Intervista Zoff

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ape zoff_Layout 1 13/11/12 11:53 Pagina 2

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PORTIERE SI NASCE SPAGNA 1982 E (NON SOLO) NEI RICORDI DI DINO ZOFF

UNA VITA FRA I PALI A DIFESA DI UN AZZURRO MAI SBIADITO di Mauro SIMONCELLI Foto Bruno - Getty Images

olti dicono con troppa leggerezza che se Italia-Brasile del 1982 fosse stata rigiocata dieci volte, i brasiliani ne avrebbero vinte almeno otto. Ebbene io dico proprio il contrario. Per me otto volte su dieci, se non di più, quella partita la sarebbe nostra. Eravamo una squadra pericolosa, attenta in difesa e micidiale, velocissima in contropiede, anche se loro erano dei grandi campioni ci avrebbero sempre sofferto». Dino Zoff da Mariano del Friuli. Te lo immagini come un uomo dai toni moderati e ci azzecchi, ma guai a mettere in dubbio, anche con levità e senza malizia, la legittimità del trionfo al Mondiale di Spagna, e la voce cambia ritmo, riavvolge il nastro e torna a quella torrida estate di tenta anni fa.

«M

Zoff, da quello che capiamo la gara simbolo di quell’impresa resta quella con il Brasile?«Non solo ovviamente, ma con il Brasile penso di aver passato i cinque secondi più lunghi della mia esistenza». Si riferisce per caso alla parata su

Oscar?«Esattamente, fece un gran colpo di testa, io parai ma non trattenni, poi bloccai la palla proprio sulla linea di porta. La gente mi ricorda agitato dopo quella parata? Certo che lo ero, con l’Argentina la rete di Passarella era irregolare. Stavo sistemando la barriera, lui calciò facendo gol e Rainea (l’arbitro romeno dell’incontro, ndr) iniziò a correre come un matto verso il centro del campo convalidando il gol. In quelle situazioni può succedere di tutto, ecco perché ero così agitato». Torniamo a qualche giorno indietro, prima della partenza per la Galizia. «Ci stavano dicendo di tutto, le offese più basse. Facemmo una partita di rodaggio a Braga contro una buona squadra del campionato portoghese, ed ovviamente non spingemmo a fondo cercando di trovare i meccanismi giusti. Invece il giorno dopo sulla stampa uscì di tutto, e la cosa proseguì fino a quando decidemmo il silenzio stampa. Oltre a Bearzot parlavo solo io, e non era certamente facile ri-


Palmarès CALCIATORE Club Campionato italiano: 6 Juventus: 1972-1973, 1974-1975, 1976-1977, 1977-1978, 1980-1981, 1981-1982 Coppa Italia: 2 Juventus: 1978-1979, 1982-1983 Coppa UEFA: 1 Juventus: 1976-1977 Nazionale Campionato del mondo: 1 - 1982 Campionato d’Europa: 1 - 1968 Giochi del Mediterraneo: 1 - 1963 Individuale Nominato UEFA Golden Player per la FIGC (2004) Inserito nel FIFA 100 Inserito nelle “Leggende del calcio” del Golden Foot (2004) ALLENATORE Club Coppa Italia: 1 Juventus: 1989-1990 Coppa UEFA: 1 Juventus: 1989-1990 Individuale Seminatore d’oro: 1 1990 Presidente Coppa Italia: 1 Lazio: 1997-1998

spondere fermamente al fuoco di fila di domande». Anche mister Bearzot fu bersagliato dalla critica. «Bersagliato è un termine riduttivo, fu fatto oggetto di una serie di insulti irripetibili, sembrava che dargli addosso fosse diventato lo sport nazionale. Lui però era un grandissi-

Ma proprio tutta la stampa vi dava contro? «No, Italo Cucci e Giovanni Arpino stavano con Bearzot».

Una volta ottenuto il minimo sindacale, tanto per non venire accolti a pomodorate al rientro, si è più sciolti».

Però venivate da tre pareggi, con Polonia, Perù e Camerun decisamente poco esaltanti. «Va detto però che la Polonia era un’ottima squadra, aveva un Boniek straordinario inserito su un

Una volta superato lo scoglio Brasile la strada fu in discesa. «In discesa, con Polonia e Germania da affrontare, no. Diciamo che però sarebbe stato difficile fermarci».

«TIRÒ DA 40 METRI, ‘STA PALLA CON UN EFFETTO STRANO CHE USCIVA FINO A FINIRE IN RETE» mo, il vero segreto della nostra vittoria. Ci proteggeva, faceva scudo, catalizzava le critiche isolando la squadra. E’ stato veramente un uomo grandissimo».

complesso già buono. E poi l’Italia tradizionalmente dà il meglio dopo aver passato il primo turno. Prima c’è troppa paura di fallire, di uscire subito e si rende di meno. CALCIO | 134

Senza dover fare l’elenco dei 22 convocati, ci parli di qualche giocatore della spedizione. «Mi viene in mente la grande classe di Scirea, come giocatore ma anche come uomo. E poi Tardelli che era infaticabile, Conti un funambolo, Gentile un combattente, Collovati il signore dell’area, Rossi un uomo gol semplicemente straordinario». Molti sostengono che la squadra di Argentina 1978 giocasse un calcio


spq ort

Carriera Presenze in squadre di club 1961-1963 Udinese 1963-1967 Mantova 1967-1972 Napoli 1972-1983 Juventus

38 131 143 330

Presenze Nazionale 1968-1983 Italia

112

Carriera da allenatore 1984-1986 Juventus (Portieri) 1986-1988 Italia Olimpica 1988-1990 Juventus 1990-1994 Lazio 1996-1997 Lazio 1998-2000 Italia 2001 Lazio 2005 Fiorentina

addirittura migliore. «Beh, nel 1978 avevamo un Bettega in condizioni eccezionali, fossi andato un po’ meglio io avremmo potuto centrare la finale, anche se l’Argentina penso ci avrebbe battuto. Si dicono tante cose sull’appoggio politico che ebbe la squadra di casa, ma bisogna riconoscere che erano fortissimi». Per caso quando parla del suo rendimento si riferisce al gol di Haan? «Si, tirò da 40 metri, ‘sta palla con un effetto strano che usciva usciva usciva fino a terminare in rete. Sul tiro di Brandts (pareggio olandese, ndr) non ci fu inve-

ce nulla da fare. Ma ormai aveva preso piede la storia della mia miopia».

quel modo? «Eravamo probabilmente arrivati alla fine di un ciclo...».

Ed è andata avanti per tanto tempo? «Una gara giocata mi pare a Cesena. Venivo da un periodo di forma notevole, ad un certo punto mi tirano una punizione da una ventina di metri. Un siluro che si infila nel sette, di quelli che proprio non c’è nessuna possibilità di prenderlo. Il giorno dopo sul giornale Brera disse ‘le solite diottrie di Zoff’».

Eppure in quel periodo ha stabilito il record di imbattibilità in Nazionale. «Esattamente 1142 minuti, da una partita con la Jugoslavia del settembre del 1972 al gol di Sanon contro Haiti in Germania. Va bene, diciamo che abbiamo perso perché a comandare erano in troppi, ci fosse stato Bearzot le cose sarebbero andate diversamente».

Andiamo ancora a ritroso e passiamo al 1974. Come avete fatto ad uscire in

Ricordiamo un’Italia-Germania Ovest a Roma. I tedeschi avrebbero poi vinto il Mondiale, ma gli azzurri giocarono

Della Lazio fu anche Presidente Dal 1990 al 1994 assunse la guida tecnica della Lazio. Ricoprì fino al 1998 anche la carica di presidente durante la gestione di Sergio Cragnotti e, nel 1997, coprì la doppia veste di presidente e allenatore dopo l'esonero di Zeman. Nel gennaio 2001, tornato nella società biancoceleste nel ruolo di vicepresidente, venne richiamato in panchina per subentrare al dimissionario Sven-Göran Eriksson; dopo una lunga serie di risultati utili consecutivi, a fine stagione ottenne un 3º posto ma, nella stagione seguente, fu esonerato il 20 settembre, dopo un inizio d'annata sottotono.

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IL RAPPORTO CON SIVORI Dino Zoff ed Omar Sivori, quanto di più distante si possa immaginare dal punto di vista caratteriale. Un friulano dal carattere d’acciaio, non proprio personaggio ma scrupoloso al punto tale da apparire taciturno nell’atto di difendere la propria porta. Un sudamericano istrione, dotato di classe purissima, di uno dei migliori sinistri di tutti i tempi, ma sempre sul filo dei nervi. Pronto nel farli saltare agli avversari con le sue finte, i suoi tunnel, le sue provocazioni, ma anche vittima del suo stesso modo di fare, come testimoniano le tante risse ed espulsioni in carriera. Zoff e Sivori si incrociano per un paio di stagioni al Napoli, quanto basta per stringere un bel rapporto e far venire alla luce gustosi aneddoti che Zoff si diverte a raccontare. I primi sono relativi a quando i due non giocavano insieme. Sivori era la stella della Juve, Zoff non era neanche approdato al Napoli. Succede che l’argentino inizia ad avere problemi con il metodico Heriberto Herrera, un paraguaiano salutista, maniaco degli schemi, che sposa un filone rivoluzionario dell’epoca, per il quale il calcio è ‘movimiento’. I due non si amavano, e si dice che Sivori scagliasse palloni di proposito per colpire Heriberto in panchina. Le cose però non andarono esattamente così. Racconta Zoff: «Un giorno parlavo con Omar e mi dice ‘Sai che quella cosa che io tiravo le pallonate in panchina contro Heriberto non è mica vera? Se io gli tiravo le pallonate in panchina stai pur certo che lo prendevo...». Altro episodio, durante un Mantova-Juventus. Sivori si scontra con Zoff in uscita e si rompe due costole: all’epoca ancora le macchinine che portano i giocatori fuori non c’erano, entra quindi in campo lo staff tecnico e porta a braccia l’argentino fuori dal campo. Anni dopo Sivori rimprovera Zoff: «Ti ricordi Zoff quandi mi hai rotto due costole? Quella cosa non te la perdonerò mai, ma mica per la ossa rotte. È che tra quelli che mi hanno preso di peso e portato fuori campo c’era anche Heriberto...». Il terzo aneddoto finalmente li riguarda compagni di squadra al Napoli, stavolta meno malizioso. Diceva Sivori: «Tutta la settimana mi dicono che verrò marcato da Trapattoni o da questo o da quello che mi starà attaccato alle costole. Ma io mi preoccupo dei rinvii di Panzanato, che sbaglia mira e mi coglie sempre». Per i più giovani, Panzanato era un valido giocatore del Napoli, forse più di quantità che di qualità, tanto che Sivori ironizzava sulle sue capacità tecniche.

meglio. «Io di quella gara ricordo un tiro di Schwarzenbeck che terminò alto. Era talmente potente che la palla quando mi passò sopra la testa fischiava». Ci spiega il ‘vaffa’ di Chinaglia a Valcareggi? «È stato enfatizzato, non fu così grave. Certo, Giorgio aveva un carattere particolare, dovette arrivare Maestrelli per fargli capire che non era a casa sua». Ma la foto con cui sta con Chinaglia in barca? «Nel ritiro in Germania, vicino all’albergo c’era un laghetto». Ma lei Chinaglia già lo conosceva? «Abbiamo fatto il militare insieme, lo ricordo già ai tempi dell’Internapoli. All’inizio era un ragazzone esuberante, poi alla Lazio è diventato un condottiero, è stato decisivo nella conquista del primo Scudetto». Ma i bomber dell’epoca che ricorda di più? «Riva, emblema assoluto di potenza con un sinistro eccezionale, Boninsegna, rapido in area oltre che potente, e Pulici». Il più ostico per lei? «Pulici, in casa si trasformava e nei derby contro il Torino era un vero incubo. Una furia, ti dava la sensazione di poterti fregare in qualsiasi momento». Altri nomi? «Si rischia sempre di fare qualche torto, mi vengono in mente Milani, Hamrin, Sormani, Rivera, Altafini». Ormai abbiamo preso l’abitudine di andare a ritroso. Lei è l’unico italiano ad aver vinto Mondiale ed Europeo. «Nel 1968 fummo bravi e fortunati. In semifinale c’è stata la monetina che ci ha permesso di andare in finale, ma vorrei ricordare che con l’Unione Sovietica abbiamo giocato quasi tutta la partita in 10, perché allora non c’erano le sostituzioni. Inoltre oggi abbiamo il frazionamento in Russia, Ucraina, Georgia ecc., ma prima era una squadra sola ed in quanto tale fortissima». Un po’ come la Jugoslavia, che battemmo nella doppia finale. «Nella prima loro giocarono meglio e passarono in vantaggio. Poi ci pensò Domenghini a met-

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spq ort tere a posto le cose. Nella ripetizione non ci fu storia, vincemmo 2-0. La cosa più bella fu la fiaccolata all’Olimpico alla fine della gara, fu la prima grande manifestazione collettiva del tifo». Lei, prima di diventare titolare, faceva la staffetta con Albertosi. Ma è vero che non andavate d’accordo? «Non è vero, solo che eravamo talmente diversi che non potevamo certo uscire

Di loro ha qualche ricordo particolare? «Quando ho smesso feci una festa per salutare il mondo del calcio giocato. Ricordo che venne il grande Jascin e mi regalò un Samovar, un recipiente caratteristico per fare il tè. Lo conservo gelosamente a casa». La squadra più forte che ha mai affrontato? «L’Ajax, anche se nella finale del 1973 ci battè pur non facendo una

«NON ESISTEVA LA TELEVISIONE AD ISPIRARMI, SENTII SOLO CHE MI PIACEVA FARE IL PORTIERE» insieme. Io lavoravo sempre per migliorare la tecnica da portiere, meticoloso, attento. Lui era un istintivo, dotato di classe naturale, magari si metteva a giocare in attacco e segnava. In pratica, due opposti». Una classifica di portieri? «Non ne faccio, me ne scorderei qualcuno. Però dico Albertosi, Banks, Jascin, avvicinandoci ai nostri tempi Peruzzi e attualmente Buffon».

grande partita. L’amarezza più grande la provai dieci anni dopo, quando perdemmo ad Atene con l’Amburgo. Anche allora si disse che Magath aveva tirato da 30 metri, tiro parabile, macché. Basta vedere le immagini, batte dal limite ed il tiro finisce all’incrocio». Dallo Zoff protagonista in Nazionale a quello delle squadre di club. Esordio difficile con l’Udinese nel 1961, 5 gol beccati dalla Fiorentina. «Ma non eb-

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bi problemi a ripartire, erano tutti poco parabili. Certo, qualche giorno dopo sono andato in un cinema e la settimana Incom faceva vedere le immagini della gara. Mi sono lasciato scivolare sotto la poltrona...». Lei aveva 19 anni all’esordio in A, quando aveva deciso di fare il portiere? «Ne avevo cinque, fu una cosa istintiva. Non c’era la televisione ad ispirarmi, sentii solo che mi piaceva fare il portiere». Dall’Udinese il passaggio al Mantova. «Una sana città di provincia dove sono stato molto bene, l’ambiente giusto per crescere. Non a caso dopo il Mantova mi prese il Napoli, e fu in quel periodo che iniziai a collezionare presenze in Nazionale». Allora non è vero che bisogna giocare nella Juve per andare in azzurro? «Sono arrivato alla Juve che avevo giù 19 presenze in Nazionale, quindi...». Ma che ricorda della rivalità con la Roma? «Ma non la vivevamo come una rivalità. La Juve era sempre ai vertici e le


avversarie si avvicendavano, c’era sempre una rivalità da fronteggiare». Lo Zoff allenatore, una folla immensa salutò il suo primo allenamento alla Lazio. «Sì, ma quando le cose non andavano bene qui due-trecento che venivano a contestare non scherzavano (ride)...». Il rapporto con Gascoigne? «Particolare, lui era un genio, un artista, ma non basta il talento per fare la differenza se non c’è un comportamento professionale nella vita. E poi con tutti quegli infortuni è stato anche sfortunato».

Zoff allenatore della Nazionale. «La squadra che è arrivata in finale quest’anno è stata glorificata. Giusto fare i complimenti, ma sembrava che agli Europei non avessimo mai combinato niente. Ricordo che noi siamo stati nel 2000 a pochi secondi dal titolo, ed in tutta la manifestazione abbiamo sofferto solo con l’Olanda padrona di casa. E poi Totti in Nazionale ha giocato bene solo con me». Sapeva che Totti avrebbe fatto il cucchiaio con l’Olanda? «No, non lo sapevo, e non mi sono neanche arrabbiato quando lo ha fatto».

Ma lei come tecnico non ha mai ripreso nessuno? «Mai, né come tecnico né come giocatore. Il che non significa essere umili, perché per difendere la porta o dirigere una squadra non si può fare professione di umiltà».

Ma le dimissioni dopo le critiche di Berlusconi, non furono eccessive? «Furono attacchi molto duri alla mia persona. Diciamo che facendo un gioco di parole, non era da dimettermi ma non potevo non farlo».

Ma qualche aneddoto? «Con la Lazio. Eravamo a Seefeld, mi dicono che Riedle è rientrato tardi in ritiro. La sera dopo lo aspetto, non mi faccio vedere e scopro che è vero. La mattina seguente ci parlo e lui mi dice che andava a trovare la madre, che abitava vicino. ‘Ma se me lo dicevi ti prestavo la mia macchina’ gli dissi... Invece chi appena arrivato tendeva a fare un po’ il furbo era Winter, allora l’ho preso con calma da una parte e gli ho detto: ‘Tu sei qui da sette giorni, ma noi a pallone giochiamo da cento anni’».

Aveva il miglior Maldini tra le sue fila, un confronto con Cabrini. «Il primo era forse superiore a livello difensivo, Cabrini era più attaccante. Comunque, due grandi, non si discute».

Un rimpianto con la Lazio? «Stagione 2000-2001, stiamo avvicinandoci alla Roma capolista, giochiamo contro l’Inter. Dominiamo e poi all’ultimo minuto Dalmat si inventa un incredibile gol del pareggio. Avessimo vinto quella gara per la Roma si sarebbe messa male».

Ci tolga una curiosità, con le regole attuali nelle quali il portiere gioca con i piedi, si sarebbe trovato a disagio? «Questa l’ho sentita qualche volta, ed è una stupidaggine. A parte il fatto che avevo un buon sinistro, non bisogna mai dimenticare che la prima cosa che deve saper fare un portiere è stare tra i pali!».

La Lazio, la città di Roma. Come ci si trova un friulano come lei? «Mi sento un po’ sradicato, ma alla fine tra gli 8-9 anni di Lazio e il periodo della Nazionale Roma è la città dove ho vissuto di più. Si sta bene, è una città splendida con tanto da vedere e tutte le comodità».

Dopo di lei in Nazionale è arrivato Giovanni Trapattoni, che è stato a lungo il suo tecnico. «Persona straordinaria, fisicamente preparato come i giocatori, sempre impeccabile. Grande conoscitore di calcio e, nel senso buono del termine, molto molto furbo».

In pratica, come quando gli parli del Brasile ‘82, mai toccare i punti fermi di Zoff: da quel carattere di friulano apparentemente chiuso può sempre uscire qualche sorpresa.

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