuocere al vapore. Simpatico infine il rito dell’acquisto nei negozi e
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A lato: la parte superiore della pietra nestoriana scoperta dai missionari gesuiti nella provincia di Shensi. La scritta sulla pietra dice: “Un monumento che commemora la propagazione del Ta-Chin, la religione della luce (Cristianesimo), nel Regno centrale”. Il giorno della posa della pietra viene definito come “ta vao shen wan ji”, vale a dire “il grande primo giorno del Sabbath”. L’uso di termini ebraici per i giorni della settimana conferma la forte influenza che ha avuto la Chiesa nestoriana in Asia.
nei grandi magazzini: sarete circondati da innumerevoli commesse che parlano vivacemente, felici di poter servire clienti stranieri. E se non siete in un grande magazzino, dove il prezzo è fissato, è usanza (e vi conviene) contrattare per il prezzo delle merci. Sicuramente non lo sapevate ma, in una nazione in cui prevale il confucianesimo, Xi’an è anche la culla del cristianesimo. Anzi, lo è fin dal lontano settimo secolo, come testimonia la stele di Singan Fu, risalente al 781 d.C., che fu rinvenuta nel 1625 a Xi’an: incisa nella pietra si legge la più antica testimonianza della penetrazione cristiana in Cina, avvenuta ad opera del monaco nestoriano Alopen, che nel 635 era giunto a Chang’an, allora capitale dell’impero Tang, per predicare la «religione della luce». Oggigiorno la città ha una bella cattedrale grazie al vescovo Antonio Li Duan, che ha ricostruito la Chiesa di Xian dopo i disastri della Rivoluzione culturale; egli è morto il 25 maggio 2009 dopo una lunga malattia, ma resta una delle figure più rispettate ed amate dai cattolici cinesi, sia quelli ufficiali che clandestini, che sono circa ventimila. Li Duan era vicepresidente del Collegio dei vescovi cinesi (la conferenza episcopale controllata dal regime) che gode da anni dell’approvazione del Vaticano. Per succedergli Li Duang ha scelto e consacrato vescovo, il 26 luglio 2008, un uomo di sua fiducia, Antonio Dang Mingyan, di 38 anni, or-
Giovani e meno giovani per le vie di Xi’an. Non è raro vedere gruppi di persone accovacciate intente a giocare a dama o altro.
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Agli eleganti ristoranti del centro cittadino fanno contrapposizione i locali molto più economici dei quartieri popolari dove si cucina all’aperto. Questa situazione, comunque, la si trova in ogni città asiatica.
museo che espone, oltre alla stele già citata, molte altre stele in pietra e un’ampia raccolta di tavolette in pietra, centoquattordici delle quali portano incisi testi classici. Ma poiché stiamo girando per la città è d’obbligo andare ad ammirare la grande Pagoda, chiamata Grande Oca Selvaggia, come anche il tempio Famen, la Torre della campana e la Torre del Tamburo, quest’ultima situata al margine del quartiere musulmano, dove sorge la Grande Moschea. La Torre della Campana, al tempo della dinastia Tang, era al centro della città imperiale e scandiva il tempo per l’intera città. Fu ricostruita nel sito attuale nel 1582, 10° anno del regno di Wanli, dinastia Ming. È una imponente struttura in legno alta 36 m, spesso usata come simbolo cittadino. Nella galleria del primo piano è esposta una campana del XV secolo. Altro luogo interessante dove recarci è il Teatro; qui possiamo assisterete ad uno spettacolo in stile epoca Tang, con danzatori che si muovono al suono di gong e tamburi, e mentre gustiamo lo show gustiamo pure ottime pietanze locali. In città è sicuramente interessante da vedere il quartiere musulmano, circondato dinato con l'approvazione del papa. Le autorità cinesi sono tolleranti e lasciano fare, continuando ad attenersi al principio di una Chiesa nazionale “indipendente, autonoma e autofinanziata”, che i suoi vescovi se li elegge da sé. Ma il regime comunista cinese pone al Vaticano due condizioni pregiudiziali per assicurare la libertà al credo cristiano: che non s’intrometta negli affari interni della Cina, anche religiosi, e che rompa le relazioni diplomatiche con Taiwan. Per questo, sulla nomina dei vescovi, Roma agisce col massimo della riservatezza e per via esclusivamente unilaterale. E così la questione Cina è certamente uno dei punti più scottanti del pontificato di papa Benedetto XVI, che deve affrontarlo con estrema prudenza. Nel suo periodo di maggiore splendore Xi’an sviluppò un’architettura ed una cultura che ancora conserva e sfrutta come tesoro storico. Infatti Xi’an ha un 36
ieri ed oggi da alte mura. Rappresenta una nota di diversità e particolarità, col suo brulicante bazar cosparso di bancarelle, dove si vende di tutto, e locali dove si possono apprezzare piatti della cucina araba. Però nel camminare per le vie del centro e per le piccole stradine del quartiere musulmano sarete sommersi dal suono dei clacson che tutti, dai taxi ai motocicli, usano come volessero sfidarsi in una gara senza sosta. Ma ci farete l’abitudine. Veniamo alla cucina di questo territorio. È differente da quella che abbiamo conosciuto a Pechino. Potete capitare in ristoranti che propongono specialità ispirate alla cucina imperiale (e questo avviene anche a Pechino), ma più facilmente in altri locali che offrono la cucina meridionale di Canton. Tenete bene in mente che, se è vero che un detto cinese assicura che «tutto ciò che si muove è commestibile», la carne servita nei ristoranti è sempre di pollo, anatra, maiale, vitello o manzo: è praticamente impossibile correre il rischio di mangiare cani, gatti o altri animali a vostra insa-
puta. Sicuramente quella massima si riferisce ad un passato molto remoto, quando l’estrema povertà dei Cinesi rendeva loro possibile mangiare praticamente di tutto. Oltre alle carni citate, sono molto usati il pesce e i crostacei, e pure riso, spaghetti di riso o di soia e verdure. Lo stile della cucina cantonese è il più conosciuto nel mondo, ed infatti monopolizza tutti i ristoranti in occidente; però, se avete già mangiato nei ristoranti cinesi occidentali, sappiate qui non troverete molte delle ricette alle quali siete abituati, perché non sono originarie della Cina bensì varianti o invenzioni dei cinesi d’Occidente. La cucina cantonese utilizza numerose varietà di frutta e verdura, le quali sono presenti in grande quantità nelle pietanze. Il pesce ed i frutti di mare sono molto importanti per la preparazione dei piatti: gamberi, aragoste e granchi sono consumati in grande quantità. Il sapore dei cibi è influenzato dall’uso del zenzero, del curry e di altre spezie. Tante sono le salse: a base di ostrica, di gambero, d’albicocca (quella di colore arancione) di sapore agrodolce; viene usato anche il chilly, cioè il peperoncino. Il manzo in salsa d’ostrica è un piatto molto prelibato e conosciuto, a dispetto dell’abbinamento di sapori che a noi occidentali parrebbe a dir poco “strano”. Ottimo è il maialino arrosto.
Vita notturna a Xi’an. A lato, il lussuoso Jianguo Hotel.
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Defilè di moda a Xi’an che segue la tradizione della provincia di Shaanxi. In basso: per le vie sfilano guardie in antico costume per il piacere dei turisti.
Gli ortaggi maggiormente usati nella cucina cantonese sono spinaci, cavolo, peperoni, broccoli, carote, funghi e bambù. Non mancano i manicaretti preparati con la frittura, con verdure avvolte nella pastella, fritte in poco tempo ad elevata temperatura per renderle croccanti e leggeri, mantenendo anche un sapore genuino; ma ci sono anche le verdure cotte al vapore che così mantengono il loro colore naturale al punto da sembrare ancora crude. La frutta secca accompagna spesso i piatti a base di carne. Molto conosciute, anche nei menù occidentali, oltre il pollo al limone e il riso fritto (il famoso riso alla cantonese), sono tutte le specialità in agrodolce. Per gli irriducibili consumatori del pane… beh, avrete grosse difficoltà, perché in Cina il pane non esiste, in quanto è sostituito dal riso. Raramente si trovano confezioni di pane in cassetta, ma è molto dolce e assimilabile alle briosce per la colazione mattutina. Talvolta si trova del pane di tipo arabo, ma pare più una pizza, e con tantissimo peperoncino sopra; altre volte si trovano dei panini che però sono cotti al vapore. Quindi mettetevi l’anima in pace, oppure recatevi ad un ristorante con cucina internazionale dove potranno portarvi al tavolo il garlic bread, cioè fette di pane baquette tostate e ricoperte d’aglio. Quando ho domandato al cameriere perché non le portasse in tavola al naturale, senza tostatura e spremitura d’aglio, mi ha guardato come se scendessi dalla luna e ho ottenuto solo un gentile rifiuto. Per quanto riguarda le bevande, durante i pasti i
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Cinesi usano il tè, che non è propriamente quello che usiamo noi imitando gli Inglesi; è di sapore meno aspro ed infatti si beve senza zucchero. Provate a bere quel tè a tavola e vi piacerà pure, anche perché lega bene coi sapori dei cibi cinesi. Di tè ce n’è un’enorme varietà di tipi, con gusti differenti e a costi differenti, economici e costosi. Basta recarsi in un negozio specializzato per accorgersi delle enormi quantità e varietà di tè presenti in Cina. Ma se il tè non vi piace, allora è buona la birra di produzione locale (la migliore è la «Qindao» o la «Five Stars») e alcuni tipi di vini e liquori cinesi. Ma attenzione, spesso nei locali cinesi si servono vini prodotti non da uva, ma con distillati di riso e di altri cereali, nonostante che nel nord-ovest della Cina si produca anche vino d’uva. Quindi se volete bere il vino d’uva state attenti all’etichetta. Tra i più famosi liquori cinesi segnalo il «Mao Tai» che assomiglia alla nostra grappa, il «Shao Haing» che ricorda lo sherry (viene servito caldo durante i pasti) e il «Wu Liang Chew» noto come la grappa dei cinque cereali. Infine, ricordatevi di non chiedere il menu, a meno che non sappiate leggere il cinese: sarebbe inutile. La tattica migliore per mangiare quello che si desidera è entrare in un locale affollato, fare un giro fra i tavoli e poi indicare al cameriere la pietanza scelta. Altrimenti, se non ci sono commensali agli altri tavoli da cui copiare, sperate che il cameriere conosca un po’ di inglese (cosa non facile), oppure affidatevi alla fortuna, tanto, di solito, qui è tutto buono. L’ultima possibilità di poter mangiare se non desiderate cibi cinesi? Beh, andate al McDonald’s oppure al Pizza Hut, che qui non mancano, anzi sono anche nel centro della città. Di quelli vi fidate, vero? Purtroppo sono arrivati anche qui. Ohinoi!, come cambia la Cina.
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Girando per musei
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urante la vostra gita a Xi’an non dimenticate di visitare il Museo storico di Shaanxi, che ha sede in un edificio costruito nel 1992 vicino al Tempio di Confucio, nella zona sud della città. In esposizione oggetti e testimonianze ritrovati nella regione: è costituito da tre padiglioni che espongono vasi rituali in bronzo dell’epoca Zhou e degli Stati Combattenti, campane che venivano adoperate come strumenti musicali, statuette di cavalli e soldati in ceramica, sculture in pietra d’epoca Sui e Tang, il sepolcro di una bambina di 9 anni appartenente a una famiglia nobile, i famosi affreschi su pietra di cavalli Tang, e le ceramiche a “tre colori”, tipica produzione artistica dei Tang. Il fatto che la visita sia interessante lo testimoniano i 7 milioni di persone che lo hanno finora visitato, inclusi un milione e duecentomila stranieri e 60 capi di stato provenienti da varie parti del mondo. Altrettanto degno di nota la Beilin (Foresta di stele), che è la collezione di stele più antica e più ricca della Cina, dalla dinastia Han alla Qing, comprendente la stele nestoriana della quale abbiamo già parlato, che per la maggior parte poggia sul dorso di una tartaruga, simbolo di longevità. È esposta qui nel museo provinciale, però nelle sale dello sconsacrato tempio di Confucio. La collezione fu iniziata nel 1090 (5° anno del regno di Yuanyou, della dinastia Song) per conservare su pietra i classici del regno Kaicheng, della precedente dinastia Tang. Ora contiene più di 2300 tavole di pietra dei periodi Han, Wei, Sui, Tang, Song, Yuan, Ming e Qing. Le più interessanti sono le 14 stele (cioè 228 pagine) che portano i testi dei cosidetti “Dodici classici”, scolpiti nell’837 (2° anno del regno Kaicheng, dinastia Tang), e di un altro classico, “Il libro di Mencio”, aggiunto durante il periodo Qing. Tota-
lizzando circa 650.000 ideogrammi, esse costituiscono la più grande (ed anche la più pesante) collezione di classici iscritti. Altre iscrizioni appartengono invece a diverse dinastie e rappresentano differenti scuole dell’arte calligrafica cinese. I loro testi forniscono preziosi dati per lo studio della storia delle relazioni estere della Cina. Altro interessante luogo è il Museo di Bampoo, situato alla periferia orientale di Xi’an. È il primo museo di un sito preistorico costruito vicino agli scavi effettuati a Bampoo, aperto al pubblico dal 1958. Il sito di Bampoo è un villaggio della Comunità matriarcale neolitica tipica della cultura di Yangshao datata a circa 6.000 anni fa. A quel tempo, gli abitanti di Bampoo utilizzavano attrezzi fatti soprattutto di legno e di pietra. Alle donne era affidato il compito di produrre utensili da cucina, filare e allevare i figlioli, mentre gli uomini si dedicavano alla pesca. La zona espositiva ha un’estensione di circa 4.500 metri quadri ed è divisa in due sale lunghe e un’altra molto più grande. Con un percorso che dura circa quattro ore si possono ammirare gli attrezzi contadini e gli attrezzi domestici usati a quel tempo, compresi asce, scalpelli, falci e coltelli, tutti in pietra, che danno un’idea precisa di come si viveva in quel tempo in Cina. In più, ci sono lavori artistici e oggetti ornamentali che testimoniano la durata, la cultura, l’arte e le invenzioni sociali. Una sala del museo tratta l’etnologia, il folclore e la storia dell’arte della cultura preistorica e c’è anche una sezione dedicata alla sepoltura, con tombe primitive, come anche capanne e forni. Costo della visita: 25 yuan, cioè quasi 2,5 euro. Sopra: alcuni degli oggetti esposti nel Museo. In basso: il Museo storico di Shaanxi e il Museo di Bampoo.
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La Pagoda della Grande Oca Sevaggia
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a «Dayanta», come la chiamano i cinesi, si trova nel sobborgo sud della città di Xi’an, a circa quattro chilometri dal centro. Fa parte del complesso del tempio buddista Da Ci’en e fu costruita nel 652 d.C. durante il regno dell’imperatore Gaozong della dinastia Tang. La pagoda originalmente aveva 5 piani, che salirono a 10 tra il 701 e il 704. Ripetuti lavori eseguiti in seguito hanno portato all’attuale pagoda di 7 piani. Alta 64 m, ha una porta ad arco su ognuno dei quattro lati di ogni piano. Nell’interno vi è una lunga scala in legno (245 scalini) che conduce ai diversi piani. È quindi uno degli edifici più alti di Xi’an ed infatti lo si vede da ogni luogo. La Pagoda della Grande Oca Selvaggia porta questo strano nome per via di una leggenda. Secondo antiche storie buddiste, un tempo questa dottrina si divideva in due branche, una delle quali ammetteva il potersi cibare di carne. Un giorno i monaci di Xi’an non trovarono carne da comprare e quando videro delle oche volare alte sulle loro teste un monaco disse: «Oggi non abbiamo carne. Spero che il Bodhisattva ce ne porti un po’». In quel momento l’oca più grande della formazione subì la rottura delle ali e precipitò al suolo. Allora i monaci credettero che il Buddha avesse in tal modo mostrato il suo spirito per ordinare al monaco di essere più pio. Così in quel luogo essi costruirono la pagoda alla quale dettero il nome che porta oggi, e nello stesso tempo smisero di mangiare carne. Il tempio Da Ci’en (che vuol dire Grande Benevolenza) invece fu costruito nel 647 dall'imperatore Taizong in occasione della morte della madre, regina molto amata anche dal popolo. Oggi il suo giardino ha un’estensione di 32.000 metri quadrati e nonostante sia stata ridotta ad
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Il tempio Da Ci’en. In basso: la Pagoda della Grande Oca Selvaggia, con in primo piano la statua di Xuanzang errante, e un gruppo di monaci.
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un settimo di quella di un tempo, mostra ancor’oggi una notevole grandiosità. All’ingresso del tempio è visibile la statua di Xuanzang, monaco buddhista che nel 629 d.C. intraprese un viaggio di oltre 16.000 km, dalla Cina all’India e ritorno, per ricercare gli originali dei testi sacri del buddhismo. Tornato in patria, fu proprio Xuanzang che chiese all’imperatore la costruzione della pagoda per conservare i libri sacri del buddhismo che aveva portato dall’India dopo il viaggio che era durato ben diciassette anni; nella pagoda, infatti, il monaco soggiornò dedicandosi alla traduzione dei sutra dal sanscrito in cinese. Xuanzang tutt’oggi è famoso in tutto l’Oriente ed è protagonista di opere letterarie e cinematografiche. Camminando attorno alla pagoda potreste imbattervi in alcuni feroci lottatori in una posa molto dinamica con arbitro annesso; nessun timore, sono tutti in bronzo, anche se a grandezza naturale, e indossano l’abbigliamento tipico dell’epoca Tang.
Nel giardino una statua di Buddha e una scritta che dice: “Desidero per te buona fortuna”.
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Il Tang Dynasty Dinner Show
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l Tang Dynasty Dinner Show, detto all’inglese, cioè lo “Spettacolo-cena della dinastia Tang”, è una ricostruzione di danze e musiche ideate in Cina al tempo dell’epoca Tang. Il bello è che mentre assistete allo spettacolo mangiate pure, assaporando pietanze le cui ricette risalgono a quel tempo e che hanno nomi molto fantasiosi, alla maniera cinese. Il gruppo di ballo è specializzato in danze tipiche e folcloristiche che le eseguono indossando splendide ed elaborate vesti dell’epoca imperiale, pieni di colori e di ricami. Ed anche le coreografie, le musiche e gli strumenti usati sono quelli dell’epoca Tang. Un insieme eccezionale che necessariamente occorre vedere. Sentite la descrizione di alcune di queste musiche e danze. Ne «Il Palazzo di Huaqing» ascolterete la musica tipica che si suonava alla corte Tang e potrete ovviamente anche vedere gli antichi strumenti cinesi. Quelle musiche erano suonate durante i banchetti reali nel palazzo di Huaqing, individuato a venti miglia ad est di Xi’an, ai piedi del monte Lishan. La «Danza in costume di ramia bianco» era un ballo popolare in voga nell’epoca Tang. Il panno in ramia (fibra tessile ricavata da una specie di ortica) è stato inventato dai Cinesi durante la dinastia Jin e la coreografia di questa danza consente di poter ammirare la fluidità di questo tessuto. La «Danza da combattimento del Re di Qin» è un ballo trionfale creato da Taizong, l’imperatore Tang famoso per aver migliorato e sviluppato l’esercito dell’Impero. “Re di Qin” era il suo titolo ufficiale prima di essere incoronato Imperatore Tang. Le armi e le bandiere adoperate nella danza sono repliche esatte di quelle usate dai suoi soldati. La «Danza rossa e blu di Camelot» era un ballo della corte dei Tang ideato da Yang Guifei, la famosa concubina dell’imperatore Xuanzong. Yang Guifei (della quale parleremo più avanti) è rinomata come una delle quattro donne più belle nella storia cinese. Pare che la donna abbia creato ed anche danzato questa coreografia per deliziare soltanto il suo amato imperatore. La «Danza di Da Nuo» è un ballo degli stregoni che risale alla Cina antica, al tempo della dinastia Zhou. Fu ripreso durante la dinastia Han e Tang, e veniva eseguito durante le cerimonie per la “Buona fortuna” e per allontanare gli 42
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spiriti diabolici e le pesti. Beh… le danze sono tante e a voi il piacere della scoperta delle altre. Adesso vi parlo, invece, del menu della serata, piuttosto succulento, le cui pietanze vengono portate sul tavolo al momento opportuno. Una portata si chiama «Perle di Cathay» e consiste in scaloppine di pesce avvolte in pastella e fritte fino ad acquistare un colore bruno dorato, guarnite con insalata in salsa d’ostrica. Segue poi il «Matrimonio reale», squisite polpette con consommè di funghi neri: una ricetta autentica originaria dalle zone sud e nord della terra del drago. La «Spilla della principessa», invece, si tratta di filetti di manzo fritti, ma delicati e leggeri, con contorno di verdure stagionali. Cosa c’entra la spilla? Mah, forse la sua forma…
Il piatto forte di cui lo chef è particolarmente fiero: il «Cuore del Re dragone», vale a dire gamberi reali (cioè molto grossi) croccanti immersi in un contorno di noci glassate nel miele. Poi abbiamo il «Loto fatato», che consiste in un piatto di riso fritto con spezie e poi avvolto in foglie aromatiche di loto. La «Melodia del Salice» è una macedonia di frutta fresca allo zenzero con aggiunta di funghi bianconeve, il tutto immerso in sciroppo di bacche di biancospino. È un dessert delizioso, considerato come il preferito dell’imperatrice Tang. Beh, la mia descrizione è necessariamente semplice e veloce, ma vi posso assicurare che invece i piatti della cucina cinese sono elaborati e per niente veloci da preparare. Ma si sa, la pazienza cinese è proverbiale. Per chiudere la cena: frutta stagionale e dolcetti di tipo casalingo. Annaffia il tutto il tè al gelsomino. Insomma quattro ore di spettacolo e una cena decisamente squisita, dai sapori nuovi e delicati (senza le stranezze di cui parlano alcuni), al costo di 300 yuan, più o meno 30 euro. Beh, ne spenderemmo di più al ristorante sotto casa… e senza spettacolo, non è vero? Alcune immagini dello spettacolo Tang e (in alto) due delle portate servite, descritte nel testo.
La via della seta
Il viaggio di Marco Polo
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el 1200 molti mercanti veneziani si stabili- cune lettere per il Gran Khan che spiegavano perché rono a Costantinopoli, l’odierna Istanbul, non era possibile soddisfare la sua richiesta. Quando i dove accumularono ingenti ricchezze. Fra Polo giunsero in Asia minore seppero che proprio Viquesti c’erano Niccolò e Matteo Polo, il padre e lo zio sconti era stato eletto papa e così tornarono indietro. di Marco, i quali, intorno al 1260, vendettero le pro- Però il nuovo papa, chiamatosi Gregorio X, affiancò ai prietà che là avevano, acquistarono gioielli e partirono Polo solo due frati, comunque autorizzati a ordinare per la capitale del Khanato occidentale dell’impero sacerdoti e vescovi, e consegnò credenziali e doni per mongolo: Soldaia, emporio veneziano in Crimea. In il Khan. Il gruppo si rimise in viaggio ma i frati, spabreve tempo raddoppiarono il capitale, ma la guerra ventati dalle guerre locali, tornarono indietro e i Polo impedì loro di tornare a casa e così si spinsero ad dovettero proseguire da soli. Oriente, dove raggiunsero la città di Buchara, che Non si può dire che essi fossero ormai esperti della oggi è in Uzbekistan. via da seguire perché non era così. Le guerre e le varie Così iniziò il primo viaggio dei fratelli Polo che li difficoltà incontrate consigliavano spesso altre e nuove condurrà a scoprire la lontana Cina, allora chiamata strade da intraprendere. I tre attraversarono i paesi Catai. che oggi si chiamano Turchia e Iran e scesero verso il Infatti, tre anni dopo, approfittando del passaggio Golfo Persico con l’intenzione di proseguire via mare. da Buchara di alcuni messi che si recavano in Cina, Ma poi ci ripensarono e ripresero la via di terra, supeNiccolò e Matteo si unirono ad essi e, viaggiando sulla rarono le immense zone desertiche, le imponenti caVia della seta, dopo un anno arrivarono alla corte di tene montuose, gli altipiani verdeggianti e i fertili Qubilai Khan, nipote di Gengis Khan, il fondatore del- pascoli dell’Afghanistan e del Pamir fino ad arrivare l’impero dei Mongoli (che allora venivano chiamati nella città di Kashgar. Quindi, seguendo le antiche caTartari), i cui domini si estendevano in un’area vasta rovaniere del deserto del Gobi, giunsero a Dadu, oggi che oggi va dalla Corea alla Polonia. Pechino. Marco la chiama Cambaluc, ma è una storIl Gran Khan accolse i fratelli Polo con tutti gli onori piatura di Khan-baluq, parola cinese che deriva dal e fece loro molte domande sull’Occidente. Diede loro mongolo Khan Balic, cioè “città del Khan”. L’intero una piastra d’oro incisa come salvacondotto per il viaggio, per niente facile anche per via di un’impreciviaggio di ritorno e consegnò una lettera per il papa, sata malattia di Marco, richiese tre anni e mezzo. tramite la quale lo pregava I Polo fecero, più o di mandargli «cento uomeno, un percorso simile mini savi, esperti nella rea quello che stiamo per ligione cristiana e sapienti fare noi, anche se essi parnelle sette arti (che allora tirono da occidente. Oggi erano grammatica, dialetquel viaggio lo si può fare tica, retorica, geometria, in venti giorni, contando aritmetica, astronomia e le opportune tappe e armonia)», per indottrisoste per visitare tutti i nare la popolazione. luoghi più importanti. Al rientro in Italia, NicStrada facendo Marco colò e Matteo appresero annota le cose interessanti che papa Clemente IV era del viaggio: le scoperte morto e dovettero attengeografiche e i nuovi midere il suo successore; ma nerali, i popoli incontrati e quell’interregno fu il più le loro usanze, i loro ornalungo della storia della menti, i cibi e le bevande, Chiesa poiché durò tre i riti religiosi e magici, i anni. Oltre due anni dopo mestieri e le varie mercanil loro ritorno a casa, gli zie. E restò sorpreso del spazientiti Polo ripartirono denaro di carta usato nel alla volta del Catai, e in reame del Gran Khan, questo viaggio c’era cosa sconosciuta in Occianche Marco, che aveva dente. 17 anni. Si dice che il libro, intiGiunti in Palestina ad tolato dapprima DescriAcri, l’alto prelato Tebaldo Marco Polo raffigurato in un mosaico. zione del mondo (anzi, Visconti consegnò loro al44
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Il viaggio di Marco, andata e ritorno.
visto che fu scritto in francese il titolo originario era Livre des merveilles du monde) e successivamente Il Milione, lo scrisse in realtà un certo Rustichello da Pisa, compagno di cella nella prigione di Genova, al quale Marco Polo dettò le sue avventure. Era il 1298 quando in una battaglia navale, mentre era al comando di una galea veneziana, Marco Polo fu fatto prigioniero dai genovesi, in quel periodo in guerra coi veneziani. Nel suo libro Marco non esprime mai il suo pensiero, ma riferisce obiettivamente quello che ha visto e che ha sentito. Afferma che essi rimasero al servizio di Qubilai Khan per diciassette anni, durante i quali fu spesso mandato in missione in distanti parti dell’impero per raccogliere informazioni. Racconta che persino governò quella che oggi è la città di Yang chou, nella provincia di Kiangsu. Non sappiamo se tutto ciò che Marco racconta fosse vero e che l’avesse realmente visto di persona. Certo è che i Mongoli non si fidavano dei Cinesi e usavano servirsi di stranieri per governare l’impero. Tuttavia sembrerebbe esagerato il suo incarico di governatore e gli studiosi sono più propensi a credere che Marco sia stato “un utile emissario di un certo livello”. Ma quello che è interessante del suo libro è la sua splendida descrizione di metropoli ricchissime e di usanze pagane ed esotiche di un mondo completamente ignoto in Europa, dove anzi si riteneva impossibile che potessero esistere paesi civili più popolosi e più ricchi di quelli europei. Invece Marco asserisce che il palazzo del Gran Cane (come lo chiama lui) era «il più gran palazzo che
si sia mai visto. È palazzo tanto bello e maestoso che nessuno al mondo, che avesse la facoltà di farlo, avrebbe saputo disegnarlo e costruirlo in modo migliore». Marco informa che le mura erano ricoperte d’oro e d’argento, adorne di statue di draghi, animali e uccelli dorati, cavalieri e idoli. Il tetto elevato, vermiglio, giallo, verde e blu, splendeva come cristallo. Gli splendidi parchi erano pieni d’animali d’ogni tipo. A differenza delle vie tortuose dell’Europa, le strade di Cambaluc erano così ampie e diritte che da un punto delle mura della città si vedevano le mura sul lato opposto. «Cambaluc – continua a raccontare – è la città del mondo dove arrivano più rarità, più cose di pregio e in maggior quantità di ogni altra città del mondo… Pensate solo a questo: a Cambaluc arrivano ogni giorno non meno di mille carrettate di seta». Inoltre Marco Polo rimane colpito, oltre che dal valore militare dei mongoli, anche dai loro sistemi di governo e dalla tolleranza religiosa. Le misure socio-economiche includevano sovvenzioni per i poveri e i malati, pattuglie antincendio e antisommossa, granai di riserva per alleviare la miseria causata dalle inondazioni e un sistema postale per comunicare rapidamente. In definitiva, per quello che racconta, il libro di Marco Polo fu ammirato ma anche dileggiato nei secoli. Oggi gli studiosi lo definiscono la migliore descrizione esistente del regno di Qubilai nel suo massimo splendore. «Mai, né prima né dopo – ci dice uno storico – un solo uomo ha fornito all’Europa una tale mole di nuove informazioni geografiche». I Polo lasciarono la Cina verso il 1292 e, a sentire Marco, la spedizione compì un viaggio di ventuno mesi, ma per una diversa via: attraverso il Vietnam, la Penisola Malese, Sumatra, India, Persia, Costantinopoli e infine Venezia. Erano stati via dall’Italia ventiquattro anni: come avranno fatto i parenti a riconoscerli? Infatti era partito un Marco giovinetto e rientrava a Venezia un uomo di 41-42 anni. Dopo la sua disavventura in carcere, senza la quale forse non avremmo conosciuto la sua impresa, Marco Polo riacquistò la libertà nel 1299, al termine della disputa tra Venezia e Genova. Tornò a Venezia, si sposò ed ebbe tre figlie. Nel 1324, aveva 69 anni, morì nella sua città natale. Ma perché Marco fece quel viaggio? Lo scopo non fu certamente quello di un comune mercante, cioè il fare la spola tra Oriente e Occidente per trasportare mercanzie. Sicuramente fu spinto dall’interesse per i viaggi, dal desiderio di novità, dalla volontà di conoscere paesi lontani e apprendere le loro usanze… tutte cose innate in molti di noi. 45