Spqr Sport n. 9 - 2012

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L L’INIZIATIVA ’INIZIATIVA E EDITORIALE DITORIALE D DEL EL D DIPARTIMENTO IPARTIMENTO S SPORT PORT




UN’OCCASIONE PERSA Gianni Alemanno, Sindaco di Roma

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on rammarico dobbiamo dire “avevamo ragione”. I dati rilevati da Bloomberg nel mese di ottobre hanno evidenziato che grazie alla crescita dell’1% del PIL ottenuta con l'effetto Olimpiadi, la Gran Bretagna è fuori dalla recessione. E questo riscontro oggettivo dimostra la fondatezza delle tesi che abbiamo sempre sostenuto: la candidatura di Roma ai Giochi Olimpici e Paralimpici del 2020 non doveva essere intesa come uno spreco di fondi pubblici in un momento di ristrettezza economica, ma andava intesa come un investimento importante per l’Italia e il suo futuro. Ho sempre detto di aver rispettato, ma non condiviso, la scelta fatta dal Governo di rinunciare a questo progetto. Ora possiamo affermare di essere stati facili profeti e di aver smentito tutti coloro che si erano opposti al progetto o addirittura avevano remato contro, soprattutto nel Nord Italia. Questa consapevolezza rappresenta tuttavia una magra consolazione, perché purtroppo l’Italia ha perso una grande occasione di rilancio, anche perché la candidatura di Roma molto probabilmente sarebbe stata vincente. L’auspicio, però, è che se i Giochi del 2020 non torneranno in Europa, tutti quanti insieme, Governo nazionale ed Enti locali, si possa decidere di portare avanti una nuova proposta per il 2024.

In attesa di conoscere quale sarà la città designata a ospitare l’evento sportivo per antonomasia, posso garantire che Roma continuerà a proporre un’offerta sportiva di primissimo livello, accogliendo grandi eventi internazionali e rilanciando con forza l’attività sportiva di base. E per contribuire alla divulgazione dei sani valori dello sport e dar spazio a tutte quelle discipline considerate a torto minori, il Campidoglio ha organizzato in collaborazione con le federazioni e gli Enti di Promozione Sportiva “SPQR SPORT Day”, evento sportivo che ha portato in Via dei Fori Imperiali oltre quaranta diverse discipline e che ha visto la partecipazione di oltre 300.000 appassionati. Un successo assoluto, per il quale mi sento di rivolgere un particolare ringraziamento al Dipartimento Sport e al Delegato alle Politiche Sportive Alessandro Cochi. A loro i miei complimenti per aver regalato alla città una giornata di sport all’aria aperta. I miei complimenti anche alla rivista “SPQR SPORT”, nata con la nostra Amministrazione e che grazie al lavoro quotidiano di professionisti sta dimostrando di essere, mese dopo mese, non solo uno strumento importante di comunicazione, ma anche un solido veicolo per la promozione e la valorizzazione della cultura sportiva che fa parte della storia e del dna della nostra città.


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In allegato al numero di SPQR SPORT trovate un tabloid denominato “Events”: una nuova iniziativa editoriale che speriamo colga il favore dei lettori che, sin dai nostri primi anni di vita, hanno apprezzato la qualità del lavoro svolto e compreso l’obiettivo che il Dipartimento Sport di Roma Capitale si era posto, quello di fare cultura dello sport e promozione della pratica sportiva, Events sarà un prodotto tendenzialmente monografico. Darà attenzione agli avvenimenti sportivi della nostra città, trattandoli con quella attenzione cui siete da tempo abituati. E non potevamo non tenere a battesimo il primo numero con un argomento a noi particolarmente caro, la manifestazione “SPQR SPORT Day”, giornata dello sport che ha portato, nello scorso ottobre, in Via dei Fori Imperiali 300.000 persone che hanno potuto vivere oltre quaranta discipline in quella che gli organizzatori hanno definito “la palestra a cielo aperto più bella del Mondo”. Una giornata di movimento, spettacolo, cultura e aggregazione. Buona lettura e continuate a consigliarci, darci pareri, suggerimenti su articoli da realizzare: sempre al consueto indirizzo di posta elettronica: redazione@spqrsport.it. Fabio ARGENTINI

SPQR SPORT SOMMARIO

Edi to ria le

LA COPERTINA di SPQR SPORT Rivista ufficiale Roma Capitale, Dipartimento Sport

Mensile di informazione a distribuzione gratuita Reg. Trib. di Roma n. 21 del 27-01-10 IN PRIMA, Zeman, Petkovic e Zoff. Vol-

Anno III ti nella storia Numero 9 - 2012

Editore Alfacomunicazione Srl Via del Giuba, 9 - 00199 Roma Direttore Responsabile Fabio Argentini Redazione Via C. Bavastro, 94 - 00154 Roma Tel. 06 671070333 Fax. 06 671070332 redazione@spqrsport.it grafica@spqrsport.it commerciale@spqrsport.it

In collaborazione con Ufficio Stampa Campidoglio Dipartimento Sport Saverio Fagiani, Maria Iezzi, Rodolfo Roberti

Art Director Alberto Brunella Stampa Stab. Tipolitografico Ugo Quintily SPA - Roma Ufficio commerciale Only One Advertising info@onlyoneadvertising.com DIFFUSIONE. La rivista è distribuita nel corso degli eventi sportivi a Roma, per via postale e free press in tutte le piazze più importanti dei 19 municipi romani (l’elenco su www.spqrsport.it ). Per ritirare una copia è anche possibile contattare il numero 06.6710.70315 (Dipartimento Sport).

Hanno collaborato Luca Aleandri, Gianni Barberi, Nicoletta Bettarelli, Paolo Ciabatti, Roberto Cipolletti, Marco Ghighi, Giovanna Ianniello, Riccardo Lecca, Eleonora Massari, Elisabetta Maz-

zeo, Luca Montebelli, Sergio Natalizia, Stefano Pantano, Federico Pasquali, Luca Pelosi, Pasquale Polo, Silio Rossi, Paolo Valente Photo Partner Getty Images Agenzie e Fotografi Getty Images: Paolo Bruno, Luis Castillo, Franco Origlia, Pietro Rolandi Roma Capitale: Fabio Callini, Stefano Bertozzi, Marco Catani, Fran-

7. Il saluto del Delegato alle Politiche Sportive 8. Ecco a voi gli All Blacks 14. Olimpico, il Terzo Tempo 12. Esclusiva: intervista a Miguel Indurain 20 Zeman e Petkovic a tu per tu 30. Dossier: gli allenatori stranieri di Lazio e Roma 42. Scherma, il tesoro italiano 58. Intervista a Jury Chechi, il Signore degli anelli 64. Maria Grazia Cucinotta, cinema e movimento 72. Riccardo Lecca, Emanuele Della Rosa: due boxeur a Miami 80. Totti e la... nipote di Gandhi 84. Istituzioni: Daniele Rosini 86. Amarcord: intervista a Totò Lopez, dalla Lazio al Circolo del Foro Italico 92. La corsa de’ Noantri 98. Nel regno del Bancoroma 104. Strutture: la casa dell’Hockey 108. Giovani e sport, Fabio Di Giannantonio e la PreGP 110. Sport ai Raggi X: il Triathlon 114. A Roma una fiera dedicata a Bruce Lee 118. Anni ‘70: i B Movies 122. Tutte le arti marziali nel Mondo 124. 1982-2012: trent’anni dal Mundial 132. Dino Zoff, l’intervista 141. News

cesca Di Majo, Claudio Papi, Claudio Valletti Hanno collaborato per le immagini di questo numero: Chechi (archivio privato), CONI Servizi, Cucinotta (archivio privato), Emanuele Della Rosa, Di Giannantonio (archivio privato), Fih (archivio privato), Riccardo Lecca, Antonio Lopez (archivio privato), Anita Madaluni, Luca Pelosi (archivio privato), Marco Rosi, Roberto Tedeschi

IN ALLEGATO LO SPECIALE SPQR SPORT DAY E IN DISTRIBUZIONE CON LA RIVISTA IL QUARTO FASCICOLO STORIA DEL FORO ITALICO

SPQR SPORT ANNO III N. 5, 164 PAGINE


EVENTI, CON LO SPORT NEL CUORE Alessandro Cochi, Delegato alle Politiche Sportive di Roma Capitale

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on è mai stata nostra abitudine sottolineare i successi ottenuti in termini organizzativi. Le autocelebrazioni non sono mai state il nostro forte e basta, a supporto di quanto sto scrivendo, riprendere i numeri della rivista che state leggendo per averne conto. Ma un’eccezione la possiamo fare per lo scorso mese di ottobre che ha visto consumarsi tre grandi momenti che ci hanno dato una grande soddisfazione. Su tutti SPQR SPORT Day, la giornata di sport in Via dei Fori Imperiali che ha portato per strada trecentomila persona, credo un record per la nostra città. In quella giornata c’è stata un po’ tutta la nostra azione di governo sintetizzata in otto ore. Innanzitutto di aver riunito intorno a un tavolo le tante componenti che formano il variegato mondo dello sport: dalle Federazioni agli Enti di Promozione Sportiva sotto l’egida del Coni, associazioni e società sportive dilettantistiche e non, il Comitato Paralimpico e la Roma e la Lazio con i propri villaggi, grandi interpreti dello sport di vertice – impossibile, visto il numero, nominarli tutti - e tanto sport di base uniti in un connubio difficilmente riscontrabile altrove. E poi la Fondazione Sandri, quelle Bini, Castelli, Parsi. Una “piccola” Olimpiade anche di valori. Dei valori, come quello in cui lo sport di vertice incontra quello di base abbiamo già detto. Quindi la possibilità di offrire momenti così belli ai romani in modo del tutto gratuito. E poi la cultura sporti-

va che, insieme alla promozione del movimento per un cittadino sempre più sano, è un nostro obiettivo: c’erano spazi in cui sono stati presentati libri, vissuto dibattiti sullo sport, momenti di insegnamento multidisciplinare. Ecco, aver portato in piazza oltre quaranta discipline è stato altro motivo di soddisfazione. In ultimo, aver fatto prevenzione: quella medica, con visite gratuite, e quella sulla sicurezza nei campi sportivi, tema sul quale stiamo impegnandoci da anni in silenzio. Oltre alla kermesse di SPQR SPORT Day, dobbiamo rilevare il successo della Granfondo di Ciclismo: cinquemila amanti delle due ruote hanno vissuto Roma, nel quadro di una domenica ecologica, in modo diverso. Alla partenza c’erano campioni come Miguel Indurain e Alex Zanardi, Jury Chechi e Paolo Bettini, Antonio Rossi e Fabrizio Macchi, il triatleta Alessandro Fabian e l’imprenditore Matteo Marzotto, con la stessa filosofia di SPQR SPORT Day, quella di dividere la strada con tanti semplici appassionati delle due ruote, in azione o lungo il percorso a tifare i propri miti. Ed infine, l’apertura della stagione di rugby. Vorrei sottolineare la valenza di un accordo in base al quale gli appassionati potranno andare allo stadio a vedere il test match contro gli All Blacks a meno di dieci euro come le tre partite del Sei Nazioni contro Francia, Galles e Irlanda, grazie all’abbonamento "1+3 All Blacks + Sei Nazioni". Sport per tutti. Praticato e non.


La Nuova Zelanda è una delle piÚ antiche Federazioni nel mondo del rugby. Protagonista nello sport ma anche nel trasmettere il suo orgoglio di nazione

ecco a voi gli

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blacks a Nuova Zelanda è una delle nazionali di rugby più forti e antiche al mondo. I suoi giocatori, noti anche con il nome di All Blacks , per il colore nero della divisa, sono attaccatissimi alla loro maglia. Dal 2006 gli All Blacks indossano una maglia con ricamato sulla manica un papavero per ricordare Dave Gallaher, l’ex capitano neozelandese 1905-06, morto in Belgio nel corso della prima guerra mondiale. Il papavero è in onore ai soldati neozelandesi morti in Europa durante le due guerre mondiali. La Federazione neozelandese di rugby (Nzrfu) è attiva sin dal 1892 mentre entra in scena internazionalmente nel 1903. Un susseguirsi di successi che hanno portato in primo piano il fenomeno del rugby neozelandese. Rivale storica degli All Blacks è da sempre il Sud Africa con il quale hanno dato vita ad incontri che sono rimasti nella storia. E proprio per quanto concerne le sfide coi sudafricani c’è da sottolineare un particolare storico. Nel tour del 1981 che gli Springboks fecero in Nuova Zelanda si creò una forte tensione civile a causa delle proteste sulla politica di apartheid del Sud Africa. Superato il triste fenomeno sociale, la Nuova Zelanda disputò un tour in Sud Africa nel 1996 e ottenne la sua prima serie di vittorie sul suolo sudafricano. Il simbolo della nazionale neozelandese è una foglia di felce argentata, considerata come un simbolo. La felce argentata venne utilizzata la prima volta nelle mostrine militari neozelandesi durante la seconda guerra boera] (1899-1902) ed è raffigurata anche sul retro delle medaglie consegnate ai soldati che combatterono in tale guer-

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Il canto di guerra prima di ogni partita è ormai leggenda del rugby

haka Leader: Ringa pakia! Uma tiraha! Turi whatia! Hope whai ake! Waewae takahia kia kino! Leader: Ka mate, ka mate Squadra: Ka ora' Ka ora' Leader: Ka mate, ka mate Squadra: Ka ora Ka ora Tutti: Tēnei te tangata pūhuruhuru Nāna i tiki mai whakawhiti te rā A Upane! Ka Upane! Upane Kaupane" Whiti te rā,! Hī!

STORIA DI UN RITUALE

Leader: Batti le mani contro le cosce Sbuffa col petto. Piega le ginocchia! Lascia che i fianchi li seguano! Sbatti i piedi più forte che puoi! Leader: È la morte, è la morte! Squadra: È la vita, è la vita! Leader: È la morte, è la morte! Squadra: È la vita, è la vita! Tutti: Questo è l’uomo dai lunghi capelli è colui che ha fatto splendere il sole su di me! Ancora uno scalino, ancora uno scalino, un altro fino in alto, IL SOLE SPLENDE!»

L’Haka è una danza che esprime il sentimento interiore di chi la esegue, e può avere molteplici significati. Non si tratta, infatti, solo di una danza di guerra o intimidatoria, come è spesso erroneamente considerata, ma può voler anche essere una manifestazione di gioia, di dolore, una via di espressione libera che lascia a chi la esegue momenti di libertà nei movimenti. È comunque un rituale che cerca di impressionare, come si può ben vedere dall’esibizione degli All Blacks: si roteano e si spalancano gli occhi, si digrignano i denti, si mostra la lingua, ci si batte violentemente il petto e gli avambracci, si dà quindi un saggio di potenza e coraggio, che si ricollega allo spirito guerriero dei Maori. Prima della danza, si canta una sorta di inno, un ritornello di incitamento, ruolo che nel caso degli All Blacks spetta al giocatore di sangue m ori più. Le parole servono non solo ad incitare chi si appresta ad eseguire il ballo, ma anche a ricordare loro il comportamento da tenere nel corso della danza. Spesso il tono in cui viene urlato il ritornello, che è poi lo stesso tenuto nel corso di tutta l’esibizione, è aggressivo, feroce e brutale, destinato a caricare il gruppo ancora di più.


Italia-All Blacks 17 novembre 2012

Il terzo tempo al Flaminio allo stadio dei marmi

ra. Gli All Blacks hanno vinto la Coppa del Mondo due volte. La prima fu nella competizione inaugurale svoltasi in Nuova Zelanda e Australia nel 1987. Nel 2011, dopo 24 anni, gli All Blacks alzarono al cielo la seconda Webb Ellis Cup battendo di misura la Francia al termine di un incontro combattuto finito 8-7. Gli All Blacks detengono diversi record legati alla Coppa del Mondo: più punti realizzati in un unico incontro (145 contro il Giappone nel 1995), più punti realizzati in totale (1711), più mete realizzate in totale (232), e maggior numero di trasformazioni (173). Anche diversi singoli giocatori detengono dei record nella Coppa del Mondo: Jonah Lomu per il maggior numero di mete realizzate (15 in due edizioni), Marc Ellis per il maggior numero di mete realizzate in un incontro (6 contro il Giappone nel 1995), Grant Fox per il maggior numero di punti realizzati in un singolo torneo (126 nel 1987), Simon Culhane per il maggior numero di punti e trasformazioni in un incontro (45 punti e 20 trasformazioni contro il Giappone nel 1995). Caratteristica degli All Blacks è l’esibizione di una haka, tipica danza dei Maori, che avviene prima di ogni incontro internazionale. La haka è stata strettamente associata al rugby neozelandese sin dal tour in Nuovo Galles del Sud nel 1884. Gli All Blacks vantano un bilancio positivo contro ogni nazione che hanno affrontato e, ad eccezione del Sud Africa, hanno un margine di vittorie superiore al 65% per ogni avversaria. Hanno vinto 341 dei 458 incontri disputati, con una percentuale di vittorie del 74,5%. Con questi risultati, gli All Blacks rappresentano la squadra internazionale più vincente nella storia del rugby. Quando venne introdotto il ranking mondiale dalla IRB nell’ottobre 2003, gli All Blacks erano secondi. Nel novembre 2003 furono secondi e per poco tempo primi, quindi terzi prima di risalire al secondo posto nel dicembre di quell’anno. Tra giugno 2004 e ottobre 2007 gli All Blacks sono stati stabilmente numeri uno al mondo. Secondi da novembre 2007 ad agosto 2008, sono tornati da allora al primo posto, fatta eccezione per una parentesi di 5 mesi tra luglio e novembre 2009, in cui furono secondi. Gli All Blacks sono ben noti e temuti dagli avversari per le potenziali pesanti vittorie di cui sono capaci, tanto che molte nazionali hanno subito la loro peggiore sconfitta proprio in incontri con la Nuova Zelanda. Tra le principali selezioni, Francia, Irlanda, Argentina, Figi, Tonga, Giappone e Portogallo, hanno questo record negativo nei confronti degli All Blacks. Un’ultima curiosità legata alla loro divisa: per la seconda volta in 107 anni di storia, gli All Blacks stanno portando una scritta pubblicitaria sulla maglia. Era già successo soltanto negli anni ‘90, quando la nazionale neozelandese aveva sfoggiato, accanto al marchio dello sponsor tecnico di quei tempi, la Canterbury, anche quello di una birra. Ora, invece, si tratta di una scritta pubblicitaria vera e propria, quella del gruppo assicurativo statunitense Aig che ha deciso di legarsi ai campioni del mondo di rugby, per una cifra che non è stata resa nota. Una scritta pubblicitaria esibita in questi giorni dagli All Blacks nel match contro i Wallabies dell’Australia e contro l’Italia all’Olimpico.

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All'Olimpico

il terzo tempo

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alla Curva Sud del Flaminio allo Stadio dei Marmi dell'Olimpico fino all'assetto attuale evidenziato dalla mappa in alto. Cresce l'area riservata al Terzo Tempo che rappresenta una delle tradizioni più significative del rugby. Inizia con il fischio dell’arbitro che conclude la partita. Da quel momento le due squadre mettono da parte la rivalità e, spesso dopo il campo e lo spogliatoio la partita finisce al ristorante o al pub. Forse rappresenta il vero spirito del rugby. In Gran Bretagna l’usanza è quella di concludere i match nelle Club House del team ospitante, fornitissimi pub privati nelle vicinanze dei campi da gioco. In queste occasioni si crea un forte legame fra giocatori di squadre diverse che culmina spesso in amicizie durature. Anche i tifosi partecipano a questa festa, in modo da eliminare le distanze che si creano tra spalti e il campo, come invece accade nel calcio dove i giocatori spesso paiono inavvicinabili. Nei campionati giovanili il terzo tempo è una sorta di merenda fra le mamme dei mini-giocatori.

Biglietteria Area espositiva + Food + Kids Area Tende commerciali 5x5 Tende commerciali 4x4 Pedana calpestabile Palco spettacoli


Percorso pubblico

Elementi grafici/segnaletici

Percorso corporate

Videowall

animetria generale - FORO ITALICO aree funzionali e flussi di percorrenza

Italia-All Blacks

IL VILLAGGIO NEL PARCO DEL FORO ITALICO L'ingresso del Foro Italico versione rugby

Il viale che porta alla Fontana della Sfera colorato con le bandiere della Federazione e della Peroni che da anni è accanto al rugby italiano

Gli stand lungo il perimetro dello Stadio dei Marmi

La zona palco

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I N T E R V I S TA

E S C L U S I VA


il campione a Roma per la Granfondo

di Paolo CIABATTI Bruno - Getty Images

Il campione spagnolo partecipa alla Granfondo confondendosi tra le migliaia di appassionati della bicicletta. «Roma è una città bellissima, è la terza volta che ci vengo. E non sarà certo l’ultima» bello vedere Miguel Indurain confondersi tra migliaia di cicloamatori che stanno per partecipare alla Granfondo Campagnolo. È bello vedere la spontanea semplicità con la quale il fuoriclasse si rapporta con l’uomo qualunque, lui che ‘qualunque” proprio non lo è. Un saluto, un sorriso per tutti, quel savoir faire evidenziato poche ore prima nell’incontro che ci ha gentilmente concesso nelle sale del Campidoglio. Miguelon, 48 anni portati stupendamente, regala una immagine di serenità, la stessa che aveva quando batteva gli avversari, a volte — diciamo spesso — anche nettamente, ma senza dare mai la sensazione di voler stravincere.

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Ma c’è un avversario del quale ha voluto vendicare uno “sgarbo” o che abbia staccato con particolare piacere? «A me queste cose non hanno mai interessato, io ho sempre gareggiato per raggiungere i miei scopi senza curarmi di rivalità con altri corridori. Al Giro ed al Tour volevo vestire di rosa e di giallo, non pensavo di staccare questo o quello per qualche motivo, né potevo andare dietro a gente in fuga che non poteva insidiarmi». Grandissimo corridore, Indurain, nonché buon cultore dell’arte della diplomazia. Arte non studiata, ma naturale: in una parola, il tipico gentiluomo. La spiegazione l’ha data il comportamento dei rivali dell’epoca: mai una polemica, mai una parola fuo-


dal giro alle

olimpiadi pas s a n d o per il t o u r GRANDI GIRI Giro d'Italia 1992: vincitore 1993: vincitore Tour de France 1991: vincitore 1992: vincitore 1993: vincitore 1994: vincitore 1995: vincitore COMPETIZIONI MONDIALI Campionato del Mondo Duitama 1995 Cronometro: vincitore Giochi Olimpici Atlanta 1996 Cronometro: vincitore

Parole d’affetto per Lance Armstrong Appena usciti i provvedimenti di revoca dei Tour de France vinti da Lance Armstrong, ha espresso il suo parere a Radio Marca. Un parere coraggioso, abbastanza controcorrente rispetto alla tendenza generale, schierandosi con l'ex collega: «Credo nella sua innocenza. Ha superato tutti i controlli e ha anche vinto tutti i processi cui è stato sottoposto. È strano che tutto il procedimento sia basato solo su testimonianze. Le regole ci sono e sono chiare, ma sembra che ora siano cambiate. Mi stupisce invece che un combattente come Armstrong non si sia opposto a tutto questo e continui a restare inerte. Penso comunque che farà appello e che tenterà di dimostrare che ha lavorato bene durante tutta la sua carriera».

ri posto, ma sempre una limpida considerazione verso colui che comunque li batteva. Si dice che ogni dieci anni nasca un fuoriclasse che monopolizzi il mondo del ciclismo. La storia, dati alla mano, è vera. Nel 1954 nasce in Bretagna, Bernard Hinault: cinque Tour de France, tre Giri d’Italia, e una stratosferica collezione di classiche, alcune delle quali, come una Liegi vinta nella bufera, perle da collezione per gli amanti del ciclismo e dello sport in generale. Nel 1964 nella Navarra nasce Miguel Indurain. Bretoni e Navarri, gente quieta e fiera, orgogliosa delle proprie tradizioni da rasentare l’indifferenza verso i poteri forti di Parigi e Madrid.«Il mio idolo? Senza dubbio Bernard Hinault. Lo seguivo prima da adolescente, poi da ragazzo. Fortissimo a cronometro, eccezionale anche in salita dove andava più forte di me». Il filo conduttore che lega Hinault a Indurain è nel lampo che illumina il suo sguardo quando parla del Tasso. Hinault prende la scena del ciclismo internazionale su un palcoscenico da poco calcato dal più grande ciclista di tutti i tempi, Eddy Merckx. Il trait d’union è Greg Lemond. Hinault si è ritirato da 5 stagioni in quel 19 luglio del 1991. Lo statunitense, che ne è CICLISMO | 14

stato scomodo compagno di squadra (famosa la guerra in famiglia nel Tour del 1986) è tra i big il meglio piazzato in quel Tour, anche se il giorno precedente ha ceduto la sua fiammante maglia gialla a Luc Leblanc, buon palmares ma scarso pericolo per la vittoria finale. È il giorno del Tourmalet, perfida e leggendaria salita pirenaica. Lemond perde contatto, una manciata di secondi in cima, quanto bastano a Indurain per cogliere l’attimo. Un attacco di grande classe in discesa al quale replica Claudio Chiappucci: insieme scalano l’ascesa finale verso Val Louron. Vince il diablo varesino, Indurain a dire il vero non si preoccupa neanche del successo di tappa, a lui interessa ben altro: sul palco d’onore lo aspetta la maglia gialla, che non mollerà più fino a Parigi. «Di momenti belli nella mia carriera ne ho vissuti tanti, ma probabilmente il ricordo migliore è legato proprio al primo Tour de France vinto. Arrivare a Parigi in maglia gialla è una sensazione straordinaria che è difficile descrivere». Dunque nel giorno forse più importante della carriera era in compagnia di Claudio Chiappucci, che con Bugno è stato tra i suoi grandi rivali. «Ce ne sono stati tanti, non posso certo dimenticare Rominger, Zuelle, Pantani, anche


se con Marco ho corso poco. Certo, con Bugno e Chiappucci sono state belle sfide. Il primo aveva un motore migliore, era più dotato dal punto di vista dello stile. Con Chiappucci però non potevi mai rilassarti, un combattente, un creativo, aveva un carattere tale da poter inventare un numero in qualsiasi momento». Come l’anno dopo nella tappa del Sestriere, quando Chiappucci vinse dopo una fuga di 200 km. Si dice che lei salvò la gialla anche grazie all’aiuto di Bugno... «Bugno era insieme a me all’inseguimento, ma non si può certo dire che mi abbia fatto da gregario. Lui aveva i suoi interessi di classifica, io i miei, li abbiamo semplicemente uniti».

A tu per tu col campione

Lei nel finale rischiò parecchio. «Ricordo benissimo la crisi nell’ultimo km e mezzo. Me lo avevano descritto pedalabile, invece era molto duro ed io accusai un momento difficile».

Indurain è a Roma. L’occasione per una intervista esclusiva da svolgersi in Campidoglio (di sabato sera, chiuso ai più, con i custodi pazienti nell’aprire stanze ormai chiuse a lavori e visitatori) tra terrazze mozzafiato nel cuore di Roma e i salottini che, solitamente, accolgono politici e amministratori e, per una volta, un campione assoluto dello sport mondiale. Una lunga intervista, in esclusiva.

Cose che capitano anche ad un fuoriclasse... «In gara bisogna sempre stare attenti, non solo alla strada, ma a tanti particolari. Bisogna bere, alimentarsi al momento giusto. Quando arriva la cosiddetta crisi di fame, per rimediare è troppo tardi».

Scopriamo i grandi della storia •Eddy Merckx è il più grande ciclista di tutti i tempi. Oltre alla qualità delle vittorie (tra le altre, 5 Giri d'Italia, 5 Tour de France, 7 Milano-Sanremo, 3 Campionati del Mondo), impressiona il numero: 525 vittorie su 1800 gare su strada disputate, il 30% delle gare da lui fatte. •Bernard Hinault. Ha conquistato 5 Tour de France ed ogni volta che è venuto al Giro d'Italia (3 volte) lo ha vinto. Forte anche nelle classiche, ha collezionato tra le altre una Parigi-Roubaix, 2 Liegi-Bastogne-Liegi e un Campionato del Mondo. •Fausto Coppi. Il campionissimo del ciclismo italiano, con 5 giri d'Italia, 2 Tour de France e la straordinaria serie al Giro di Lombardia, conquistato 5 volte. •Jacques Anquetil. Uno dei massimi cronoman della storia, elegatissimo in bici e fuori. Ha vinto 5 Tour de France, è stato inoltre il primo a vincere i tre grandi giri (Italia, Spagna e Francia). •Alfredo Binda. Vincitore di 5 Giri d'Italia e 3 Campionati del Mondo. Nella corsa rosa è rimasto in testa alla generale per 60 giorni. Il palmares sarebbe stato ancora più ricco se nel 1930 gli organizzatori non gli avessero pagaro il premio del vincitore per non farlo correre e dare più interesse alla gara. •Gino Bartali. Vincitore di 3 Giri d'Italia e di 2 Tour de France. Nella corsa francese seppe ripetersi a distanza di 10 anni (1938-1948), nessuno ha saputo farlo a distanza di tanto tempo. La rivalità con Coppi ha assunto caratteri sociali talmente forti che ancora oggi in Italia ne è vivissimo il ricordo. •Miguel Indurain. A livello di abilità da cronoman è il corridore più vicino a Jacques Anquetil. Su strada ha vinto 5 Tour de France e 2 Giri d'Italia, conquistando anche il Mondiale a cronometro. Ha detenuto anche il record dell'ora.

Un momento dell’ intervista a Miguel Indurain. Con l’intervistatore si riconoscono Rodolfo Roberti del Dipartimento Sport di Roma Capitale e la giornalista de Il Messaggero Francesca Monzone

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«Le corse si vincono quando si può, raramente quando si vuole». (Fausto Coppi) Tra i grandi rivali ha accennato anche a Marco Pantani. «Purtroppo ci ho corso insieme appena due anni, ma posso dire che si è trattato di un grande campione. Me ne resi conto per la prima volta al Giro del 1994, quando fece l’impresa sul Mortirolo. Come uomo era silenzioso, un carattere schivo. Diciamo che si esprimeva sui pedali, anche perché quando scattava in salita nessuno era in grado di stargli dietro». Giro e Tour, Indurain ha fatto due volte l’accoppiata. Ultimamente però l’impresa sembra più difficile, non ci sono più campioni? «I campioni sì, ma il calendario è sempre più fitto, stressante. Ci sono molte corse, c’è molta scelta per la programmazione. Correre Giro e Tour nello stesso anno non è facile». Lei però ci è riuscito. Dove sta il segreto? «Non è che si possa parlare di segreto. Direi una adeguata preparazione, ma questo è ovvio, e poi l’attento esame del tracciato. Io studiavo prima il percorso del Giro. Se era adatto alle mie caratteristiche, come quando l’ho vinto, venivo in Italia, altrimenti no. Ad esempio, se il Giro fosse stato duro come quello di quest’anno, probabilmente avrei concentrato le mie attenzioni solo sulla corsa francese». Che quest’anno è stata vinta da Wiggins. Il britannico ha detto di essersi ispirato a Indurain. «Nella gestione del Tour fatta da Wiggins mi sono rivisto parecchio. Ha battuto tutti, ed anche con un certo margine, a cronometro, ed anche se si è molto parlato della rivalità con il compagno di squadra Froome, non ha concesso niente in salita. Mi fa piacere che a distanza di parecchi anni dal mio ritiro ancora ci sia chi si ispira

al mio modo di correre, penso che Wiggins sia attualmente il corridore che mi somiglia di più». Invece tra gli spagnoli non esiste un nuovo Indurain. «Chiariamo, in questo momento la Spagna vive un gran bel momento nel ciclismo. Lo ha dimostrato la Vuelta, che quest’anno aveva un percorso molto duro ed è stata dominata dagli spagnoli. Il vincitore Contador, Rodriguez, Valverde, sono dei grandi campioni, ma per caratteristiche nessuno è il nuovo Indurain. Contador? Nelle corse a tappe è oggettivamente il più forte, ma rispetto a me è più scattista, più scalatore». È il momento di riavvolgere un po’ il nastro. Come inizia la storia di Indurain? «Ero un polisportivo, mi piaceva praticare parecchi sport. Eccellevo nell’atletica, dove andavo piuttosto bene nelle gare di mezzofondo, ma ho praticato anche la pallavolo e il calcio». Il calcio? Non ce la vediamo mica... «Ero difensore, ma dover stare sempre ancorato al ruolo avanzando poco non è che mi piacesse granché. Se seguo il calcio in tv? Intorno c’è troppa esasperazione, però certo, è piacevole vedere una partita del Barcellona». Poi è arrivata la bicicletta. «Avevo undici anni, mi appassionò talmente tanto da cancellare subito gli altri interessi sportivi». La sua prima vittoria da bambino è legata ad una famosa frase. «Vero (ride), ero talmente pieno di entusiasmo che un panino ed un’aranciata mi hanno fatto contento». Ma quando era dilettante, correva all’arrembaggio come di solito fanno i di-

«La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti». (Albert Einstein) CICLISMO | 16


spq ort lettanti oppure era già un attento gestore tattico della situazione? «No, correvo all’attacco senza pensare più di tanto a come potesse svolgersi la gara». Passato prof a venti anni, si trovò come capitano un mostro sacro del ciclismo spagnolo come Pedro Delgado. «Non c’era solo lui, la squadra era molto competitiva. C’erano Gorospe, Arroyo. Se stavo stretto nel ruolo di gregario? Assolutamente no, anche perché nelle corse importanti ero di aiuto, ma in quelle minori potevo giocarmi le mia possibilità. Per arrivare a vincere e durare a certi livelli, per me è meglio arrivarci gradualmente. Ci vogliono pazienza e umiltà». Poi sono iniziate le vittorie. «La prima affermazione importante a livello internazionale è stata la Parigi-Nizza, poi sono stato anche maglia oro alla Vuelta prima di vincere il mio primo Tour». La Vuelta però non l’ha mai vinta. «No, mi sono piazzato secondo. È forse uno dei pochi rimpianti della carriera. Non si può certo vincere tutto, però in Spagna mi sarebbe piaciuto. Diciamo che ho avvertito l’attesa della gente, molto calda dalle mie parti, la troppa pressione mi ha giocato un brutto scherzo». A proposito di delusioni, Indurain super nelle corse a tappe, un po’ “disinteressato” nelle classiche «La classica di San Sebastian l’ho vinta. Ma al nord... troppo freddo, pioggia, a me piace il caldo. La Roubaix l’ho corsa una volta, tutti ne parlavano, ma non mi è piaciuto correrla. Ho fatto discretamente alla Liegi, arrivando quarto». A proposito, proprio in un arrivo a Liegi ha posto le basi per la conquista del suo ultimo Tour. «Una tappa dalla media elevatissima, somigliava molto alla

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Liegi-Bastogne-Liegi, con tante cote. Allungai insieme a Bruyneel, dietro furono sorpresi, noi trovammo l’accordo e giungemmo da soli al traguardo (la tappa fu ‘lasciata’ al belga, ndr) fu una bella impresa». Il mondiale invece? «Beh, ho vinto la medaglia d’oro a cronometro, mentre nella corsa in linea ci sono andato vicino un paio di volte, a Stoccarda e Benidorn. Il problema è che entrambe le volte mi sono giocato la vittoria in uno sprint a ranghi ristretti, purtroppo per me nel gruppetto c’era Gianni Bugno che rispetto a me era più veloce. Il problema è che per vincere in linea dovevo arrivare da solo». E poi c’è la pista. Come non ricordare il record dell’ora. «Premetto che la pista, indipendentemente dai record, aiuta molto anche chi corre su strada. È utile a disimpegnarsi nelle situazioni più intricate, sviluppa il colpo d’occhio, la capacità di decidere in pochi istanti. Circa il record dell’ora, non ho svolto una preparazione particolarmente mirata. Venivo da una stagione brillante, mi sono bastate tre settimane di preparazione specifica per riuscire nell’intento». Una volta terminata la carriera, non è rimasto nel-


Il percorso La Granfondo Campagnolo che, in una giornata ecologica, ha portato a Roma oltre 5000 ciclisti, ha seguito due percorsi: uno di 95 km il medio fondo e uno di 150 cosiddetto il gran fondo. Quest’ultimo dal Campidoglio a Caracalla all’Appia Antica, fino ai Castelli Romani, Latina, il mare di Anzio e ritorno passando ancora per i Castelli Romani, Ciampino, Eur. Un tour del force che ha messo a dura prova la forza fisica e mentale dei corridori. Gianluca Santilli è l’ideatore del progetto, Ivan Piolla il Responsabile operativo della Granfondo ed Elvezio Pierandi e Nicolangelo Zoppo i responsabili del percorso.

DALLA GRANFONDO A TOR VERGATA

Quando le auto lasciano strada alle due ruote Da circa due anni, ogni prima domenica del mese, Via dell’Archiginnasio e Via Guido Carli, in entrambi i sensi di marcia, restano chiuse al traffico automobilistico, in sinergia con il Municipio VIII. «Siamo stati i primi in Italia ad aver dato vita ad un’iniziativa che prevede la chiusura domenicale di due vie cittadine alle auto per lasciare spazio agli amanti delle due ruote – spiega Alessandro Cochi, Delegato alle Politiche Sportive di Roma Capitale – Via dell’Archiginnasio e Via Guido Carli, infatti, dalle 8.30 alle 12.30 di ogni prima domenica del mese, vengono destinate all’utilizzo ciclistico amatoriale, trasformandosi in un circuito di circa 6 chilometri fruibile da tutti i cittadini in sella ad una bici. Il progetto pilota, con il quale l’amministrazione capitolina ha voluto favorire, valorizzare e rilanciare lo sport amatoriale, per una città a misura d’uomo rappresenta un motivo di sia perché permette a ciclisti e cicloamatori di avere percorsi su strada da utilizzare per gli allenamenti, sia perché consente ai cittadini di riscoprire il vero volto del territorio in cui vivono, offuscato dal traffico quotidiano. E ancora, perché l’iniziativa ha ricadute positive sull’ambiente».

l’ambiente «No, mi dedico al marketing, lavoro nel campo delle bici e dell’abbigliamento sportivo. Mi piace seguire le corse da tifoso». Ma visto da fuori, conviene come prima fare il ciclista? «Dal punto di vista economico, e facendo le dovute proporzioni, forse conveniva più ai miei tempi. C’erano maggiori sponsor rispetto ad adesso, anche se sto parlando per Italia e Spagna che conosco

«Correre tra i monumenti di Roma è un’emozione irripetibile». (Miguel Indurain) meglio. Basta vedere che Nibali, Contador, sono andati a correre per formazioni straniere». Miguel, guardandola così in forma sembra che abbia fermato il tempo sulle strade del Tour. «Mi tengo in forma andando ancora in bici, ma lo faccio soprattutto d’estate con il bel tempo. Ricorda quello che le ho detto prima sulle corse al nord? Con la pioggia non esco mai, tanto che d’inverno qualche chilo lo metto su». Per lei che ama il bel tempo, Roma sarebbe perfetta. «Èuna città bellissima, è la terza volta che ci vengo e mi ripropongo di farlo più spesso. Mi piace il clima, l’accoglienza stupenda dei romani».

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Insieme a lui, ogni tanto pedala anche la moglie Marisa, presente al nostro incontro e che ci rivela. «In bici non ci andavo mai, poi mi sono rotta i legamenti sciando, ho fatto la rieducazione pedalando e mi sono appassionata». Oltre a Marisa, la famiglia Indurain si compone anche di Miguelito, Anna e Jon. Miguelito va in bici, è allievo. «Diventare ciclista non è facile — spiega un protettivo papà Miguel —, per ora è giusto che si diverta e basta».

Elegante Miguel, lo era in corsa, lo è nella vita, i francesi che lo hanno idolatrato chiuderebbero dicendo senza esitazione ‘Chapeau’.


G R A N F O N D O Roma con vocazione ciclistica Una giornata di festa che ha unito campioni e semplici appassionati delle due ruote F Campagnolo Roma: 5.500 al via. In prima griglia: il Sindaco Alemanno, Indurain, Bettini, Zanardi, Macchi, Rossi, Chechi e Matteo Marzotto. É stato il giorno della Granfondo Campagnolo Roma 2012, il grande evento di ciclismo, alla sua prima edizione, che ha preso il via alle Terme di Caracalla, con 5,500 partecipanti entusiasti. Mai un evento amatoriale aveva fatto registrare tanti partecipanti alla sua prima edizione. Due i percorsi tracciati: il “medio” (95 km) che risulterà alla portata di tutti, mentre i più allenati si sono potuti dare battaglia sul lungo (150 km). Alla griglia di partenza, oltre le tante migliaia di amatori che hanno pedalato nello scenario più incredibile del mondo, erano presenti anche Paolo Bettini, CT della Nazionale Azzurra ed i campioni Alex Zanardi, Fabrizio Macchi, Miguel Indurain, Antonio Rossi e Jury Chechi, il triatleta Alessandro Fabian e l'imprenditore Matteo Marzotto.

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Arrivato in punta di piedi, il tecnico bosniaco si è fatto apprezzare non solo dai tifosi laziali ma anche dall’intero ambiente calcio che lo guarda con curiosità ed ammirazione

LA CARRIERA Vladimir Petkovic è nato a Sarajevo il 15 agosto 1963. Soprannominato Il Dottore, è in possesso di tre cittadinanze: bosniaca, croata e svizzera. Parla otto lingue: oltre al nativo serbo-croato e bosniaco, anche l’inglese, il francese, lo spagnolo, il tedesco, il russo e l’italiano. Come calciatore era dotato di buona tecnica ed ha sviluppato la sua carriera tra l’ex Jugoslavia e la Svizzera. Nel 1997 con il Bellinzona ha iniziato la carriera di allenatore che si è snodata sempre nel campionato elvetico, tranne che nell’ultima stagione quando tentò, ma senza successo, l’avventura sulla panchina del club turco del Samsunspor. Sembrava destinato ad allenare il Sion quando a giugno è arrivata la telefonata della Lazio.


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È tornato a Roma carico di tante aspettative. Il suo calcio, nonostante tutto, affascina ancora. Ma i primi risultati non brillanti della squadra non sembrano frenare le sue certezze

LA CARRIERA Zdenek Zeman è nato a Praga il 12 maggio 1947. Nel 1968 il giovane Zdenek si trasferisce a Palermo. Ottiene la cittadinanza italiana e si laurea all’Isef. Non ha un passato da calciatore. Conseguito il patentino da tecnico a Coverciano, inizia l’avventura sulla panchina del Palermo. Poi Licata, Foggia, Parma, Messina e di nuovo Foggia. Nel 1994 è alla Lazio e arriva al secondo posto. Dopo tre anni va alla Roma che lo accoglie con entusiasmo. Poi Fenerbahce, Napoli, Salernitana, Avellino, Lecce, Brescia, Lecce, Stella Rossa, Foggia. Ed ecco la chiamata del Pescara con il quale compie un vero miracolo. Una promozione che farà da apripista al suo ritorno in giallorosso che però finora è stato più di ombre che di luci


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IL MODULO Secondo Vlado il modulo va adattato ai calciatori, non viceversa. La fase d’attacco comprende sempre 4-5 giocatori, il centrocampo è formato da due centrali e da due esterni. Le mezzali e i cursori spesso si scambiano le posizioni, così si diventa imprevedibili.

NIENTE VINO La novità a tavola portata da Petkovic rispetto alla gestione Reja è l’assenza del vino a pranzo. Con il tecnico friulano era tollerato un bicchiere al giorno, il bosniaco invece l’ha bandito dalla tavola. È concesso il caffé: ma senza esagerare.

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che significa vincere un derby? «Una bellissima sensazione. Una tra le più forti della mia carriera. Contro la Roma abbiamo sofferto alla fine. Sicuramente serviva un lavoro della squadra. Nelle diverse fasi della gara siamo riusciti ad interpretare l'andamento della partita. Dai lanci lunghi ai fraseggi. Abbiamo dimostrato tutte le nostre qualità nel voler vincere la gara». Questa vittoria le fa cambiare opinione su Zeman? «Assolutamente no, lui resta una leggenda. Una partita non cambia pensieri ed opinioni. Questa gara era difficile. Siamo scesi in campo con un'emozione positiva. C'era tanta motivazione, per rifarsi, ma ho dovuto anche calmare un po' i miei. Questo è servito dopo lo 01 per aspettare il nostro momento». Parliamo di lei. Mentre da giocatore era molto tecnico, da allenatore, invece, fa del dinamismo il suo principale credo: è così? «Non solo dinamismo, visto che anche la tecnica è importante. Bisogna sempre abbinare le due cose, sia nella fase difensiva che in quella offensiva. Quando una squadra ha questi equilibri tutto diventa più facile».

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Le sue squadre hanno sempre giocato con il 3-4-3 o il 4-3-3. Come è arrivato al modulo ad una punta con la Lazio? «Ho adottato diversi sistemi di gioco in questi quindici anni della mia carriera di tecnico, ho provato vari moduli, adattando sempre gli schemi alle caratteristiche dei giocatori avuti a mia disposizione. E così è successo anche alla Lazio di adesso. Ho scelto il 4-1-4-1 che mi sembra attualmente il modulo ideale per questi ragazzi. E i risultati ci stanno dando ragione». Quanto può crescere ancora la sua Lazio? «Ci sono grandi margini di miglioramento. Questa squadra mi soddisfa, ma dobbiamo dimostrare di avere sempre più fame e credere continuamente in quello che facciamo». Ritiene che ci sia troppa esasperazione del calcio in Italia rispetto alla Svizzera? «Non crediate che il calcio in Svizzera sia così secondario rispetto ad altre nazioni. Anche lì si parla e si vive di pallone. Ma non certo al livello italiano. Qui questa disciplina viene vissuta con tanta passione sette giorni su sette, 24 ore su 24. Se ne parla sempre.

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che cosa è non è andato nel derby? «All'inizio abbiamo cominciato bene, abbiamo fatto giocare poco la Lazio aggredendola in mezzo. La linea difensiva stava abbastanza alta e qualche fuorigioco ci è scappato. Però costruire azioni dopo che ha piovuto... Non siamo riusciti più a giocare lo stesso calcio e la Lazio ha cercato di allungare il campo e i nostri centrocampisti si sono abbassati troppo senza fare più pressione in avanti e allora qualche rischio lo corri». La sconfitta nella stracittadina è la quinta in campionato. Che succede? «Il calcio è un gioco e quindi vive di episodi fortunati e non. Adesso sembra ci stia voltando le spalle, magari proprio quando negli ultimi minuti sei di fronte alla porta con due giocatori. I tre gol presi contro la Lazio sono sicuramente frutto dei nostri errori e del caso». Lasciamo l’attualità, e parliamo un po’ di lei. Da ragazzo quale sport praticava? «Spaziavo su vari campi. Diciamo che mi dedicavo al calcio, alla pallavolo, alla pallanuoto e all’hockey sul ghiaccio» Nella Repubblica Ceca uno degli sport

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più popolari è, appunto, l’hockey sul ghiaccio: c’è qualcosa di quello sport nei suoi schemi? «Certo, bisogna sempre mettere in pratica le cose buone di ogni disciplina». Quanto è stato importante suo zio Cestmír Vycpálek, allenatore della Juventus agli inizi degli Anni Settanta, nel suo approccio al calcio? «Direi che è stato molto importante. Ricordo che nella mia famiglia si parlava sempre di lui come giocatore». Qual è la scelta che le ha cambiato la vita? «Decidere di fare l’allenatore di calcio». E ricorda il momento di questa decisione? «Era il 1974. Ero già stato allenatore di pallavolo, nuoto, ginnastica… Quell’anno sono entrato nel settore giovanile del Palermo. Guidavo quattro squadre. Non ho più smesso». Cosa ha provato quando la Roma l’ha richiamata tredici anni dopo? «Sono di nuovo a casa. Ho lasciato tanti anni fa la Roma, ora sono tornato e vorrei fare di nuovo qualche cosa per i tifosi, che sono unici, ai quali mi auguro di regalare tan-

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ALIMENTAZIONE L’alimentazione per Zeman è di basilare importanza. Famoso il suo riso in bianco e patate lesse nei primi giorni di ritiro delle sue squadre. Un menu accettato sempre a bocca storta dai giocatori. Di caffè nemmeno a parlarne.

IL SUO GIOCO Secondo Zdenek i calciatori si debbono adattare al modulo, e non viceversa. La fase d’attacco coinvolge tutta la squadra esclusi i due difensori centrali. Il centrocampo a tre tampona e aiuta nei tagli per l’inserimento delle punte. Passaggi ad un tocco.


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FACCIA IL CAMBIAMENTO Il cambio di rotta è arrivato proprio con l’arrivo di Petkovic. Spazio a un sistema che si basa sullo studio scientifico e matematico dei dati raccolti sul club biancoceleste, utilizzato per migliorare il rendimento di ogni singolo giocatore.

LO STUDIO Fioranelli, mister ombra di Petkovic, registra e studia gli allenamenti del club biancoceleste e dei suoi avversari, consegnando dvd personalizzati non solo a Vladimir ma anche agli stessi giocatori, permettendo loro di conoscere in anticipo le mosse degli avversari.

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La tensione è forte e continua. Ma sono elementi che non incidono dentro il campo. Noi il nostro lavoro lo continuiamo a fare sempre con serenità». Ha avvertito all’inizio lo scetticismo della piazza? Come’è ora il rapporto con i tifosi? «Sono contento che piano piano stia entrando nei cuori del popolo biancoceleste anche nei momenti delle sconfitte. Io sono stato sempre convinto delle mie idee e ringrazio anche il mio gruppo di lavoro che è con me anche a Roma e che mi sta dando una grossa mano. In Italia, ma specialmente a Roma, vedo che gli umori cambiano repentinamente, bastano due successi per portarti alle stelle, ma di conseguenza con due sconfitte si cade nella depressione. Io cerco di tenere la barra dritta sia nei momenti di felicità che in quelli di difficoltà, cercando di dare un equilibrio, che nel calcio come nella vita è indispensabile. Lo scetticismo intorno a me continuo velatamente ancora ad avvertirlo, ma è normale, soprattutto per un tecnico straniero che per la prima volta arriva ad allenare in Italia.

Sta a me dimostrare quanto valgo». Si definisce cittadino del Mondo, cosa le piace e cosa non le piace dell’Italia? «Mi piace tutto dell’Italia. Si mangia e si vive bene. Forse manca una sorta di equilibrio, c’è una eccessiva emotività, bisognerebbe vivere con maggiore serenità gli avvenimenti, nella fattispecie quelli calcistici. Io dico che bisognerebbe restare coi piedi per terra e guardare avanti sempre con fiducia, soprattutto nei momenti meno belli». Cosa l’ha colpita di Roma? «Tutto. Una delle più belle città al mondo. L’ho girata da capo a fondo come turista e ne sono rimasto entusiasta. Anche la gente è unica. Qui ci sono tutte le premesse per dare vita ad uno splendido rapporto di collaborazione. Certo, come ho detto prima, anche Roma vive degli alti e bassi umorali, ma se sapremo domarli, possiamo fare qualcosa di importante». Come vive il rapporto con la gente? «Il rapporto diretto è importante. Sono abi-

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Foto Marco Rosi

Anche il tecnico bosniaco è rimasto estasiato dalle bellezze del Colosseo che ha fatto da cornice per la foto ufficiale della Lazio 2012-’13

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te emozioni, facendo vedere loro un buon gioco. Devono avere un po’ di pazienza».

gi il calcio tedesco è un esempio per le altre nazioni».

Lei si è sempre professato tifoso romanista. Ma da cosa deriva questa sua particolare passione per i colori giallorossi? «Quando allenavo il Licata a inizio Anni ’80 e già facevo giocare un bel 4-3-3, un amico romanista mi ossessionava con le imprese dei giallorossi. Non capivo perchè. Quando sono arrivato quì è stato tutto chiaro. La squadra è nei cuori di molti romani. E di conseguenza anche nel mio».

È soddisfatto della squadra? «Posso contare su una rosa di giocatori importanti. Spero che con il lavoro riusciremo a formare una squadra ancora migliore. Il grado di qualità di questa non dipende solo dalle individualità ma da come si comportano insieme sul campo i ragazzi».

Rispondere Totti sarebbe troppo facile, quindi le chiedo qual è il giocatore “non così conosciuto” più forte che abbia mai allenato? «Ho allenato solo giocatori forti». Si sente fuori luogo nel calcio italiano? «No, mi sono sempre trovato bene, ma dobbiamo tener conto che siamo sempre tutti migliorabili: possiamo cambiare io, i giocatori e i dirigenti. La difficoltà di gestire il calcio c’era anche in Germania negli Anni 90, ma lì poi sono cresciuti: og-

Si aspettava di più da Destro che lei ha voluto fortemente? «Lui è un giocatore che vive per il gol: quest’anno noi giochiamo in maniera un po’ diversa dal Siena della scorsa stagione e quindi magari trova ancora qualche problema di collegamento con i compagni, ma lui è un ragazzo che ha talento, ha voglia, è propositivo e quindi spero faccia bene anche a Roma». Questa Roma può recuperare in classifica? «Spero che la squadra riesca a fare un campionato positivo e a giocarsi le partite con tutte le squadre del torneo. Chi sono le nostre antagoniste? Di solito

ZEMAN IN CAMPIDOGLIO ZEMAN E I GIOVANI

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Zeman ospite in Campidoglio per la presentazione della stagione calcistica di un Ente di Promozione Sportiva (Asi n.d.r). Il tecnico boemo è vicino anche alle realtà dilettantistiche. Quando il calcio è passione…

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LA COERENZA «Cosa vorrei cambiare se potessi tornare indietro? Niente, assolutamente niente, rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto. Il calcio che io insegno non si esaurisce con la fine di una mia esperienza con un club, qualcuno mi auguro avrà ancora fiducia in me».

IL BEL GIOCO «Purtroppo, nel calcio di oggi, conta solo il risultato e nessuno pensa più a far divertire la gente. Non ha più importanza se il pubblico va allo stadio, o da un'altra parte».

LA DIGNITÀ «Non c’è assolutamente nulla di disonorevole nell’essere ultimi. E’ molto ma molto meglio essere ultimi che senza dignità».


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FACCIA VLADPENSIERO 1 «Ho sempre sperato che qualcuno si accorgesse di me, della bontà del lavoro che ho svolto in questi anni e di ricevere una chiamata da un club importante. Allenare la Lazio rappresenta il salto di qualità che stavo aspettando da tempo».

VLADPENSIERO 2 «L’importante è credere nelle proprie idee e convincere i tuoi allievi che sono giuste. La mia Lazio, per crescere ancora, deve diventare più cinica e acquisire una vera mentalità vincente, che è quella che può fare la differenza nel calcio moderno. Se l’intero gruppo riuscirà ad avere questa mentalità, allora potremo andare lontano».

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tuato a vivere in città in mezzo alla gente, mi piace confrontarmi quotidianamente con tutti. Non bisogna mai isolarsi. La gente d’altronde siamo tutti noi. E poi il nostro ruolo ci impone di stare a contatto con il prossimo, quel prossimo che la domenica viene a incitarci dagli spalti dello stadio». Si conosce il suo impegno nel sociale presso la Caritas. Ce ne può parlare? «Sì. All’inizio di questa mia esperienza nel campo del volontariato con la Caritas facevo il formatore per gli adulti, poi ho lavorato come operatore sociale. Ho aiutato tanta gente senza lavoro a trovare un equilibrio, un impegno duro ma gratificante sotto l’aspetto umano».

La rosa ampia potrebbe crearle difficoltà nel rapporto specifico con ognuno dei suoi calciatori? « È vero che non ho praticamente tempo per dedicare minuziosamente tutto me stesso in egual misura per tutti quanti, ma mi rivolgo sempre a loro non facendogli mai perdere la speranza che prima o poi ognuno potrebbe essere impiegato fra i titolari. Ricordo sempre ai ragazzi che tutti sono utili alla causa della Lazio. Il momento per provarlo arriva sempre». Dove può arrivare questa Lazio? «Penso lontano, ma senza troppi proclami. L’importante è lavorare duro, mai perdere la concentrazione e convincersi ogni volta che si scende in campo di essere più forti dell’avversario e quindi in grado di batterlo».

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VLADPENSIERO 3 «Cerchiamo di avere sempre il pallino del gioco in mano. Non è sempre facile ma fino ad ora i giocatori si stanno applicando e in queste prime partite abbiamo fatto abbastanza bene. Ci sono diversi modi per dominare. Io preferisco avere una squadra intelligente che sappia, a seconda dei casi, soffrire o imporre il proprio gioco».

«Apprezzo la sincerità, non amo le falsità» Cosa ha detto ai suoi ragazzi la prima volta che li ha visti? «Mi sono presentato dicendo loro che fino ad ora avevano fatto molto bene, ma che potevano fare ancora meglio. Dobbiamo porsi degli obiettivi precisi, costruire qualcosa di importante e regalare sempre maggiori soddisfazioni ai nostri tifosi». Come prepara una partita? «Sempre in maniera diversa, ogni sfida cade in un momento particolare. In questo periodo, ad esempio, stiamo giocando ogni tre giorni e quindi dobbiamo analizzare di volta non solo il nostro status fisico e psicologico ma anche la forza dell’avversario che andiamo ad affrontare. Un lavoro che richiede un’attenzione non indifferente». CALCIO | 26


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si dice le squadre che hanno fatto bene l’anno prima: quindi Juventus, Milan, Udinese, Lazio, Inter e tutte le avversarie che ci sono finite davanti la stagione precedente. Siamo ancora ad un terzo della stagione. Il tutto si vedrà strada facendo, noi speriamo di fare bene e recuperare posizioni in classifica». Tralasciando la Roma attuale, quale è la squadra più forte che abbia mai allenato? «Il Foggia. È stata un’esperienza importante per la mia carriera». Lei è stimato come persona e come tecnico, sia dai tifosi della Roma sia da quelli di fede biancoceleste. Aver quasi raggiunto questa “rara conquista” al pari di icone come Zoff, quanto la rende felice? «Sono contento che la gente di Roma mi apprezza».

giungo che è normale che il club voglia tutelare al massimo il nome della Roma e quindi io mi impegno anche in questo. Se un domani con un errore dell’arbitro ci sarebbero nuove polemiche? Gli arbitri fanno parte del calcio: quindi, se voi giornalisti date 4 ad un giocatore, si può dare lo stesso voto anche ad un arbitro quando non fa bene. Se un giocatore sbaglia, può infatti sbagliare anche un arbitro. Credo che tutti siamo costretti a sbagliare, specialmente quelli che lavorano. Per me è normale che in quel caso ci siano le polemiche: io le ritengo delle precisazioni e penso che anche quest’ultime queste servano per migliorare».

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ZDENPENSIERO 1 «Ritornare a Roma dopo 13 anni è come ritornare a casa. Qui voglio vincere lo Scudetto perché abbiamo tutto per centrare questo traguardo. Non sarà quest’anno? Fa niente».

ZDENPENSIERO 2 «A mio parere, la grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi. Ma il calcio, oggi, è sempre più un’industria e sempre meno un gioco».

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«Io non sono ossessionato dalla vittoria…» Il suo cantare fuori dal coro e il dire pane al pane e vino al vino potrebbero creare qualche problema alla Roma? «Se le mie parole destabilizzano la Roma? L’intervista no, ma forse qualche titolo sparato successivamente sì. Ad esempio, sulle mie parole che riguardavano Abete si è capita una cosa diversa, io ho solo detto che la Federazione in questi anni non ha approfittato dell’occasione che ha avuto per migliorare. Se mi sono chiarito con la Federcalcio? Al di fuori non ho parlato con nessuno, ho solo spiegato alla Società in che modo avevo fatto l’intervista». Ma la Società l’ha invitata ad abbassare certi toni? «Non me l’ha chiesto, ma agCALCIO | 27

«Dovrei parlare di arte? Di politica? Di economia? Io sono uno che sta nel calcio, se un giornalista viene da me lo fa perché vuole avere un’opinione competente, altrimenti fuori dal calcio io sono uno qualunque e il mio parere conta come quello di un contadino. Eppure dal contadino non va nessuno».

ZDENPENSIERO 4 «Da piccolo a Praga mi dissero ‘prendi quella posizione’ e mai ‘prendi quell’uomo’: da quel giorno non ho più cambiato idea, sarebbe stata la zona il mio modulo di gioco ideale».


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ROSSINI DOCET «C’è tutto Vlado dietro le imprese di Klose e compagni. Nelle facce dei giocatori vedo l’ambizione di un uomo che ha sempre pensato di arrivare in Italia, anche quando ai tempi del Bellinzona faceva il doppio lavoro alla Caritas e gli allenamenti li preparava in macchina. La match analysis? Quella è arrivata dopo, allo Young Boys», parola di Arno Rossini, secondo storico di Petkovic.

LA MENTALITÀ «Dobbiamo essere più cinici e lavorare ancora sulla mentalità. Nel calcio è la mentalità vincente a fare la differenza, a permetterti di segnare un gol in più o di prenderne uno in meno. Se riusciamo ad aver tutti questa mentalità possiamo andare lontano».

SOMIGLIANZE Petkovic e Zeman si assomigliano? Caratterialmente non molto. Uno, Vladimir, è più aperto; l’altro, Zdenek, si rifugia nei suoi pensieri. Dal punto di vista del gioco sono agli antipodi. Il tecnico bosniaco riesce sempre a modellare le sue squadre in base al materiale che ha a disposizione. Zeman, invece, rimane fedele al suo credo calcisitico, l’intransigente 4-3-3 che si porta dietro dai tempi del Foggia.

Finora ha adottato il modulo ad una sola punta. Potrebbe rappresentare nel prosieguo un limite? «Non credo, perché nel mio concetto di calcio le punte debbono partecipare al gioco. È sbagliato pensare all’attaccante fermo in area ad aspettare che arrivi il pallone. Non è più così. Per caratteristiche molti miei giocatori sono polivalenti, in grado di assolvere il compito che chiedo loro, al di là che siano punte o meno». Si vedrebbe in futuro nei panni di selezionatore di una nazionale? «Per ora non ci ho mai pensato, ma un domani chi lo sa. Se dovesse arrivare quel giorno in cui mi riterranno all’altezza per il ruolo di commissario tecnico, ne sarò onorato e prenderò in considerazione l’idea. Ma adesso sono concentrato solo e soltanto sulla Lazio». Come si sviluppa la sua giornata tipo? «I recenti impegni, che ci hanno visto spesso fuori città, non mi hanno consentito di stare molto vicino alla mia famiglia. Però adesso, quando i miei sono a Roma, cerco di vivere con serenità il mio tempo libero con loro. Usciamo tutti insieme per fare shopping, per stare in mezzo alla gente e non disdegnare una buona cena nei ristoranti della Capitale dove si mangia veramente bene». Quale monumento di Roma l’ha maggiormente colpita? «Come complesso in genere direi il Vaticano, ma anche Piazza

di Spagna e Fontana di Trevi. Ma è spettacolare tutto l’ambiente architettonico che ruota intorno a questi storici monumenti. Roma è una città unica e le sue bellezze sono famose in tutto il Mondo». Cosa ama e cosa non sopporta. «Apprezzo la sincerità, il confrontarsi con la gente, il guardarsi negli occhi e dirsi le cose in faccia senza ipocrisia. Al contrario mi dà fastidio la falsità. E ce n’è tanta, anche nel mondo del calcio. Sono contro chi giudica una persona in base all’emozione del momento. Un uomo va misurato nel tempo». Se dovesse raccontare la Lazio, cosa direbbe? «Che è una società gloriosa ma che per il suo enorme potenziale ha vinto troppo poco. Dobbiamo fare in modo di raggiungere quei traguardi che competono a questa meravigliosa piazza e puntare ad avere maggiore considerazione. Ma questo dipende solo da noi. Soltanto attraverso risultati importanti possiamo arrivare a tanto. Il lavoro alla fine paga sempre. E noi possiamo riuscirci». Molti tifosi rivedono in lei Sven Goran Eriksson... «Essere accostato ad Eriksson non può che lusingarmi. Un grande tecnico che ha dimostrato il suo valore sia in Italia che all’estero. In campo e fuori del campo il suo comportamento è ed è stato un esempio per tutti. Non ho mai ascoltato qualcosa di negativo nei suoi confronti».

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Lei ha la fama di essere molto duro con i suoi giocatori se non si comportano in maniera corretta… «Ci sono giocatori di cui si dice che hanno carattere perchè non si contengono nelle proteste. Il carattere in realtà non c’entra. Devono imparare a dominarsi e a rispettare l’avversario e gli arbitri». Qual è la prima frase detta ai suoi giocatori ad inizio anno? «Bisogna lavorare per divertirci». Si vedrebbe ad allenare una Nazionale? «Ancora no». Cosa le piace di più dell’Italia? «Il sole e il mare».

L’errore più grande che ha fatto? «…Non ho fatto grandi errori». Come si sviluppa la sua giornata tipo tra privato e Roma? «Poco privato e molto Trigoria». E quando è a casa, che cosa guarda in tv? «Soprattutto lo sport. E quando non c’è niente che mi interessa, qualche film, di cui il giorno dopo non ricordo nulla». E qual è il suo film preferito? «Qualcuno volò sul nido del cuculo con Jack Nicholson». E la canzone? «La donna cannone di Francesco DeGregori».

E di Roma? «La storia». Le hanno mai proposto di fare politica? «Sì, certo. Ho avuto tante offerte». Da destra o da sinistra? «Io non ho mai dichiarato le mie preferenze, ma le proposte sono arrivate da tutti gli schieramenti. È normale: siamo in Italia».

E il libro? «Ora leggo poco. Mi piace Alexandre Dumas». A ruota libera. Se dovesse raccontare la Roma, nella sua storia e nella sua attualità, cosa direbbe? «Grande, in tutto. Nella storia e nell’attualità».

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SEGUIRE ZEMAN L’analisi di Francesco Totti: «Cosa non funziona? Tutto. La squadra non fa quello che vuole il mister. Dipende da noi. Noi mettiamo in pratica il 50% di ciò che chiede il tecnico e non va bene. Non possiamo puntare allo Scudetto, la Juve è superiore a tutti, ma non possiamo fare un'altra annata di transizione, basta. Dobbiamo seguire Zeman. Solo così usciremo dal tunnel».

PARTITA DOPPIA «Non me l'aspettavo la sconfitta nel derby. Dispiace molto. Di questa Roma bisogna prendere i pregi e i difetti che ci sono. Zeman? Secondo me è l'allenatore giusto», così Max Biaggi.



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Maghi o scaramantici, focosi sud-americani o freddi nordici, aderenti al calcio italico o innovatori europei. Comunque sia, gli allenatori stranieri sulle panchine di Lazio e Roma hanno scritto la storia e tre Scudetti su cinque sono affar loro...

di Silio ROSSI ‘è poco da dire: gli allenatori stranieri sulle panchine di Lazio e Roma hanno suscitato sempre uno strano fascino. Accolti, ad occhi chiusi, come i salvatori della patria calcistica, i tecnici provenienti dall’estero hanno, più di quelli nati dalle nostre parti, creato attese spasmodiche, curiosità senza condizionamenti, sfociate troppo spesso in consenso senza scadenze anche in presenza di risultati negativi.

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Per un po’ gli allenatori italiani hanno guardato con scetticismo, ed una giustificata incavolatura, a chi veniva a rubare loro il lavoro, hanno provato a contestare, a rimproverare la Federazione e la Lega, troppo di manica larga nell’aprire le frontiere a chi sapeva di calcio, ma, probabilmente, ignorava un concetto fondamentale: e cioè che il gioco del pallone, che pure insegue il medesimo fine in Europa e in Sudamerica, non è uguale dappertutto, non può essere adattabile d’acchito sui campi di Roma, di Goteborg, di Rio o di Buenos Aires. Eppure qui nella Capitale lo “straniero” è passato un’infinità di volte. Presentando delle meteore, immediatamente smascherate e rispedite a casa, ma anche dei veri e propri “guru” che, aggiungendo alle loro buone conoscenze tec-

niche un po’ di chiacchiera, hanno finito con l’incantare dirigenti, calciatori, tifosi e, purtroppo, gli organi di informazione. Dunque i fenomeni con idee nuove ed efficaci, gli “scienziati del calcio”, come li chiamava Mazzone, hanno dovuto, a volte, lasciare spazio anche a colleghi veri e propri cantastorie, da far rimpiangere i nostri, affezionati ad un tipo di calcio vecchio stampo, in cui il “catenaccio” che tutti assegnavano negli anni Sessanta a Nereo Rocco, poteva anche non piacere, ma ai fini dei risultati risultava il più seguito. «Perché - ha più volte spiegato il tecnico di Trastevere, ormai pensionato ad Ascoli a fare il nonno - da ‘ste parti de fenomeni ne so’ sbarcati tanti. Però gli scienziati sono quelli che studiano, che fanno i ricercatori nei laboratori per scoprire le medicine che salvano la gente e la lasciano in vita».


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STRANIERI ALLA GUIDA Da Koszegi a Petkovic DEZSO KOSZEGI Ungheria, 1924-25 e 1925-26. JENO LIGETI Ungheria, 1926-27 FRANZ SEDLACEK Austria, 1927 FERENC MOLNAR Ungheria, 1930-31 - 1940-41 AMILCAR BARBUY Brasile, 1931-32 KARL STURMER Austria, 1932 ì 1934. WALTER ALT Cecoslovacchia 1934-35. JOZSEF VIOLA Ungheria 1936. GEZA KERTESZ Ungheria 1939-40. ALEXANDER POPOVIC Austria 1941-42. GEORGE RAYNOR Inghilterra 1954-55. JESSE CARVER Inghilterra 1956-1957. MILOAN CIRIC Jugoslavia 1957. JUAN CARLOS LORENZO Argentina 1968 al 1971. LUIS VINICIO Brasile 1976-1977. JUAN CARLOS MORRONE Argentina 1982-83. ZDENEK ZEMAN Cecoslovacchia 1994-97. SVEN GORAN ERIKSSON Svezia 1997-2001. VLADIMIR PEKTOVIC Bosnia 2012.

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Probabilmente né Zednek Zeman, né Vladimir Pektovic avvertono questo peso. Se li senti discutere di calcio, o parlare delle loro esperienze, ti accorgi che sono “normali”, che non si atteggiano a semidei, che hanno il pudore di non gonfiare il petto, ma, piuttosto, che sono corazzati da una giusta dose di umiltà, compagna di viaggio perché possano gettarsi nel lavoro con grande impegno, senza tanti compromessi. Seguendo, certo, la loro filosofia, sviluppando le idee maturate negli anni e sperando che, poi, alla fine della fiera saranno i calciatori gli esecutori spietati di quanto loro, i tecnici, predicano nei giorni precedenti le partite. Sull’arrivo di Pektovic i distinguo si sono sprecati. Nessuno lo aveva sentito nominare. In pochi sapevano del suo passato, chi era stato come calciatore, ovviamente, ma soprattutto che cosa aveva vinto come allenatore. Né, per un giudizio attendibile sul “povero” Pekto, aiutavano i nomi delle panchine occupate. Tanta gente ha sorriso malignamente: «Ma chi è questo? Possibile che Lotito piglia sempre degli sconosciuti?». Purtroppo per i critici e meglio per la Lazio, Vlado si sta rivelando come un dono della provvidenza. Bravissimo ad approcciarsi con un ambiente nuovo e dissacratore ad ogni piè sospinto, a camminare senza curarsi delle attese a cui, per forza di cose, la gente lo ha inchiodato, il trainer bosniaco ha saldato il suo personale conto col lavoro e zittito gli scettici, conquistando, di domenica in domenica, persino la stima di quello zoccolo duro che fa del borbottio calcistico il suo quotidiano passatempo. Facendo scivolare dietro le quin-


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STRANIERI ALLA GUIDA te quel passato, che nessuno ora si azzarda a rinfacciargli, anche se i suoi club sono stati il Bellinzona, il Malcantone Agno, il Lugano, lo Young Boys , il Sion: formazioni del campionato svizzero, Paese dove Petkovic ha riparato nel 1987, per sfuggire alla guerra scatenata dalle varie etnie nella ex Jugoslavia. Grazie a lui la Lazio di domenica in domenica sta continuando a ritagliarsi un posto importante nel panorama calcistico italiano. E non è qualche sconfitta, che ci sta in questo primo anno, a fermare questo processo. Staziona nei primi posti della classifica, conquista successi all’Olimpico e fuori casa, gioca un calcio spettacolare, come da tempo non vedevamo nel campionato italiano, affidandosi a strategie offensive, fregandosene di chi ha davanti come avversario, e mostrando, infine, una efficace duttilità tattica in cui tutti si sentono protagonisti e compartecipi del progetto. Nessuno escluso, compresi i panchinari che accettano col sorriso le decisioni del loro mister, anche se stanno fuori per più di una settimana. Sul ritorno in giallorosso di Zeman, invece, l’attesa è stata meno spasmodica. Di curiosità, comunque, ce n’era tanta. Ma del boemo, grazie ai suoi trascorsi sulle panchine di Lazio e Roma, si sapeva tutto, né, si pensava, che le sue teorie si fossero imbastardite a causa dell’ingiustificato peregrinare a cui i signori del calcio lo avevano costretto per aver detto, senza nascondersi, delle cose che succedono all’interno degli spogliatoi e che nessuno ha mai avuto il coraggio di denunciare. Il “J’accuse” ha, purtroppo, fatto pensare ad un disadattato che a colpi di piccone

Da garbutt a zeman WILLIAM GARBUTT Inghilterra 1927-28. HERBERT BURGESS Inghilterra 1929-30. JONAS BAAR Austria 31-32. LAJOS KOVACS Ungheria 1932-33. ALFRED SCHAFFER Ungheria 1939-42. GEZA KERTESZ Ungheria 1942-43. IMRE SENKEY Ungheria 1947-48. JESSE CARVER Inghilterra 1953-54. GYORGY SAROSI Ungheria 1955-56. ABEL STOCK Ungheria 1957-58. GUNNAR NORDAHL Svezia 1958-59. LUIS CARNIGLIA Argentina 1961-62. LUIS MIRO Spagna 1963-64. JUAN CARLOS LORENZO Argentina 1964-65. NAIM KRIEZIU Albania 1964-65. HELENIO HERRERA Argentina 1968-72. NILS LIEDHOLM 1 Svezia 1973-77. NILS LEDHOLM 2 Svezia 1979-84. SVEN GORAN ERIKSSON Svezia 1985-88. NILS LIEDHOLM 3 Svezia 1988-89. VUJADIN BOSKOV Jugoslavia 1992-93. CARLOS BIANCHI Argentina 1996-97. ZDENEK ZEMAN 1 Cecoslovacchia 1997-99. RUDI VOELLER Germania 2004-05. LUIS ENRIQUE Spagna 2011-12. ZDENEK ZEMAN 2 Cecoslovacchia 2012.

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LE SCARAMANZIE DI LORENZO La Lazio costretta da Tor di Quinto ad arrivare ad Ostia per tornare all’Olimpico? Succedeva con Lorenzo se il tragitto era quello della settimana precedente e la Lazio aveva vinto. Lorenzo, il più scaramantico di tutti.

L’ALLENATORE PIÙ SCARAMANTICO DELLA STORIA BIANCOCELESTE (ED ANCHE GIALLOROSSA), JUAN CARLOS LORENZO

osava scardinare le brutte abitudini dei poteri forti del calcio. Che scomponeva di botto il mosaico costruito, anche se con tessere marce. Gli hanno dato del folle, lo hanno preso a male parole soprattutto quando ha azzardato l’ipotesi che alcuni calciatori, grazie a chissà quale espediente erano improvvisamente diventati tanti “incredibile Hulk”. E gliel’hanno fatta pagare. L’antefatto del “casus-belli” esplose a Predazzo, nel corso del ritiro di precampionato della Roma. Al Tour de France era scoppiato un caso niente male, perché le analisi di un post gara avevano evidenziato che alcuni “girini” assumevano l’aiutino, ovviamente con farmaci proibiti, per poter reggere alle fatiche quotidiane della “grande boucle”. Non era la prima volta che succedeva nel ciclismo, ma era il primo appuntamento perché Zeman, così refrattario alle “pratiche” da spogliatoio (ogni tanto svelava che qualcosa stava accadendo da anni anche nel calcio), così ingenuamente critico nella sua sincerità, così legato al suo istinto morale, dicesse la sua, facesse conoscere in maniera più chiara il suo pensiero sul tema, ben sapendo di diventare scomodo e di correre il rischio di restare da solo a vivere in un isolamento implacabile, mal tollerato da un mondo sempre più popolato da faccendieri, maneggioni, medici e farmacisti compiacenti, dirigenti più dediti al guadagno grazie ai particolari rapporti con le banche che non a cercare realtà più pulite di cui il calcio fino ad allora s’era cibato. La reazione fu violenta proprio perché Zednek portò le sue riflessioni in piazza, perché, una volta per tutte, decise di parlare chiaro e perché chi aveva la coscienza sporca, o, come si dice da queste parti, la coda di paglia, esplodesse con un ingiustificato “dalli all’untore”, come se fosse stato lui ad appestare l’ambiente. Il secondo atto di questa vicenda tutta italiana, quello che “costrinse” il boeJUAN CARLOS LORENZO

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mo, suo malgrado, a restare fermo e ad errare in campi di provincia, si consumò negli studi di Rai Uno, nel corso della registrazione di una puntata di “Porta a Porta”. Zeman e Sensi erano seduti davanti a Vespa, i giornalisti sistemati in una stanzetta attigua ad ascoltare le domande e le risposte. «C’è un doping calcistico ed uno amministrativo». Parole sibilline, ma sufficientemente efficaci per chi voleva capire. Come dire che troppi calciatori si affidavano già da allora, ma forse anche prima, a pratiche non del tutto lecite e tanti dirigenti ad operazioni non del tutto trasparenti.

IL CICLONE ZEMAN A bocce ferme viene da chiedersi se tutto quel can-can abbia prodotto effetti positivi, se Zeman era un visionario allora o se, al contrario, siamo al punto di partenza, visto che sempre più spesso la magistratura ordinaria e quella sportiva, in tema di calcio scommesse, o di doping, sono costrette ad intervenire per fare un po’ di pulizia là dove Federazione e Lega non riescono a mettere mani, confermando la loro impotenza e la loro dannosa ed immensa cecità. Zeman è rimasto sempre se stesso, attaccato ai suoi principi, più che mai deciso a raccontare le sue scomode riflessioni. Magari tra nuvole di fumo e quel sorriso beffardo che ne fa l’uomo del mistero. È forse questo il motivo che ha provocato un mare di entusiasmo, quando la Roma ha annunciato che il boemo sarebbe tornato a Trigoria. La festosa accoglienza che gli è stata tributata sta sicuramente nascosta nella sua onestà intellettuale. Il pubblico giallorosso, negli ultimi anni, che pure non sono stati avari di risultati, ha avvertito che qualcosa di diverso mancava e che quel modo di giocare della Roma, edizione prima volta del boemo, poteva essere un felice ricordo, un punto di partenza, un segno distintivo per un nuovo viaggio verso un ciclo da primi posti. Proprio come la vogliono gli americani, i proprietari attuali del club.


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L’ERA DEGLI ARGENTINI Di allenatori stranieri, come accennato, a Roma ne sono transitati molti. Senza tornare troppo indietro negli anni non si possono non ripercorrere e non ricordare le stagioni, e perché no le stravaganze, di Helenio Herrera sulla panchina giallorossa e di Juan Carlos Lorenzo che, in tempi diversi, ha diretto tutte e due le formazioni capitoline. Entrambi argentini, entrambi guasconi. Ciascuno, comunque, con le sue fissazioni e con un modo diverso nel proporsi alla piazza. Istrionici e facili alla battuta, frasi studiate e ad effetto, a beneficio dei titoli sui giornali. Caparbi all’inverosimile fino ad affidarsi ad una eccessiva superstizione, che molto spesso è risultata più dannosa che amica. E se uno, Herrera, venne dalla Milano interista con l’etichetta de “il mago”, l’altro, Lorenzo, non disdegnava il nomignolo di “Papa”, proprio perché vedeva nella figura ieratica del sommo pontefice quel qualcosa di irreale che lui, un po’ per convinzione, un po’ perché gli serviva frettolosamente per sbarcare il lunario, non poteva tirar fuori dal suo bagaglio culturale e professionale. Di Juan Carlos Lorenzo, negli annali, restano due macchie: la colletta del Sistina quando proprio lui si fece promotore di una raccolta di denaro per dare una mano alla società Roma, allora di proprietà del Conte Marini Dettina, a corto di contante, e l’ordine impartito, da allenatore della Lazio, agli addetti all’illuminazione dell’Olimpico di staccare la corrente, perché la sua squadra, nel derby, era sotto di un gol. Inutile dire che lui ha sempre negato questo addebito e chi scrive sembra, infatti, strano che Lorenzo non prevedesse le conseguenze, visto che era proprio il club di via Col di Lana ad organizzare la partita. Ovviamente la giustizia sportiva fece il suo lavoro ed il suo dovere e alla Roma fu assegnata la vittoria a tavolino. Sul piano tecnico, comunque, “il Papa” era uno che sapeva il fatto suo. Ricordo una testimonianza di Chinaglia, pochi giorni dopo essere stato prelevato

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dall’Internapoli e tesserato per la Lazio di Lorenzo nel 1969. «Gli devo molto - raccontava Giorgio - perché mi ha aiutato a superare il trauma del passaggio dalla serie C alla serie A. Più facile per lui perché da calciatore ha giocato da centravanti. Ha molto da insegnare proprio a me che ho bisogno di snellire il mio modo di giocare».

LORENZO E LA GALLINA INSEGUITA PER IL CAMPO Ma Lorenzo aveva anche le sue fissazioni. Rasentando, a volte, il ridicolo. Una volta per rendere più veloce Modino Pagni, un onesto difensore biancazzurro, gli mise davanti alle gambe una gallina che con i suoi zig-zag nel campo doveva suggerire i movimenti al giocatore, costretto a non correre dritto per dritto, ma piuttosto a cercare di tenere la posizione dove un improbabile attaccante avversario avrebbe potuto infilarsi. Sempre allo Stadio Flaminio, terreno degli allenamenti, Juan Carlos provava a controllare i riflessi dei suoi calciatori. Si piazzava dietro ad una porta e a ciascuno poneva le domande più strane: «Massa che cosa devi mangiare oggi?». Peppinello passava e non sapeva che cosa rispondere. Oppure. «Nanni, quanti punti abbiamo in classifica?» e il centrocampista venuto dalle giovanili della Juventus, prima di dare la risposta, consultava i poveri cronisti, seduti poco lontano. Ma c’erano ben altri esorcismi: sempre la stessa sede del ritiro, sempre gli stessi orari, sempre la stessa divisa, salvo cambiare se la partita precedente era andata male. Alla colonna sonora pensava lui, perché, tirata fuori una radio dalla borsa, il tecnico vi inseriva una musicassetta con brani argentini e prima all’interno dello spogliatoio, poi nel lungo corridoio del riscaldamento, Lorenzo, in mutande, cantava a squarciagola tra l’ilarità della squadra avversaria. Lorenzo predicava il classico calcio argentino fatto di carezze, bel gioco, ma

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BORGOROSSO FOOTBALL CLUB Alberto Sordi per il suo film sul Borgorosso si ispirò a Herrera come allenatore e per la figura del Presidente, al numero uno della Lazio Ernesto Brivio. Due personaggi tipici riportati sul grande schermo dall’Albertone Nazionale

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anche di strattoni e di calci alle caviglie. Proprio qui in Italia, prima con la Lazio, eravamo nel 1965, e poi con la Roma, incitava i suoi a dare qualche legnata ai polpacci. Si giocava Lazio-Torino, ad un certo punto Lorenzo entrò in campo per spingere i suoi a menare randellate ai granata. Fu squalificato per tre mesi. Ma gli piaceva gestire anche dei campioni. Quando fu chiamato, proprio da Chinaglia per salvare il salvabile di una stagione che s’era messa male, Juan Carlos fu felice di trovare nell’organico alcuni fuoriclasse. Un pomeriggio schierò il gruppo all’interno dello spogliatoio di Tor di Quinto e a ciascun atleta assegnava quella che lui riteneva fosse la giusta collocazione. Lui sfilava davanti alla squadra come un generale passa in rassegna la truppa: «Lei Giordano, giocatore internazionale; Laudrup, giocatore internazionale; Podavini… (e qui una bella e avvilente pausa), lei Filisetti… (altra pausa); Manfredonia, giocatore internazionale». Lascio immaginare la faccia di chi veniva escluso dal calcio che conta.

HERRERA E IL SUO STIPENDIO… MILIONARIO

POPOVICH, MOLNAR E VINICIO, TRE ALLENATORI NELLA STORIA BIANCOCELESTE

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Non meno folkloristico è stato Helenio Herrera. Per il calcio italiano è stato più che un allenatore, per i colleghi una manna, visto che il suo ingaggio all’Inter di Angelo Moratti, fece giurisprudenza, insomma fu talmente alto da far insorgere i tecnici italiani che da allora in poi hanno reclamato ed ottenuto una paga più dignitosa e trattamenti economici che non dovevano essere riservati soltanto a chi veniva da fuori. Da allora gli stipendi dei trainer sono magicamente lievitati ed in alcuni casi, soprattutto negli ultimi anni, hanno raggiunto livelli insopportabili. Però visto che c’è chi paga, e lo fa senza che la controparte gli metta la pistola alla tempia, allora è tutto regolare. Non c’è dubbio, comunque, che le spettanze economiche assegnate al mago hanno fatto da apripista. E i colleghi gli devono grandissima riconoscenza. Quanto sia costato alla Roma Herrera non s’è mai saputo. Ma prima Alvaro Marchini, che aveva rilevato il club da Franco Evangelisti, il presidente che aveva allacciato i primi contatti per portare “il mago” nella Capitale, e poi Gaetano Anzalone, per quanto potessero

guadagnare costruendo case in quel periodo d’oro, sono stati spesso costretti a fare due conti. Il “mago”, insomma, è stata una sontuosa cambiale per tutti i suoi datori di lavoro. Stipendio a parte, Herrera pretendeva il rimborso degli “annessi e connessi”: le spese per spedire la corrispondenza, per muoversi all’interno di Roma, per le tovaglie e le posate che lui e la sua famiglia utilizzavano a tavola nella meravigliosa residenza dell’Aventino. E se c’era da andare in Francia o in Spagna, erano sempre pronti i biglietti per i rispettivi viaggi in aereo. Niente da eccepire sulle sue convinzioni tecnico-tattiche, efficaci nella favolosa Inter degli Anni Sessanta, un po’ meno nella Roma priva di atleti di primissimo livello. Per la verità un “sacrilegio” H.H. l’ha commesso: alla fine di un provino di giovani interessanti al Tre Fontane, il tecnico scartò Bruno Conti: «Troppo esile - disse ai responsabili del settore giovanile - e troppo innamorato del pallone». In giallorosso avrebbe voluto Altafini. Non fu possibile perché costava troppo e il giorno che il Milan superò la Roma proprio con un gol del brasiliano, il “mago”, che aveva l’abitudine di non parlare mai dopo la partita, spudoratamente fece sapere il lunedì che il match l’aveva vinto la Roma: «Perché Altafini doveva essere nostro». Si occupava di tutto: le esigenze e i problemi del settore giovanile e della prima squadra dovevano essere di sua assoluta pertinenza. Decideva dove andare in ritiro, si occupava del menù dei calciatori e della divisa da indossare. E l’essere scaramantico gli faceva sempre prediligere la maglia bianca. Inutile dire che suo figlio Helenito, poco più che adolescente, venne aggregato ai ragazzi della Roma. Ma onestà vuole che si ricordi come Herrera neppure per il figlio ha mai mostrato segni di cedimento paterno. Forse perché il giovane tendeva ad ingrassare. Per la cronaca Helenio portò a Roma anche una figlia, Rocio, bravissima a suonare la chitarra e dalla sua ultima compagna, Flora Gandolfi, una giornalista de La Stampa, ha avuto un altro maschio: Helios che, visti i cattivi risultati della squadra, fu ribattezzato dai tifosi “jellos”, un’autentica cattiveria.

«CHIAMAMI PARIGI» Aveva delle uscite che ti lasciavano basito. Un pomeriggio nello spogliatoio dello Stadio Flaminio, campo di allenamento ALLENATORI | 36


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LUIS ENRIQUE, LO SCORSO ANNO SULLA PANCHINA DELLA ROMA

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Una tombola se rapportata a quanto si guadagnava allora e se si pensa che eravamo nel 1968. Non solo il contratto: la società doveva mettere a disposizione del tecnico e della sua famiglia un appartamento di primissimo livello, regolare le pendenze dell’allenatore con il fisco, fornire assistenza fiscale e, ovviamente, premi ed incentivi in presenza di vittorie. Tanto meglio se si trattava di scudetto e di Coppa Italia. Tutti a dire che uno come Helenio non aveva prezzo e che ogni lira in più che chiedeva sarebbe stata benedetta. Già, ma andatelo a dire a Marchini, che sovvenzionava il partito comunista e l’Unità, suo organo d’informazione. Insomma dopo poche settimane, anche perché la

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I TRE GIOIELLI CEDUTI ALLA JUVE

LE MASSIME DI BOSKOV Rivolto a Gullit: «Come cervo che esce di brughiera». E poi: «Testa di calciatore buona solo per portare cappello». «È rigore quando l’abitro fischia». «Grande calciatore vede autostrade, dove altri solo sentieri».

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squadra stentava, il dirigente s’era già stufato del “mago”, che era stato bravissimo a far calamitare sulla sua persona le attenzioni dei giornali. Ed iniziarono le ripicche, i dispetti. Il più atroce: la cessione alla Juventus di Capello, Landini e Spinosi in cambio di Vieri, Viganò, Del Sol e Zigoni più un gruzzolo di milioni, operazione propiziata da Italo Allodi che, anche lui, era stufo di stare all’Inter e si era impegnato a venire a Roma. Marchini gli anticipò 100 milioni, come caparra, che il manager restituì quando accettò la proposta di Boniperti e quando fu sicuro che l’acquisto dei tre importanti calciatori era andato in porto. Il “mago” si scontrò col presidente, lo aveva invitato a non accettare lo scambio, ma Marchini aveva dato la sua parola e non voleva tradirla, anche perché in quel momento aveva allacciato con la Fiat importanti programmi di lavoro. Immediata la rivolta dei tifosi, dicono, sobillati dallo stesso Herrera. Scritte sulle mura di casa Marchini all’Eur: “Arvaro Marchini sei ‘n fijo de…”, insulti a ripetizione e per un po’ l’azionista di maggioranza della Roma fu costretto a rintanarsi nella villa di Grottaferrata e a Londra. Fu allora che decise di cedere la società a Gaetano Anzalone, ma prima di andarsene Marchini volle vendicarsi del “mago” esonerandolo per lasciare la squadra nelle mani di Luciano Tessari. Ma siccome il calcio è anche ricco di retroscena, Herrera fu “ripescato” dallo stesso Anzalone, ma non riuscì ad ottenere i successi che lo avevano fatto grande all’Inter di Angelo Moratti e di Allodi.

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dei giallorossi, aveva urgenza di parlare con la Francia. Così si rivolse a Peppe Di Pilato, il magazziniere che era stato assunto dalla società romanista dopo uno “scavalco” per un’invasione di campo: “Chiamami Parigi”. Fu talmente perentorio da fare spavento al dipendente, il quale, da buon romano gli rispose con una battuta: «Parigi? E che ce l’ho ‘n saccoccia». O quando sulla lavagna dello spogliatoio faceva scrivere i nomi dei convocati per la gara della domenica e lui di suo pugno aggiungeva: “Venire con cravatta e fiducia”. I primi incontri tra Herrera e la Roma furono imbastiti dall’onorevole Evangelisti, il sottosegretario a vita dei governi Andreotti. Eravamo in clima elettorale, l’onorevole di Alatri correva per uno scranno nella Camera, per cui far avanzare l’ipotesi di portare in giallorosso “il mago” doveva essere il migliore gancio perché la gente votasse per lui. Ma Evangelisti era vicino a lasciare la presidenza della Roma, così toccò ad Alvaro Marchini raccoglierne l’eredità e sobbarcarsi l’oneroso ingaggio: 259 milioni di lire.

GLI SCUDETTI A ROMA PARLANO STRANIERO Resta il fatto, comunque, che per vincere qualcosa di esaltante, Lazio e Roma hanno dovuto affidarsi a tecnici venuti dall’estero. Intanto il primo Scudetto della storia giallorossa, quello della stagione

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ALLENATORI E IL CAMBIO CASACCA Tra gli stranieri ad aver cambiato casacca i casi più noti sono quelli di Sven Goran Eriksson e Zdenek Zeman. Il primo, che colpì l’Italia per il suo bel gioco sulla panchina romanista del dopo Scudetto, che vinse davvero sulla panchina opposta oltre a una bella collezione di coppe. Zeman ha vinto e convinto con entrambe le società cercando il colpo gobbo solo sfiorato con la Lazio del secondo posto. Anche Juan Carlos Lorenzo ha allenato entrambe le formazioni. Pure Jesse Carver si è seduto su tutte e due le panchine romane.

1941-1942 porta la firma di un trainer straniero, l’ungherese Alfredo Schaffer, arrivato nella stagione precedente quando, tanto per ricordare un fatto doloroso, per ordini superiori fu demolito il mitico Campo Testaccio. Il secondo nel 1982-1983 ebbe come protagonista dalla panchina Nils Liedholm, mentre a fare compagnia al titolo tricolore conquistato da Tommaso Maestrelli e dalla sua lunatica brigata nel 1973-’74, per la prima volta della Lazio, ha dovuto metterci le mani un altro trainer venuto dai Mari del Nord, Sven Goran Eriksson, uno svedese con idee innovative e con la consapevolezza che soltanto attraverso un approfondito studio di cose e di uomini, sarebbe stato possibile arrivare a vincere a Roma, dove ogni successo è più sofferto che non altrove. Per la verità Eriksson ci aveva provato anche qualche anno prima sulla panchina giallorossa e, probabilmente, senza quello strano e contraddittorio match giocato all’Olimpico contro il Lecce già retrocesso, “Svengo” avrebbe potuto cucirsi sul petto uno scudetto anche da allenatore giallorosso.

IL PRESIDENTE VIOLA SI INNAMORÒ DI ERIKSSON Viola si innamorò di Eriksson dopo aver visto come giocava il suo Benfica, che aveva vinto all’Olimpico in una gara di Coppa Uefa nell’anno dello Scudetto e imposto il pari nel match di ritorno a Lisbona e che aveva espresso un calcio spumeggiante, fatto di continue fiammate e di manovre che lasciavano all’avversario soltanto tentativi di pressing, visto che quello della formazione portoghese non concedeva spazi. Probabilmente se Liedholm non avesse vinto il secondo scudetto, Dino Viola avrebbe già da allora cambiato tecnico. Nils, invece, aveva condotto magicamente la formazione verso il trionfo e, nonostante qualche dissapore di natura economica con la sua dirigenza, meritava la conferma, tanto più che la squadra aveva necessità di un allenatore con provata esperienza internazionale al suo primo appuntamento con la Coppa dei Campioni. Dunque Eriksson fu tenuto a “bagnomaria” per un anno e puntualmente chiamato dopo l’amara finale contro il Liverpool, anche perché il Milan aveva da tempo proposto a Nils il ritorno in rossonero. C’era grandissima attesa. Tanta curiosità soprattutto perché del giovanissimo Sven si sapeva poco. Certo, aveva vinto una Coppa Uefa col Goteborg, aveva fatto rinascere il Benfica e ridato credibilità al calcio lusitano con una “zona” piacevole e con una manovra a volte spettacolare. Eriksson parlava bene l’inglese, e il portoghese, ma non sapeva una parola di italiano. In più le Carte Federali gli vietavano di andare in panchina, a meno che non fosse accompagnato da un tecnico italiano con il patentino di prima categoria. Viola prima pensò a Catuzzi che allenava il Bari, poi ripiegò su Roberto Clagluna, allenatore preparatissimo, grande maestro del calcio giovanile della Lazio e, a sua volta, chiamato a sostituire in biancazzurro qualche collega esonerato. E allora succedeva spesso. Clagluna, ovviamente, faceva l’allenatore a tutto tondo, parlava prima della partita

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e partecipava alle conferenze stampa dopo. Sven non la prese bene. Il presidente, allora, aggirò le Carte Federali cooptando lo svedese all’interno del consiglio di amministrazione, con un ruolo tecnico e l’impasse fu così superata. Eriksson potè andare in panchina, in pratica, come accompagnatore della squadra e, almeno durante la settimana, poteva esprimere i suoi concetti ai media, grazie alla fedele traduzione di Vincenzo Morabito, ora agente Fifa, che viveva in Svezia, parlava quella lingua, si occupava di calcio e, quindi, meglio di altri poteva togliere dagli impicci lo spaesato allenatore, che venne immediatamente colmato di attenzioni e sistemato in una villa sull’Aurelia, poco fuori Roma, al fianco dell’abitazione di Riccardo Viola. Timidissimo, Eriksson arrossiva ad ogni domanda. Se poi ad intervistarlo era una donna, allora il suo viso diventava paonazzo. Inizialmente se ne stava in difesa, rispondeva alle domande che riteneva pertinenti, schivava quelle scomode e pregava Morabito di fare una traduzione il più possibile soft. Glissava, ad esempio, sul perché non aveva mosso un dito quando Liedholm decise di portarsi a Milano Agostino Di Bartolomei, che era stato per anni il capitano e la bandiera della Roma, oltre che uno dei trascinatori del secondo scudetto, né si fece pregare per scaricare Falcao che aveva sì problemi fisici, che sembravano insuperabili, ma che aveva fatto inquietare la società perché costava tanto e non giocava mai.

LABORATORIO SVEDESE Nel ritiro di Caldaro Sven si presentò con una valigetta 24 ore. Nessuno ha mai saputo che cosa contenesse. All’interno, probabilmente, c’erano le carte dell’allenatore, i suoi appunti calcistici, i grafici dei suoi schemi, le schede dei calciatori che la Roma gli aveva messo a disposizione. I giocatori, incuriositi, più volte hanno tentato di scardinare la serratura per entrare in quei segreti. Niente da fare. Pruzzo giocò d’astuzia, convocò Franco Vagni,


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uno dei magazzinieri, e gli propose un affare: «Ti do centomila lire - gli disse - se apri quella borsa e mi dici quello che c’è dentro». Sembrava inverosimile che un genovese si facesse promotore di una proposta così… indecente. Vagni, ovviamente rifiutò l’offerta, e il segreto della 24 ore è stato per anni uno dei tanti misteri del calcio. Via Di Bartolomei serviva un capitano. La squadra a Caldaro espresse il suo gradimento per Bruno Conti che accettò con grande interesse, salvo dimettersi alla prima occasione. Finito il ritiro la Roma fu portata a Barcellona per una amichevole. “El partido” fu tutt’altro che “amistoso”. In campo volarono calci a non finire, spinte, parolacce e tra i tanti Conti, fumantino come pochi, ebbe la parte principale. Da capitano fu costretto a trattenersi. Alla fine della partita andò dall’allenatore per riconsegnargli la fascia. «Mister - gli disse - a prendere botte io non ci sto. Mi piace darle, soprattutto se provocato. Da capitano farei più squalifiche che presenze. Meglio che il leader sia un altro». Chissà se Eriksson ne fu felice, o la prese male. Di suo lo svedese non amava troppo i “grandi” campioni, i calciatori con buona personalità. Temeva sempre che turbassero il clima dello spogliatoio. Mettetela come vi pare: Bruno Conti con lui non ha mai avuto un ottimo rapporto. Magari Sven avrebbe potuto fare a meno di dire un giorno che tra Conti e Impallomeni non c’erano differenze, probabilmente anche Cerezo, scaricato nella seconda stagione, era uguale a Bergreen. O magari avere dei contatti diretti con gli atleti che non amava e non inviare loro comunicazioni attraverso gli allenatori in seconda o, addirittura, sapere se si era convocati o no, dal comunicato esposto nella bacheca dello spogliatoio. Con Conti ci fu una sorta di braccio di ferro. Culminato con un gesto forte del giocatore. All’interno del campo di allenamento di Trigoria furono ammessi alcuni fotografi svedesi, al contrario di quelli di Roma, come

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sempre relegati all’altezza della piscina. Così durante un palleggio, Conti, animato da un senso di giustizia calciò volutamente e con forza verso quei professionisti svedesi, centrando una delle borse con gli attrezzi da lavoro che finirono disseminati in alcune parti del campo. Gli anni di Roma, il peregrinare tra Firenze e Genova, negli anni, hanno addolcito l’animo di Sven, rendendolo più umano e, soprattutto, più italiano. Se non avesse registrato il suo carattere e soprattutto se non avesse capito che, nel calcio, ogni tanto bisogna allentare la morsa, la favolosa Lazio di Mancini e Mihajlovic, di Marchegiani e Jugovic, grazie ad una gestione societaria un po’ allegra e molto efficace, non si sarebbe cucito sul petto il secondo triangolino, ed Eriksson non avrebbe portato a casa lo scudetto. Sapete che diceva la gente dell’allenatore, italianizzato a tutti gli effetti? Che ormai era diventato un “napoletano”.

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DAL CAMPO ALLA PANCHINA Dopo aver deliziato i tifosi giallorossi con le sue giocate e i suoi splendidi gol, Rudy Voeller venne chiamato dal Presidente Sensi per sostituire il dimissionario Prandelli nel 2004-2005. Ma la sua esperienza da allenatore della Roma durò appena cinque giornate.

LIEDHOLM: «ANDRADE NON HA NULLA DA INVIDIARE A MARADONA» Chi da “napoletano” è passato più volte per Roma è stato proprio Liedholm.

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IL TEDESCO HA GUIDATO LA ROMA SOLO CINQUE GIORNATE

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ROMA E LAZIO E IL FASCINO INGLESE

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Un ghiacciolo all’apparenza, una miniera di aneddoti, di paradossi e di “bugie”, a fin di bene nella realtà di tutti i giorni, capace di darti un titolo anche quando scarseggiavano le notizie. Un esempio: «Andrade (il brasiliano acquistato insieme con Renato Portaluppi, tecnicamente dotato, ma lento come una tartaruga) non ha niente da invidiare a Maradona». Questo rivelò una volta a Trigoria, salvo poi spiegare che la visione del gioco e la facilità di trovare il compagno smarcato poteva benissimo assimilare i due. Liedholm fu portato nella Capitale una prima volta nel 1973 da Anzalone, per sostituire Scopigno. Era reduce da una malattia infettiva, credo che si trattasse di epatite, per cui sulla squadra che non era carica di campioni, ma che aveva qualche giocatore di classe, lo stato di disagio del tecnico finì col farsi sentire oltre misura. Negli anni successivi, grazie anche all’inserimento di alcuni ragazzi del settore giovanile: Conti, Peccenini, Rocca, Di Bartolomei, Sandreani, Casaroli, le cose andarono meglio anche se la Roma non riuscì a fare meglio di un terzo posto conseguito nel ‘74-75.

DALLA SVEZIA, IL DOPPIO LIBERO Il calcio gli deve l’invenzione del doppio libero: Santarini-Turone e l’arretramento da centromediano metodista di Di Bartolomei, l’effetto sorpresa per tutti gli avversari, visto come Agostino sapeva “lanciare” il pallone e come sapeva colpirlo e con che forza, anche da

quaranta metri. Insomma la “sona” che doveva, poi, essere copiata da altri tecnici, ebbe Liedholm come primo fautore. Il suo era un calcio musicale, si credeva di assistere ad un raffinato ricamo in cui venivano utilizzate tutte le risorse di una cultura tecnica e tattica estremamente matura. Musica che diventò melodia quando, pezzo dopo pezzo, Dino Viola gli costruì un gruppo che sembrava fatto per suonare l’identico spartito diretto in campo da un direttore d’orchestra, Falcao, che aveva portato dal Brasile la cultura della vittoria. Liedholm era uno dei pochi a conoscerlo, aveva visto dei filmati di gare del Porto Alegre, aveva capito che con Falcao poteva essere ricostruita una formazione che somigliasse tanto al Milan del Gre-No-Li che aveva vinto tutto quello che c’era da vincere. Per questo rifiutò di prendere Zico, reclamato invece dai tifosi. Sono stati quelli gli anni del dominio di Roma, bravissima a tenere a bada i grandi poteri, salvo soccombere quando la squadra, il suo presidente, la sua gente erano diventati clienti scomodi per il Palazzo e per un certo tipo di avversari. Ma ci si divertiva eccome, girando il mondo con la formazione giallorossa ed ascoltando i paradossi del suo allenatore nei lunghi ritiri di Busto Arsizio e nelle pause di lavoro al campo di Trigoria. Nils ne ha raccontati talmente tanti da lasciare, allora, tutti meravigliati e divertiti. Ed ora ancora affettuosamente legati ad un ricordo di quando il calcio poteva essere sdrammatizzato an-

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che con una frase, con una battuta, con un episodio, falso o vero che fosse, ma a cui abbiamo tutto creduto senza riserve. Alcuni esempi? Liedholm racconta alcuni fatti da giocatore: «Giocavamo Real Madrid-Milan in Spagna, a me toccò la marcatura di Alfredo Di Stefano. Non l’ho mollato un attimo». E chi gli fa notare che quel giorno la “saeta rubia” aveva realizzato tre gol, Nils candidamente replicava: «Si ma ha fatto solo quello».

LE IPERBOLE DI LIEDHOLM O quando raccontava che, sempre con la maglia rossonera, non aveva mai sbagliato un assist ad un compagno: «La volta che successe - ricordava dal pubblico di San Siro ebbe un applauso di cinque minuti». Per finire due chicche che spiegano come Liedholm sapeva trovare una frase per i problemi di ciascuno. Nela non aveva piacere di giocare a sinistra, da dove, sosteneva, non riusciva ad avere un e del gioco: «Allora - gli suggerì il tecnico - domenica vai in tribuna così hai davanti a te tutto il campo». E a Graziani che si era messo a rapporto per capire perché era stato relegato in panchina: «Mister - domandò l’attaccante - mi dica lei come posso impegnarmi meglio, come debbo applicarmi per essere preso in considerazione. Mi suggerisca». E Liedholm di rimando: «Ma come posso dare dei suggerimenti a te che sei campione del mondo». Vivevamo un altro calcio. Ci si divertiva, perché stavamo meglio.


11 NOVEMBRE 2012

Foto Roberto Tedeschi

UN DERBY NEL RICORDO DI GABRIELE

UN GIORNO SPECIALE

ore 09:30 La lunga giornata inizia al Parco Gabriele Sandri con la posa di cinque alberi e una partita tra bambini della Lazio e della Roma. All'evento il Sindaco di Roma Gianni Alemanno con l'Assessore all'Ambiente Marco Visconti, il Delegato alle Politiche Sportive Alessandro Cochi, il Presidente della Commissione Bilancio Federico Guidi, il Capogruppo Pdl Luca Gramazio, la consigliera regionale Isabella Rauti e il Commissario Straordinario di Roma Natura Livio Proietti.

ore 12:30_Il piccolo Gabriele, figlio di Cristiano, è allo stadio. Conosce l’aquila e si emoziona, dopo un pizzico di paura...

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erby alla Lazio che vince 3-2. Ma la stracittadina è soprattutto nel ricordo di Gabriele. Calendario e destino hanno voluto che la partita cadesse proprio l’11 novembre, ricorrenza della morte. Ed il ricordo è stato a tinte forti: sin dalla mattina quando il Sindaco Alemanno ha presenziato ad un derby tra bambini nel Parco dedicato a Gabbo alla Balduina. Nella stessa occasione sono stati piantati cinque alberi, tanti quanti gli anni passati da quel giorno maledetto. Poi l’Olimpico, con Cristiano e il figlio di tre anni per la prima volta in uno stadio. Il nome del bambino, inevitabilmente, è Gabriele... Cristiano è sceso in campo, prima sotto la Curva Sud che ha tributato un lungo, sincero applauso. Poi sotto la Nord con la coreografia e il volto di Gabbo. Anche le squadre sono scese in campo, Roma e Lazio unite, con la maglia numero 81, data di nascita di Sandri, e la scritta Gabriele. Poi la partita, la rivalità, Petkovic contro Zeman. Ma sempre con Gabriele nel cuore.

ore 13:00_La famiglia Sandri sotto il tunnel della Sud. Riconosciuti, gli applausi vengono dal cuore

ore 14:18_ Cristiano indica al figlio la sua Curva Nord

ore 14:42_Cristiano, manca poco all’inizio della partita, saluta la Sud

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ore 13:20_La prima maglia in regalo: è quella con cui scenderà in campo

ore 14:54_Cristiano e il piccolo Gabriele sotto la Curva Nord


Anche nell’ultima Olimpiade, la scherma e tutti gli sport di origine militare si sono dimostrati vincenti portando in dote ancora medaglie ai colori azzurri. Ma quale è la storia di questa arte così nobile? Perché l’Italia è da sempre ai vertici mondiali? Quanto ha vinto la nostra nazione grazie agli spadaccini vestiti di bianco?


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DELLE 550 MEDAGLIE VINTE DALL'ITALIA NELLA STORIA OLIMPICA, 121 VENGONO DALLA SCHERMA

COSÌ LITALIA NEL RANKING MONDIALE A SQUADRE PRIMI: FIORETTO M. PRIMI: FIORETTO F. QUINTI: SPADA M. QUARTI: SPADA F. SETTIMI: SCIABOLA M. QUARTI: SCIABOLA F.

L’ITALIA (121 MEDAGLIE), NEL CONFRONTO TRA TUTTE LE NAZIONI DEL MONDO, SI BATTE CON LA FRANCIA (115 MEDAGLIE) E L’UNGHERIA (83 MEDAGLIE) SCHERMA | 43


di Stefano PANTANO foto Getty Images Tre volte Campione del Mondo a squadre di spada (1989, 1990, 1993). È attualmente direttore tecnico delle Fiamme Oro Polizia di Stato sezione scherma. È stato commentatore tecnico della Rai, al fianco della prima voce Federico Calcagno, ai Giochi Olimpici di Atlanta, Sydney, Atene, Pechino e Londra.

orno da Londra dove, grazie alla Rai, ho commentato la mia quinta Olimpiade da tecnico, che aggiunte alle due vissute da atleta diventa una vita. Una vita passata sulle pedane prima e a cercare di raccontare emozioni poi. Sicuramente sono fortunato, perchè la prima volta che ho impugnato un fioretto, a nove anni, non sapevo di entrare in un mondo così affascinante, ma soprattutto non ero a conoscenza che la scherma fosse lo sport più medagliato d’Italia. A Londra abbiamo toccato quota 121 medaglie olimpiche che unite alle 306 mondiali diventano un bottino imbarazzante (sorvolerei su Europei, Universiadi, Giochi del Mediterraneo, Mondiali Giovani, etc.).

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Le origini della scherma “Scherma” deriva da “schermire” l’atto del ripararsi, del difendersi e di conseguenza di offendere. Si perde nella notte dei tempi, nasce con l’uomo, troviamo infatti tracce di utilizzo non bellico nell’antico Egitto ma anche negli Ittiti, Assiri e Babilonesi i quali si allenavano al combattimento e poi naturalmente i greci e gli antichi romani. Un’arte che attraversa quindi i secoli, in continua evoluzione, partendo dalle prime armi da taglio, passando al gladio romano, agli spadoni medievali fino ad arrivare alle moderne armi da competizione. Duelli limitati alla scherma militare ma anche strumenti usati per lavare un’onta, come salvaguardia dell’onore. Nel XIII secolo già si parlava di scherma italiana ma è nel 1400 che nascono le prime scuole ed è infatti il Flos Duellatorum di Fiore dei

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Liberi il trattato ritenuto fondamentale per la nobile arte.

Nel 1933 nasce la Fis Seguì per importanza l’opera di Achille Marozzo del 1536, molto tecnica, anche se va ricordato che fino a metà del ‘500 si impugnavano due armi, spada a destra e daga a sinistra, ma già il trattato di Camillo Agrippa (1553) con la scoperta dell’affondo, permise un’ulteriore evoluzione. Tra il ‘600 e il ‘700 troviamo traccia dei primi fioretti, armi da allenamento con in punta un bottone a forma di fiore per evitare incidenti. L’ottocento è il secolo della moderna scuola italiana, nasce la Scuola Magistrale Militare di Roma (1884) diretta da Masaniello Parise, autore di un trattato ancora attuale, al quale seguì quello del Maestro Giuseppe Mangiarotti e quello più recente del Maestro Giancarlo Toran. Il primo campionato italiano si disputò nel 1906, mentre le donne cominciarono nel ‘28, nel 1909 nacque la Federazione Schermistica Italiana, che nel ‘23 divenne Confederazione Italiana di Scherma per diventare definitivamente nel 1933 Federazione Italiana Scherma (FIS).

Le medaglie olimpiche L’Italia è stata fin dalle origini, insieme a Francia e Ungheria, ai vertici, con maestri che hanno insegnato in tutto il mondo. La prima medaglia risale alle Olimpiadi di Parigi del 1900, con Antonio Conte e Italo Santelli 1° e 2° nella sciabola maestri, categoria che non verrà più ripetuta. Nel 1920 ad Anversa nasce il mito di Nedo Nadi con 5 ori.


spq ort Nel 1932 a Los Angeles comincerà con Giancarlo Cornaggia l’era della spada azzurra, con l’Italia sul gradino più alto del podio individuale fino a Roma nel 1960. Nel ‘36 a Berlino nacque invece il mito di Edoardo Mangiarotti, lo schermidore più forte di tutti i tempi, con 13 medaglie olimpiche e 26 mondiali. Le donne iniziarono il loro dominio, che arriverà all’attuale Dream Team, con Irene Camber, oro a Helsinki nel 1952.

La scherma si fa donna Arriviamo quindi a Valentina Vezzali, della quale Edoardo Mangiarotti, da poco scomparso, era tifoso e ammiratore, la donna che ha vinto più medaglie olimpiche. La poliziotta jesina, portabandiera a Londra, ha infatti superato 9 a 8 proprio la concittadina Giovanna Trillini. La

Campionessa Olimpica Elisa Di Francisca, anch’essa jesina delle Fiamme Oro, conferma la grandezza della scuola marchigiana creata dal compianto Maestro Ezio Triccoli, così come non possiamo dimenticare la mestrina del Maestro Livio Di Rosa, l’attuale pisana di Antonio Di Ciolo e poi la scuola livornese, la romana, la vercellese, la napoletana, la milanese, la siciliana, etc. percorrendo la penisola troviamo circoli che sfornano talenti senza soluzione di continuità. Per entrare nel merito della scherma romana i nomi da evidenziare sono senza dubbio Renzo Giuliano Nostini, Giulio Gaudini, Michele Maffei. Il primo, atleta poliedrico e grande dirigente sportivo, è stato il mio Presidente per tutta la mia carriera agonistica. Campione del mondo e quattro volte argento olimpico, uomo colto e carismatico col quale ho avuto un

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rapporto di grande stima e profondo affetto, condividendo anche la passione per la “nostra” Lazio. Con il fratello Giuliano, campione del mondo e argento olimpico a Londra nel ‘48 cominciò a incrociare le lame nel lontano 1920. Giulio Gaudini tra il ‘28 e il ‘ 36 vinse ben 9 medaglie olimpiche (tre ori) e a Berlino fu anche portabandiera. Infine l’amico Michele Maffei campione del mondo e campione olimpico, un vero artista della pedana.

Roma tra spada e fioretto Ma tanti sono stati i campioni romani: Ugo Pignotti, successivamente grande maestro, Vittorio Lucarelli, Roberto Ferrari, Mario Favia, Lucia Traversa, Carola Cicconetti, Marco Arpino, Giovanni Scalzo e il sottoscritto come rappresentante della spada. Così come tante


figli di roma RENZO NOSTINI

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Nostini ottiene i primi successi nel Nuoto, nella S.S. Lazio. Passa poi al Pentathlon moderno. Pratica anche la Pallanuoto (sempre nella Lazio) ed il Rugby (con il Rugby Roma, del quale fu anche presidente dal 1948 al 1954). Ma i migliori risultati li ottiene nella Scherma, iniziando una prestigiosa carriera con l'oro per il Fioretto individuale nel campionato mondiale nel 1937. Le Olimpiadi del 1948 e quelle del 1952 lo vedono fra i protagonisti, e conquista due medaglie d'argento in ciascuna. Nonostante l'età, continua a vincere competizioni internazionali fino anche al 1955, quando ottiene un argento ed un bronzo per la Sciabola al mondiale di Roma. È stato Presidente Onorario del Coni. Anche suo fratello, Giuliano, è stato campione di scherma.

Giulio Gaudini (Roma, 28 settembre 1904 – Roma, 6 gennaio 1948) è stato uno schermidore italiano, che ha partecipato a tre edizioni dei Giochi olimpici, vincendo complessivamente nove medaglie di cui tre d'oro. Atleta eclettico, ha gareggiato in tutte le specialità della disciplina durante la sua carriera. Ha avuto l'onore di sventolare il tricolore italiano durante la cerimonia d'apertura dei Giochi della XI Olimpiade a Berlino nel 1936.

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spq ort sono le società importanti: il club scherma Roma, nato dalla fusione tra la Sala Pessina e la SS Lazio scherma, le Fiamme Oro, l’accademia d’armi Greco in via Del Seminario, Giulio Verna, Sala Simoncelli a Frascati, la SS Lazio scherma ad Ariccia e tante altre che contribuiscono alla crescita di questa antica disciplina.

L’evoluzione della tecnica La scherma si è evoluta ed è cambiata molto nel corso degli anni, per renderla sempre più comprensibile e spettacolare. Le divise un tempo solo bianche per poter evidenziare meglio il colpo con le punte intrise di inchiostro o coloranti, possono essere oggi personalizzate, sulla schiena compaiono nomi e nazionalità, le maschere possono essere trasparenti o addirittura aerografate, i materiali sono ormai di estrema sicurezza. La prima arma a sperimentare la segnalazione elettrica fu la spada nel 1935, il fioretto fu approvato dalla federazione internazionale nel ‘57 mentre la sciabola nel 1988, ma

LONDRA 2012: SETTE NUMERO PERFETTO La Scherma azzurra chiude le Olimpiadi di Londra con sette medaglie: tre medaglie d'Oro tutte nel Fioretto (Elisa Di Francisca e le due squadre), due Argenti (Diego Occhiuzzi e Arianna Errigo) e due Bronzi (Valentina Vezzali e la squadra di Sciabola). Le lame azzurre si confermano, ancora una volta, una delle più preziose casseforti dello sport italiano.

esordì nei mondiali di Denver del 1989, anno in cui le donne cominciarono a tirare di spada, mentre per la sciabola dovettero aspettare il 1999. Il bersaglio nel fioretto resta il tronco ma dal gennaio 2009 la parte inferiore della gorgiera a protezione del collo è stata elettrificata e quindi considerata bersaglio valido. Dopo la sperimentazione del 2005 con i mondiali dell’anno successivo a Torino ha fatto il suo esordio la moviola, che può essere richiesta per due volte durante un assalto a 15 stoccate, una nell’incontro a squadre, anch’esso passato nel corso degli anni a gara a staffetta, anzichè somma degli assalti tra le squadre avversarie. La scherma è diventata sempre più planetaria, sempre più globalizzata e infatti a Londra oltre alle sei medaglie della Corea e al nulla della Francia, abbiamo notato sul podio atleti cinesi, egiziani, venezuelani, norvegesi, giapponesi, etc. Soltanto una conferma: in testa al medagliere e alla classifica per nazioni ancora l’Italia. Signori... in guardia!

MANGIAROTTI IN CAMPIDOGLIO

Una quercia e una targa nei giardini del Campidoglio ricordano le imprese del grande schermidore Edoardo Mangiarotti. Questo riconoscimento gli è stato attribuito nel corso di una cerimonia lo scorso anno alla presenza del Sindaco di Roma Gianni Alemanno e il Delegato alle Politiche Sportive Alessandro Cochi.


di Federico PASQUALI Foto di Gianni Barberi

UNA STELLA PER MARTA N

essuno studente potrà mai dimenticare la vicenda di Marta Russo. E nessun romano, aggiungiamo. Quel disgraziato giorno del 1997, in quella che è la culla del sapere, l’Università La Sapienza, dove fervono le idee e i giovani vanno a formarsi per migliorare il futuro loro, della società e del mondo, purtroppo è indimenticabile. Quello che invece si dimentica facilmente è che Marta è stata una donatrice di organi e grazie a lei diverse persone hanno “riavuto” la vita. E la memoria diventa ancor più corta quando ci si parla dell’associazione che porta il suo nome, che da anni diffonde la cultura della donazione, dunque la cultura della vita. L’associazione “Marta Russo Onlus”, e ovviamente Marta, vengono invece ricordati ogni anno da un gruppo di giornalisti romani de La Gazzetta dello Sport che si trasformano per un giorno in organizzatori, e dai grandi campioni della scherma azzurra. Insieme ai genitori della sfortunata studentessa, Aureliana e Donato, ogni anno, sin dal 2000, si svolge “Una Stella per Marta”, un torneo di scherma che ricorda anche un’altra passione di Marta, quella per la scherma appunto. Un evento sportivo e culturale che ha un obiettivo preciso, quello di promuovere il lavoro che ogni giorno fa l’associazione per diffondere la cultura della donazione degli organi. Il giorno dell’evento, come ormai accade da 13 anni, campioni del-

la scherma, attori, politici, rappresentanti delle istituzioni, appassionati di scherma e non, studenti universitari, cittadini romani, insomma centinaia di persone si riuniscono e uniscono nel nome di Marta. Quest’anno, il 6 ottobre, “Una Stella per Marta” si è svolta nell’Aranciera di San Sisto, luogo tra i più affascinanti della Capitale. Il trofeo è iniziato con la sfida di fioretto maschile tra l'olimpionico Valerio Aspromonte e il campione del mondo cadetti Daniele Garozzo. Il fiorettista romano delle Fiamme Gialle ha avuto la meglio 15-13 sul giovane azzurro. A seguire si sono affrontati gli sciabolatori Luigi Samele, bronzo olimpico a squadre a Londra, e l’azzurro Luigi Miracco. Anche stavolta la sfida si è risolta in favore del più esperto Samele, che ha vinto 15-13. Poi è arrivato il momento clou, quello del dream team. Valentina Vezzali, a causa di un'influenza, ha dato forfait all'ultimo momento, così la sfida per aggiudicarsi la “stella della solidarietà” è stata affrontata dalle tre olimpioniche Elisa Di Francisca, Arianna Errigo e Ilaria Salvatori. Le tre fiorettiste si sono confrontate in un mini torneo a 5 stoccate, vinto dalla romana Salvatori che ha battuto 5-4 sia Di Francisca che Errigo. L'oro olimpico individuale di Londra, invece, ha vinto 5-4 l'assalto contro l'argento olimpico Errigo, in una sorta di remake della finale olimpica.

Da sinistra l’Assessore alle Politiche del Turismo dello Sport e delle Politiche Giovanili della Provincia di Roma, Patrizia Prestipino, il Delegato alle Politiche Sportive di Roma Capitale On. Alessandro Cochi, gli atleti Valerio Aspromonte, Daniele Garozzo, Luigi Samele, Luigi Miracco, Elisa Di Francisco, Arianna Errigo e Ilaria Salvatori


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COS’È LA SCHERMA L

a scherma è un'arte di antichissima origine e sport olimpico che consiste nel combattimento leale tra due contendenti armati di spada, fioretto o sciabola. L'etimologia italiana della stessa parola scherma porta con sé il significato della disciplina, deriva infatti dal longobardo "Skirmjan" che significa proteggere, coprire (stessa etimologia della parola schermare). Questo è probabilmente collegato al concetto dell'uso della spada non come strumento nato per colpire, ma come strumento difensivo. Così la disciplina della scherma ha le proprie basi nel porre la propria arma come difesa/schermo fra sé e l'avversario. Nella sua forma moderna la scherma è apparsa dalle Olimpiadi del 1896, e tecnicamente comprende tre armi: il fioretto, la sciabola e la spada.

FIORETTO L’Arma più elegante, leggero e flessibile. Ha sulla punta un sensore sostenuto da una molla per la registrazione dei punti.

SPADA L’Arma più praticata, è più pesante e più rigida del fioretto. Ha sulla punta il sensore azionatore, come nel fioretto, per segnalare i punti.

Il bersaglio del fioretto, coperto da un giubbetto conduttivo, comprende il busto escluse braccia, gambe e testa e, dal 1° gennaio del 2009, parte della gorgiera della maschera che può essere colpita solo di punta Il bersaglio della spada comprende tutto il corpo. Si può colpire solo di punta: come nel fioretto, sulla sommità dell'arma c'è un bottone, che viene azionato da una pressione di almeno 750 grammi (500 gr per il fioretto)

SCIABOLA L’Arma preferita dai ragazzi. Con la sciabola si possono registrare i punti sia con la punta che con la lama.

Il bersaglio della sciabola comprende il busto, comprese le braccia, e la testa; si può colpire di punta, di taglio e di controtaglio.

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LA SCHERMA A ROMA a storia della scherma a Roma passa attraverso il

Lnome leggendario del Club Scherma Roma, nato

nel 1961, dalla fusione di due prestigiose società romane: la Sala Pessina e la Società Sportiva Lazio. Vanta una serie infinita di successi, e gli atleti che hanno realizzato tali risultati sono nella memoria di tutti: da Stefano Pantano a Diana Bianchedi, da Alfredo Rota a Salvatore Sanzo e tanti altri ancora. Fanno parte del Club: il Campione Olimpico di Sciabola Aldo Montano, la Campionessa Mondiale a Squadre di Spada Francesca Quondamcarlo, il bronzo Olimpico di Spada Stefano Carozzo, l’argento Olimpico di Sciabola Luigi Tarantino, il bronzo Olimpico di Spada Diego Confalonieri.


LA TUA RIVISTA DI SPORT SFOGLIALA ONLINE

t i . t r o p s r q p s . w


SPADE.

NELLA STORIA

t UN VIAGGIO TRA MITO E REALTÀ


Claymore Dao Rientranti anche nella tipologia della scimitarra, arma come il il dao turco-mongolo

In uso ai guerrieri della Scozia tra Medioevo ed Età Moderna

Gladio Katana

I Romani usavano il gladio perché era piccolo e poteva essere maneggiato più facilmente nel combattimento ravvicinato

Spada giapponese per antonomasia. Dei Samurai e dei Ninja

Khopesh È il nome dato dagli an-

Khanda Spada tipica del continente in-

tichi egizi ad un falcettospada. Ne vennero rinvenuti due nel sarcofago di Tutankhamon. Anche diffuso tra i Sumeri.

diano. Creata dalla casta guerriera dei Rajput, venne poi adottata anche dai Sikh, dai Maratti e dai Nair.

Briquet

Sciabola Destinata ai re-

Sciabola della fine del diciottesimo secolo, reggimenti dell’esercito francese, provvista di fodero avvolto in cuoio nero e rinforzi metallici su punta e colletto.

parti di cavalleria, con lama monofilare curva, affilata sul lato convesso

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Spada da lato Delle compagnie di ventura e dal persistere di una generale situazione di violenza ed insicurezza civile: i regni della Spagna e le signorie d’Italia. Fu anche dei crociati. Utilizzata nel XVII secolo in Europa soprattutto nei duelli.

Wakizashi Rientranti anche nella tipologia della scimitarra, arma della quale il dao turco-mongolo

SpadONE a due mani

Spada vichinga

Usata principalmente nel medioevo come strumento di offesa.

Il fornimento in metallo fuso è lavorato finemente con incisioni geometriche e astratte.

Filbusta Sciabola tipica della filibusta dei secoli XVII-XVIII. Utilizzata dai pirati mentre abbordano le navi.

Dalla storia allo sport. Le lame tra vita reale e leggenda, nella mitologia e nella letteratura. Le spade: in questa pagina i modelli più famosi...

Scimitarra Spada ricurva da sempre simbolo del popolo arabo.

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Elsa Lama Fodero Pomolo Manica (impugnatura) Guardia Coccia "Forte" della lama "Scanalatura" della lama "Filo" della lama "Debole" della lama Cresta centrale della lama Punta della lama "Bocca" del fodero Puntale del fodero


Una studentessa dell’Accademia con il proprio maestro schermidore

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LA SCHERMA TORNA A CASA? Alla scoperta della Casa delle Armi, realizzata dall’architetto Moretti. La sua storia, la sua nascita e il suo futuro asce come la casa della scherma, è stata per lungo tempo abbandonata e poi trasformata in un Aula Bunker per i maxi-processi di terrorismo e mafia. Il futuro vede questo splendido edificio destinato a un museo dello sport. Ma se si tornasse all’origine e alla scherma? Quella che, all’Italia, regala più medaglie. Da sempre. La Casa delle Armi è considerata un capolavoro dell’architettura italiana, secondo la Dott.ssa Francesca di Castro che ha lungamente studiato l’edificio: «deve il suo fascino all’armonia delle proporzioni basate su quella proporzione aurea e su quel numero d’ori, che sono argomento di molti studi degli architetti, ma che sono anche riscontrabili nelle proporzioni del loggiato di Villa Madama».

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ARCHITETTURA La Casa delle Armi è costruita tra il 1935 e il 1936 su progetto dell’architetto Luigi Moretti e posta sul Lungotevere meridionale del Foro, innanzi alla Foresteria Sud. È composta di due corpi ortogonali, collegati da due pontili. Il primo, rettangolare e allungato, prevede la biblioteca, il museo delle armi, uffici e servizi, arrotondandosi sul fondo per contenere la saletta della direzione, di forma ellittica. Una scala a chiocciola conduce alla loggia del primo piano. Il pavimento è in marmo bianco, mentre il soffitto è caratterizzato da un rettangolo marmoreo stuccato. Il lato Sud appare chiuso, con piccole finestre a illuminare il seminterrato, mentre il lato nord ha un’ampia vetrata sul Foro. Il secondo corpo, rettangolare e rivestito con lastroni di marmo tagliati contro vena, contiene una grande sala delle armi, con una sezione a due mensole a sbalzo di diversa altezza, collegate da un unico infisso, nonché spogliatoi e servizi.

Sezioni della Casa delle Armi

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L’architetto imposta la struttura con una chiusura totale verso l’esterno, contrapposta ad una completa apertura verso l’ambiente interno del Foro, creando chiaramente un “dentro” e un “fuori”. La Casa è formata da due corpi disposti tra loro ad angolo retto, collegati da due pontili. Il primo corpo, che ha una forma rettangolare allungata, contiene la biblioteca, con uno spazio riservato alla lettura, il museo delle armi, gli uffici ed i servizi. Verso il fondo, sul lato corto del rettangolo e verso l’esterno, in corrispondenza del pontile, si arrotonda, per accogliere una saletta, definita la “saletta della direzione”, di forma ellittica, raggiungibile tramite alcuni gradini. Il lato lungo del rettangolo che volge verso Sud è completamente


LA SCHERMA TORNA A CASA?

chiuso, dotato esclusivamente di piccole finestre per illuminare il seminterrato, mentre quello volto a nord è dotato di una grande vetrata che lascia godere del paesaggio del Foro. A lato della vetrata, in prossimità dello spigolo, si trova un mosaico su fondo oro con motivi atletici, opera di Angelo Canevari. Tramite una scala a chiocciola che si trova nell’atrio, si accede alla loggia del primo piano, che guarda verso il salone; dietro la scala si trova un affresco di Achille Capizzano, oggi non più visibile. Il pavimento è in marmo ed il soffitto è a due colori, con un rettangolo bianco decorato a stucco al cui interno trova posto una cornice di colore rosso pompeiano. Il secondo corpo, anch’esso di forma rettangolare, è rivestito esternamente con lastroni di marmo bianco di Carrara lavorato contro vena. Al suo interno vi è una grande sala delle armi, con la celebre sezione a due mensole a sbalzo di diversa altezza,

le quali sono collegate da un unico infisso, nonché gli spogliatoi ed i servizi. L’Accademia, destinata inizialmente ai corsi di scherma per gli accademisti, per la sua posizione e per il suo splendore architettonico viene utilizzata per esposizioni e manifestazioni culturali.

La grande Sala delle Armi, custodita all’interno del secondo corpo della Casa delle Armi, con la celebre sezione a due mensole a sbalzo di diversa altezza, collegate da un unico infisso


spq ort La Casa delle Armi che l’architetto Luigi Moretti realizzò non ancora trentenne, con la grande vetrata che apre la struttura verso l’interno del Foro, affiancata dal grande mosaico decorativo esterno, su fondo oro, opera di Angelo Canevari

NEL PROSSIMO NUMERO

DISCIPLINE MILITARI IL MOTORE DELLO SPORT

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Scherma e non solo... Le vittorie nell’ultima Olimpiade londinese hanno ancora una volta sottolineato come gli sport di origine militare siano quelli in grado di portare i maggiori successi ai colori azzurri. Nel prossimo numero pubblicheremo un dossier su queste storiche discipline


LO CHIAMANO

JURY CHECHI

MA IL SUO NOME È IN ONORE A UN ASTRONAUTA, GAGARIN Parla il grande ginnasta che fa un riassunto della sua carriera, piena di trionfi ma anche costellata da battute d’arresto per via di gravi infortuni che non hanno minimamente scalfito il suo spirito di combattente. «Se inizi a praticare questa disciplina per guadagnare hai sbagliato strada». Ha una venerazione per Roma: «È la città più bella al mondo. Qui mi sento a casa mia. La vidi per la prima volta a 12 anni: ne rimasi folgorato»

di Elisabetta MAZZEO Foto Getty Images ury Chechi. Italiano doc, ma con un nome russo, in onore al cosmonauta Gagarin. Conosciuto da tutti come “Il signore degli Anelli”, campione olimpico ad Atlanta nel 1996. Il volto pulito di una disciplina dura e faticosa come la ginnastica. 43 anni e ancora un ruolo attivo nel mondo dello sport come testimonial e mentore, esempio da seguire per atleti in erba e professionisti affermati. Mitica l’immagine che lo ritrae nella veste di “Sciamano del fuoco” alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Invernali del 2006. Anche se, ci tiene subito a precisare ad inizio intervista, «non sono un eroe e nemmeno un superuomo. Sono solo l’esempio vivente di una bella storia di un ragazzo che ha creduto e realizzato un suo sogno». E allo-

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ra eccola la sua storia. Affascinante come la sua carriera. Unica come i suoi successi. A quando risale il tuo primo contatto con travi, parallele, acrobazie ed anelli? «Casualmente, a sette anni mia madre mi portò nella palestra dove si allenava mia sorella. Diciamo che il mio carattere estremamente vivace, con tanto di lampadari staccati, divani sfondati e conseguenti crisi nervose della mamma, ha contribuito al mio esordio in sala. Il mio fisico magrolino e la mia statura mi hanno poi aiutato ad emergere in una disciplina in cui l’essere non molto alto e pesare poco costituiscono senz’altro una dote piuttosto che un difetto». Nel 1984 entri a far parte della NaJURY CHECHI | 58

zionale Juniores e per poter continuare a fare ginnastica ad alto livello devi trasferirti da Prato a Varese. Così la passione diventa pian piano una vera e propria professione... «Sì. All’epoca era difficile allenarsi in provincia. Ora per fortuna non è più così e puoi incontrare validi insegnanti anche nelle realtà locali. Ho capito che il mio amore per gli anelli poteva diventare un vero lavoro proprio cambiando aria. Fu a Varese che iniziò per me la carriera agonistica».

Quali sono state le difficoltà che hai dovuto superare lontano da casa? «Stare lontano da casa è stata la cosa più difficile da affrontare. Lasciare la mia realtà, le mie comodità per andare in un posto duro,


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dove ci si allenava molto e la scuola era davvero impegnativa. Ero in un collegio arcivescovile e anche la disciplina era molto ferma e ferrea. Ma la voglia di arrivare e coronare il mio sogno è stata più forte di qualsiasi difficoltà». Una carriera, la tua, costellata da gioie e dolori. Cadute e risalite. Infortuni gravi e vittorie indimenticabili. Riti e scaramanzie. Se chiudi gli occhi e ti guardi indietro quali immagini scorrono nella tua mente? «La prima foto nella mia memoria è quella del primo successo importante che risale ai campionati del mondo juniores del 1986. Certo gareggiare per un’Olimpiade regala un’emozione diversa ma il rapporto con la sfida è sempre quello: un mix di emozione e ten-

sione che ognuno vive in maniera diversa. Io, per esempio, quasi sempre, prima di una competizione, preferisco chiudermi in me stesso, concentrarmi sui movimenti da compiere, trovare serenità, calma e pace interiore. Elementi che ovviamente si costruiscono con il tempo e con l’esperienza. Poi tutto dipende dalla preparazione che ho fatto prima della gara. Se gli allenamenti sono andati bene allora è tutto più semplice. Poi c’è l’entrata nel palazzetto, un momento di grande tensione da vivere con concentrazione totale. Un attimo in cui quasi non senti nemmeno più l’emozione. Il pubblico intorno a te non esiste. Ti senti come un computer programmato per compiere gesti e formule. Un automa. Poi a esercizio ultimato cominJURY CHECHI | 59

ci a sentire voci e rumori, applausi e sospiri. E se hai vinto, quello è il momento più bello. Un sensazione forte, un senso di liberazione, di appagamento totale, di felicità assoluta per aver conquistato il traguardo tanto sognato e aver realizzato il sogno cullato fin dall’infanzia. Ed è appunto quello che mi è accaduto ad Atlanta prima e ad Atene poi. Un bronzo altrettanto importante per me quanto l’oro precedente perché mi ha permesso di chiudere la carriera salendo sul podio. Lasciare da vincitore insomma. Mi sono sentito un uomo felice». Podio, quello di Atene, passato alla storia anche per quel tuo gesto di indicare platealmente il bulgaro Jovtchev come vero vincitore della


gara a dispetto del parere della giuria che incoronò il padrone di casa Tampakos. Segno che un campione è tale non solo per le vittorie accumulate ma anche per il senso di lealtà e rispetto delle regole che trasmette a pubblico ed avversari... «Quella fu davvero una gara “sporca”, viziata da un’evidente ingiustizia davanti alla quale non potevo chiudere gli occhi. Lo sport è una delle poche cose che ci regala, almeno in teoria, uno stile di vita fatto di regole. Se anche quello ci delude, allora sembra che ti crolli il mondo addosso e non ha senso salire su un podio e gioire di una vittoria non regolare». Se le vittorie ti hanno regalato sensazioni di felicità assoluta, non possiamo che ricordare anche il pathos degli infortuni che, nel tuo caso, ti hanno privato della gioia di partecipare a ben due Olimpiadi. Hai avuto mai il desiderio di mollare? «Sai, in quegli istanti si alternano momenti in cui vorresti mollare tutto e momenti in cui ti dici che devi reagire. Sono delle prove da superare durante le

quali devi credere fortemente di potercela fare con tanti sacrifici e tanta determinazione. I miei due gravi infortuni sono pesati di più perché sono arrivati alla vigilia delle Olimpiadi. Quattro anni di preparazione e di allenamento buttati al vento. Per fortuna se chiudo gli occhi le immagini più nitide sono quelle delle vittorie...». L’oro olimpico conquistato ad Atlanta regalò all’Italia il titolo iridato 32 anni dopo la vittoria del ginnasta romano Franco Menichelli nel corpo libero ai Giochi di Tokyo del 1964. Hai avuto modo di conoscerlo? «Ho fortemente voluto incontrare quello che tutti consideriamo un mito della ginnastica, un atleta che ha reso grande una disciplina molto popolare negli anni Sessanta, un campione a cui tutti i giovani che si avvicinano a questo sport dovrebbero ispirarsi. Conoscerlo e avere l’occasione di frequentarlo in occasioni sia pubbliche che private è stato ed è per me un grande onore». Franco Menichelli si allenava nella storica società capitolina “Ginnastica Romana”. Da allora le strutture sportive pubbliche e private si sono negli anni moltiplicate, dando l’opportunità a tanti bambini, di qualsiasi estrazione sociale e cultura, di entrare in pa-

Chechi nella storia Jury Dimitri Chechi è nato a Prato l’11 ottobre del 1969. È legato affettivamente a Rosella, da cui ha avuto Dimitri, nato nel 2003 e Anastacia, nata nel giugno 2005. Dal 1989 al 1995 vince 6 titoli italiani consecutivi, i Giochi del Mediterraneo, le Universiadi, 4 titoli europei e 5 titoli mondiali. Ha colto il massimo alloro trionfando ai Giochi olimpici di Atlanta del 1996. Due brutti infortuni non hanno comunque frenato la sua gloriosa carriera. Nella finale olimpica di specialità degli anelli del 22 agosto 2004, Jury Chechi conquista un'inaspettata medaglia di bronzo. JURY CHECHI | 60


spq ort lestra ed iniziare ad allenarsi, per gioco o semplicemente per mantenersi in forma. In pochi, invece, scelgono la ginnastica come attività agonistica. E sono ancora di meno coloro che riescono a sfondare il tetto della popolarità. Ci spieghi perché? «Trovare nomi altisonanti nel mondo della ginnastica non è facile, perché oltre all’aspetto agonistico per creare il “mito”, il “campione” servono anche altre caratteristiche: il successo, ovvio, ma non solo. Tutti possono iniziare a praticare questa disciplina, che fa bene al corpo e allo spirito, nelle varie strutture che l’Italia, e in particolare Roma, mette a disposizione. I benefici per la salute sono evidenti. Bastano tre ore a settimana. Poi però, per fare il salto di qualità, ovviamente un certo tipo di allenamento non basta più. Per un atleta che vuole andare alle Olimpiadi la preparazione diventa intensa, dura, difficile. Occorre abbinare una dieta alimentare e un corretto stile di vita, oltre a conciliare palestra e scuola. Insomma bisogna sacrificare una buona fetta della propria vita. E non tutti sono disposti a farlo. E infine di ginnastica si vive solo se la pratichi ad alti livelli e se riesci a vincere. Diciamo che se inizi a praticare questa disciplina per guadagnare hai sbagliato strada e hai già perso in partenza». Antonio Rossi. Giovanna Trillini. Sara Simeoni. Pietro Mennea. Valentina Vezzali. Sono solo alcuni dei nomi, oltre al tuo, a poter vantare l’onore di essere stato portabandiera olimpico. Lo scorso anno quando la campionessa di nuoto Federica Pellegrini rifiutò il ruolo di alfiere nazionale per via del timore di arrivare troppo stanca alle gare, tu hai commentato: «Ci pensi bene prima di dire di no». Perché? «Nel 2004 ad Atene fu un’esperienza meravigliosa. Una delle più importanti sia a livello sportivo che personale, un momento paragonabile solo e soltanto alla vittoria dell’oro. L’indomani mattina alle nove avevo la gara di qualificazione. Poco male. È uno dei più

grandi onori che uno sportivo possa ricevere». Cosa ha rappresentato la ginnastica per te? «Nella prima parte della mia vita, ha rappresentato la cosa più importante, la priorità della mia esistenza per la quale ho messo in secondo piano tutto il resto. Oggi, a carriera conclusa, ovviamente le cose sono cambiate. E l’attenzione si è spostata principalmente sulla famiglia». Ai tuoi due bambini, Dimitri e Anastacia, consiglieresti di intraprendere la carriera agonistica? «Sceglieranno da soli la loro strada. So per esperienza che la carriera agonistica è un percorso duro ma meraviglioso allo stesso tempo. Di certo consiglio a loro, come a tutti, di fare sport perché la considero un’opportunità unica per stare bene con se stessi e con gli altri. Una grande scuola di vita». Quali sono oggi le tue passioni, le tue attività preferite? «Mi occupo di relazioni pubbliche e di comunicazione. Sono stato opinionista per Sky a Londra 2012. Ho avuto in passato esperienze televisive con la Rai e con Mediaset, ma solo con l’ultima avventura credo di aver trovato la mia giusta dimensione di narratore. Cerco inoltre di stare sempre vicino al mondo dello sport, come testimonial ma anche come praticante attivo. Dal kart al ciclismo». E a proposito, non a caso, sei uno dei protagonisti della manifestazione itinerante dedicata ai bambini delle scuole “Un campione per amico”, insieme a Ciccio Graziani, Andrea Lucchetta e Adriano Panatta. E quest’anno a Roma sei stato testimonial della tappa capitolina della “Gran fondo di ciclismo”... «Un campione per amico è una manifestazione faticosa e complicata, ma mi lascia sempre molto soddisfatto. Mi permette di stare a contatto con i più piccoli e di insegnare ciò che so fare meglio. Qualche

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JURY CHECHI…

…in versione calciatore

…in radio

bambino mi chiede consiglio su come e dove allenarsi. Altri semplicemente si divertono. Poi da qualche anno vado in bici insieme ad un gruppo di amici per fare delle gare. Sono molto felice perché credo che quella della Capitale possa diventare una tappa tra le più belle d’Italia». Che rapporto hai con la Capitale? «Direi idilliaco. È la città più bella del mondo in cui mi sento sempre a casa. La prima volta che visitai la Capitale era il 1981. Avevo 12 anni e l’impatto fu davvero forte visto che venivo da una realtà molto più piccola. Il mio amore per questa città è così forte che sono stato tra coloro che hanno sostenuto in prima persona, con forza e convinzione, la

candidatura di Roma ai Giochi del 2020. La capitale aveva tutte le carte in regola per farcela. Peccato. Ritornando alle mie passioni romanesche... amo la pasta all’amatriciana e non a caso la prima cosa che faccio ogni volta che vengo a Roma è mangiare un bel piatto di bucatini. Ormai è quasi un rito per me. Adoro tanti angoli della città eterna. Trastevere è una vera e propria perla. Ma dovunque vai basta che alzi gli occhi e rimani affascinato. Quando posso esco la sera con gli amici e si va al ristorante, in un pub o al cinema».

…agli Europei del ‘94

…in palestra

…da bambino

E una bella passeggiata? «Ovvio che sì. Ma solo con occhiali e cappellino».

…con la squadra di calcio delle medie

…con Giovanni Soldini

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Set, famiglia e solidarietà ma c’è posto anche per lo sport

di Anita MADALUNI Archivio privato Cucinotta Getty Images

essina-Brescia-Roma-Los Già: una ventata di aromi che quasi Angeles. Roma, di nuovo, stastordisce, la sua Sicilia. I colori, i suobilmente. Per ora. Un viaggio ni, i sapori: la racconta con l’entusiadi sola andata verso l’indipendenza, la smo di una bambina che assaggia per popolarità, il successo. A diciotto anni la prima volta lo zucchero filato. Che è e una settimana Maria Grazia sale sul una persona genuina, lo si percepisce treno per raggiungere il fratello, al anche da questo… Nord, lasciando città e famiglia. Da piccola il Continente lo vedeva dalUna Sicilia che, con te, speaks enla finestra della sua cameretta; si afglish! «A dire il vero ora anche cinese». facciava e poteva scorgere un lembo di stivale, da quell’isola ricca, solare, caIn che senso? «Sono da poco tornata leidoscopica, alla quale non è rimasta dalla Cina, per la postproduzione.del soltanto legata, ma che si porta dentro, mio ultimo lavoro come attrice e procome un bagaglio gelosamente custoduttrice. E, da buona siciliana, ho tradito nella propria stiva interiore. «La Sicilia è con me. Mi appartiene come io sferito tutto nei “miei” luoghi, dopo ben le appartengo. Ne parlo ogni volta che quattro anni di duro lavoro. Credo inposso, la lafatti che il scio vivere atcinema sia traverso le «Ho poco tempo per il Fitness, uno dei veicoli più effiemozioni che spesso sono costretta caci per trami fa provare e che tra- a disertare la palestra per non s m e t t e r e , comunicare smetto agli rubare tempo a mia figlia» e soprattutaltri. Una terto poter pubblicizzare tutto ciò che è ra che vibra, palpita. È incredibile: ogni attorno e dentro un luogo. Non soltanvolta che vado a trovare mia madre, a to le bellezze del territorio, ma cultuFavignana, la mattina al risveglio, apra, prodotti, atmosfere. Sai… per tanpena apro le imposte, sento il profumo to — troppo!- della mia terra sono stadella frutta. Come si fa a non essere ti promossi gli aspetti più negativi. Per perdutamente innamorati?».

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spq ort carità… forti e quindi, senza dubbio, efficaci, dal punto di vista cinematografico. Però stereotipati. È ora di cambiare i connotati di questa cartolina; di proiettare… un altro spot. Ecco perché la Mia Sicilia parla di panorami meravigliosi, di cieli stellati, di mari blu, di gente che si dà da fare per cambiare…». A sentirla, così convinta e appassionata, si ha come l’impressione che non racconti meramente l’altra faccia di quella terra. Ma semplicemente Un Profilo, Uno dei tanti. Con altre sfumature, altri gusti, altre essenze. Espressi con altre parole. E altri fatti. C’è da dire, a onor del vero, che il desiderio e la preoccupazione di vendere bene e sempre più spesso il “prodotto” italiano, sia un suo amabile vizio da produttrice; una sana abitudine di cui hanno beneficiato molte altre zone del nostro Paese, molti angoli di paradiso, dal Lazio alla Campania e, ultima nell’ordine, Urbino. La tua figura di produttrice nasce per colmare uno squarcio doloroso nella “sala operatoria” di un cinema e di una tv agonizzanti o piuttosto come desiderio di esprimerti come scopritrice di talenti?” «Fondai la mia prima società di produzione subito dopo Il Postino, a 25 anni, perché - al di là di tutto - volevo crescere, maturare, spaziare in un mondo che amo profondamente in tutti i suoi aspetti. Mettermi alla prova. Tra l’altro vivendo negli USA è stata una scelta naturale. E tutto ciò mi è stato consentito in un Paese meritocratico come gli Stati Uniti. È evidente che se Il Postino non avesse vinto l’Oscar non avrei goduto della popolarità che poi mi ha accompagnato nella vita. Sono rimasta negli Usa per circa otto anni. Tornata in Italia, mi son dovuta scontrare con realtà ben diverse. E tornare coi piedi per terra…!». Perché qui in Italia meritocrazia fa rima con…? «Purtroppo con utopia».

E questa ultima esperienza asiatica, invece? «È una coproduzione al 50% distribuita dalla Lucky Red. Un budget di oltre 5 milioni di euro. E un cast incredibile: da Valeria Marini (anche lei produ-attrice, oltre che amica, nel film la sessuologa), Luca Ward, Sergio Assisi, Ninni Bruschetta, Lucia Sardo, Guja Jelo, Dario Veco. E, ovviamente, la star asiatica di turno, un comico che è ora, lì, all’apice della popolarità, Huang Hai Bo. Straordinario! Senza voler anticipare nulla del film, vi dico soltanto che la scena nella quale canta “Santa Lucia” per conquistare me (che interpreto una cuoca mediterranea) è esilarante! » Racconta, descrive, è un fiume in piena: siamo al telefono per la difficoltà incontrata nel riuscire a concretizzare questa chiacchierata in un incontro fisico. Ma la presenza è la stessa. L’atmosfera della casa di Fregene passa attraverso la cornetta: mentre parla, uno squillo di sottofondo lascia immaginare un altro cellulare. «No no, è il citofono. Questa è come una grande, accogliente barca: si va e si viene. La cucina è l’angolo che preferisco; qui la tavola è sempre apparecchiata, anche se siamo solo in due o in quattro. Potrebbero arrivare parenti, amici. E difatti più tardi la comitiva si allarga…». «Cosa stai mangiando? …Sto parlando con una persona…». Mentre si rivolge alla figlia Giulia, 11 anni, il timbro della voce muta registro. Si chiama Giulia. Come tuo marito! Una dichiarazione d’amore? «Sì, an-

che. In realtà, l’ultima ecografia me la mostrò in tutto il tuo profilo: identica a suo padre. La scelta — come dire- arrivò spontanea. Il suo nome più il mio capovolto. Quindi Giulia Grazia Maria.» Il tono da “chioccia” tradisce lo spiccato senso materno. Si sente e si vede (anche se dalla cornetta…lo si immagina nitidamente) . «In effetti son un po’ la mamma di tut-

...e lo sport

Mariagrazia fuori dal set.

Diplomata in analisi contabile, se non avesse sfondato come artista, avrebbe inseguito un’altra grande passione: fare la psicologa. Segni particolari? Ama lo sport, anche se... «Ho poco tempo per il Fitness, spesso sono costretta a disertare la palestra per non rubare tempo a mia figlia. Vado quando posso, anche se non riesco a essere costante. In alternativa amo fare molte lunghe passeggiate». È testimonial della Race For the Cure, corsa su strada romana contro i tumori al seno e della Run for Food, corsa targata Fao. Tifosa? No, ma il marito è un supporters accanito della Lazio. E così anche lei simpatizza per i colori biancocelesti.


ti. Amo i bambini, la famiglia. Sono il mio punto fermo».

anni… «Possiamo dirci, a tutti gli effetti, una coppia maggiorenne».

Fermissimo, come il tuo saldo matrimonio con Giulio (Violati). Da ben 18

E il tuo rapporto con Roma… come lo consideri? «Roma mi ha sedotta e

Cucinotta

ATTRICE E PRODUTTRICE

Maria Grazia Cucinotta dopo la sua esperienza a Miss Italia nel 1987, fa il suo debutto al cinema nel 1990 dove recita nel film “Vacanze di Natale ’90”, mentre nel 1993 la vediamo in “Alto rischio”, “Cominciò tutto per caso” e “Abbronzatissimi 2 - Un anno dopo”. Nel 1994 viene scelta da Massimo Troisi come partner nel suo film “Il postino”, che la lancia non solo in Italia ma in tutto il mondo. Nel 1995 interpreta “I laureati” di Leonardo Pieraccioni, ed il film horror spagnolo “El día de la bestia di Alex de la Iglesia”, Nel 1996 ritorna nelle sale con “Il sindaco” di Ugo Fabrizio Giordani e “Italiani” di Maurizio Ponzi. Recita inoltre nel Film-Tv “Padre papà”. Nel 1997 interpreta la fiction “Il quarto re”, girato in Tunisia con Raoul Bova, mentre nel cinema è protagonista del film “Camere da letto”. È anche protagonista de “L'avvocato Porta” di Franco Giraldi con Gigi Proietti. Nel 1998 è protagonista de “La seconda moglie”, regia di Ugo Chiti e nella commedia “Los Angeles - Cannes solo andata” di Guy Greville-Morris. Nel 1999 è protagonista in un episodio della serie cult “I Soprano” e fa anche una partecipazione nel film “Agente 007 - Il mondo non basta”, regia di Michael Apted. Nel 2000 partecipa al film “Ho solo fatto a pezzi mia moglie”, con Woody Allen e Sharon Stone e l'anno seguente è la volta di “Stregati dalla luna”. È la volta poi di “Vaniglia e cioccolato”, del 2004. Nel 2005 inizia l'attività di produttrice cinematografica con il film corale “All the Invisible Children”, diretto da Emir Kusturica, Spike Lee, Ridley Scott e John Woo. Nel 2006 recita nella miniserie televisiva “Pompei”. Nel 2007 prende parte al film “Sweet Sweet Marja”. Del film “Last Minute Marocco”, uscito nel 2007 la Cucinotta è stata produttrice e attrice non protagonista. Nel 2010 continua il suo rapporto con il cinema americano interpretando un ruolo nel film intitolato “Il rito”. Nel 2011 debutta come regista con il cortometraggio “Il Maestro”. Ancora nel 2011 è la protagonista della pellicola italiana “La moglie del sarto” per la regia di Massimo Scaglione. Sta lavorando per “C’è sempre un perché” di Dario Baldi che uscirà il prossimo 14 febbraio.

conquistata; mi ha accolta, coccolata e adottata. Ci siamo scelte e piaciute subito. È la mia seconda città, a tutti gli effetti. Qui è nato il mio grande amore per Giulio - romano - e mia figlia Giulia. Che — pur essendo stata concepita in America - ho desiderato far nascere qui». Successo, luci della ribalta, meritate o no, guadagnate o usurpate, danno la felicità? «Certo che no. La felicità è rendere felici le persone che ami. Soprattutto i bambini. Loro mi divertono. E a me preme renderli felici. Puoi avere tutto, ma se non sei felice sei un perdente». Felicità è anche sport? Sappiamo che in casa si fa il tifo per la Lazio. Tuo marito ne sa qualcosa… «È un super tifoso, non un semplice tifoso! Ha cercato di corrompere perfino nostra figlia…». E ha ‘corrotto’ anche te? «Tifoso ci devi nascere, o comunque avere una tradizione in famiglia. Non avendola in casa (mio padre non lo era) e avendo sempre viaggiato molto, non ho potuto affezionarmi a una squadra in particolare. Non sono una che va allo stadio, ma non glielo vieto. Ho anche condiviso qualche partita in tv. Quando Giulio esulta sono felice. Felice per la sua felicità». Uno sportivo che ti piace? «Angelo Peruzzi, il portiere. Che è anche molto amico di mio marito. Una persona con un sano stile di vita e di sani principi, che ammiro molto…». Mente sana, corpo sano. Una buona forma fisica aiuta a star meglio con la propria testa. Ma è pur vero che non pensare positivo può influenzare negativamente la salute dell’organismo. Da dove si riparte? «Senz’altro dal dentro, sempre. Dalla mente, vero carburante per il corpo. Essere felici è la base solida del benessere». Sport al femminile: come si fa a mantenere eleganza e charme? «Beh… sono riuscita a seguire un po’ le recenti Olimpiadi e ho notato che esistono discipline in cui i muscoli vengo-

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spq ort no resi piuttosto aggressivi… Però credo che la femminilità sia in particolare una questione di testa. Quindi di atteggiamento. Un corpo perfettamente armonioso — ad esempio - potrebbe muoversi goffamente…». Hai mai dovuto allenarti in una disciplina in particolare per simulare qualche scena cinematografica? «Tempo fa realizzai un video che preparai con dieci ore di allenamento al giorno. Fu la prima volta che vidi crescere i miei muscoli. Cosa mi è rimasto di quella esperienza? Sicuramente alcuni esercizi di ginnastica a corpo libero che ancora eseguo, a casa». C’è differenza fra sport e fitness… «Il fitness è fantastico: scarica le tensioni, ti fa stare bene. Bisogna soltanto trovare il tempo, che è il mio grande nemico». Quindi hai un buon rapporto con il mondo del fitness? «Ottimo, anche se soprattutto un rapporto di buoni propositi. Ho anche partecipato a Mondofitness, la kermesse romana. Il fitness lo amo, ma non riesco a essere costante. Quando stai due mesi in Cina, un mese a Favignana, cercando di fare nel frattempo — oltre che l’attrice e la produttrice - anche la mamma e la moglie… qualche taglio è d’obbligo. E se sono disposta a rinunciare alla palestra è soltanto per non rubare tempo a mia figlia… Quindi, ogni volta che posso, faccio lunghe camminate, anche 5-6 km». E mai nessuno ti ha esortato a deporre il mantello da Wonder Woman? «Quale donna che lavora, oggi, non lo è?». A volte però si rischia di pretendere troppo da se stesse. Qual è il tuo metro per stabilire le giuste distanze? «Le delusioni. Che tentano di fermarmi. Ma io vado avanti, con la speranza di trovare persone disposte ad apprezzare il mio impegno. Purtroppo tocca fare i conti con realtà e accettare che la cattiveria sia all’ordine del giorno e la bontà un’eccezione». Parliamone, allora, della tua: espres-

sa nel sociale, nella solidarietà. Da Race For The Cure al World Food Program, alla Run For Food, dall’Uniceff alla maratona di Roma a sostegno delle campagne Fao. «Mi avvicinai alla Race For The Cure mentre aspettavo Giulia. Ero al quarto mese di gravidanza quando mi contatto il prof. Masetti, del Policlinico Gemelli. Mi parlò di questa corsa a sostegno della lotta contro il tumore al seno. Pur se, agli esordi, era già piuttosto affollata, oggi, a distanza di 11 anni, è un evento di portata incredibile: l’anno scorso una presenza superiore alle 70.000 persone! E oramai non più solo Roma, ma anche Bologna, Bari, Napoli. A dimostrazione del fatto che l’associazione sta lavorando bene». Sei testimonial anche per l’Onu… «Per il World Food Program ho partecipato anche a diverse missioni in giro per il mondo. Queste Istituzioni vanno sostenute con le raccolte di fondi. Ma quando arrivi in posti che sembrano dimenticati da Dio, e i bambini ti vengono incontro sorridendo perché sanno che è arrivato il cibo, ti rendi conto che gli stai portando la Vita. Ma anche le scuole, quindi l’istruzione e perfino l’educazione sessuale. I bambini mangiano a scuola. Una dipendenza importante dalla cultura che, un giorno, sarà la loro Indipendenza, ovvero la possibilità di gestire, in proprio, risorse e lavoro». Dopo la Run For Food per la Fao, ti vedremo anche alla Giornata Mondiale per l’Alimentazione… «…Quando sono a Roma, ci sono. E se manco è perché… sono in giro per il mondo». L’esperienza americana che segni lascia? «Quella di un cinema dove anche la passione è Professionalità. Una sfida continua a essere i migliori, i numeri uno». E il cinema italiano che hai nel cuore, oltre al Postino, ovviamente? «Non c’è posto al mondo dove qualcuno non mi ricordi, di continuo, quel film. INTERVISTA CUCINOTTA | 67

L’esperienza con Massimo fu splendida. Pur nella sofferenza, era sempre sorridente, non lasciando trasparire mai alcun segno di malessere. C’era su quel set una magia particolare, la semplicità della poesia. Non si spiega, altrimenti, come, ancor oggi, riesca a palpitare, a distanza di ben 18 anni. Perfino mia figlia, giorni fa, è rimasta incantata a guardarlo. Lo stavano ritrasmettendo in tv e non lo aveva mai visto…». Roma è la tua città del cuore? Pensi di poter vivere altrove, un giorno? «Non lo so. Vivo giorno per giorno. A Roma c’è la mia famiglia, ed è quindi la Mia Città».


Maria Grazia

Cucinotta in cifre

Tutti i numeri Altezza 1 metro e 77 centimetri Peso 58 kg Misure 96 - 58 - 90 Nata a Messina il 27 luglio 1968 Stato civile Coniugata


spq ort Pensi di averla capita? «La osservo molto. Come Alice nel Paese delle Meraviglie. Giorni fa sono rimasta incantata, per più di un’ora, ad osservare le pareti affrescate di un palazzo… Abbiamo talmente tante meraviglie che non ce ne rendiamo conto, non le apprezziamo. Dovremmo far pagare il biglietto d’ingresso nel nostro Paese».

Radici ancora forti. «Mai dimenticarle. Mi hanno dato la solidità di camminare sulle mie gambe. Porterò sempre dentro me il debito verso la terra che mi ha dato la vita».

re”. E continuerò a farlo, in nome della libertà - sacrosanta - di amare».

Cucinotta. L’americana

Forse non serve sfilare in tanga o simulare amplessi su carri allegorici… «Certo. Occorre però battersi per il diritto ad amare. E sento che di strada, E noi, da madri, sappiamo quanto sia nonostante i progressi, ce n’è ancora difficile. Soprattutto quando non te lo tanta da percorrere. Sapessi quanta lasciano fare… «Eh già. Questo Paese gente, dopo aver visto quel film, mi ha non aiuta a essere madri. Quando, inveconfessato di non essersi più E la Sicilia? «È sempre «Tifoso devi nascere o comunque avere resa conto, a un certo punto, la mia mamma. Mi ha una tradizione familiare, non avendola che la storia era fra due donne. Ecco, era questo il mesdato le radici, mi ha non ho potuto affezionarmi saggio: la vittoria dell’amore fatto nascere da regiad una squadra in particolare» su tutto». na. Perché è un vero Regno: mare, montagna, il cibo miglioChe per te ha il volto di… «Mia figlia. ce, dovrebbe essere l’investimento prire del mondo. E gente che, seppur non Ciò che davvero costruisci insieme almario. La nostra società sarà arretrata ha nulla, ti dona il cuore. La sua casa è finché non capirà che le donne che parl’altro. Un amore unico e totalizzante. la tua casa». toriscono sono risorse, non costi». Il senso a tutto». Rimpianti? «No. Ma soprattutto ora, Interpreteresti o produrresti film dai Donna e Diva vanno d’accordo? «Si quando posso, torno lì. Portare giù il contenuti “scomodi” che riguardino, rispettano. Ma in famiglia niente truccinema significa portare lavoro. anche, i minori? «Mi sono sempre co e tacchi a spillo. Quelli restano sui E regalare il mio stesso sogno a raesposta e per argomenti scomodi. Dal Red Carpet». I riflettori sono tutti per gazzi che — a differenza di me - non la Cucinotta. Ma dentro casa, è Maria taglio del nastro durante il Gay Pride hanno potuto lasciare quei luoghi per Grazia la padrona. alla produzione del film “Viola di macostruirsi un futuro».

Il rapporto tra la Cucinotta e l’America è stretto. Apre la pellicola di “Agente 007 il mondo non basta” proprio lei con un inseguimento mozzafiato in motoscafo: per questo film, era stata scelta per il ruolo principale (Elektra), ma non parlava madre lingua l'inglese. Bond a parte, l’attrice ha interpretato “Il rito”. Nel 2010 le è stato attribuito il “Premio America”. Partecipa al film “Ho solo fatto a pezzi mia moglie”, con Woody Allen e Sharon Stone. Nel 2005 inizia l'attività di produttrice cinematografica con il film “All the Invisible Children”, diretto a più mani da registi come Spike Lee e Ridley Scott.

professione Bond Girl La prima Bond girl italiana fu Daniela Bianchi che in “Dalla Russia con amore”, del 1963, interpretava il ruolo di Tatiana Romanova, l’ammaliante spia russa che doveva sedurre James Bond. Tra loro però nasce un rapporto sentimentale che mette a rischio la vita della Romanova, avvelenata da un agente della spietata Klebb. Nel 1965, in “Thunderball, operazione tuono” entra in scena Luciana Paluzzi che interpreta il ruolo di Fiona Volpe, un’agente della Spectre con il ruolo di eliminare anche fisicamente gli avversari. Cerca anche lei di sedurre Bond e questo le costerà caro visto che morirà per un colpo sparato da un sicario. Sfortuna ha voluto che si trovasse nella traiettoria del proiettile che doveva raggiungere l’agente segreto di Sua Maestà. Olga Bisera è un’altra delle attrici italiane a recitare come Bond girl. Nel 1977 entra in scena nel ruolo di Felicca in “La spia che mi amava”. Non c’è più Sean Connery nei panni di James Bond, al suo posto troviamo Roger Moore. Ecco arrivare il turno di Maria Grazia Cucinotta che interpreta nel 1999 il ruolo di Giulietta Da Vinci, alias Cigar Girl, nel film “Il mondo non basta”. A vestire i panni di James Bond stavolta è l’affascinante attore irlandese Pierce Brosnan. Ultima apparizione italiana fra le Bond girl è quella di Caterina Murino che in “Casino Royale” del 2006 interpreta Solange, la bellissima moglie del criminale Dimitros. Il ruolo di James Bond è affidato all’attore inglese Daniel Craig.


LE

BOND girls

Licenza di uccidere Honey Ryder: Ursula Andress

Dalla Russia con amore Tatiana Romanova: Daniela Bianchi

Missione Goldfinger Jill Masterton: Shirley Eaton

La spia che mi amava Vivienne Michel: Barbara Bach

Vivi e lascia morire Solitaire: Jane Saymoure

Vendetta privata Pam Bouvier: Carey Lowell

ro L'uomo con la pistola d'oand Ekl tt Bri : ght dni Goo Mary

GoldenEye Natalya Simonova: Izabella Scorupco Xenia Onatopp: Famke Janssen INTERVISTA CUCINOTTA | 70

Moonraker Gala Brand: Corinne Clery

Il domani non muore mai Wai Lin: Michelle Yeoh


Al servizio segreto di Sua Maestà Nancy: Catherine Schell

Thunderball: operazione tuono Domino: Claudine Auger

Si vive solo due volte Kissy Suzuki: Akiko Wakaba yashi

Una cascata di diama Tiffany Case: Jill St. Johntin

Bersaglio mobile s May Day: Grace Jone

Solo per i tuoi occhi Judy Havelock: Carol Bouquet

Zona pericolo bo lovy: Marym d’A Mi ra Ka

Octopussy user: Britt Ekland rha Obe Trudi

Skyfall Sévérine: Bérénice Marlohe

Il mondo non basta Elektra King: Sophie Marceau

La morte può attendere Jinx: Halle Berry

Casino Royale Vesper Lynd: Eva Greene INTERVISTA CUCINOTTA | 71

Quantum of Solace Camille Montes: Olga Kurylenko


A LA ROS L E D E L EMANUE a

Rom Nato a: 980 bbraio 1 fe 1 2 : Il g k Peso: 70 : 176 cm a z 8, vinti z e Alt match 2 : d r o c e R ggiati 0, 27, pare 1 persi

A O LECC D R A C C RI a

Rom Nato a: rile 1979 Il: 18 ap g k Peso: 70 6 cm 17 : 4 a z z e Alt 7, vinti 1 match 1 3 : d r o c e R tte 0, sconfi pareggi

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osa, R a l l e De l e alta u e n r a m a E l nel ca e i c s o... e r i L a g n g o e a d l i r l Ricca ami per a iario di v a Mi Il d e . m a e n i a ins americ di Riccardo LECCA

er me è la prima volta nel nuovo continente e devo dire che uno abituato a vedere America e Americani solo nei film, si rende subito conto che la realtà non è poi così lontana dall’immagine cinematografica che ci trasmettono. Un grande miscuglio di culture e etnie diverse, puoi incontrare il grosso nero in sovrappeso che gira mangiando il suo cheesburger, l’ispanico che se ne va in giro stile gangster o la tipica donna stile copertina di Playboy, ma una cosa salta subito all’occhio e accomuna tutti quanti... la lora camminata fiera da americani... immagine di vero patriottismo che ci hanno trasmesso molte volte anche appunto con le loro pellicole! Il primo contatto con la palestra è stato a dir poco entusiasmante, nel mezzo di un quartiere tranquillo di Miami, circondato da villini stile americano, si trova questo piccolo edificio dove sta la Thump boxing gym. Al suo ingresso l’odore acre di sudore la fa da padrone e alla reception ci accoglie un tipo grosso dagli avam-

P

bracci tatuati, chiedo di Steve a nome del mio caro amico Alessio Sakara e subito l’espressione inquisitoria lascia spazio a un grande sorriso e un abbraccio, mi indica un paio di guantini di Alessio attaccati alla parete dimostrazione del fatto che Alessio qui da combattente dell’UFC è una vera star. Ci dirigiamo all’interno della sala dove ci sono alcuni pugili in allenamento, farà 40 gradi ma alcuni di loro stanno facendo la corda con il kway chiuso fino al collo!!! Sul ring due pugili di colore stanno facendo una intensa seduta di sparring sotto l’occhio attento del maestro, di lì a poco capiremo che uno dei due è Breidis Prescott un grandissimo pugile americano vittorioso per ko alla prima ripresa su un certo... Amir Khan.... Ci presentiamo al maestro che dice di chiamarsi Franco e essere cubano. Come consuetudine del popolo sud americano ci accoglie in maniera calorosa e sorridente e ci invita a cambiarci.

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L’allenamento è stato atipico per noi perchè si è svolto prevalentemente sulla cura di aspetti tecnici, cosa che difficilmente abbiamo modo di curare con calma nei nostri consueti luoghi di allenamento, e poi sopratutto il pugilato cubano come si sa è un pugilato bello da vedere, curato non solo nei movimenti di braccia, ma anche e sopratutto nel modo di muovere le gambe sul ring... vedere Franco muoversi in quella maniera con quella naturalezza ci lascia a bocca aperta... qui abbiamo senz’altro molto da imparare. È qui più che mai trova casa la famosa citazione di Mohamed Ali “vola come una farfalla e pungi come un’ape”. Alla fine dell’allenamento ci dà appuntamento a lunedì annunciandoci che martedì avremo una seduta di sparring, per cui meglio riposare bene... Una cosa che ho imparato dei cubani, è che la vita la prendono con molta calma! Appunta-

mento alle 10 e Franco (il nostro coach) si è presentato alle 11 e 30! Però nelle vene dei cubani scorre sangue latino, e quindi tra le loro peculiarità ci sono ospitalità, calore, spontaneità. UN BAR ITALIANO. È TAPPA FISSA Dopo qualche giorno, abbiamo scoperto a due passi dal nostro hotel, un piccolo bar italiano, dove fanno un ottimo espresso, e questo ha completamente cambiato il nostro soggiorno a Miami! Dopo quindi esserci risvegliati in degno modo, ci siamo diretti in palestra, stamane appuntamento alle nove per una seduta di sparring con un colombiano molto bravo con cui si prepara ai match Prescott. Un americano sui 75 kg con il fisico e la tipica faccia da pu-

La palestra americana attende Lecca e Della Rosa

Le spiaggie di Miami

Un... carro attrezzi locale!

Sacchetti di sabbia e supermercati svuotati: la paura per il ciclone Katrina....

Una foto alla villa del vero... Scarface

GGIO A I V I D DIARIattOate dai pugili rcoitmtàa,nlai inpalestra

sc , la Le foto L’arrivo i pagine. ivo evidente da rte e... te s e u q r r po a e ll in ano anti a . e l’urag bia, dav all’improvviso b a s i d i tt ti e ta h o c u sac ti sv tutta da ermerca dai sup nza fotografica ue Una seq ... e ir r p o sc

Della Rosa alle prese con il bancomat

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spq ort

NG pire DI avaSnzaLtoAper STIrraOtoNconEil pug QUE col no colpo sfe

Jab: io frontalmente l’avversar te dal basso e termina colpendo Uppercut: colpo che par l'obiettivo verso l'alto per i colpi ricevuti, subisce Groggy: pugile stordito hi dell’avversario passivamente gli attaccento di un pugile che riesce però a Knock down: atterram rrano dieci secondi rialzarsi prima che trasco o ai due pugili di distaccarsi e di Break: l’ordine dell’arbitr tornare a combattere gile di colore, tratti marcati, ma il loro naso, non si sa perché rimane sempre alla francese! Si respira una leggera tensione nell’aria, almeno da parte sua, saluti a mezza bocca e poche chiacchere, molto distaccato, mentre io e Manuele ci scaldiamo ridendo e chiacchierando come d’abitudine. I primi a cominciare sono proprio lui e Manuele. Riprese dure, intense, l’americano centrato più volte dai potenti colpi di Manuele, e sorpreso dall’aggressività (sportiva) dell’ospite è sembrato in alcuni momenti essere in difficoltà, ma in realtà alla fine ribatteva colpo su colpo, dando prova comunque di essere un mestierante esperto in grado di gestire anche le situazioni più difficili nel ring. Dopo una pausa è toccato a me, e devo dire che sono andato rilassato, e cercando di mettere in opera consigli e prelibatezze tecniche studiate in questi giorni, in particolare i movimenti di gambe e tronco. UNA CONFERENZA STAMPA STILE AMERICANO Abbiamo avuto l’onore e il piacere di essere invitati alla conferenza stampa della serata pugilistica. La prima cosa che si è notata in palestra era l’abbigliamento dei pugili. L’estrazione sociale, poverissima, (Colombia, Cuba, Messico) nonostante con le loro brillanti carriere abbiano avuto modo di guadagnare bene, ha comunque prevalso... Sembrava andassero a un matrimonio di inizio 900!!! Ci siamo recati in un edificio di nuovissima costruzione nel centro di Miami, che solitamente la sera ospita delle serate mondane di movida americana. Molti i giornalisti presenti, e molti anche i pugili. I 4 pugili dei due match clou schierati in prima fila, con rispettivi manager e allenatori, gli altri una fi-

la dietro. Nella presentazione del match clou sono volate, in tipico stile americano, minacce e sfottò di vario tipo tra i pugili, due dei quali sono finiti faccia a faccia in una di quelle scene da film, che però non ho difficoltà a pensare che sia una scena costruita visto che uno dei due a tratti sorrideva! In ogni caso credo che nella storia della grande boxe, non siano stati molti gli italiani a dire di aver potuto partecipare a una conferenza stampa pre-match di questo tipo e non ti nascondo che la cosa è motivo di grande orgoglio per noi! Sono emozioni che tra molti e molti anni resteranno comunque indelebili nella mia mente... Queste atmosfere, questi luoghi, questi personaggi! FRANCO, L’ALLENATORE CUBANO Credo di non poter continuare a scrivere per bene la nostra avventura senza fare un minimo presentato i personaggi che ne fanno parte! Cominciamo da Franco: è il tipico cubano sui 45 anni, sposato. A detta sua e del suo entourage comunque è il migliore in Florida. Con lui troviamo un altro cubano, sicuramente più grande di lui, dall’età indefinita e dall’aspetto meno atletico, il suo compito è quello di fare il portaborracce e tenere il cronometro a chi si allena. È una persona la cui vita ha sicuramente lasciato i segni sul viso, sappiamo che si trova a Miami da 40 anni e traspare una vita sofferta e non fatta di agi, un amore viscerale per questo sport che a Cuba è praticamente sport nazionale. A questi due andiamo a affiancare altri 3 personaggi di rilievo, i pugili del team Leo Mayedo, Richard Gutierrez, Braidais Prescott.

SOPRA: Miami, patria di grandi motociclette A DESTRA: l’entrata della palestra che ha accolto i due pugili romani

SOPRA: una conferenza stampa di preparazione di un match

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Leo il più giovane dei tre: è un ragazzo di 23 anni, dalla faccia furba e dal fisico non massiccio, ma comunque un gran pugile, guardia mancina come da tradizione cubana, spavaldo sul ring e nella vita. Richard, di origini colombiane, una carriera più che mai dignitosa, ha 34 anni e circa 40 match da professionista, una manciata di sconfitte, arrivate comunque affrontando i migliori, alcune anche discutibili, come per esempio quella fuori casa con Cottley, dove ha persino atterrato l’inglese, e il verdetto è stato split decision, significa che uno dei 3 giudici dava la vittoria a Richard... per far capire questo Cottley ha poi affrontato, perdendo ma dando battaglia per tutte le riprese, un certo Manny Pacquiao... Prescott, anche lui cubano, ragazzo di una grande educazione: evidentemente stando nel giro della boxe che conta si è dovuto relazionare spesso con persone importanti e ha imparato, nonostante le sue origini povere, a relazionarsi in maniera impeccabile con tutti. Fisicamente molto alto e strutturato bene per la sua categoria di peso , è stato il primo a interrompere l’imbattibilità di Amir Khan. ASSISTIAMO AL NUOVO MATCH DI PRESCOTT. TRA BANDIERE A STELLE E STRISCE Sabato pomeriggio caldissimo in Miami, l’umidità rende l’aria irrespirabile, a tratti la sensazione è di avere un phon puntato in viso, l’asfalto emana i classici vapori di quando il caldo diventa torrido, la macchina che abbiamo noleggiato è una classica familiare 3 volumi di marca Chevrolet, una marca e un modello molto comuni qui in America. È di discreta cilindrata, mi sembra 2500. Ci dirigiamo verso l’hotel della catena Hilton dove si terrà la serata di boxe. 15 minuti di auto da Miami beach e siamo arrivati, dopo aver parcheggiato la macchina ci dirigiamo verso l’ingresso principale dell’hotel, il salone principale è più simile a un grosso centro commerciale che a un hotel e in classico stile americano, l’aria

condizionata è sparata a 18 gradi fissi, ma per fortuna ormai sapendolo ci siamo premuniti di felpa. In una specie di hangar gigante dell’hotel si svolge la manifestazione. Entriamo e la prima cosa che si nota sono i colori di ring e gli allestimenti, biancorossoblu ovunque, i colori della bandiera, e immancabili appunto sparse in giro diverse bandiere americane a testimoniare il nazionalismo di questa nazione. Ivitati dal maestro di Prescott abbiamo l’onore e il piacere di entrare in uno dei posti più privati della vita di un pugile: il suo spogliatoio. Match clou: il primo show nello show in America è la presentazione dei due pugili, e senza tradire le nostre aspettative lo speakerr annuncia in classico stile americano i due pugili, lasciandosi in almeno 3/4 minuti di presentazione a pugile, esaltandone lo score, la provenienza, il soprannome, e infine il nome. Eccoci al gong iniziale,e Prescott come da sue caratteristiche è molto esplosivo nelle prime fasi e atterra ben due volte nella prima ripresa il suo avversario, che però non ha nessuna intenzione di mollare e si rialza entrambe le volte con la voglia di dare battaglia. E proprio così sarà. il match va avanti per tutte e 8 le riprese, addiritturà alla 5 ripresa mette per terra Prescott, però questo non basta a mettere in dubbio la supremazia del pugile colombiano, che al termine dell’ottavo round si aggiudica un match entusiasmante. ALLA CONQUISTA DELLA... PALESTRA Il primo giorno che ci dovevamo allenare con Franco, ci aveva dato appuntamento a una palestra di Biscayne, nella zona nord di Miami, la Knockout gym. Al nostro arrivo diciamo che stavamo aspettando Franco e ci siamo intrattenuti un po’ a chiaccherare con gli insegnanti, tra i quali un americano di colore, alto, fisico statuario, sugli 80 kg che ci dice di combattere sia di boxe che di kick boxing. Nel frattempo arriva Franco e ci cominciamo a allenare. Du-

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Miami nella notte

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spq ort rante l’allenamento questo tizio si riavvicina a noi chiedendoci se ci andava di fare sparring con lui, io sorpreso dalla domanda gli dico che non c’era problema ma che doveva relazionarsi col nostro allenatore, in quel caso Franco, il quale si è appunto molto indispettito del fatto che lui si fosse permesso di venire direttamente da noi, scavalcando la sua figura di insegnante. Secondo me Franco, che ancora non ci conosceva bene, per paura che ci potessimo far male gli ha detto che non si poteva fare.... Ti ho fatto questa premessa, perché nei giorni a seguire Franco, ha avuto ben motivo di capire di che pasta siamo fatti e non ha perso occasione per richiamare il tipo e organizzarci una seduta di sparring per questa mattina.... All’arrivo in palestra, come al solito, Franco non era ancora arrivato, mentre invece il pugile di colore si stava già scaldando. Ci si avvicina salutandoci e schernendoci un po’ sul fatto che gli italiani quando parlano muovono sempre le mani, ma la prendiamo a ridere e intanto arriva Franco. Franco stavolta si sente più spavaldo dei suoi pugili, e gli chiede quante riprese crede di poter fare, lui gli risponde circa 6... Bene risponde Franco, comincerà Emanuele a farne 3 poi riposi un po’ e ne fai 3 con Riccardo... ci si prepara... Si comincia... Emanuele parte subito pesantissimo con colpi devastanti ai fianchi dell’americano molto più alto, colpi che lo affaticano molto e poi Emanuele colpisce duro sopra... Morale della favola alla fine della seconda ripresa, l’americano è sceso dal ring ed è sparito dalla palestra! Hahahah. Franco ancora lo sta prendendo in giro e francamente anche a noi la cosa ci ha fatto morire dal ridere!!!

I GUANTI CON IL CAMPIONE I nostri pugili e i campioni della palestra di Miami. A destra, Franco, l’allenatore. Nella foto in basso il match in cui Prescott ha battuto il campione Amir Khan.

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L’INTERVISTA ,

UN MAESTRO, UNO CONSIDERATO “TOSTO”. LA SUA CASA E LA STRADA E LA PALESTRA, LA SUA MISSIONE INSEGNARE AI GIOVANI. COME IL MISTER DI ROCKY. LE PAROLE DELL’ALLENATORE CUBANO. TRAPIANTATO A MIAMI... Franco, allenatore cubano in America 22 anni fa «La boxe a Cuba è lo sport nazionale, praticato ovunque. Per motivi politici non esiste il professionismo, ma nel dilettantismo ha tirato fuori alcuni tra i piu’ grandi campioni olimpici della storia». A proposito di campioni, quale è il più grande campione che hai allenato? «Casamajor, grandissimo pugile cubano, emigrato in America e che ha raggiunto il titolo mondiale». Attualmente alleni un altro grandissimo campione, Prescott, che rapporto hai con lui? «Seguo Prescott da quando ha iniziato ad allenarsi in America, diversi anni fa. Passiamo molte ore insieme quando si allena». Pugilato europeo e pugilato americano, quali sono le maggiori differenze? «La boxe europea è una boxe molto più fisica, molto in linea, in America, lavoriamo molto su gambe e tronco e spostamenti continui laterali». Rocky, Toro Scatenato... la cinematografia americana propone spesso pugili di origini italiane, che immagine ha l’America dei pugili italiani? «Jack La Motta è stato senz’altro il pugile italiano più famoso qui negli Stati Uniti, ma tutti sono stati grandi guerrieri sul ring, l’italiano è solitamente qualcuno che mette il cuore in tutto quel che fa, e lo hanno dimostrato spesso anche in questo sport». Ti piacerebbe venire in italia a fare un’esperienza con pugili italiani? «L’italia è un paese bellissimo che ha tirato fuori grandi guerrieri del ring, sicuramente verrò in Italia. Se arriverà una proposta allettante». Boxe e povertà spesso ci fanno vedere grandi pugili venire da condizioni di vita misere e desiderosi di riscatto, è proprio così? «La boxe è uno sport povero, dove in America per i migliori c’è un grosso giro d’affari e spesso i ragazzi si avvicinano a questo sport col desiderio di arrivare a calcare i grandi ring di Las Vegas, e poter cambiare le loro condizioni di vita. Ma è una disciplina durissima, che richiede tanti sacrifici e impegno. Sono davvero in pochi a farcela».


A SPASSO PER MIAMI Il nostro soggiorno americano ci sta piano piano portando verso la data stabilita per il rientro, ma continuiamo ad assaporare ogni giorno, con curiosità, quello che le nostre giornate ci propongono, tra allenamenti e vita quotidiana. L’italiano a Miami beach lo distingui da un chilometro. Atteggiamenti, camminate, modo di vestire e sopratutto tratti somatici, in questi contesti ci rendono inconfondibili. Non avendo orario programmato per gli allenamenti abbiamo anche approfittato per fare due passi con tranquillità, cosa che raramente ci permettiamo. Le strade di Miami sono piene di mezzi a dir poco “eccessivi”, auto lunghe 15 mt e moto super elaborate, gli americani sono i signori degli eccessi, e non fanno eccezione i motori. Miami è in tutto e per tutto come te la immagini vedendola nei film, colori, personaggi, rumori, tutto grazie al grande e piccolo schermo ha un’aria familiare. Le abitudini degli americani in spiaggia poi sono completamente diverse dalle nostre. Intanto non esistono lettini, né stabilimenti, tutti posano il proprio asciugamano sulla sabbia l’uno vicino all’altro, persone di ogni razza, colore, estrazione sociale, e questo mi dà proprio idea dell’abbattimento delle barriere sociali, certo i super ricchi saranno a bordo dei loro yacht, ma in spiaggia trovi gente di tutti i tipi, dallo studente all’imprenditore. Un’altra cosa che noti subito è che non essendoci stabilimenti, quindi nemmeno bar, la maggior parte delle persone viene in spiaggia con il proprio frigo portatile con dentro le proprie bevande e sopratutto usano moltissimo quei bicchieri di plastica rigida col tappo con incorporate cannucce pieghevoli, e sorseggiano beati le loro bevande al sole o con l’acqua fino al bacino. Il momento di maggior affollamento delle spiagge è dopo le 17, quando il sole è meno forte e gruppi di giovani si riuniscono lì chi per fare sport, chi per sorseggiare una bibita insieme, chi semplicemente per rilassarsi.

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ALESSIO SAKARA, UN MITO ANCHE LAGGIU

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KATRINA: ECCO L’URAGANO Altro giorno, altra avventura americana. Stavolta è il turno dell’uragano Katrina. Nei giorni scorsi si era cominciato molto a parlare nelle televisioni locali, di una tempesta tropicale proveniente da Cuba che sarebbe arrivata a Miami nella giornata di oggi. Dopo le notizie ormai ufficiali, in città era scattato l’assalto al supermercato per fare scorte, impossibile trovare una solo bottiglia d’acqua, gli scaffali che solitamente sono trabordanti e colorati, apparivano vuoti e grigi, la gente sembrava impazzita e usciva con 3 carrelli della spesa pieni!!! Hanno cominciato tutti a mettere sacchetti di sabbia stile trincea fuori dai negozi, per contenere gli eventuali allagamenti, a blindare porte e finestre delle case, questo perché qui non sono di certo abituati al clima tempestoso. Alla fine sino ad ora, non è successo niente di grave, un semplice temporale estivo diremmo noi, ma in strada c’è il deserto più totale, non gira un’anima, e speriamo che comunque la situazione non si aggravi e questo “uragano” si diriga presto altrove.

Nella palestra che ha ospitato Lecca e Della Rosa, c’è un quadro con i guanti del “Legionario”, Alessio Sakara, campione romano che in America c’è andato a combattere e a diffondere la sua arte da fight club, la MMA. Ha vinto e laggiù è un vero idolo.


Dire Totti è dire grande calcio, in ogni angolo del globo. Perfino in India! Con fans che arrivano ad essere – nella fattispecie il nipote di Tara Gandhi, Vidur Askar, 20 anni, figlio della primogenita Sukanya, studente modello attualmente a Londra, sin dalla più tenera età ammiratore e seguace della squadra giallorossa. «A volte i piccoli gesti mostrano la grandezza delle persone». Così si è espressa Tara Gandhi quando ha saputo che Francesco Totti, attraverso un amico giornalista, le avrebbe fatto recapitare la maglietta ufficiale della Roma con tanto di dedica autografa. L’altruistico slancio del capitano e la prontezza degna di un grande campione sono state le firme virtuali (oltre all’autografo) sulla numero 10 consegnata al nipote del Mahatma. Con buona pace del fortunato erede.


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INCONTRO CON TARA GANDHI ICONA EREDE DELLA NON VIOLENZA «TUTTO È NELLA NOSTRA MENTE» La nipote del Mahatma in visita in Italia. L’occasione per vivere la storia con l’erede considerato la “Grande anima” del popolo indiano e un simbolo di pace per il mondo intero L’Homo Odiernus… sempre più evoluto? «Forse. Ma anche sempre più solo. Raggiungiamo il Polo Nord in un momento; partecipiamo a una videoconferenza essendo in contatto, contemporaneamente, con i cinque continenti. Ma tutta questa tecnologia avanzata ci ha praticamente isolati, incubando un virus difficilmente debellabile: la mancanza di fiducia nel prossimo». È questo l’incipit del nostro incontro, in uno dei raffinati saloni dell’Hotel La Pace di Montecatini, luogo elegante e ameno (mai nome fu più appropriato!) che le riserva una cordiale e discreta accoglienza, nei pochi giorni previsti

lì, durante il Concorso Miss Italia. Mi sorprende al pianoforte, mentre inganno l’attesa rispolverando (da un vecchio repertorio, ormai chiuso nel baule dei ricordi) l’incipit di uno Scherzo di Chopin. Un saluto di serenità e… il nostro viaggio riprende… Questa mancanza di fiducia ci allontana dalla verità? «Non soltanto, ma anche gli uni dagli altri. Un tempo, durante l’attesa in un aeroporto, si scambiava qualche parola con il vicino. Si aspettava insieme, magari si diventava anche amici. Si creava una sorta di agglomerato familiare Non

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di Anita MADALUNI

eravamo ossessionati e asfissiati da telefonini, computer, Ipad. Null’altro poteva distrarci da semplici e diretti rapporti umani. Oggi, ormai, una gran parte di noi dipende da un cellulare; che ci isola gli uni dagli altri. Una forma di separazione che ci disconnette da quanto abbiamo intorno, e alimenta sospetto, paura». Esistono forme diverse di paura? «In India ci sono persone che nascono e muoiono sulla strada, e hanno paura di non avere cibo per i propri bambini, ma c’è anche chi teme di avere soltanto una casa, invece di due, tre palazzi. Esiste la paura della vecchiaia,


«MIO NONNO, IL MAHATMA, ESORTAVA A NON AVERE PAURA» della morte. La paura della paura. Magari in India sono diverse da quelle italiane; ma, ciascuno nella propria terra, esprime le proprie paure, a suo modo, secondo le proprie modalità». La paura si guarisce con la fede? «Fede è credere in se stessi. Ho fede quando sono sicura del mio cammino, certa di andare avanti senza amarezza,senza senso di vendetta. E anche… sì, senza paura. Fede è auto-sicurezza». Che è, dunque, una forza… «Forza e convinzione... Sono certa che noi essere umani non conosciamo nulla di altre vite, della vita in altre forme: animali, piante, oggetti. C’è tantissima energia vitale che non vediamo, attorno a noi. Cosa conosciamo in quel senso? Ci crediamo superiori, nel progetto della Creazione. Ciò è errore e presunzione». Mi torna in mente il film AVATAR: forme di vita diverse accomunate da un’ unica fonte (un gigantesco albero cosmico, nucleo di energia e spiritualità). E’ (al di là della spettacolarità degli effetti che sono soltanto un contorno) il vero fulcro della pellicola. Lo ha visto? «No, non ancora».

toforma di uomo, donna, santo… In quel preciso istante si è Verità, non maschera. Io sono convinta che quando un bimbo nasce è molto vicino a tanta vita. Ha già esperienza. Contiene in sé tutto il passato. Man mano, crescendo, limita questa connessione e si distanzia sempre di più dall’essenza, dalla verità… Appena nato sa. Ma non può esprimersi. Abbiamo, nella mente, esperienza di tutto.. Crescendo, perdiamo questa connessione e… ci limitiamo, sempre di più. Cresciamo illudendoci di progredire. Ma in realtà lo facciamo rispetto a una vita. Soltanto Questa. Appena nati siamo Coscienza, pur senza Conoscenza. Abbiamo consapevolezza del Tutto, senza poi ricordarlo. E non ci rendiamo conto che rischiamo di offuscare totalmente questa coscienza globale insita nella nostra Natura perfetta». «Ho incontrato, ultimamente, un gruppo di donne africane. Non magre, piuttosto tornite. Bellissime! E

Se avrà modo, lo faccia. Il senso di universalità e di connessione vitale (umana non umana, animale, vegetale), toglie il fiato… «Siamo certi, ad esempio, che proprio un albero non senta un suo simile e non comunichi con esso? E poi… AVATAR è una parola Indiana che significa rivestire un altro ruolo. Ci si può presentare sot-

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ho pensato: perché associamo sempre bellezza a magrezza? È un limite, ottuso e pericoloso. Quelle figure erano meravigliose!». Nel sottolineare l’importanza di momenti di raccoglimento, ricorda la giornata del 2 ottobre, (anniversario della nascita del Mahatma) che, dopo l’ufficializzazione dello stesso ONU, è riuscita a far diventare la Giornata Mondiale della Non Violenza. A mezzogiorno, su tutto il pianeta, almeno due minuti di introspezione. Per creare una catena globale che dia vita ad un flusso di energia cosmica. Riusciremo a creare questa sinergia di pace? «Se lo faremo, sì. Insieme però al potere di mamma, che resta il potere più forte in assoluto Se riuscissimo a infonderne un po’ al prossimo, non ci sarebbe più posto per la violenza. Basterebbe un briciolo di quello…». Cos’è La fede? «Io credo che sono Indiana, lei crede che è italiana, credo che siamo qui. Credo anche che tutto è illusione. Nulla è lì dove lo vediamo o come lo vediamo. Si chiama MAYA: tutto è un film, tutto è illusione. Tutto è creato per me, qui e ora. Per me che sto pensando così».


spq ort Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma (Porbandar, 2 ottobre 1869 – Nuova Delhi, 30 gennaio 1948), è stato un politico e filosofo indiano. Importante guida spirituale per il suo paese, lo si conosce soprattutto col nome di Mahatma (in sanscrito, “grande anima”), appellativo che gli fu conferito per la prima volta dal poeta Rabindranath Tagore. Un altro suo soprannome è Bapu, che in hindi significa “padre”. Gandhi è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, la resistenza all'oppressione tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l'India all'indipendenza. Il satyagraha è fondato sulla satya (verità) e sull'ahimsa (nonviolenza). Con le sue azioni Gandhi ha ispirato molti movimenti di difesa dei diritti civili.

Quindi tutto è nella mente? «Sì, potrebbe essere tutta illusione. E io parlo attraverso le esperienze, le vibrazioni, niente altro. Quelle dei miei 78 anni. Delle persone vedo il cuore e la mente. Non mi interessa il conto in banca, il vestito alla moda, l’auto di lusso. Il foulard di Hermes o di un grande magazzino. Sento la persona». Che ricordo ha di suo nonno da piccola? «Di Gandhi ricordo bene un valore

in particolare: la mancanza totale di paura. Chiunque lo avvicinasse, anche come nemico, se ne andava come un amico. E senza compromessi da parte di Gandhi. Mio nonno aveva un tale rispetto per tutto… persone, oggetti… Quando toccava gli oggetti percepiva la vita al loro interno. L’anima non è solo dentro, anima è intorno a noi». Gandhi dimostrò, al mondo, una For-

Tara Gandhi Bhattacharjee nasce a Nuova Delhi il 24 aprile 1934 da Devadas Gandhi, il figlio minore del Mahatma. Dopo la laurea, ottiene un diploma come progettista di interni.Tara Gandhi si dedica all'insegnamento ai bambini più poveri Hindi e si impegna a promuovere la cultura indiana e il messaggio gandhiano nel mondo. Oggi Tara è Vice-Presidente del Kasturba Gandhi National Memorial Trust, centro fondato nel 1945 dal Mahatma e intitolato a sua moglie Kasturba, per aiutare le donne e i bambini più poveri. Il progetto "Gandhi a Indore", promosso da Tara Gandhi nel mondo, vuole creare strutture di accoglienza e assistenza sanitaria, per dare la possibilità alle donne di ricevere una preparazione professionale e ai bambini di accedere all'istruzione.

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za Assoluta senza mai usare la Forza. Un carismatico unico… Un potere totale divulgato attraverso la non violenza… «La differenza fra un terrorista e mio nonno? Entrambi non hanno paura. Ma mentre il terrorista minaccia di non aver paura, incutendola agli altri e fomentando l’odio, mio nonno non provava paura, trasmettendo però amore». Quando si dice: il senso delle cose…


Continua il viaggio alla scoperta di chi guida lo sport a Roma, nella Provincia e nella Regione

Daniele Rosini, Coordinatore del Coreps (Coordinamento Regionale Enti di Promozione Sportiva del Lazio)

UNA VOCE UNIVOCA PER LO SPORT LAZIALE

LAVORO D’INSIEME NELLA FAMIGLIA DEL CONI, MA CON LA MASSIMA AUTONOMIA

di battaglia” ? «In questo momento aniele Rosini è nato a Roma il 7 agosto 1961. Opera e lavora nel quello di compattare tutti gli Enti di Prodi Paolo VALENTE Centro Sportivo Italiano dal 1983, mozione Sportiva, anche quelli che non dal 2000 ricopre il ruolo di Coordinatore sono aderenti al COREPS, affinchè, con dell’Attività Sportiva del CSI Roma, nel giugno 2010 voce univoca, possiamo condurre le nostre “battaviene eletto Presidente del CSI Lazio. Fa parte della glie” denunciando ciò che non ci piace ma anche elogiare ciò che funziona bene». Consulta Nazionale Ciclistica in rappresentanza del CSI dal 2000. Che cosa serve allo sport laziale per spiccare il salÈ stato nominato rappresentante degli EPS nella to definitivo? «Non sono convinto che siamo al moGiunta CONI Roma nel quadriennio 2004/2008. Da mento del “salto definitivo”. Credo invece che dopoco è stato investito della carica di Coordinatore devremmo ripensare dalle basi tutta l’attività sportiva. gli Enti di Promozione del Lazio, in sostituzione di EnNon è comunque una problematica esclusiva del Lazo Corso, giunto a scadenza di mandato.La sua filozio». sofia di vita è quella di cercare di essere un buon marito ed un buon padre. Di quanta autonomia godono gli Eps che sono alla fin fine la linfa dello sport? «Con l’entrata nella faPrima di tutto complimenti per il suo nuovo incarimiglia CONI gli EPS hanno avuto da una parte finalco: cosa si sente di dire a chi le ha concesso questa mente il riconoscimento che spettava loro, d’altra si fiducia? «Dico loro che sono degli incoscienti. Scherzi a parte li ringrazio per la fiducia e spero di risono dovuti maggiormente uniformare a quanto previsto dal CONI. coprire questo incarico soddisfacendo le loro aspetQuesto non ha comunque pregiudicato le peculiarità tative». di ciascun ente e delle proprie proposte sportivo forL’aspetta un bel po’ di lavoro: quale è il suo “piano mative».

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spq ort Qual è attualmente la situazione impiantistica nel Lazio? «Ripensandola a una quindicina di anni fa direi decisamente migliorata. Sicuramente non è ancora adeguata alle esigenze attuali per quanto riguarda il numero di impianti a disposizione, è sempre più difficile reperire spazi in palestre, piscine o campi di calcio. La loro dislocazione sul territorio non mi sembra lungimirante, abbiamo alcune “cattedrali nel deserto” ed alcuni impianti, della stessa disciplina sportiva, distanti tra di loro poche centinaia di metri in linea d’aria. Relativamente alla sicurezza si è fatto qualcosa ma molto ancora si deve fare. Qualche parola vorrei dedicarla a quelle discipline sportive che non necessitano di impiantistica sportiva, tipo l’orienteering, la corsa campestre o le corse su strada, la mountain bike ed il ciclismo su strada (non vorrei rinverdire il problema velodromo), queste discipline necessitano di una maggiore attenzione da parte delle amministrazioni». Cosa si sente di dire al suo predecessore Enzo Corso? «In più occasioni ho ringraziato Enzo per quanto ha fatto dalla nascita del COREPS e per avuto l’idea di costituirlo. Coordinare tante realtà diverse non è mai semplice ed il rischio di commettere errori è sempre dietro l’angolo. Credo che Enzo abbia fatto un buon lavoro e mi auguro di essere anch’io all’altezza». Quale messaggio vuol lanciare ai giovani che entrano nel mondo dello sport? «Il denominatore comune della proposta sportiva degli EPS è quella di avvicinare i giovani, ma anche i meno giovani, allo sport ed insegnare loro quei valori educativi che troppo spesso vediamo calpestati dallo “sport spettacolo”». Il ruolo della scuola nella crescita sportiva. «Tanto tempo e tante risorse sono investite dagli EPS nel mondo della scuola con risultati alterni. Ancora troppi dirigenti scolastici vedono lo sport come un “elemento di disturbo”, fortunatamente però ci sono tanti insegnanti e dirigenti scolastici che hanno compreso l’importanza dello sport e dei valori che racchiude. È auspicabile una maggiore sinergia tra scuola e sport». Come si combatte il fenomeno doping? «Non certo con gli esempi che sono sotto gli occhi di tutti, ultimo il caso Armstrong nel ciclismo. Non riscontro una volontà concreta di risolvere il problema. Vorrei ricollegarmi al ruolo della scuola, al ruolo della famiglia, ma anche a quei luoghi educativi che sono le società sportive, dove possiamo e dobbiamo educare i giovani ad una vita sana e corretta ma soprattutto ad accettare il risultato di una gara come una vittoria con se stessi ed insegnare che se qualcuno ha corso o nuotato più veloce, ha realizzato più reti, canestri o punti di noi lo applaudirò ed in settimana mi allenerò con maggior impegno per migliorarmi». Come instaurerà il rapporto di collaborazione con le varie Istituzioni compresa Roma Capitale? «Con il Comune di Roma il rapporto di collaborazione è già attivo e positivo quindi speriamo solamente di mantenerlo in questi termini. Per quanto riguarda la Regione stiamo vivendo un momento difficile, cercheremo di essere da subito un punto di riferimento per l’Assessorato Regionale».

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Da uno a dieci come collocherebbe il Lazio sportivo in una classifica di valori rispetto ad altre realtà nazionali? «Non conosco a fondo tutte le altre regioni, ovviamente mi piacerebbe che il Lazio fosse al primo posto in una classifica di valori tecnici, ma sarei orgoglioso, e mi batterò per questo, se il Lazio si collocasse al primo posto nella classifica dei valori educativi dello sport». Che augurio fa a se stesso e a tutto il movimento sportivo? «Per quanto mi riguarda, di proseguire l’attività di dirigente sportivo con la passione che mi ha accompagnato fino ad oggi e soprattutto con maggior serenità, al movimento sportivo di essere più compatto per poter acquisire quell’autorevolezza che merita e che faciliterebbe il raggiungimento di grandi obiettivi».



spq ort di Luca ALEANDRI

Calzettoni ABBASSATI, faccia da...

Intervista a Totò Lopez, giocatore della Lazio negli Anni Settanta. Mediano che non badava tanto per il sottile, ma dai piedi buoni. Giocava sempre con i calzettoni arrotolati e senza parastinchi... Attualmente lavora al Circolo del Bar del Tennis ad un passo dallo stadio che sente nel cuore e che rivede ogni giorno con l'affetto. Con i ricordi di chi è stato protagonista

l viso che ci accoglie ha poco da spartire con il nostro ricordo di bambini. Con le foto da figurina impresse nella memoria e nei vecchi diari. Sono spariti le basette e i baffoni, che uniti alla capigliatura generosa del periodo facevano di questo giocatore un personaggio alla Sergio Leone. Che potrebbe far parte di una scena d’apertura, esterno giorno, seduto fuori da una posada messicana. Gambe allungate sullo steccato, stivali con sperone, sombrero calato sugli occhi. «Che vai cercando, gringo?». Invece, se oggi girasse con la faccia di allora, sarebbe autentica manna per Sollima, autore del ritratto michelangiolesco degli anni Settanta con la serie di Romanzo Criminale, immaginandolo a sgommare su una 128 in fuga. Invece nella vita vera, Lopez Antonio, in arte uno dei mille Totò, di mestiere faceva il calciatore e le gambe le allungava soltanto sugli avversari troppo veloci. Anche perché giocava in una squadra che non tollerava debolezze o rilassamenti. Anche in lui, che pure era un passi-

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sta, un ordinato geometra di centrocampo, per quanto il look fosse vagamente da banda della Comasina. Insomma, tacchetti al posto del mitra. Però stesso ghigno, stessa furbizia, stesso saper stare al mondo come in campo. Eredi di un calcio dove i protagonisti erano uomini, prima ancora che atleti. Facce prese dalla quotidianità, vite appena un attimo sopra le righe. Niente di completamente separato, come succede oggi. Eppure anche allora la vita da mediano esigeva sacrificio, spirito di sopportazione, soprattutto se ti capitava di arrivare a Roma, ventitreenne, e trovare un ambientino come quello biancoceleste del periodo. Risse da spogliatoio, la tifoseria in ebollizione dopo i trionfi, recenti ma già svaniti, i gioiellini del vivaio pronti ad esplodere, a fianco di vecchi campioni tutt’altro che bolliti. Mix esplosivo, condito dalla voglia di riscatto dalle troppe volte ricordata maledizione che colpì quel gruppo, la vendetta degli dei per uno sgarbo troppo grande, l’anatema che si abbatté su una squadra che pure era

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BRUNO GIORDANO, NEI COSMOS COME LONG JHON Bruno Giordano, nella foto con Totò Lopez, potrebbe allenare i Cosmos di New York alla loro rinascita dopo l’epopea di fine Anni ‘70 quando Chinaglia segnava gol a grappoli, sostituito a Roma proprio da un giovanissimo Giordano, Pelé, Beckenbauer e Neskens erano idoli delle folle americane che cominciavano a scoprire il calcio. Un’altra storia da Lazio, quella di Bruno Giordano, dopo 40 anni a ripercorrere il viaggio fatto da Chinaglia. Ed un’altra storia da Lazio, questa solo da Lazio, è quella che vorrebbe le spoglie mortali di Chinaglia nella tomba del suo allenatore, Tommaso Maestrelli.

Lopez, calzettoni abbassati. La gara è contro il Catanzaro

Lopez in visita all’amico Bruno Giordano in ritiro con la Nazionale a Roma Antonio Lopez soprannominato “Totò”, è nato a Bari il 17 gennaio 1952. Centrocampista, ha scritto pagine importanti nel grande libro della storia del calcio biancoceleste. Lopez esordisce col Bari in Serie B nel 1971/72, disputa 26 gare e segna 3 reti. L’anno dopo viene ceduto al Pescara. Con gli abruzzesi gioca 67 partite segnando 7 reti. Viene acquistato dalla Lazio nel 1975. Disputa 5 stagioni in maglia biancoceleste collezionando 78 presenze e 1 rete in campionato. Nel 1980 passa al Palermo: tre stagioni con 101 presenze e 8 reti. Nel 1981/82 riceve il Guerin d’oro per la serie B. Ancora 2 anni a Bari e nel 1985/86 passa al Taranto dove chiude la carriera dopo aver giocato 25 gare. Attualmente ricopre il ruolo di direttore della storica struttura del Circolo Bar del Tennis al Foro Italico. STORIE DI SPORT | 88

stata descritta come l’Olanda nostrana. L’eco dei trionfi si era spenta da un battito di ciglia quando arrivò Lopez, giovanotto di belle speranze ma con un pessimo biglietto da visita. Giunto con la fama di uno sgarbo fatto con la maglia del Pescara l’anno prima. Qualcosa che quel gruppo non sarebbe mai stato disposto a tollerare. Eppure, superato lo scoglio iniziale, gli anni di militanza biancoceleste regalarono al pubblico dell’Olimpico un giocatore dalle trame pulite, estremamente positivo e costante nel rendimento, fosforo dalle geometrie regolari, nonostante fosse dunque l’opposto del genio che solitamente il pubblico adora. Partecipa agli anni bui in cui tutto, in casa Lazio, declina rapidamente, fino allo scandalo del 1980, la retrocessione a tavolino. Quando Lopez calcava quel prato eravamo bambini, adoranti dei bomber vecchi e nuovi, ed era difficile avere occhi per gli altri, in quel momento di passaggio del testimone tra Chinaglia e Giordano. Eppure di Lopez resta un ricordo indelebile. Leggevamo sull’album Panini la descrizione della divisa ufficiale che, immancabilmente, non trascurava mai di citare i calzettoni. “Bian-


spq ort te avanti più per motivi finanziari che tecnici. Ma anche lasciando perdere questo aspetto, si tratta spesso di operazioni tecnicamente insignificanti. Per fare un esempio, oggi nemmeno il torneo di Viareggio è seguito come meriterebbe. Una volta, a questa manifestazione, era presente il Gotha del calcio italiano. Oggi non più. E’ un segno dei tempi».

Lopez con il giocatore Ciccio Cordova passato dalla Roma alla Lazio. I due sono accompagnati a Piazza Navona, per il celebre mercatino natalizio, dalle rispettive consorti. Cordova era sposato con Simona Marchini, volto noto della Tv e figlia dell’ex Presidente della Roma

chi con risvolto celeste”, recitava nella pagina della Lazio. Quelli di Lopez non li abbiamo visti mai. Arrotolati sullo scarpino, immancabilmente. Come il grande Sivori, esponeva le gambe alle rudezze avversarie. Oggi lo rivediamo al vecchio bar del Tennis, glorioso locale oggi privato. Il viso è sempre lo stesso, con il segno degli anni che lasciano qualche riga. La maglia della Lazio ha lasciato il posto alla giacca e alla cravatta. Chissà se i calzini sono ancora abbassati

L’INTERVISTA A TOTÒ LOPEZ È un ricordo esatto quello dei tuoi calzettoni abbassati? «No, ricordi bene, li ho sempre portati così, fin dagli esordi nelle giovanili del Bari. Ma non era un vezzo, semplicemente mi davano fastidio. Effettivamente ero in buona compagnia, così li portavano dei grandi del passato, Sivori, Corso, mi pare qualche volta De Sisti e altri che ora mi sfuggono. Giocatori di classe, comunque.. (ride)».

Parliamo di calcio, Totò. Qual è la differenza con quello dei tuoi tempi? «Mi viene in mente soprattutto la tecnica!! Oggi le squadre sono fisiche, i calciatori sono atleti stupendi ma pochissimi di loro, anche in serie A, danno del tu al pallone. In Nazionale ancora siamo attaccati a Pirlo, che per carità è fortissimo, ma è desolante vedere che non ci siano alternative in giro, soprattutto in certi ruoli. I talenti sono pochi, il livello tecnico è modesto. Questo perché non ci si affida più ai settori giovanili, non ci sono più gli istruttori pazienti di una volta che curavano i fondamentali e ti facevano palleggiare un’ora di fila, il settore giovanile è qualcosa in cui nessuno crede e in cui nessuno investe e dunque se ne va in malora. Così è chiaro che anche la Nazionale ne risente. Mi ricordo che negli Anni Settanta la competizione era elevatissima per una maglia azzurra, in tutti i ruoli, oggi meno anche perché nei club giocano tanti stranieri che hanno rimpiazzato i nostri talenti. Senza contare, tra l’altro, che tante trattative con l’estero sono portaSTORIE DI SPORT | 89

Totò, parliamo di te e partiamo dall’inizio. Sei barese... «Sì, e qui è iniziata la mia carriera. Sono entrato nel Bari che avevo 13 anni, e ho debuttato in prima squadra a 18. Però andai via presto, a Pescara, dove vincemmo il campionato di serie C. E proprio a Pescara ebbi modo di mettermi in luce contro la Lazio, in una partita di coppa Italia. Vincemmo 2 a 1, la Lazio era campione d’Italia da tre mesi, io giocai una grande partita ed evidentemente rimasi impresso a Maestrelli. Tra l’altro feci un fallo di gioco su Luciano (Re Cecconi, ndr), e Chinaglia mi cercò per il campo per tutta la partita. In verità non c’era cattiveria, era un normale fallo di gioco, ma quella squadra era fatta così. Guai se si mettevano in testa che un avversario fosse un provocatore. Alla fine il nostro allenatore, Rosati, mi fece uscire, proprio per evitare guai peggiori. Fu forse anche per questa prestazione che pensarono a me, nel 1975, quando c’era da sostituire Frustalupi, anche se in verità l’allenatore nel frattempo era diventato Corsini e il titolare del mio ruolo era Brignani. Però ben presto Corsini andò via, poco gradito all’ambiente, tornò Maestrelli che sembrava stesse guarendo e io divenni titolare inamovibile». Parlaci un po’ di quella Lazio che è rimasta nel cuore dei tifosi anche a distanza di tantissimi anni... «Era una squadra eccezionale quella del ‘74, per la modernità del suo gioco, i terzini che spingevano se li è inventati Maestrelli. Alcuni giocatori erano davvero di un livello incredibile, e in particolare penso a Frustalupi, oltre ovviamente a Wilson, Re Cecconi, Chinaglia. Ancora oggi per me è un piacere vederli giocare quando capita che in televisione trasmettano partite d’epoca. Però io sono arrivato un po’ dopo, ho fatto in tempo a co-


Lopez in allenamento al campo di Tor di Quinto da poco intitolato allo scomparso Tommaso Maestrelli. Vicino a lui c’è Bruno Giordano e, più lontani, Fantoni, Badiani, Tassotti e Garlaschelli

noscere Maestrelli, un personaggio straordinario, il migliore allenatore che abbia mai avuto. Capace di un rapporto stupendo con i suoi giocatori, che in campo per lui erano capaci davvero di ogni sacrificio. In cambio, il rapporto era molto libero, la squadra godeva di libertà impensabile altrove, e poi Maestrelli era capace di farti allenare divertendoti, virtù rarissima. Inevitabile che fosse difficilissimo sostituirlo quando lui si ammalò, e dopo la sua morte». Hai passato 5 anni alla Lazio. Non pochi per un periodo come quello. Raccontaci della tua Lazio. «Arrivare alla Lazio per me fu una grande opportunità. Quella era una squadra che due anni prima era campione d’Italia, la possibilità di giocare a Roma, davanti al pubblico di quegli anni. Eppure, nonostante la soddisfazione di aver giocato in quella squadra, con quei campioni, quando ci ripenso rimane un pizzico di rammarico perché comunque era un gruppo fortissimo ma “scarico”, ecco

mi viene questo termine. I senatori non avevano più troppa voglia, arrivò la tragedia di Re Cecconi, Martini gli ultimi tempi in campo si fermava a guardare gli aerei se ne passava uno, Garlaschelli era inghiottito dalla Roma by night, e così via. A tutto questo va aggiunto che era difficilissimo sostituire Maestrelli, come ho detto, così si viveva alla giornata, tra grandi partite che pure facevamo perché il livello tecnico era eccellente, e altre deludenti. Come, per dirne una, quella di Lens, anche se i francesi nel secondo tempo sembravano indemoniati, troppo indemoniati, non so se mi spiego… Quella partita segnò la fine di Vinicio, infatti fu mandato via di lì a poco. Aveva attaccato i senatori nello spogliatoio, impensabile in quella squadra». Vai via dopo una stagione tribolata, quella del 79-80, l’anno horribilis della storia biancoceleste. Partiamo dal 28 ottobre, dalla tragedia Paparelli. «Sì, quel giorno ero in tribuna. Ricordo ovviamente l’atmosfera surreale in cui STORIE DI SPORT | 90

entrammo in campo, sapevamo tutto già prima della partita. Fu bravo Wilson a sfruttare il suo immenso carisma, andando sotto la curva per cercare di calmare gli animi. Giocammo per evitare guai peggiori, seppure con la morte nel cuore. Fu un pareggio, e quel giorno non poteva essere altrimenti». Sempre la stessa stagione, un’altra pagina nera: l’Italia scopre il calcio scommesse.. «Anche qui ci sarebbe molto da dire. Io penso che fu sottovalutato, cioè nessuno credeva alle reali dimensioni del gioco, a cosa avrebbe portato. Trinca era un personaggio molto noto ai giocatori. Ricordo che quando arrivai a Roma feci le visite mediche all’Acqua Acetosa con Ferrari, il centravanti che avrebbe dovuto sostituire Chinaglia (per i tifosi questa meteora era “Ricciolone”, ndr), la sera fui indirizzato al ristorante di Trinca a Piazza del Popolo. Cioè, questo per dire che era normale frequentare questo personaggio, che tra l’altro si rese subito disponibile per


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re per la serie A (Causio) e ricordo anche Bearzot, fresco campione del mondo in Spagna». Totò, raccontaci del dopo calcio... «Ho collaborato per 5 anni con un’emittente televisiva a Barletta, poi sono tornato a Roma collaborando con l’avvocato Canovi, e qui ho rincontrato Gambino, che era il mio presidente a Palermo, e mi portò a Terni, visto che lui aveva comprato la società rossoverde, in qualità di direttore sportivo. Quindi ho fatto un po’ l’osservatore della Lazio, quando c’era Lotito. Adesso ho questo incarico presso il circolo del Foro Italico e il calcio è rimasto ai margini della vita. Mi piace seguirlo, ma ormai dall’esterno...».

Lopez mostra il suo “orgoglio laziale”

renderci più “piacevole” la serata... Insomma io non ne ricavai una bella impressione, e infatti non ci tornai più. Però era figura abituale nel nostro ritiro. Sono però convinto che l’organizzazione che avevano messo in piedi fosse molto grande, e ci fosse in mezzo tutto il calcio italiano. Come è storia nota, Trinca e Cruciani un giorno fecero “il botto”, cioé persero un sacco di soldi e ovviamente li dovevano pagare. Per cui pensarono bene di chiederli alle varie società. Chi pagò fu salvo. Per gli altri, amen. Ma a parte le ricostruzioni storiche, provai dolore per quello che vidi passare ad alcuni compagni. Quel giorno a Pescara, il giorno degli arresti, c’era un’aria strana, già dal giorno precedente in albergo. Io ero in tribuna, proprio con Manfredonia. A un certo punto, mi pare alla fine del primo tempo, arrivarono due energumeni alle nostre spalle, arrestarono Lionello, coprendo i polsi ammanettati con una giacca, io scesi subito per raggiungere l’area del campo, ma trovai chiuso. Mi rivolsi al cu-

stode che conoscevo dagli anni in cui avevo giocato al Pescara, che però mi disse “Hanno chiuso tutto, Totò, non posso aprirti, c’è la Finanza”. Quando esplose lo scandalo tanti episodi divennero chiari. Come quel giorno a Milano, quando ero con Wilson e Bob Lovati. Arriva Montesi, che deve giocare, con una mano sulla coscia, e dice che non ce la fa. Lovati storce il naso, poi mi guarda e mi fa segno che allora tocca a me. È una pagina nera, che ti lascia addosso un’etichetta infamante. Ancora dopo tanti anni la macchia purtroppo è rimasta. Una bandiera come Wilson credo che sia rimasto molto segnato da quello scandalo. Anni dopo vidi Manfredonia abbandonare la tribuna a Taranto per gli insulti della gente. Dopo tutto quello che era successo quell’anno, andai via con un certo sollievo a fine campionato, anche se la destinazione era Palermo, in serie B». E qui diventi il miglior giocatore del campionato... «Si, nel 1982, venni premiato a Montecatini, insieme al vincitoSTORIE DI SPORT | 91

Per chiudere, Totò, facci una panoramica dei personaggi della tua epoca Lazio... «Beh, tanto per restare su quelli più significativi. Abbiamo parlato di Maestrelli, di Wilson, ma vorrei ricordare Luciano Re Cecconi, con il quale ero molto legato. Devo a lui se oggi possiedo una casa a Roma, un giorno mi mise in macchina e mi disse “Totò vieni che ti faccio fare un affare”. Poi ricordo con affetto Lenzini, il classico presidente papà che permetteva un po’ tutto ai giocatori, non vendeva nessuno, una figura difficile da immaginare oggi. E poi Lovati, che era la figura storica della Lazio, ogni volta che c’era un problema si mandava via l’allenatore e chiamavano lui. E Bob arrivava, con il suo classico modo alla Maestrelli di trattare i giocatori, lasciandoli liberi, era una figura molto legata al nucleo storico della squadra. Quando pochi anni fa gli impedirono di entrare a Formello gli hanno dato un dolore immenso. Per parlare di oggi, credo che la colpa maggiore di Lotito sia proprio quella di non curare minimamente la memoria del club. Non a caso l’altra sera (Lazio-Genoa, ndr), con la Lazio prima in classifica, la Curva Sud era addirittura chiusa, e in tutto c’erano trentamila spettatori. Troppo pochi per l’importanza della partita. Evidentemente i risultati non sono tutto...».


Corsa de’ Noantri o scorso 22 luglio si è svolta una classica del podismo romano, la Corsa de’ Noantri. La gara di 7 km si è svolta per le caratteristiche vie del rione di Trastevere, organizzata come ogni anno dall’ASI Roma, dalla A.C. del Belli in Trastevere, dalla ACSD Sette Colli e con il patrocinio del Dipartimento Sport di Roma Capitale e della FIDAL Lazio. La classifica finale ha visto primeggiare tra le donne Alessia Pistilli, mentre per gli uomini ha tagliato per primo il traguardo Robin Trapletti. Alle premiazioni hanno preso parte il Delegato alle Politiche Sportive di Roma Capitale Alessandro Cochi, il Presidente Regionale FIDAL Marco Pietrogiacomi ed il Presidente ASI di Roma Roberto Cipolletti.

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Per il centro di Roma corrono i podisti. La corsa si chiama “de’ Noantri”... Un nome storico che riporta alla vecchia Roma divisa da rivalità, animata da bulli e pupe e in cui i trasteverini, con senso d’orgoglio, si definivano “Noantri” e tutto il resto era etichettato come “Voantri”. In quegli anni erano “storie d’amore e de cortelli” tra tutti i rioni. E la partita più sentita era contro i monticiani. Da una corsa rievocativa alla storia…


Al campo vaccino

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noantri contro voantri Con in tasca il Sacro Rosario e il coltello arrotato, quella gente fiera di Trastevere era permeata da un sentimento di superiorità verso gli altri rioni. E il senso d’appartenenza veniva cementato nella Festa de’ Noantri. Che sfide per trasportare la Madonna fiumarola!

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l Trastevere de “Noantri” era sicuramente il rione più “romano” di tutti i quattordici vecchi rioni di Roma, popolato da gente di un’indole particolare, boriosa, superba, a volte violenta ma sempre cavalleresca, di una cavalleria che aveva come arma congeniale, anziché la spada, troppo lunga ed ingombrante, il più maneggevole coltello a serramanico. Come racconta il Belli, i trasteverini riponevano fiducia nella provvidenza di Dio, ma portavano sempre in tasca, sia la corona del santo Rosario come il coltello arrotato. I trasteverini erano gente fiera, affetta da un evidente complesso di

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noantri contro voantri

Uno spaccato di una Roma che fu ai tempi de’ Noantri. Uno scatto che caratterizza le peculiarità della vita quotidiana di allora. Con alcuni fermo immagine cerchiamo di entrare nella nostra storia... superiorità nei confronti degli abitanti degli altri rioni, soprattutto dei monticiani e di quelli del Rione Regola, considerati una sorta di parenti bastardi. Il termine “Noantri” indica precisamente gli abitanti di Trastevere, in contrapposizione a “Voantri”, ovvero gli abitanti degli altri rioni al di là del Tevere. Ancora alla fine dell’Ottocento si combattevano fra gli abitanti dei rioni furiose battaglie con i sassi. La sassaiola, per i romani di allora, era un movimentato passatempo, periodicamente ma inutilmente vietato dalle autorità papali. Serviva a scaricare gli istinti di violenza e di potenza di un popolo focoso e fiero, dal temperamento aggressivo, che non poteva stare tanto tempo senza attaccare “buja”, senza menar le mani. Il campo di battaglia preferito per le sassaiole dei bulli di Trastevere, Regola e Monti era sempre il Foro Romano, detto allora “Campo Vaccino” in quanto sede del mercato del bestiame, perché ricco di ruderi e quindi di sassi, le munizioni usate nella sfida ed inoltre era vicino all’ospedale della Consolazione, dove i feriti potevano eventualmente ricevere soccorso. Qui si svolgevano anche vere e proprie “partite” in cui era in palio una sorta di “primato di romanità” che i vari gruppi di volta in volta si contendevano. Tra urla, invettive e tifo spesso “partecipato” si svolgevano vere e proprie battaglie, definite “gagliarde” dai diari dell’epoca, fra le fazioni contendenti; i colpi venivano evitati avvolgendo il mantello intorno al braccio sinistro mentre con il destro si lanciavano i sassi. C’erano anche quelli che facevano da “palo” per avvisare i contendenti dell’eventuale arrivo degli sbirri, che trovavano spesso vuoto il campo di battaglia, quando non erano costretti ad una fuga ingloriosa sotto il tiro incrociato delle due squadre, coalizzate contro il nemico comune. Gli abitanti di Trastevere erano poco dediti a mestieri che potessero in qualche modo limitare la loro libertà: i più erano carrettieri a vino, facchini, scalpellini, piccoli mercanti; portavano vestiti dai colori vivaci, giacchette di velluto e cappelli adorni di nastri e, intorno ai fianchi, una larga fascia in cui era infilato il coltello. Le vie del rione che ancora oggi, in alcuni punti, hanno mantenuto l’antico aspetto, erano caratterizzate da case medievali da cui spuntavano ogni tanto piccole torri; LA CORSA DI NOANTRI | 94

Panni stesi Immancabili quei fili dove campeggiavano i panni sciorinati. Davano colore all’intero rione

la bottega Punto di riferimento a livello commerciale per gli abitanti del rione. Qui trovano di tutto

ladruncolo Toccata e fuga. Piccoli furti qua e là del mini ladro in una sorta di arte d’arrangiarsi

spazzacamino Con le sue lunghe scope passava da un tetto all’altro, una sorta di angelo dalla faccia sporca


spq ort erano ricche di piccoli balconi fioriti, di tabernacoli con il lumino, acceso la notte davanti alla Madonnella. I vicoletti durante il giorno si animavano di luce e di colori, con i raggi del sole che accarezzavano i vasi di gerani rossi presenti in quasi tutte le finestre; da qui si intravedevano spesso volti di belle trasteverine, con i capelli adorni di fiori, di nastri, sempre guarniti dal classico spillone, allo stesso tempo ornamento e strumento di difesa.

Nelle viuzze si incontravano i monelli che con i loro scherzi prendevano di mira soprattutto i carrettieri, oppure giocavano alla “ruzzica� o ancora si esercitavano al tiro alla fionda, invidiando i grandi che si cimentavano nelle sassaiole di Campo Vaccino. C’era poi sempre l’occasione per avventurarsi sulle pendici del Gianicolo fino alla chiesa di San Pietro in Montorio a caccia di nidi, ma anche per rimediare dai frati insieme a qualche immaginetta sacra anche una piccola merenda.

roma sparita

le comari Er carettiere

Sedute sulla sedia nella piazza, parlavano tra loro di tutti e di tutto. Con occhio e orecchio fissi su tutto il rione

Personaggio classico di quella Roma, il trasportatore che diventa quasi leggenda e che ispira anche registi, scrittori e canzoni

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Il carattere schiettamente popolare è rimasto una caratteristica del rione fino a tempi recenti, almeno fino alla fine degli Anni Sessanta del ventesimo secolo: la tipologia del trasteverino è andata poi via via trasformandosi e, a partire dagli Anni Novanta, i vecchi trasteverini hanno cominciato a lasciare il rione per trasferirsi altrove, lasciando il posto ad un nuovo genere di abitanti, quasi sempre alta e media borghesia, professionisti, commercianti. Contemporaneamente anche le vecchie botteghe artigiane sono progressivamente scomparse, sostituite da una miriade di bar, ristoranti, pizzerie e locali di tendenza. Così, ai nostri giorni, il quartiere popolare e verace dell’epoca de “noantri” si è trasformato in un’immensa sala giochi: aggirarsi per i vicoli di Trastevere la sera è come immergersi in una bolgia infernale e fino a tarda notte l’intero rione è invaso da una folla spesso rumorosa e invadente, per non parlare della presenza quotidiana di venditori ambulanti abusivi. Il rione, ogni mattina, sembra essere stato il campo di battaglia di tutti i maleducati protagonisti della “movida” del giorno precedente. Bottiglie, immondizia di ogni tipo, portoni e insegne di storiche botteghe imbrattati dalla discutibile espressività dei writers, che di fatto è solo una forma di gratuito vandalismo: neanche i portali delle chiese sono risparmiati da questa assoluta mancanza di rispetto per la città, per la sua storia, per la sua cultura. Però il Trastevere de “Noantri”, con le sue abitudini, i suoi costumi e le sue feste è sempre un luogo conosciuto ovunque nel mondo, ricco di storia e umanità; con la Festa de’ Noantri, mostra quanto sia importante conservare una chiara identità del proprio passato per poter vivere nel modo migliore il presente. Questa festa di così antica tradizione è motivo di orgoglio e patrimonio non solo degli abitanti del rione, ma dell’intera cittadinanza romana.

La madonna fiumarola

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na delle più antiche feste della tradizione romana e trasteverina in particolare, è la “Festa de’ Noantri” che si svolge ogni anno durante il mese di luglio proprio in Trastevere, nell’ambito delle celebrazioni in onore della Madonna del Carmine. Le origini della festa sono avvolte nella leggenda: si racconta, infatti, che nell’anno 1505, dopo una furiosa tempesta, nei pressi della foce del Tevere fu rinvenuta da alcuni pescatori una statua di legno della Vergine Maria. La statua fu portata, via fiume, fino alla chiesa di San Crisogono, retta dai Carmelitani, che riconobbero in essa la Vergine alla quale era intitolato il loro ordine. La statua della Madonna fu trasferita all’inizio del Seicento in un oratorio fatto appositamente costruire da Scipione Borghese e qui rimase fino al 1890, quando l’oratorio fu abbattuto a seguito della costruzione di viale Trastevere. Dopo un soggiorno di qualche decennio nella chiesa di San Giovanni dei Genovesi, la statua fu collocata nella chiesa di San’Agata, dove ancora si trova. Da quando “noantri”, ovvero i trasteverini, la affidarono ai Carmelitani, quella che subito venne anche chiamata la “Madonna fiumarola” è la protettrice dei romani trasteverini, che ogni anno la omaggiano e festeggiano con la festa delle feste: la “Festa de Noantri”, appunto. Da allora e sino ad oggi, ogni anno, il primo sabato dopo il 16 luglio, la statua della Vergine, ricoperta di gioielli e abiti preziosi, viene portata in processione, su una pesante macchina in legno, dalla chiesa di Sant’Agata per le strade del rione fino alla chiesa di San Crisogono, dove rimane per otto giorni (l’ottavario dell’adorazione) per poi tornare in Sant’Agata. “Li mejo fusti” del rione del tempo si contendevano il privilegio di portare il massiccio tron-

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co o lo stendardo che quanto a pesantezza, non era da meno. Per alleviare la fatica, i prestanti giovanotti si fermavano spesso lungo il percorso, sotto lo sguardo ammirato delle ragazze del rione, per bere un goccio (inutile dirlo) di vino, tanto che in genere giungevano a destinazione praticamente ubriachi, ma sempre e comunque pronti per un’abbuffata ed un’altra bevuta in osteria, dove sarebbero proseguite le, non sempre pacifiche, discussioni. Di tanto in tanto si arrivava anche alle mani, e scoppiavano risse nel corso delle quali poteva pure capitare che spuntasse fuori qualche coltello. Ci si accalorava molto, la questione era considerata di primaria importanza, perché, come sottolineava il Belli: «Ner portà bene lo stendardo e er tronco/ lì se vedeva l’omo». Le centinaia di persone che seguivano la processione si riversavano poi nelle strade, dove erano sistemati dei tavolini all’aperto per mangiare e bere vino, mentre i cocomerari, i fusajari, i grattacheccari ed altri venditori ambulanti esponevano la loro merce. A partire dai primi anni venti, alla commemorazione religiosa, oltre ai tradizionali venditori di mostaccioli, fusaje, cocomero e grattachecche, alle bancarelle e alle tavolate con il vino dei castelli, si sono aggiunti anche spettacoli teatrali e musicali, con tanto di spettacolo pirotecnico. La Festa de’ Noantri, con la sua processione e le molte iniziative fa rivivere le tradizioni della Roma “sparita”, in modo particolare del rione Trastevere. Tre aspetti dell’evento, visti da tre protagonisti: Giampiero Romani per la parte organizzativa e

ludica: Riccardo Marzi per l’aspetto religioso; Patrizio Paoli come testimone trasteverino nonché portatore della statua nel corso della processione. «È un grande sforzo ed impegno organizzativo – dice Romani, Governatore dell’Arciconfraternita della Madonna del Carmine in Trastevere ma la soddisfazione alla fine è tanta. Cominciamo a preparare l’evento sin da gennaio per portarlo avanti sino a luglio. Dal 2000 ogni anno cerchiamo di fare sempre meglio. Bisogna guardare ogni minimo particolare. L’evento non ti permette di sbagliare. Ci sono da fare tante cose sotto l’aspetto organizzativo, come la partenza, il prosieguo e l’arrivo della statua della Madonna. Ci sono da organizzare le presenze dei fedeli sui gommoni che seguono la processione sul Tevere, l’arrivo sulla banchina, il passaggio trasteverino sino alla chiesa di Santa Maria in Trastevere, i fuochi pirotecnici. Insomma, un gran lavoro che però ci riempie di orgoglio visto che negli anni siamo riusciti a dare all’evento anche un aspetto internazionale vista la presenza di politici ed alte personalità di altre nazioni». «È tutta la festa che riassume in sé l’aspetto religioso – precisa Marzi, confratello dell’Arciconfraternita della Madonna del Carmine -. È l’immagine della Madonna che richiama, che invita i trasteverini e no a ritrovarsi. Nonostante il tragitto della Madonna lungo il Tevere non venga toccato con mano dai fedeli costretti a seguirlo dai parapetti dei ponti, l’emozione che si prova è comunque enorme. La spiritualità che si respira è tanta. Ma il vero culmine si ha quan-

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do la Madonna portata a braccio lascia il fiume e si trasferisce lungo la via Lungaretta per approdare nella chiesa si Santa Maria in Trastevere. Qui d’improvviso spariscono tutte le protezioni reverenziali, la Madonna è a portata di mano di tutti i fedeli che possono ammirarla da vicino, toccarla, chiederle grazia. È un momento particolare». «Beh, per me che sono trasteverino – puntualizza Paoli -, la cerimonia della processione della Madonna fiumarola è qualcosa di speciale. E poi io la sento ancor di più visto che sono uno tra i fortunati a portarla in spalla nel tragitto. I trasteverini la vivono emotivamente questa festa, ma anche i trasteverini che hanno lasciato il rione sono coinvolti visto che non hanno minimamente abbandonato le loro radici. È un momento che accomuna tutti i romani, chiamati a partecipare sia dal punto di vista spirituale che da quello di semplice curiosità. Una settimana intensa. Sia all’apertura che nel giorno della chiusura, nell’ottavario».

Una corona per il piccolo Claudio Fra suppliche, applausi e qualche lacrima di commozione dei più anziani trasteverini, riuniti ad attendere l'arrivo della Madonna fuori la basilica trasteverina, da registrare anche l’emozione per la breve cerimonia commemorativa dedicata al ricordo del piccolo Claudio Franceschelli (gettato brutalmente nel Tevere da suo padre) con la deposizione da parte del Sindaco Gianni Alemanno di una corona di fiori e il conseguente lancio di palloncini bianchi in prossimità di Ponte Mazzini, da mesi riempito con bigliettini e peluche per il «piccolo Claudio».


Il racconto dei dieci anni durante i quali la Virtus vinse tutto, in Italia e in Europa. Bianchini, Wright, Gilardi... nomi scolpiti nella storia

QUANDO MAGIC LARRY PORTÒ ROMA IN PARADISO di Luca PELOSI bbiamo semplicemente afferrato qualcosa che era nell'aria». Così Valerio Bianchini rispondeva a Oliviero Beha, nel 1983, quando il Bancoroma ancora doveva vincere lo scudetto ma aveva già fatto esplodere la passione dei romani per il basket riempiendo il Palaeur. Quel qualcosa è un sentimento che aveva iniziato a covare un po' di tempo prima.

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Il nome per la prima volta compare nel 1971, con la fusione di due squadre

di Serie C, San Saba e Borgo Cavalleggeri. Come anno di affiliazione fu mantenuto quello del San Saba, il 1960. Nel 1972 però, con la Virtus in difficoltà economiche, il Banco di Roma, che ha una squadra in Promozione, viene in soccorso e dalla fusione nasce la Pallacanestro Virtus Banco di Roma. Il libro “Banco! L'urlo del Palaeur” racconta le origini e la rapida scalata di una squadra che in meno di 10 anni si ritrova in Serie A1. Nelle prime due stagioni la squadra manca i playoff, BANCO DI ROMA | 98

ma crea un nucleo di giocatori romani con Castellano, Sbarra, Gilardi e Polesello su tutti. L'esplosione c'è nella stagione 1982-83. Arriva anche Solfrini, ma soprattutto Valerio Bianchini in panchina, che in Louisiana pesca Larry Wright, campione Nba nel 1978 e ritiratosi a soli 27 anni. Personalità sconvolta da complessi ma realizzata solo in campo. Larry è una folgorazione, fa vedere cose che in Italia non s'erano mai viste. La finale è col Billy Milano e la sfida si carica anche


di significati extra-sportivi. Si riempiono l'Eur e il Palazzone di San Siro. 1-1 dopo le prime due sfide, per lo spareggio ci sono circa 50mila richieste. Entreranno in 17mila in un Palasport che avrebbe anche potuto non esserci, perché neanche il Banco aveva previsto di arrivare fino in fondo e non aveva prenotato l'impianto, occupato per quel giorno da una mostra di pentole. Si gioca con un giorno d'anticipo ed è un trionfo. L'anno dopo è quello della grande avventura in Coppa Campioni. Wright s'infortuna subito. Larry perde le sue sicurezze, diventa ancora più diffidente e scontroso, gioca con un piede dolorante. Ma il gruppo resta unito, la sconfitta col Bosna Sarajevo sembra compromettere tutto, poi però il Banco vince tutte le partite che restano nel girone a 6 squadre e si guadagna la finale col Barcellona. Wright però non ne può più, saluta tutti e torna in America per curarsi il piede. Lì comincia un antipatico tira e molla con la società, ma alla fine a Ginevra c'è. «Coach, ci penso io», dice nell'intervallo a Bianchini, col Barcellona avanti di 10 punti. La sua voglia di vincere non ha mai avuto una

manifestazione così tanto evidente come in quel secondo tempo. Il Banco ribalta la partita e si prende la coppa, 79-73, esultando con tremila persone venute da Roma con ogni mezzo e tante altre incollate alla televisione. Il Banco vincerà anche senza Wright, la Coppa Intercontinentale nel settembre nel 1984-85 e la Coppa Korac nel 1985-86, con Mario De Sisti in panchina e una emozionante finale tutta italiana contro Caserta. Il Banco vincerà anche senza... vittorie. In quegli anni infatti succede qualcosa di più delle vittorie. Nasce un sentimento, nasce una fede. Le stagioni successive non vedranno trofei, ma porteranno all'Eur più pubblico che negli anni precedenti e nel 1989 ben novemila persone festeggeranno la salvezza in un'ultima drammatica partita di playout contro la Glaxo Verona prima del passaggio al Gruppo Ferruzzi. L'urlo del Palaeur salì altissimo e il libro nasce anche per far risentire la sua eco. Quel tempo non potrà più tornare ma se ricordarlo e riviverlo può far ritrovare un minimo d'identità e di senso d'appartenenza, oggi che la Virtus ha rischiato di sparire, allora ne sarà valsa la pena.

«Abbiamo semplicemente afferrato qualcosa che era nell’aria»

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Il libro che racconta una leggenda “Banco. L’Urlo del Palaeur”, racconta la storia del Bancoroma. Si può acquistare online attraverso il blog bancoroma.blogspot.com o sul sito ilmiolibro.it. Si trova anche presso la libreria “Pagine di Sport” di via dei Tadolini, presso il Caffè letterario, Via Ostiense 95 o presso la redazione de Il Romanista.


INTERVISTA AD ENRICO GILARDI

di Paolo VALENTE

Core de Roma Cuore testaccino e mano da NBA. Fu uno dei grandi protagonisti della favolosa cavalcata del Bancoroma negli Anni ’80. «Un’esperienza unica, eravamo un gruppo straordinario».

tifosi hanno per anni identificato con lui squadra e città, attribuendogli l’appellativo di “core de Roma”, significativo del valore di romanità che la sua presenza portava all’interno della squadra. E tutto questo era Enrico Gi-

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lardi, uno dei più grandi cestisti del nostro basket. Romano di Testaccio dove ebbe i natali il 20 gennaio del 1957, Enrico scoprì quasi per caso il mondo della pallacanestro. Nella parrocchia del suo quartiere venivano sperimentati i primi tentativi di minibasket per far approcciare i ragazzi a questa disciplina.

più duro e professionale, e questo, per un ragazzino come me, fu una sorta di choc. Ma debbo riconoscere, però, che tecnicamente Asteo ha fatto molto per me, mi ha forgiato come giocatore, mi ha fatto capire, anche con toni bruschi, come bisognava stare in campo. Solo dopo ho capito l’importanza della sua preparazione».

«Mi avvicinai al basket senza una vera convinzione, mi piaceva fare sport e insieme ad altri amici venimmo coinvolti in quell’esperienza del tutto nuova per noi. Mai avremmo pensato che sarebbe diventato la base per raggiungere traguardi molto importanti».

Tante soddisfazioni con il Basket Roma a livello giovanile. «Sì, vincemmo tutto quello che c’era da vincere, un’esperienza unica. Abbinavo la gioia di giocare alla soddisfazione del successo».

E qui scoprì l’aiuto di un personaggio che fu molto importante per la crescita di Gilardi, il suo primo allenatore, Donati. «Un uomo eccezionale, la classica figura del tecnico amico con il quale vivi gran parte della giornata, con il quale vai a cena, che frequenta la tua famiglia. Insomma una persona che ricordo sempre con grande piacere». Il dopo Donati però fu traumatico. «Al suo posto fu chiamato Giancarlo Asteo, una persona completamente diversa da Donati. Non c’era più il familiarismo, il rapporto era BANCO DI ROMA | 100

E quelle annate non sfuggirono alla Stella Azzurra. «Arrivai in quella società nel 1976, avevo 19 anni. Mi trovai bene, non c’è che dire. Il club, però, nel corso degli anni stava cambiando pelle. Aveva abbandonato la sede storica del collegio De Merode, si stava dando una struttura con mentalità professionistica e anche l’arrivo dello sponsor, la Perugina, contribuì in questo processo di crescita. Alla Stella Azzurra cominciò il mio primo percorso verso il mondo del basket professionistico». Nel 1981 arrivò la chiamata del Banco Roma. «Il primo anno al


Banco non fu dei più facili. Ritrovai sulla panchina Asteo, e anche lì faticai a instaurare un gran rapporto con lui». La vera svolta arrivò l’anno successivo. A Roma fu chiamato Valerio Bianchini: «Con lui cambiò tutto, lui portò una mentalità vincente, aveva la capacità di farti pensare in grande. Voleva un basket professionale ispirato al modello americano. Tutto il gruppo cominciò a seguirlo su quella strada. Noi eravamo dei neofiti per quel tipo di concetto di vittoria a tutti i costi. Però capimmo subito che se volevamo centrare dei traguardi importanti non potevamo non seguire il nostro coach». E cominciò così la grande cavalcata del Banco Roma. «Un’avventura meravigliosa. Eravamo un gruppo coeso, proiettato verso l’alto. Una mentalità nuova che ci spingeva a sfidare e a sconfiggere realtà come Milano che fino ad allora sembravano tanto lontane da noi». E in questa operazione non secondario fu il ruolo di Larry Wright. «Larry è stato un grande. Si presentò a Roma quasi in sordina, non accompagnato dalla classica fanfara che aveva caratterizzato altri arrivi qui in Italia. Ma ci bastò poco per capire che era fortissimo. Ci mettemmo un po’ tutti al suo servizio. La sua tecnica sopraffina ci incantava. Ma anche caratterialmente ci fu di grande insegnamento». E furono successi a gogò. «È vero, con lo storico Scudetto arrivarono la Coppa Campioni che vincemmo inaspettatamente contro il fortissimo Barcellona, la Coppa Intercontinentale e la Coppa Korac. Una squadra eccezionale, sette anni di grandi soddisfazioni. Ma anche di qualche rammarico. L’anno dopo lo Scudetto, ad esempio, perdemmo malamente ai play off l’opportunità di riconfermarci Campioni d’Italia».

E poi la lunga parentesi in Nazionale. «Se debbo fare un paragone, quella nazionale lì aveva in parte le caratteristiche del mio Banco. Eravamo uniti, proiettati verso importanti traguardi che in parte centrammo come l’Europeo dell’83 o l’argento di Mosca dell’80. Eravamo una gran bella squadra». Di grandi cestisti ne ha conosciuti tanti, ma Gilardi non ama fare graduatorie. «Come si fa a dire che uno era più forte di un altro? Abbiamo avuto qui in Italia tanti giocatori stranieri straordinari. E ognuno ha dimostrato la sua bravura nella sua epoca, quindi fare paragoni non mi sembra possibile. Se proprio vogliamo andare nel particolare, potrei dire, ad esempio, che un Larry Wright sia stato più determinante di un D’Antoni. E badate che stiamo parlando di mostri sacri». E per gli italiani il discorso è più o meno lo stesso. «Dire Meneghin sarebbe facile, ma in assoluto non credo che sia stato il più grande. Dino è stato un eccezionale atleta così come Marzorati, Riva o Brunamonti. Per le graduatorie lascio a voi l’incombenza». Roma ora soffre e vive di ricordi. «Io non sarei così pessimista. Altre piazze importanti hanno conosciuto momenti difficili. Guardate Treviso o la stessa Milano. Serve ricostruire un gruppo, ridare entusiasmo. Non bastano solo i soldi. Roma li ha avuti attraverso gli sforzi della società, ma i risultati non sono stati di pari rilevanza. La pallacanestro è cambiata, bisogna adeguarsi alle nuove realtà». Ci potrà essere un nuovo Banco Roma? «Quel tipo di Banco Roma lì no, perché è un’esperienza irripetibile, legata al suo periodo. Però se si creano una mentalità e una organizzazione ambiziose proiettate nel futuro, Roma potrà di nuovo togliersi delle belle soddisfazioni e richiamare tanta gente sugli spalti». BANCO DI ROMA | 101

Enrico Gilardi, play-guardia di basket, è nato a Roma, nel quartiere Testaccio, il 20 gennaio 1957. Cominciò a giocare a pallacanestro nella parrocchia del suo quartiere frequentando corsi di minibasket. Dopo l’esperienza al Basket Roma ed alla Stella Azzurra, approda al Banco Roma nel 1981, con il quale vinse lo scudetto, la Coppa campioni, la Coppa Korac e la Coppa intercontinentale. In Nazionale conta 160 presenze. Il titolo europeo del’83, l’argento di Mosca e il terzo posto nell’europeo dell’83 i suoi risultati più importanti. Dopo una parentesi a Brescia, tornò a Roma per chiudere la carriera a Napoli nel 1991. Pur se l’ultima sua apparizione nella rosa della squadra romana è datata 1990, il primo posto dei punti segnati della storia della Virtus è ancora ben saldo nelle sue mani, grazie ai suoi 3.393 punti.


l fenomeno del tifo organizzato ha trovato spazio anche nel basket romano. E questo grazie anche ai risultati del Banco Roma che calamitava le simpatie di nuovi appassionati. A vedere la luce per primi negli Anni Settanta furono i Fighters, un gruppo formato perlopiù da ragazzi della Roma benestante dei quartieri altolocati: Parioli, Prati, centro, Eur. Calzoni firmati, scarpe alla moda dell’epoca e un entusiasmo che traboccava. Il Palazzo sempre pieno le coreografie, come si usava all’epoca, esposte al primo canestro, un’atmosfera magica. Una cornice folcloristica e colorata d’arancione che faceva da supporto agli eroi d’allora del basket romano. Dopo lo Scudetto, ecco nascere un gruppo diverso di tifoseria organizzata, quello dei Warriors che comincia a formarsi nella stagione 1983-84. Una tifoseria completa-

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mente diversa da quella dei Fighters. Fondati dai gemelli Pantanella, i Warriors erano di una estrazione sociale diversa, erano figli della Laurentina, Spinaceto, Tor de Cenci, Garbatella, Vitinia, ragazzi di borgata, ma con tanta voglia di fare, e di mettersi in mostra. Con loro il Palaeur ribolle di torce, fumogeni, coriandoli, materiale preparata artigianalmente. La convivenza con i Fighters Banco Roma durò poco, iniziarono presto i dissapori. Era lo scontro più fra due realtà sociali ed avvenne una sorta di ricambio generazionale. Ma nonostante la grande rivalità fra i due gruppi, i “padri fondatori” dei Warriors non hanno mai disconosciuto il merito dei loro “colleghi” nell’aver portato in alto il nome di Roma. I Warriors divennero sempre più folto come gruppo. Sul-

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Quando Bargnani tifava da ultrà «Andrea Bargnani veniva a vedere la Virtus e più di qualche volta entrava con noi. ...e talvolta si imbucava anche gratis, insieme ad altri ragazzi del gruppo. Era un bel tifoso e sicuramente quel periodo ce l’avrà anche lui nel cuore come noi», spiega racconta Massimo Pantanella, alla guida dei Warriors.

Quel Banco divenne famoso per il calore del Palazzo dello Sport, per il tifo dei suoi ultras: uno striscione arancione, l’aquila come simbolo… erano i Fighters. Poi, subito dopo, i Warriors che ancor oggi colorano il Palazzetto la scorta di quanto è avvenuto anche nel calcio, al tifo si associarono anche momenti di tensione con le tifoserie avversarie. E, proprio a seguito di un episodio di questo tipo, nella gara contro Caserta, furono tanti i tifosi romani diffidati. Dopo tante vicissitudini, oggi, sono però ancora i Warriors a guidare il tifo insieme alla Gioventù Virtus.: «I Warriors - spiega Massimo Pantanella - hanno portato nel basket tanta innovazione: indimenticabili i cortei e i viaggi in treno. Una realtà di indubbio valore sociale. Come indimenticabili erano gli Anni ‘80. Diecimila al Palaeur, tanti giovani. Il Palazzo univa quartieri, diverse realtà cittadine, laziali e romanisti insieme, quartieri popolari e borghesi, tutti uniti per la Virtus. Era il periodo in cui il tifo si faceva sentire davvero: tor-

ce, fumogeni, coriandoli, bandiere, tamburi e i giocatori in campo che volavano. Oggi, purtroppo, sembra un’altra epoca...». Ma la grinta dei veri tifosi è sempre quella. Come quando manifestarono in Campidoglio, è storia di pochi mesi fa, per la sopravvivenza della propria società. L'Amministrazione si impegnò a fianco del Presidente Toti ed oggi sulle maglie compare il marchio dell'Acea. Un grande sforzo è stato fatto anche per la capienza del Palazzetto dello Sport di Viale Tiziano, riqualificato e portato a i 3500 posti necessari al superamento dei vincoli della Commissione di Vigilanza. È stato il Sindaco stesso a interessarsi al "problema basket", unitamente al Delegato Cochi e al Direttore del Dipartimento Sport di Roma Capitale, dottor Bruno Campanile.

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STRUTTURE

HOCKEY A ROMA su prato

di Marco GHIGHI

A Via Avignone una nuova casa per l’hockey romano. Sognando i Cinque Cerchi Olimpici a Federazione Italiana Hockey ha un nuovo polo federale. D’eccellenza. Si tratta della struttura situata in Via Avignone, che Roma Capitale - grazie al fattivo lavoro svolto dal Delegato alle Politiche Sportive, On. Alessandro Cochi e alla sensibilità del Sindaco di Roma, On. Gianni Alemanno — ha concesso alla FIH, la Federazione Sportiva Nazionale che si occupa di organizzare e regolamentare, in Italia, la disciplina olimpica dell’Hockey su Prato. L’Hockey su Prato è uno degli sport di squadra più antichi al mondo (si ritiene che i primi a praticarlo furono i persiani, ndr) e la patria (moderna) di questo sport è l’Inghilterra, dove è stata fondata la prima federazione nazionale (insieme al calcio e al rugby), nella seconda metà del XIX secolo. Da lì, il passo a una capillare diffusione nei Paesi del Commonwealth è stato breve: così si spiega la tradizione dei cosiddetti “maestri” indiani, che da Lon-

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L’EVENTO Il giorno della posa della prima zolla del manto in erba sintetica dell’impianto destinato alla pratica dell’Hockey su Prato, che doterà la città di Roma della terza struttura destinata a questa disciplina. L’impianto di Via Avignone è stato concesso da Roma Capitale alla Federazione Italiana Hockey e viene ufficialmente consegnato dopo un periodo di «occupazione» non autorizzata.

dra 1908 (anno dell’esordio di questa disciplina come sport dei Giochi Olimpici dell’Era Moderna) a oggi li ha visti aggiudicarsi la bellezza di otto medaglie d’oro. In Italia questo sport ha radici antiche (il primo campionato risale al 1937) e Roma è sempre stato un grande riferimento per gli amanti del Field Hockey. Non è un caso, infatti, che dal 2000 a oggi siano arrivati sette scudetti Prato maschili e sette femminili, grazie ai titoli conquistati da HC Roma, SS Lazio (nella maschile) e ACEA Hockey San Saba Roma (nella femminile), o il fatto che di dieci squadre dello scorso campionato di Serie A1, ben tre fossero di Roma (Tevere Eur, Nicogen Butterfly e HC Roma) tra gli uomini, e che due su nove (ACEA Hockey San Saba Roma e HF Roma) lo fossero tra le donne. Uno sport che ha consentito a Roma Capitale di fregiarsi con orgoglio, nel corso di questi anni, del titolo di campione d’Italia: cosa non così frequente per gli sport di

L’EVENTO: Posa della prima zolla del manto in erba sintetica dell’impianto destinato alla pratica dell’Hockey su Prato, che doterà la città di Roma della terza struttura destinata a questa disciplina. L’impianto di via Avignone è stato concesso da Roma Capitale alla Federazione Italiana Hockey e viene ufficialmente consegnato dopo un periodo di «occupazione» non autorizzata. HOCKEY SU PRATO | 104


RECINZIONE PERIM.

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SPOGLIATOI E UFFICI

RECINZIONE PERIM. LINEA DEI 22,90 M

SEGNO DEL TIRO DI ANGOLO LUNGO

SEGNO DEL TIRO DI ANGOLO LUNGO

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L’IMPIANTO DI VIA AVIGNOGNE Inserita in un piano di zona come area sportiva, prima del collaudo e del passaggio all’Amministrazione, era stata occupata da un’associazione (si parla del 2008). In occasione del progetto di Flammini per portare la Formula 1 a Roma (che coinvolgeva anche l’impianto del Tre Fontane) la struttura di via Avignone era stata individuata come possibile nuova sede dell’Hockey romano ed è stato per questo assegnato alla FIH nazionale con determina di Consiglio.

Oggi, dopo un lungo iter burocratico, prendono il via i lavori per la ristrutturazione del nuovo impianto. Roma può finalmente dedicare una nuova struttura all’hockey romano, che ha il merito di aver regalato soddisfazioni e grandi successi alla città, tra i quali gli scudetti di HC Roma e San Saba. L’Amministrazione ha mantenuto la sua promessa fatta in questi mesi: il terzo impianto si aggiunge a quelli esistenti del “Tre Fontane”, che rimarrà la sede centrale della FIH e che è stato intitolato alla memoria di Cipriano Zino, e a quello dell’Acqua Acetosa.Il costo complessivo dei lavori di ristrutturazione sono a carico della Federazione Italiana Hockey.

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PARCHEGGIO

RECINZIONE PERIM.


Per avvicinarsi all’Hockey su Prato: scuola@federhockey.it tel. 06.3685.8132 www.federhockey.it squadra della capitale. Il nuovo impianto di Via Avignone consentirà alla Federhockey di promuovere la propria disciplina nell’area a maggiore espansione demografica della capitale e di fare della stessa un polo d’eccellenza per i tanti atleti che la città di Roma dà alle nazionali italiane, di tutte le categorie e di entrambi i sessi. Una struttura che permetterà alla federazione di coltivare l’ambizione di

portare una nazionale alle prossime edizioni dei Giochi Olimpici (nb: l’Hockey è ammesso, anche al femminile) dove i colori azzurri mancano dal 1960; un dato che non deve spaventare, perché questo sport (da noi conosciuto in maniera limitata) nel mondo è praticato in oltre 120 Paesi e in alcuni di questi (India, Pakistan, Olanda, Argentina, solo per citarne alcuni) è quasi uno sport nazionale. Non a caso alla re-

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cente cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Londra, due nazioni dal medagliere “importante” come Germania e Olanda hanno scelto come portabandiera due atlete di Hockey su Prato. E Via Avignone è posta proprio a due passi dall’ex Velodromo dell’Eur, che nel 1960 ospitò le gare (anche degli azzurri) alle Olimpiadi di Roma: chissà che non possa essere di buon auspicio per la FIH.

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LUCA DI MAURO, PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE ITALIANA HOCKEY

uella dell’impianto di Via Avignone è una concessione che consolida la presenza dell’hockey a Roma, in special modo nella zona dell’Eur, dove ultimamente la situazione era diventata poco sostenibile, viste le recenti vicissitudini dell’impianto Tre Fontane», dice il Presidente della Federazione Italiana Hockey, Luca Di Mauro. «L’Hockey romano aveva visto abbassarsi il proprio livello di competitività proprio per quelle problematiche e ora, invece, le squadre potranno lavorare con la tranquillità che meritano». Quella di Via Avignone, per la FIH, è una struttura che «può fare da volano all’hockey romano e, partendo proprio dalla Capitale - dove grazie alla vicinanza con il Tre Fontane si è creato un fulcro di straordinaria efficacia - costituire un esempio anche per altre città». Il presidente federale Luca Di Mauro, catanese, ha un passato da giocatore e da allenatore di hockey su prato e conosce

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benissimo il valore dell’attività giovanile, soprattutto per discipline che non sono praticate dalle masse. «Finora a Roma si è lavorato, e bene, sulle squadre di vertice, ma ora possiamo dare nuovo slancio all’attività giovanile e partire con una campagna mirata alla ricerca di nuovi talenti». Di Mauro rivela che «la Federazione Italiana Hockey sta studiando, non da un giorno, le modalità per istituire una Accademia dell’Hockey destinata alle nazionali giovanili; strutture come l’Acqua Acetosa, Tre Fontane (anche se in ristrutturazione) e, adesso, Via Avignone, ci permettono di dare corpo alle nostre idee e organizzare attività stanziali destinate agli atleti italiani più meritevoli. Purtroppo — precisa Di Mauro — agli sport di squadra non è possibile avvalersi dell’apporto delle Forze Armate e Corpi Militari, che con il loro sostegno agli atleti degli sport individuali danno una grossa mano alle Federazioni Sportive Nazionali e finché questa prassi non cambierà, come auspico da tempo, dobbiamo lavorare con la sola forza delle nostre idee e delle nostre risorse». La Federazione è molto attenta alla scena romana e sottolinea l’importanza di avere un impianto in HOCKEY SU PRATO | 106

una zona che, dati del Comune, è quella a maggiore espansione demografica della capitale. «Nei dintorni di Via Avignone ci sono molte scuole e invito formalmente tutti i ragazzi che vogliono cimentarsi in questo sport ad affacciarsi all’impianto, dove troveranno tecnici seri e preparati che li faranno avvicinare a uno sport che, nel mese di agosto, hanno potuto ammirare anche ai Giochi Olimpici di Londra, dove è stato uno dei più seguiti». Luca Di Mauro ci tiene, in conclusione, a ringraziare soprattutto «il Sindaco di Roma Capitale, On. Gianni Alemanno e il Delegato allo Sport, On. Alessandro Cochi, due persone perbene che hanno fatto la scelta di concedere un impianto importante a uno sport che non è tra i più popolari, in Italia, ma che nel mondo è tra i più praticati e seguiti». Un ringraziamento speciale anche «a Maurizio Flammini, che pure in un momento di grande difficoltà, come quello attuale, è stato ed è vicino al mondo dell’hockey con la sua FG Group e al VicePresidente FIH Adriano da Gai, che tanto si è speso per il buon esito di questa concessione». Importantissima per l’hockey romano e non solo.


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spq ort L’HOCKEY SU PRATO A ROMA:

A Roma l’Hockey è praticato ad alti livelli sin dagli anni ’40; i diversi club della Capitale (e della provincia, più in generale) sono stati e sono tuttora grandi protagonisti: le squadre di Roma hanno conquistato 19 scudetti maschili e 13 femminili. Negli ultimi anni l’Hockey su Prato ha dato molti scudetti alla città di Roma: in alcune stagioni è stato l’unico sport di squadra a fregiare la capitale di un titolo nazionale (quello di Campione d’Italia). Solo dal 2000 al 2011 la città di Roma ha conquistato ben 7 scudetti maschili e 7 scudetti femminili, confermandosi Capitale (anche) dell’hockey italiano. Quest’anno tuttavia lo scudetto non è arrivato.Tantissimi sono gli atleti che, nel corso degli anni, le società romane hanno consegnato alla Nazionale Italiana. E non mancavano neppure atleti romani nella rappresentativa italiana che partecipò ai Giochi Olimpici di Roma del 1960, che a oggi rimane sfortunatamente l’unica partecipazione dell’Hockey Prato alla manifestazione a Cinque Cerchi. Il campo di Via Avignone, collocato in una zona di grande attrazione commerciale e ad altissima espansione demografica, consente anche di lavorare sulla ricerca quello attuale di Federazione Italiadi giovani talenti (romani) che possano rina Hockey (FIH). portare l’Hockey su Prato a partecipare ai È una disciplina sportiva che Giochi Olimpici. La posizione strategica ha molte somiglianze con il calcio, dell’impianto è infatti di enorme utilità in nonostante si usi un attrezzo per considerazione della promozione che la colpire la palla. Il terreno di gioco è FIH intende praticare. Il campo di Via Avirettangolare, in erba sintetica, e ha gnone consente Roma di dotarsi di un aldimensioni di 91.40 m × 55 m. Al tro fondamentale impianto per le società centro dei due lati più corti vi sono 2 della Capitale. Tra Serie A1, Serie A2 e seporte che misurano 3.66 m x 2.14 m, rie B (solo nella maschile) sono 12 le davanti alle quali vi sono 2 aree (zosquadre di hockey su Prato di Roma e ne di tiro) quasi semi-circolari di Provincia. Una tradizione forte, quella del14.63 m. Gli 11 giocatori possono esl’hockey nella Capitale, che nella stagiosere sostituiti con panchina di 5 elene appena conclusa ha visto in serie A1 menti e le sostituzioni sono continue Maschile ben 3 squadre romane su 10 e senza limitazioni. La partita, diretsquadre partecipanti, e 2 squadre romata da due arbitri, è composta da due ne su 9 partecipanti nella Serie A1 Femtempi di 35 minuti con un intervallo minile. di 10 minuti. Il buon giocatore deve Le squadre romane Maschili che hanno possedere destrezza, agilità e capapartecipato all’ultima stagione della Serie cità di valutazione tattica del gioco. A1 sono: HC Roma De Sisti (arrivata quarMa una caratteristica di questo ta, era Campione d’Italia in carica da due sport è da ricercare in ambito cultuanni consecutivi); Tevere Eur; Nicogen rale. L’hockey, infatti, è uno sport Butterfly. In serie A2 c’è una squadra gloche si considera da veri gentiluomiriosa come la SS Lazio. Le squadre romani, dove le doti morali e comportane Femminili che hanno partecipato almentali sono messe al primo posto. l’ultima stagione della Serie A1 sono: Il rispetto dell’avversario e la multiACEA Hockey San Saba Roma (arrivata terza, era Campione d’Italia in carica da razzialità sono aspetti fondanti di ben tre anni consecutivi), Hockey Femmiuna disciplina che, con la FIH, si è nile Roma. voluta dotare di un vero e proprio codice etico.

LA STORIA DELL’HOCKEY SU PRATO Hockey su prato è un gioco che ha origini antichissime: alcuni studi hanno infatti dimostrato che i primi a praticarlo furono i persiani. Tracce di giochi con bastone e palla sono attestate presso ogni civiltà. Dovunque (anche in Grecia) sono state rinvenute sculture, dipinti, manufatti decorati con scene raffiguranti giochi simili all’hockey. L’Hockey moderno prende forma in Inghilterra, tra il 1863 ed il 1875, quando vede sorgere la relativa Federazione, insieme al calcio e al rugby. Si pratica alle Olimpiadi sin dall’edizione di Londra del 1908. Le donne sono state ammesse a partire dall’edizione di Mosca del 1980. L’Italia ha partecipato alla sola edizione di Roma del 1960. Entrata a far parte della Federazione Italiana Pattinaggio a Rotelle, questa disciplina raggiunse nell’ambito della “Federpattinaggio” la sua “autonomia tecnico-organizzativa” nel 1957, con la costituzione di una apposita Commissione Nazionale per l’Hockey su Prato, che rimase in vita fino al 1960. Dopo il riconoscimento da parte del CONI, dal 1973 ha assunto il nome di Federazione Italiana Hockey su Prato (FIHSP) e dal 1984

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S o g n a n d o

Troy Bayliss Francesca VIOLO

A tu per tu con un giovane motociclista alla sua “prima intervista”. Nonostante i suoi 14 anni vanta un palmares da invidia. Nella PreGp 250 non ha rivali. FABIO DI GIANNANTONIO si ispira al centauro Bayllis... iccoli centauri crescono. È proprio il caso di dirlo parlando del giovane Fabio Di Giannantonio, un quattordicenne che ha le classiche stimmate per diventare un campione delle due ruote. Nonostante la giovanissima età, vanta dei risultati prestigiosi come i 2 titoli europei, 1 titolo italiano e 1 titolo costruttori nelle minimoto. Senza contare che nelle MiniGp ha partecipato

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alla Scuola Honda vincendo il titolo Hirp e il trofeo Extreme e arrivando terzo al mondiale Honda MiniGp ad Albacete. È stato inoltre pilota ufficiale Honda Gresini San Carlo Junior Team. Quest’anno, infine ha partecipato al campionato PreGp vincendo il titolo italiano. Vi basta? Anche se si avvia a percorrere il sentiero del successo, rimane comunque un ragazzino, con tutti i pregi e i difetti legati alla sua età. Vogliamo scoprirlo più da vicino? Proviamoci. Prima di tutto, che cosa studi? «Frequento il liceo Scienze applicate G. Peano a Roma». Ma come è nata questa tua passione per la moto? «Ce l’ho da sempre, me l’ha trasmessa mio padre. Ho iniziato a cavalcare una due ruote quando avevo 6 anni e a 7 ho partecipato al mio primo campionato italiano di minimoto». Ti senti un privilegiato rispetto ai tuoi coetanei? «No, assolutamente.

Il giovane campioncino è stato quest’anno accompagnato dal nostro logo posizionato sulla tuta e sulla carena della moto. MOTOCICLISMO | 108


Da questo numero, un’altra rubrica va ad aggiungersi al timone di una rivista già ricca. Andiamo alla scoperta dei nostri talenti in erba.

Fabio Di Giannantonio in una sua performance nel PreGp 250 c.c.

Parto da questo presupposto: a me piace e appassiona la moto, mentre ad un altro ragazzo può piacere il calcio o un altro sport. Quindi nessuna presunzione, ma solo diversità sulla scelta di una disciplina». Credi nell’amicizia? «Sì, e non potrebbe altrimenti. Anche se tempo per coltivarla come vorrei non ne ho molto. Comunque è un sentimento al quale credo». Con la tua famiglia come va? «Direi bene, anche se ogni tanto (e qui se la ride…) mi merito qualche calcio nel sedere quando li faccio arrabbiare». Come si svolge la tua giornata tipo? «Dopo uscito da scuola, torno a casa per il pranzo, vado subito dopo a fare gli allenamenti. Mi alleno 5 giorni su 7 e pratico tra l’altro calcio, arrampicata e judo. Finito di sudare, torno a casa e mi tocca un’altra tortura: lo studio». Sappiamo che Chili ogni tanto ti testa. «Sì, è vero. Pierfrancesco che è parente di Alessio Aldrovandi, il mio capo team, quando è libero dai suoi impegni ci viene a vedere come guidiamo e quando rientriamo ai

Troy Bayliss, il campione australiano a cui si ispira Fabio Di Giannantonio

box ci dà consigli di guida e ci svela i segreti da pilota. Chi meglio di lui che è campione mondiale?». La più grande soddisfazione e la più cocente delusione. «La gara che mi ha dato maggior soddisfazione è stata a Vallelunga lo scorso 10 giugno, dove ho ritoccato il record della pista e ho vinto con 8 secondi di vantaggio. La delusione più cocente? Una gara del campionato italiano minimoto dove ho lottato fino alla fine per la vittoria ma sono caduto proprio all’ultima curva. Che rabbia». A quale pilota ti ispiri? «Il mio idolo è sempre stato Troy Bayliss, infatti corro con il suo numero, il 21». Qual è il tuo sogno nel cassetto? «Correre in SuperBike». Da grande cosa vorresti fare? «Il pilota». Hai detto che giochi a calcio. Per quale squadra tifi? «C’è da chiederlo? Per la Magica Roma e il mio idolo è il capitano, Francesco Totti».

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Fabio Di Giannantonio

è nato a Roma il 10 ottobre del 1998. Frequenta il Liceo G. Peano. Vanta diversi titoli e piazzamenti di lusso. Ha la passione delle moto nel sangue, che gli ha trasmesso suo padre Ivan. Cura ogni minimo particolare. Vive in simbiosi con gli altri componenti del team, Alessio, Kevin, Giulio, Biagio e Stefano coi quali ha un rapporto di amicizia oltre che professionale. Quest’anno ha contribuito a portare il team a centrare 5 pole position e 5 vittorie su sei gare. Hanno vinto il campionato italiano PreGp 250.



LA SCHEDA

SE UNO SPORT NON TI BASTA I GRANDI CAMPIONI SCRIVONO PER NOI

La scelta del triathlon è stata per me una conseguenza della mia voglia irrefrenabile di fare sport. Ho iniziato a nuotare da piccolo, e sono passato all’agonismo con buoni risultati, ma non mi accontentavo. Nella mia società sportiva c’era un tecnico di pentathlon moderno e, incuriosito da questo multisport, ho iniziato a praticarlo. Ho vinto molti titoli da juniores, sia a livello nazionale che internazionale, poi però non volevo fermarmi qui e un giorno ho provato il triathlon. Ero incuriosito da questo sport che si pratica interamente all’aria aperta e ho iniziato così a darci dentro. Il gruppo sportivo militare per il quale gareggiavo da pentatleta, i Carabinieri, mi hanno sostenuto nella nuova scelta, così sono andato avanti fino a raggiungere traguardi importanti. Che sport è il triathlon? È uno sport completo sia sotto il profilo fisico che psicologico. Ti fa lavorare tanto ma è ben strutturato, quindi si fatica molto ma non è uno sport inaccessibile come pensano in tanti. Sofferenza e fatica poi crescono in parallelo con la tua età: da piccolo ti alleni e gareggi su distanze brevi, da grande queste si allungano. È uno sport che dà molte emozioni. Quando fai la prova di nuoto sei insieme a decine di avversari cercando di prendere posizione per raggiungere la boa il prima possibile. Quando sei in bicicletta devi essere bravo a creare alleanze per poi dare il tuo colpo di coda quando ti si presenta l’opportunità. Infine la corsa, dove ti ritrovi da solo con quello che ti è rimasto dentro sapendo di dover arrivare in fondo senza risparmiarti. Comunque, a mio parere, l’importante è dare il massimo in allenamento come in gara, essendo consapevoli che ci potrà sempre essere un avversario più forte di te. Insomma, l'importante è essere consapevoli di aver dato tutto.

Giuseppe Ferraro


LA ST ORIA

Il triathlon è uno sport relativamente giovane. L'idea di gareggiare a nuoto, in bicicletta e di corsa senza soluzione di continuità affiorò nel 1977 a un gruppo di amici su una spiaggia di Honolulu, Hawaii. Il gruppetto discuteva su quale fosse la gara sportiva più dura dal punto di vista della resistenza: la "Waikiki rough water swim" di 3,8 km a nuoto, la "112 mile bike race around Oahu", o la "Honolulu Marathon" di 42,195 chilometri. Uno degli interlocutori, il comandante della Marina militare statunitense John Collins, suggerì di combinare le tre prove in un unica gara. Ecco, quel giorno venne inventato il triathlon con la gara che ha fatto la leggenda di questo sport, l'Ironman delle Hawaii. E dopo poco più di venti anni, esattamente nel 2000, la disciplina è stata ammessa nel programma olimpico facendo il suo esordio a Sydney.

IL TRIATHLON A ROMA

La prima presenza certificata del triathlon in Italia risale al 1984 e ad essere protagonista è la Capitale. Quell'anno a Ostia si svolse la prima gara di cui si abbia traccia. La distanza scelta per l'esordio fu quella che oggi viene chiamata olimpica, e per alcuni anni quella fu una delle poche gare che si svolgevano su tutto il territorio nazionale. Negli anni successivi, però, la disciplina si è sviluppata più nel nord Italia, mentre a Roma non è riuscita ad attecchire in pieno. Ancora oggi si svolge qualche gara, perlopiù amatoriale e in provincia, ma sul piano agonistico nessun campione romano è emerso a livello internazionale.

SUPERSPRINT È la distanza più breve del triathlon. La prova di nuoto è di soli 400 metri, quella di ciclismo di 10 km, quella di corsa di 2.5 km.

LE RE GO L E Nel triathlon ci sono poche regole, molto chiare, per ciascuna delle tre prove da affrontare. Nel nuoto è vietato tagliare o passare sotto le boe, il pettorale non deve essere indossato ma lasciato sulla bici in zona cambio, e finita la prova la cuffia deve essere portata al proprio posto in zona cambio. Nella prova di ciclismo si deve mettere il numero prima di prendere la bici, il pettorale deve essere posizionato posteriormente, si può salire in bici solo dopo la linea di demarcazione all'uscita della zona cambio e si deve scendere dalla bici entro la linea di demarcazione all'entrata della zona cambio, eventuali riparazioni in gara devono essere fatte senza aiuto di terzi, alla fine della gara il mezzo deve essere posizionato in zona cambio nella stessa posizione iniziale. Nella prova di corsa, infine, il pettorale deve essere posizionato anteriormente, il body deve sempre essere indossato per intero ed essere allacciato.

SPRINT Èquasi esattamente il doppio della Supersprint: 800 metri a nuoto, 20 chilometri in bicicletta e 5 chilometri di corsa. OLIMPICO È la distanza della gara olimpica: 1500 metri di nuoto, 40 chilometri in bicicletta e 10 chilometri di corsa. E’ una delle distanze più accessibili per gli atleti di buon livello. DOPPIO OLIMPICO è il doppio preciso della distanza olimpica, dunque 3000 metri di corsa, 80 chilometri in bicicletta e 20 chilometri di corsa. IRONMAN 70.3 Conosciuto anche come Half Ironman, la prova è composta da 1900 metri di nuoto, 90 chilometri in bicicletta e 21,097 km di corsa (distanza di mezza maratona) IRONMAN È la prova più dura in assoluto: 3800 metri di nuoto, 180 chilometri in bicicletta e 42,195 km di corsa (la distanza di maratona).

SPORT AI RAGGI X | 112


LA TENUTA

PILLOLE DI STORIA

SUPER TRIATLETA Paula Newby-Fraser, triatleta dello Zimbabwe, è l’atleta più vincente nella storia dell’Ironman World Championship. Dal 1986 al 1996 ha vinto il titolo 8 volte. Nessun triatleta, inclusi gli uomini, è mai riuscito a eguagliare la sua impresa.

NUOTO Il triatleta indossa preferibilmente il costume intero in quanto la prova si svolge in acque libere (lago o mare). Inoltre indossa cuffia e occhialetti.

FRATELLI DA PODIO Ai Giochi Olimpici di Londra 2012, due fratelli britannici sono saliti sul podio della gara di triathlon. Si tratta di Alistair e Jonathan Brownlee: il primo ha conquistato l’oro, il secondo il bronzo. Jonathan non ha potuto competere per il gradino più alto del podio a causa di una penalità di 15 secondi inflittagli per una irregolarità nel cambio dal nuoto alla bicicletta.

CICLISMO Gli uomini indossano la tutina da ciclista, il casco e gli scarpini; le donne invece a volte salgono in bicicletta con lo stesso costume con il quale hanno eseguito la prova di nuoto

IMPOSSIBILE? NO Oltre alle distanze classiche della disciplina, ce ne sono alcune al limite delle possibilità umane. E’ il caso del “Double deca ultratriathlon”, gara che si svolge in differenti giornate che prevede una prova di 76 chilometri di nuoto, una di 3600 chilometri in bicicletta e una di 844 chilometri di corsa.

CORSA In genere uomini e donne corrono con la stessa tutina, o costume, utilizzato per la prova di ciclismo. Al posto degli scarpini da ciclista indossano scarpe da running, e al posto del casco un cappellino per proteggersi dal sole.

ABECEDARIO

WINTER TRIATHLON: Il Triathlon Invernale è uno sport multidisciplinare nel quale l'atleta copre nell'ordine, una prova di corsa, una di ciclismo e una di sci di fondo senza interruzione. ZONA CAMBIO: è l’area allestita per consentire al triatleta di prendere la bicicletta dopo la prova di nuoto e posarla al termine di quella di ciclismo per effettuare quella di corsa. La zona cambio deve avere uno spazio minimo per atleta di 50 cm qualora le bici vengano posizionate in modo alternato su entrambi i lati del supporto e 75 cm qualora le bici siano posizionate su di un unico lato. TEMPO MASSIMO: Nelle gare è previsto un tempo massimo per coprire ciascuna frazione e, quindi, un tempo massimo complessivo. Se l’atleta non chiude una prova entro il tempo stabilito non può proseguire la gara.

COMODO E PROTETTIVO

Nel triathlon l’atleta deve cambiarsi più volte durante la gara, quindi la priorità è avere indumenti facili da togliere e mettere per non perdere tempo durante i cambi. Di fondamentale importanza però è indossare materiali tecnici di buona fattura perché la gara mette a dura prova l’atleta. Nel nuoto il costume deve proteggere sia dalla temperatura dell’acqua, più fredda di una piscina, sia da eventuali “assalti” delle meduse. Nel ciclismo bisogna indossare un casco aerodinamico e degli scarpini comodi. Nella corsa, infine, la scelta delle scarpe è importante in quanto l’atleta arriva alla prova con piedi e gambe già messi alla prova dalle due frazioni precedenti. SPORT AI RAGGI X | 113


Una giornata romana dedicata alla Cina. Il ricordo di Bruce Lee. L’occasione per raccontare l’uomo che ha avvicinato due generazioni di giovani alle arti marziali. In tutto il Mondo ero e proprio mito dell’arte del Kung-fu, Bruce Lee nasce il 27 novembre 1940, a San Francisco, nel Jackson Street Hospital di Chinatown. Alla sua nascita, il padre Lee Hoi Chuen, attore assai conosciuto a Hong Kong, è in tournée in America, seguito dalla moglie, Grace, di origine tedesca e di tradizione cattolica. I due, estremamente nostalgici e desiderosi di tornare una volta per tutte in Cina senza dover più viaggiare, chiamano il piccolo Lee Jun Fan, che in cinese significa proprio “colui che torna”. Quarto di cinque figli, già da piccolo si meritò il soprannome di “mo si tung”, “quello che non sta mai fermo”, anche se pare che per placarlo bastasse mettergli in mano qualche libro. Quella di Bruce Lee che legge è senza dubbio un’immagine curiosa ma se dobbiamo prestare fede alle memorie della moglie, Linda Lee, questo è solo un pregiudizio. In un’opera dedicata alla vita del marito, infatti, la signora ha affermato che «ricco o povero, Bruce ha sempre collezionato libri», per non parlare della sua laurea in Filosofia conseguita da adulto. Dopo aver frequentato la scuola elementare cinese si iscrive al La Salle College ed è proprio qui che matura la sua decisione di dedicarsi approfonditamente alla pratica, e allo studio, delle arti marziali. Un cambiamento non da poco se si pensa che certamente Bruce praticava il Kung-fu (con lo stile Wing-Chun), ma che la maggior parte del suo tempo fin ad allora la dedicava allo studio della danza. L’origine di questa decisione sembra sia da ricercare nelle banali risse che scoppiavano fuori dalla scuola, originate soprattutto dal cattivo sangue circolante fra i ragazzi cinesi e quelli inglesi, percepiti come invasori (Hong Kong, al tempo, era ancora una colonia britannica). Si iscrive allora alla scuola di Wing Chun del famoso maestro Yp Man, diventando uno degli allievi più assidui. Alla scuola di Yp Man oltre alle tecniche fisiche venne a conoscenza del pensiero taoista e delle filosofie di Buddha, Confucio, Lao Tzu e di altri maestri. Accade che alla sua scuola viene lanciata

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T E P O R LO DELL RTI MAR S , I T R A IL PROF SSE LE A CIDENTE ROMA A O O O C O M L L’ E C C O P R L E A P R I M O N E N D O A O G G I P O R I P R O A S T U S L A

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una sfida da parte della Choy Lee Fu School: i due gruppi si incontrano sul tetto di una palazzina, nel quartiere di Resettlement e quella che doveva essere una serie di confronti a due si trasforma presto in una rissa furiosa. Quando un allievo dell’altra scuola procura un occhio nero a Bruce, il futuro re del Kung-fu reagisce ferocemente e, in preda alla rabbia, lo ferisce seriamente al volto. I genitori del ragazzo lo denunciano e Bruce, che allora aveva solo diciotto anni, su consiglio della madre parte per gli Stati Uniti. Anche negli States si trova sovente coinvolto in risse, più che altro causate dal colore della sua pelle; probabilmente in queste situazioni inizia a rendersi conto dei limiti del Wing Chun. Trasferitosi a Seattle lavora come cameriere in un ristorante; completa gli studi liceali all’Edison Tecnical School e, in seguito, ottiene la già ricordata specializzazione in Filosofia alla Washington University. Non gli è difficile radunare attorno a sé amici o curiosi interessati alla sua arte particolare, il Kung fu, che allora era veramente semi-sconosciuta al di fuori delle comunità cinesi. Con il tempo colleziona un’immensa biblioteca contenente volumi su ogni genere di stile e su ogni tipo di arma. Sempre del 1964 è la sua famosa esibizione, in occasione degli Internazionali di Karate di Long Beach, ai quali interviene su invito di Ed Parker. Dalla sintesi, o sarebbe meglio dire, dall’elaborazione di tutti questi studi, nasce il suo Jeet Kune Do, “la via per intercettare il pugno”. Il 17 Agosto del 1964 sposa Linda Emery che, nel Febbraio del 1965 gli dà il suo primo figlio, Brandon (sul set del film “Il Corvo” in circostanze misteriose, Brandon Lee morirà in giovane età, come il padre). In questo periodo Bruce Lee vince una serie di tornei attirando l’atten-

A ROMA UNA FIERA SU LEE er molti le Arti Marziali sono state una ragione di vita, praticate con grande passione ed entusiasmo, sempre pronti ad essere presenti a quelle iniziative che mirano a promuovere e a divulgare la cultura della propria disciplina anche attraverso la collaborazione e la cooperazione delle diverse organizzazioni presenti nel territorio nazionale ed internazionale. Da tempo Federazioni, Enti di Promozione e Associazioni divulgano le Arti Marziali anche attraverso il canale delle competizioni. Tutti insieme hanno dato vita a Roma ad una bella e singolare iniziativa “La Giornata Mondiale” dedicata a Bruce Lee, la stella che ha illuminato le arti marziali nel mondo e che ha fatto nascere la vera passione per le discipline orientali fino a far sentire ai tanti appassionati il dovere di essere uniti nel suo ricordo, attraverso questo evento unico. Il Presidente della Commissione Sport del Municipio XII, Pietrangelo Massaro, tra i grandi artefici della manifestazione romana, si dice soddisfatto dell’iniziativa e dei buoni risultati che ne sono conseguiti. «La Fiera Internazionale delle Arti Marziali è stata certamente la manifestazione più importante che io abbia organizzato in questi anni in qualità di Presidente della Commissione Sport del Municipio XII e credo sinceramente che tale iniziativa abbia portato grande lustro non solo al nostro Municipio ma a tutto il mondo dello sport della Capitale. In Italia le arti marziali, anche grazie agli ottimi risultati della nazionale italiana, hanno visto crescere notevolmente il numero di praticanti ed appassionati: esse rappresentano infatti uno veicolo efficace per trasmettere valori positivi e costruttivi alla comunità, ed in particolar modo ai giovani. Ringrazio dunque il Maestro Liberato Mirenna per aver voluto così fortemente questa manifestazione e il mio auspicio più grande è che essa si possa ripetere nei prossimi anni, come uno dei grandi eventi sportivi della nostra capitale olimpica».

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zione di molti registi. A Los Angeles Bruce Lee comincia la sua carriera di attore recitando nella popolare serie televisiva “The green hornet” e, tra le riprese delle puntate e la nascita della seconda figlia Shannon, trova anche il tempo di insegnare regolarmente Kung-fu. È la carriera cinematografica quella che lo porta alle stelle. Bruce Lee, prima di morire in modo inaspettato prima di concludere l’ultima pellicola, recita in non meno di venticinque film e serie televisive, tutti entrati più o meno a far parte dell’immaginario collettivo. Dal mitico “Dalla Cina con furore”, a “L’urlo di Chen terrorizza l’Occidente”, da “I 3 dell’operazione Drago” fino al drammatico titolo postumo, in cui furono usate controfigure per terminare le scene non girate da Bruce “L’ultimo combattimento di Chen”. Bruce Lee scompare il 20 luglio 1973 lasciando il mondo attonito. Nessuno riesce ancora a spiegare le ragioni di quella incredibile morte. C’è chi sostiene che sia stato ucciso da maestri tradizionalisti, da sempre contrari alla diffusione del Kung-fu in Occidente (della stessa opinione, dicono i bene informati, era la mafia cinese, altra entità presunta responsabile), chi invece crede che sia stato eliminato da produttori cinematografici che non avevano ottenuto il suo consenso per alcune sceneggiature a lui proposte. La versione ufficiale parla di una reazione allergica ad un componente di un farmaco, l’”Equagesic”, da lui utilizzato per curare l’emicrania. Ad ogni buon conto, con lui è scomparso un mito adorato dalle folle, un uomo che attraverso l’apparente violenza dei suoi film è riuscito a trasmettere l’immagine di uomo duro ma profondamente sensibile e perfino timido. L’enorme uso che Hollywood, dopo di lui, ha fatto e continua a fare delle arti marziali e il mistero della sua scomparsa fanno sì che la sua leggenda rimanga viva tutt’oggi. Uno degli ultimi celebri esempi lo si riscontra nel film di Quentin Tarantino, “Kill Bill” (2003), zeppo di scene riprese pari pari dai film del “Drago” (senza contare la tuta gialla di Uma Thurman che richiama quella analoga di Bruce Lee). Al suo funerale, ad Hong Kong, partecipò SPORT E CINEMA | 116

una folla immensa; una seconda funzione in forma privata ebbe invece luogo a Seattle dove Bruce Lee è sepolto, presso il Lakeview Cemetery. «Sollecitato nel merito dall’amico Fabio Argentini, mi sento di condividere il concetto che attribuisce quale maggior pregio a Bruce Lee, l’aver proposto e diffuso intelligentemente una sorta di etica del riscatto, offrendo ai giovani di alcune categorie sociali, che in quegli anni vivevano il disagio caratteristico delle “linee di confine” tra legalità e necessità, tale possibilità spingendoli a disertare le bische per frequentare le palestre. Questo fece oltretutto da cassa di risonanza a

quella che era, in un certo senso, la missione della Pugilistica, intesa come nobile arte, ma che rispetto a questa appariva meno “dura” e più gratificante in senso estetico», spiega Francesco Santonicito, VIII Dan Shihan Wado Ry Karate Do, V Dan Ken Jutsu, Fondatore dello Shin GO Do e Arte marziale integrate Normodotati-Disabili. «Un’osservazione che invece ritengo utile proporre agli “appassionati del genere”, riguarda il messaggio di Bruce Lee che appare assolutamente americano nella comunicazione ed occidentale nei valori espressi: uguaglianza, libertà, legalità ed integrità morale, molto distanti quindi dalla filosofia


spq ort della Cina politica di quegli anni, alla quale fu per questo terribilmente inviso. Fuori luogo mi appare ogni analisi di carattere tecnico del valore marziale del SIFU Bruce Lee in quanto non attinente alla valenza oggettiva della sua opera fondata sulla promozione del valore e dei valori umani che il suo mito, ad oggi, continua a proporre ai nostri giovani. Onore a Bruce Lee».

LE ARTI MARZIALI

Nel Cinema

Eleonora MASSARI

Bruce Lee comincia la sua carriera di attore recitando nella popolare serie televisiva “The green hornet”

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Il genere marziale nasce all'inizio degli anni settanta ad Hong Kong, e si esaurisce quasi completamente nella seconda metà degli anni novanta. Dopo questa data, infatti, i film di arti marziali propriamente detti subiscono una drastica diminuzione, e tutti i professionisti del settore ripiegano su altri generi. Si hanno così film d'azione, drammatici, thriller ed anche fantascientifici, che vantano al proprio interno alcuni combattimenti a mani nude, in molti casi coreografati da grandi nomi del genere marziale. I film marziali sono stati prodotti principalmente da Hong Kong, dagli USA e, in numero decisamente minore, dalla Corea del Nord. Non mancano comunque eccezioni, come titoli provenienti dalla Francia, dalla Cina, dal Sudafrica ed anche dall'Italia. Dai primi anni del 2000, la Thailandia si è imposta pesantemente sul mercato mondiale con alcuni titoli che riportano in auge il genere. Queste le pellicole più famose dal 1970 ad oggi: Chinese Boxer, Il furore della Cina colpisce ancora, Dalla Cina con furore, L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente, Cinque dita di violenza, Kung fu, I tre dell’operazione drago, Massacro a S. Francisco, Il teppista, I giganti del karate, Il distruttore, I distruttori del tempio Shaolin, Le furie umane del kung fu, 36. Camera Shaolin, Drunken master 1 e 2, L’ultimo combattimento di Chen, L’ultima sfida di Bruce Lee, Karate Kid 1 e 2, Kickboxer 1 e 2, Il ragazzo dal kimono d’oro, Guerriero americano 1, 2, 3, 4 e 5, I migliori; Once Upon, Mortal kombat, La prova, Rush Hour, Romeo deve morire, La tigre e il dragone, Hero, Ong-Bak 1 e 2, Kung Fusion, The Protector, Fearless, Mai arrendersi, Kung fu Panda 1 e 2, Redbelt, Ip man, Ninja Assassin, The raid. Tra i maggiori interpreti di questo genere troviamo Sonny Chiba, Jackie Chan, Tony Jaa, Bruce Lee, Jet Li, Chuck Norris, Jean Claude Van Damme, Michael Jai White, Brenda Song, Donnie Yen.


Bmovies Li chiamavano

m a o g g i fa n n o t e n d e n z a !

Emmanuele comincia la sua avventura erotica in Thailandia mentre Pierino insegue gli stessi sogni nelle scuole italiane. Le pianure pugliesi diventano il Grand Canyon per gli Spaghetti Western mentre dall’Oriente oltre a Bruce Lee arrivano i figli di King Kong. Roma, Napoli e Milano diventano “violente” grazie a Maurizio Merli e Tomas Milian… Insomma tanti film a basso costo ma che alla lunga hanno reso e pure parecchio di Luca ALEANDRI

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otere degli Anni Settanta, periodo di sogni, chimere, ideali e rivoluzioni. Vere, false, o addirittura fasulle. E di patacche, all’epoca, ne giravano parecchie. Per strada, nei mercatini alla Porta Portese cantati perfino da

qualche autore ancora in cerca dell’ispirazione vincente, ma anche in altri ambienti. E non parliamo, ovviamente, delle tragedie (vere) nazionali. Segnate anche a distanza di anni, da falsi alibi, false piste, false testimonianze. Era il cinema, che cominciava ad avvertire il peso insostenibile della concorrenza catodica domestica, a doversi piegare tra esigenze di cassetta (ingenti, per riuscire a coprire le spese) e necessità di risparmio, per riuscire a tirare fuori un saldo positivo dalla partita doppia. E l’italico ingegno, come si sarebbe detto appena qualche anno prima, allora si piegò alle esigenze del momento. La parola d’ordine fu, almeno in parte, scimmiottare. O, in alternativa, inventare nuovi filoni, o personaggi, che con pochi soldi potessero attrarre pubblico. Girando pellicole o importandole dall’estero. Laddove il capostipite produceva consenso, ecco partire il “filone”, che con poche spese aggiunte produceva e moltiplicava le occasioni di incasso: filoni come l’erotico di casa nostra (le pellicole dell’indimenticabile Edwi-

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ge Fenech, ad esempio) e stranieri (come il filone Emmanuele), orientali (tra mostri giapponesi o arti marziali), western o fantascienticici, mitologici (ed ecco Sansone, Ercole, romani e barbari, corsari e semidei...) o d’attualità (così Roma, Milano e Napoli diventano “violente” e raccontano i crudi Anni ‘70) fino a personaggi leggenadri per i nostri cinema, da Zorro a Robin Hood, moschetieri e uomini della foresta, eroi e primi supereroi... Già, gli anni Settanta che sono stati riletti, talvolta con lenti severe, altre volte invece con lenti deformate in positivo dai ricordi giovanili dei critici che al periodo erano personalmente affezionati, piuttosto che lenti ingentilite dall’ideologia dominante dell’epoca che, pur superata, aveva lasciato un piccolo vezzo di “nostalgismo” che faceva anche un po’ chic. E il cinema non poteva essere da meno. Spaccato di una società inquieta, ha ispirato successivamente autentici giganti del movie mondiale come Tarantino, che ha pubblicamente ammesso di essersi ispirato al cinema italiano del pe-


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riodo, in particolare al filone poliziesco. Attenzione, nulla a che vedere con il mite e arguto Poirot, o addirittura con la vegliarda di turno che indovina un assassino via l’altro. Qui siamo in pieni Anni Settanta. Ispettori in Ray-Ban e maniche di camicia, che inseguono con l’Alfetta il rapinatore che fugge a bordo di un 128 indossando il passamontagna sferruzzato, sembra, dalla nonna, e che cerca di tornare sano e salvo nel ghetto metropolitano. Le storie, più o meno cruente, comunque restano in linea con la cronaca, e mettono in luce una generazione di attori alla Maurizio Merli e Luc Merenda e registi come Umberto Lenzi, Fernando Di Leo, Damiano Damiani, Stelvio Massi, Franco Martinelli. Ma questi set sono frequentati saltuariamente anche da personaggi più noti: Philippe Leroy, reduce come parà dalla disfatta indocinese di Tien Bien Phu, Giuliano Gemma, Fabio Testi, Gastone Moschin, Orso Maria Guerrini, Adolfo Celi. E Tomas Milian, fuoriuscito cubano non di rado per questo infastidito dalla poco comprensiva ultrasinistra, che non sopporta la sua fuga dal paradiso creato da Castro e Guevara. Milian divenne però protagonista di una serie in cui lui, rapinatore di borgata estremamente scurrile, diviene poliziotto, tanto bravo ed efficiente nei risultati quanto atipico e ingovernabile nei modi. Vestito in modo improbabile, con una tuta da meccanico blu e un variopinto zuccotto di lana, Nico “Er Pirata” diventa, nel corso del succedersi delle varie pellicole dirette da Sergio Corbucci, il Maresciallo Giraldi. E in tale nuova veste giù altre avventure, per questa straordinaria icona del periodo, coadiuvata da figure pasolinianamente prese dal marciapiede come Bombolo, o dalla controfigura Quinto, che lo impersona nelle sequenze più spericolate. Altro filone del genere: la fortunata serie dei “simpatici poliziotti” che vede protagonisti il manesco


L'uomo che distribuì Bruce Lee in Italia Bud Spencer e l’agile quanto furbo Terence Hill. In particolare il gigante Bud è all’anagrafe Carlo Pedersoli, ex nuotatore della Polisportiva Lazio e anche azzurro ai giochi olimpici di Helsinki, nel 1952. I due sconfiggono orde di banditi truci ma inadeguati a suon di sberle. Parente stretto del filone succitato è il western, anch’esso decantato da più di un protagonista della mecca hollywoodiana. In particolare, il maestro Sergio Leone, talvolta avvalsosi delle stupende colonne sonore del maestro Morricone, è stato capace di ridipingere un’epoca, quell’epopea dei coloni nordamericani, con maestria difficile da eguagliare. La definizione di “spaghetti western” ne sottolineava, anche con una punta di ironia, la provenienza. E sulla scia di Leone, diversi autori minori si cimentarono facendo recitare Apache, nati in Ciociaria, sugli Appennini abruzzesi che avrebbero dovuto riprodurre il Wyoming. Abiti di scena di una accuratezza almeno approssimativa, basettoni che escono da sotto i cappelli a falde larghe, molta pelle di daino generosamente distribuita proprio per non sbagliarsi. Contemporaneamente, emersero altri filoni, di matrice decisamente diversa. Sdoganato dai tabù dei primi Anni Sessanta, il sesso comincia a entrare nelle fantasie più che private degli italiani. E se fanno scuola film esteri, come il ca-

postipite anglosassone Lolita, di Stanley Kubrick, o il più tardo, francese Emmanuelle (un solo film autentico e poi, anche per la sensuale Emmanuele -con una sola “l” per non essere condannati per plaggio, tante imitazioni, come per Bruce Lee e tanti altri), da noi non solo si riprendono storie similari ma talvolta si sfocia nel pecoreccio sul modello delle barzellette che hanno per protagonista un bambino impertinente di nome Pierino. Tale filone, una delle derive del più ampio fiume cinematografico dell’erotismo, produce, prolungando la propria scia anche negli Anni Ottanta, una serie di starlette, alcune delle quali in grado di lanciarsi in modo importante nel jet set nostrano, altre destinate a un rapido oblio. Tra esse brilla l’astro di Edwige Fenech che, ironizzando anni dopo su quella parte della propria carriera, disse di non «essersi mai lavata tanto», alludendo alle immancabili docce con le quali i registi regalavano momenti emozionanti a un pubblico maschile ancora non particolarmente abituato al nudo. Ma il cinema di quegli anni non fu solo autoproduzione ma anche importazione di filoni che si imponevano all’estero, oppure che conoscevano grande fortuna in televisione, inaugurando così un legame importante tra questi due mezzi di comunicazione. Personaggi robotici e mostri come Godzilla e Kong (a richiamare il mito di King Kong), perlopiù di provenienza giapponese, erano raffigurati in cartoons ma anche in pellicole antropiche. E, last but not least, arrivò anche il filone delle arti marziali. E poi, uomini in calzamaglia, corsari e pirati, antichi romani e semidei come Ercole, Sansone e Maciste. Si inseguono fantascienza e mitologia, polizieschi e western, fumetti e personaggi tratti da libri. Con un un unico denominatore: vendere. Senza immaginare di star per diventare un Mito.

I film dopo Lee Parliamo con Remo Angioli, storico produttore e distributore cinematografico romano degli Anni Settanta, distributore delle pellicole su Bruce Lee e... dopo Bruce Lee con i tanti film che, imitando il famoso attore, proseguirono un filone danaroso. L’imprenditoria cinematografica fiutò l’affare obbedendo alla prima regola di qualsiasi capitano d’azienda: dare al pubblico ciò che vuole. E gli incassi diedero loro ragione. Sebbene Lee fosse stato colpito da un tragico destino, che tra l’altro sembra quasi un tratto distintivo di famiglia se si pensa alla tragica fine del figlio Brandon, le pellicole a lui ispirate divennero un cult dei tempi, sebbene nessuno di quei protagonisti assurse alla sua fama. Agli inizi, Angioli approdò al cinema per caso: «Praticavo la boxe e questo mi fece avvicinare al mondo del cinema. Tra le tante persone incontrate nella mia vita lavorativa lavorai con un giovanissimo Tomas Milian, arrivato da poco in Italia. La sinistra extraparlamentare, che allora era fortissima, lo contestava continuamente perché lui, figlio di un militare, era fuggito dalla Cuba castrista. Insomma, una bestemmia, per l’ideologia di allora. Così, per stare più tranquillo, assunse qualcuno che gli guardasse le spalle. E la scelta cadde sul sottoscritto. Una volta dovetti buttare fuori alcuni variopinti contestatori che si facevano chiamare Uccelli Metropolitani, nelle cui file militava tra l’altro un personaggio che oggi è un affermato giornalista. Fu lui a spingermi a fare l’attore, con piccole parti, qualche film western con cui sbarcare il lunario, ma mi resi conto che non era quella la mia strada. La produzione e la distribuzione erano più pane per i miei denti. Iniziai con un film horror e subito dopo entrai in contatto con il mondo dei film orientali, quelli diciamo sulle arti marziali. All’epoca i film di Bruce Lee avevano avuto un grande successo e quindi si era sviluppato un filone di imitazione, anche perché la morte di Bruce Lee aveva posto fine alla possibilità di girare con lui. Un mio fornitore dell’epoca trattava questi film per il mercato inglese e così ebbi la possibilità di inserirmi nel business. Per diversi anni, tra i Settanta e gli Ottanta, ne ho distribuiti diversi, una quindicina, in genere acquistandone i diritti, temporaneamente o, in qualche caso, anche in via definitiva. Invece uno l’ho proprio prodotto e per fare questo andai a Hong Kong. D’altronde la Cina era piena di emuli di Bruce Lee e c’era la possibilità di realizzare dei prodotti di buon livello. Non è un caso che ebbero un grande successo. Ricordo che uscivamo con 40-50 copie, numeri importanti. Un successo in tutta Italia, ma in particolare ricordo che soprattutto da Roma in giù erano molto richiesti». (l.a.)

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SCHEDA FILM L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente Anno: 1972 Soggetto: Bruce Lee Regia: Bruce Lee Interpreti: Bruce Lee, Nora Miao, Chuck Norris, Roberto Walt, Whang Ing Sik, Chin Di, Wei Ping-Ao, Wang Chung Hsin, Unicorn Chan, Tony Liu, Malisa Longo, John T. Benn

Bruce Lee

GIRÒ

UN

FILM

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ROMA

oma protagonista in uno dei film più famosi di Bruce Lee, “L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente”. La pellicola venne girata nel 1972 e il tratto saliente è il combattimento finale nel Colosseo tra Lee e un giovanissimo Chuck Norris, che rimanda ai combattimenti dei gladiatori. La trama, in breve, è questa. Tang (Lee) parte da Hong Kong per Roma per aiutare un amico di famiglia, la cui nipote Chen Ching Hua ha aperto un ristorante che però suscita l'interesse della mafia locale. Non riuscendo a convincere i proprietari a vendere, i malavitosi cercano di intimidirli, ma Tang riesce a sconfiggerli facilmente. Il boss mafioso allora, su suggerimento del suo assistente Ho, assume tre criminali esperti di arti marziali per contrastare Tang: il campione giapponese, il campione europeo ed il campione americano Colt. Tang però riesce ad anientare tutti e tre i suoi avversari e ridà serenità ai suoi amici nel loro ristorante. Finito tutto, Tang torna ad Hong Kong.

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SPORT E MEDIA


LE ARTI MARZIALI

IN TUTTO IL MONDO nnumerevoli le arti marziali che si praticano nel mondo. Una disciplina che si diversifica al suo interno, attraverso altri sottogruppi che danno vita a innumerevoli specializzazioni. Le arti marziali orientali considerano il confronto fisico giustificabile solo come mezzo di difesa. Gli stili giapponesi vengono influenzati fortemente dalla filosofia zen. Le arti marziali coreane pongono enfasi sullo sviluppo filosofico e spirituale del praticante. Le arti marziali indiane possono insegnare varie forme di medicina indiana tradizionale. Le arti marziali cinesi insegnano alcuni aspetti della medicina tradizionale cinese come il qigong, l’agopuntura, e l’agopressione.

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In Europa divennero presto obsolete con l’avvento delle armi da fuoco. Alcune come il pugilato, la lotta, la scherma sono sopravvissute divenendo sport. Anche in Italia c’erano diversi tipi di arti marziali, soprattutto quelle legate all’utilizzo di uno o due bastoni, spesso di lunghezze differenti, dato che non era spesso permesso a chi non era nobile di portare la spada. Un esempio sono il bastone genovese, il bastone pugliese o quello siciliano. Arti marziali senza armi che sono sopravvissute sino ad oggi includono il pugilato inglese, la lotta olimpica, il savate francese, s’istrumpa sarda. Alcuni sistemi con armi sono sopravvissuti come sport tradizionali e come metodi di autodifesa, e sono ad esempio il Jogo do Pau del Portogallo, e il Juego del Palo delle isole Canarie. Nel Nord America non sono state inventate arti marziali, ma sono piuttosto state importate quelle europee in seguito alla colonizzazione e più tardi quelle asiatiche che hanno avuto una notevole diffusione e sviluppo nel XX secolo. Nell’America meridionale la più famosa e diffusa arte marziale è la Capoeira, creata dagli immigrati africani in Brasile intorno al XVI secolo. Un’altra arte marziale di origine brasiliana è il Brazi-

lian Jiu-Jitsu: è lo sviluppo, principalmente ad opera di Carlos ed Hélio Gracie, degli insegnamenti di jiujitsu impartiti dal Diplomatico e Maestro Mitsuyo Maeda durante la sua permanenza in Brasile. A metà del secolo scorso ha avuto inizio la diffusione del Vale Tudo. In Africa, ad esempio, il Moraingy è un’arte marziale tradizionale del Madagascar che ha avuto origine nella costa occidentale dell’isola durante la dinastia Maroseranana (1675-1896) del regno dei Sakalava, che con il tempo si è diffusa in tutto il Madagascar e nelle vicine isole Riunione, Comore, Seychelles e Mauritius. Ed in Italia? I testi sacri inseriscono la scherma tradizionale italiana, ovviamente, o le discipline antiche come il Pancrazio che dalla Grecia divenne popolarissimo nella Roma antica insieme anche alla Lotta Gladiatoria. Se poi ci mettiamo anche le Mazzate Napoletane, che sempre nei testi sacri compaiono, siamo proprio a posto…


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rti marziali in giro per il Mondo. Ogni nazione ha le proprie specialità. Scopriamole in un lungo elenco. Dalla camerunense “Lotta dei Duala” al “Jujitsu” che nasce in Porto Rico, dal “Silat” nel Borneo… alle “Mazzate Napoletane” passando per il nostro passato con le “Lotte Gladiatorie” e il “Pancrazio”. Un elenco tutto da leggere…

Arti marziali africane Camerun (Lotta dei Duala), Egitto (Scherma egiziana), Kenya (Massaï), Madagascar (Moraingy), Senegal (Dioula arte marziale, Lotta senegalese), Sudafrica (Amok, Scherma Zulu), Sudan (Lotta della Nuba).

Arti marziali asiatiche Cina: Baguazhang, Liuhe Bafa, Kenp, Taijiquan, Wuji quan, Xingyiquan, Yiquan, Bai He Quan, Bajiquan, Black Tiger Kung Fu,Chin Na ,Choy Lay Fut, Chuo Jiao, Do Pi Kung Fu, Yingzhaoquan, Emei Quan, Fanziquan, Hop Gar, Hung Gar, Wing Tsun, Lohan Quan, Mei hua quan, Houquan, My Jong Law Horn, Nanquan, Pak Mei, Wu Jia Quan Fa, San shou, Sanda, Shaolinquan, Shuai Chiao, Shequan, Tantui, Ta Fang Tao, Tang Lang Quan, Tompei Quan, Yau Kung, MunVuh Chung. Indonesia: Kuntao, Silat, Tarung Derajat, Harimao India: Gatka, Kalarippayattu, kalaripayattu, Nillaikalakki Silambam, Marma Adi, mallak-rida, malla-yuddha, niyuddha-kride, Vajra Mushti Giappone: Aikido, Aikijutsu, B jutsu, Bujinkan, Iaido, Ninjutsu, Jikishinkage ryu, Jojutsu, Jodo, JkdM, Jujutsu, Jutaijutsu, Karate, Daido Juku, Shotokan Karate, Shotokai Karate, Shuri-te, Naha-te, Tomari-te, Kenpo, Kendo, Kenjutsu, Kick boxing, Kyujutsu, Kyudo, Kobudo, Nanbudo, Sankukai, Naginata-jutsu, Naginata-do, Ninjutsu, NinpM, Shinseikai, Shintaido, ShinwaTaido, Shorinji Kenp , Shooto, Shoot boxing, S jutsu, Sumo, Taijutsu, Taido, Taikiken, Tantojutsu, Tegumi, Tennen Rishin Ryk, Tessenjutsu, Yarijutsu, Yoseikan budo, Yoseikan Ryu, Okinawa, Kobudo, Okinawate. Mongolia: Buh. Borneo: Silat Myanmar: Bando, Banshay, Lethwei, Naban Cambogia: Bokator. Laos: Lao Boxing, Ling Lom Tibet: Sengueï Ngaro, Choy gar, Pak Hok Pai Malesia: Silat Filippine: Arnis, Buno, Combat Judo, Dumog, Estoca, Estocado, Gokusa, Kali Sikaran, Kino mutai, Kombatan, Kuntaw, Kuntaw Silat, Panandata, Pukulan, Sagasa, Sikaran, Silat, Suntukan.

Samoa Orientali: Limalama Singapore: Anam Kombat, Rhee Tae-Kwon-Do Sri Lanka: China adi, Angampora Taiwan: Bujindo Jugempo Thailandia: Krabi Krabong, Lerdrit, Muay Boran, Muay Thai Vietnam: Vovinam Viet Vo Dao, Vo Co Truyen, Vo Thuat, Viet Vo Dao/ Viet Vu Dao/ Viêt-Võ-Dao, Viet boxing, Viet Tai Chi, Qwan Kio, Han Bai, Thanh Long, Tu-Thân, Tran Minh Long, Nguyen Trung Hoa, Binh Dinh, Kim Ke, Cuong Nhu, Yong Chun, Wu Tao. Uzbekistan: Kurash.

canaria, Zipota, Trisistema, Pelea gitana, Esgrima española, Verdadera Destreza. Svezia: Byxhast-Balgtag. Svizzera: Schwingen, Rangein. Ungheria: Esgrima magiara

Arti marziali europee

Arti marziali americane

Danimarca: Four Range Fighting System, Selvforsvarsmaerket Finlandia: Kas-pin, Mil Fight, Baltkast. Francia: Brancaille, Lutta corsa, Lutte Parisienne, Savate, Savate-Danse du Rue, Gouren, Gure, Scherma Tradizionale Francese Germania: Anti Terror Kampf, Gojutedo, Individual Fighting Concepts Mallepree, Kampfringen, Kenjukate, MilNaKaDo, Nindokai, Stockfechten, Taijutsu Goju, Ryu, Taijutsu Kobu Ryu, JuJutsu tedesco, Scherma Tradizionale Tedesca Grecia: Pancrazio, Pygmachia, Orthepale. Gran Bretagna: Cornish wrestling, Cumberland wrestling, Kosho, Llap-goch, Lutte Breton, Purring, Ryoute, Spirit combat, Westmoreland wrestling, Lancashire wrestling, Bartitsu. Irlanda: Bata, Collar and Elbow Islanda: Glima. Italia: Kenjitsu Hasakido Shuhari, Newfight, Calci e schiaffi, Scherma tradizionale italiana, Pugilatus caestis, Guerra dei Pugni, Box libera, Kick jitsu, Lotta gladiatoria, Haito, Huraghen, Lotta campidanese, Luctatio, Lucta erecta, Lucta volutatoria, T’Ien Shu, Sa strumpa, Scherma salentina, Taj gawa, Kombo, Scherma col bastone da passeggio italiano o canna italiana, Taccaro, Varra, Patella vacche, Gambetto genovese, Gemart, Tecniche italiane di coltello, Bastone lungo del REI, Mazzate Napoletane Norvegia: Stav Olanda: Amsterdams Vechten, Esgrima olandese, Kickboxing olandese Portogallo: Jogo do Pau, Pombo Polonia: Combat 56, Signum Polonicum, BAS-3 Russia: Armeiskii rukopashnyi boi, Boevoi Gopak, Buza, Kolo, Kulachnoi Boya, ROSS, Rukopaschnij Boj, Russky Stil, Boxe russa, Sambo, Samoz, Skobar, Slada, SlawjanoGoritzkaja Borba, Systema, UNIBOS, Velesova Borba, Vyhlyst, Wjun Romania: Club Sportiv Knock-Down Timisoara Scozia: Greenoch, Scottish Backhold Serbia: Aikido reale, Fudokan-Šotokan, Svebor. Spagna: Lucha leonesa, Palo canario, Lucha

Argentina: Esgrima criolla, Juego de cañas, Ryong Do, Boxeo marcial argentino, Shangai kid Bolivia: Tinku, Lucha de cholitas Brasile: Capoeira, Valetudo, Ju jitsu brasiliano, Luta livre, Kombato. Cile: Kollellaullin, kechu rëpü, 16 cortes, Caiten, Esgrima corvo, Sung-thru Colombia: Grima Ecuador: Jutekwon Perù: Lu-Ju-Tai Venezuela: Garrote tocuyano, Hiramatsu Kai, Sanjal Uiam, Karate libre. Canada: Oki-Chi-Taw, Yeshua-Do. U.S.A.: 10th planet jiu-jitsu, American Kempo, Amok, Catch As Catch Can Wrestling, Chun Kuk Do, Combat Submission Wrestling, Combat Hapkido, Grappling, Hurricane Combat Arts, Jeet Kune Do, Inoue grappling, Jim Wagner RealityBased Personal Protection, Kajukenbo, Kickboxing, Marine Corps LINE Combat, Miletich Fighting Systems, PraMek, Pro-Wrestling, Progressive Fighting System, Ryukyu Kempo, Red Warrior o Tushka-homa, Savate and Muay Thai Crosstraining, S.C.A.R.S., Taiho-Jitsu, Toshin do, World War Two Combatives, Defendo, Defendu, Zipota. Hawaii: Hawaiian Lua, Kajukenbo Messico: Yaomachtia, Xilam, Esgrima Colonial, Lucha tarahumara, Chupa porrazo, Taekworkuot, Lucha de piernas mexicana Costa Rica: Retsuken Ryu Cuba: Machete cubano, Lucha del tolete, Mani, Kaisendo, Kansen Ryu, ShinKaiDo Ryu, Kenpo cubano Haiti: Machete haitiano Porto Rico: Kyo dai Ryu, Jiuwaithai, Jedan-Ryu Jujitsu

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Arti marziali mediorientali Iran: Kung Fu Toa, Razm Avar, Koshti Pahlevanee, Koshti Azad, Tua system, Sistema Zur Khuneh. Israele: Sistema Haganah, Krav Maga, Kapap Lotar, Kapap Krav Operational Turchia: Ya lı güre , Lotta turca

Dall'antica Grecia e dall'antica Roma, il Pancrazio


1982 Un anno storico, di quelli che rimangono impressi sul libro del calcio. Italia Campione del Mondo. 2012: il ricordo, trent’anni dopo

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Il cammino dell’Italia in Spagna. TRENT’ANNI FA La cavalcata azzurra ai Mondiali di Spagna non era iniziata nel migliore dei modi. La critica fu severa e il gruppo azzurro scelse il silenzio stampa. E subito dopo arrivarono quei magici trionfi…

PRIMA FASE A GRUPPI - GRUPPO 1 Squadra P.ti G V N P Polonia 4 3 1 2 0 Italia 3 3 0 3 0 Camerun 3 3 0 3 0 Perù 2 3 0 2 1

GF 5 2 1 2

GS 1 2 1 6

DR +4 0 0 -4

rent’anni fa l’Italia si laureava Campione del Mondo in Spagna. Un’impresa insperata alla vigilia, vista la forza degli avversari e del momento difficile che stava vivendo il nostro calcio. Era ancora aperta la ferita del calcioscommesse che aveva dato una mazzata non indifferente a tutto l’ambiente. Dopo lo scandalo, si stava cercando di rimettere piano piano la testa fuori. E in quella nazionale che si apprestava ad affrontare l’avventura mondiale in Spagna c’era chi il calcioscommesse lo aveva travolto, Paolo Rossi, incorso in una lunga squalifica che aveva scontato pochi mesi prima della partenza per la penisola iberica. La sua convocazione non fu presa bene dalla gente, ma nonostante questo il “vecio” Bearzot si assunse la piena responsabilità di tale scelta. Una spedizione che iniziò nel peggiore dei modi. Un trittico di partite che aprì ampi squarci alla polemica (ricordate quante se ne dissero dopo la partita col Camerun?). E questo tourbillon di polemiche fu alla base di una decisione traumatica da parte dell’ambiente azzurro: l’adozione del silenzio stampa. E quell’azzardato comportamento che poteva far saltare la polveriera fu invece la medicina ideale. Da quel momento la nazionale di Bearzot prese una piega diversa, si trasformò. Da squadra impaurita e senza gioco, improvvisamente si trasformò in una compagine di leoni. Da brutto anatroccolo a magnifico cigno, insomma. Un susseguirsi di risultati che a pensarci ancora adesso hanno il sapore dell’incredibile. Una dietro l’altra caddero ai piedi della nazionale di un Paolo Rossi mitraglia formazioni come l’Argentina di Maradona, il Brasile di Falcao e Zico, la Polonia. E infine, nell’apoteosi del Bernabeu, anche la Germania dovette inchinarsi. «Campioni del mondo, Campioni del mondo, Campioni del mondo», fu il finale triplice grido di Nando Martelli-

T

14 giugno 1982 - ore 17.15 - Stadio Balaídos Italia 0 Polonia 0 18 giugno 1982 - ore 17.15 - Stadio Balaídos Italia 1 Perù 1 23 giugno 1982 - ore 17.15 - Stadio Balaídos Italia 1 Camerun 1

SECONDA FASE A GRUPPI - GRUPPO C Squadra P.ti G V N Italia 4 2 2 0 Brasile 2 2 1 0 Argentina 0 2 0 0

P 0 1 2

GF 5 5 2

GS 3 4 5

DR +2 +1 -3

29 giugno 1982 - ore 17.15 - Stadio de Sarriá Italia 2 Argentina 1 5 luglio 1982 - ore 17.15 - Stadio Balaídos Italia 3 Brasile 2

SEMIFINALE 8 luglio 1982 - ore 17.15 - Stadio Camp Nou Polonia 0 Italia 2 Arbitro: Cardellino Marcatori: 22’, 73’ Rossi

FINALE 11 luglio 1982 - ore 20.00 - Stadio Santiago Bernabeu Italia 3 Germania Ovest 1 Arbitro: Coelho Marcatori: Rossi 56’, Tardelli 68’, Altobelli 81’, 83’ Breitner

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La rosa dell’Italia All. Enzo Bearzot

1 Zoff Dino

2 Baresi Franco

3 Bergomi Giuseppe

4 Cabrini Antonio

(Juventus)

(Milan)

(Inter)

(Juventus)

5 Collovati Fulvio

6 Gentile Claudio

7 Scirea Gaetano

8 Vierchowod Pietro

9 Antognoni Giancarlo

(Milan)

(Juventus)

(Juventus)

(Fiorentina)

(Fiorentina)

10 Dossena Giuseppe

11 Marini Giampiero

12 Bordon Ivano

13 Oriali Gabriele

14 Tardelli Marco

(Torino)

(Inter)

(Inter)

(Inter)

(Juventus)

15 Causio Franco

16 Conti Bruno

17 Massaro Daniele

18 Altobelli Alessandro

19 Graziani Francesco

(Udinese)

(Roma)

(Fiorentina)

(Inter)

(Fiorentina)

20 Rossi Paolo

21 Selvaggi Franco

22 Galli Giovanni

(Juventus)

(Cagliari)

(Fiorentina)

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I CAMPIONISSIMI Una selezione dei nomi che in quegli anni non solo davano lustro alle rispettive nazionali ma offrivano sempre un saggio della loro bravura nei rispettivi club. Un modo per rivedere quelle maglie che hanno reso celebre il Mundial. Maglie piene di storia e di fascino… Ci sono tutte le grandi: manca solo l'Olanda fermata alle eliminatorie del Mondiale in una gara con la Francia entrata nella leggenda.

SANTILLANA Nato a Santillana del Mar il 23 agosto 1952, ha giocato dal 1971 al 1988 con la maglia del Real Madrid, giocando 461 partite e segnando 187 gol. Intensa anche la sua esperienza con la nazionale iberica, 56 presenze con 15 gol.

DIEGO MARADONA Nato a Lanus il 30 ottobre 1960. A. Juniors, Boca, Barcellona, Napoli, Siviglia, Nevell’s le sue squadre: oltre 300 presenze per 260 reti. In nazionale ha giocato 91 volte segnando 34 gol. Ha guidato l’Argentina dal 2008 al 2010.

MICHEL PLATINI Nato a Joeuf il 21 giugno 1955. 268 presenze e 152 gol in Francia, 147 presenze e 68 gol con la Juve. In Nazionale ha collezionato 72 presenze, segnando 41 reti. Ha diretto i transalpini dall’88 al 92. Ora è il Presidente Uefa.

ZBIGNIEW BONIEK Nato a Bydgoszcz il 3 marzo 1956. Ha giocato col Widzew Lodz, con la Juventus e con la Roma, collezionando 296 partite e segnando 104 gol. In nazionale ha disputato 80 partite arricchite di 24 reti. Ha diretto la Polonia nel 2002


KARL-HEINZ RUMENIGGE Nato a Lippstadt il 25 settembre 1955. Bayern, Inter e Servette le squadre con cui ha giocato. 424 le presenze totali, mentre i gol sono stati 220. Ha disputato 95 presenze in nazionale segnando 45 gol. Ora è il presidente del Bayern e dell’Eca

OLEH BLOCHIN Nato a Kiev il 5 novembre 1952. Questa la sua carriera di calciatore: D. Kiev, Worwarts e Aris Salonicco. Ha disputato 496 partite, segnando 225 gol. In nazionale ha giocato 112 partite realizzando 42 gol. Ora guida la Dinamo Kiev

TREVOR FRANCIS

ZICO Nato a Rio de Janeiro il 3 marzo 1953. Flamengo, Udinese, Sumitomo e Kashima le sue squadre, 348 presenze, 199 gol. In nazionale ha disputato 72 gare e segnato 52 gol. Da oltre un anno è alla guida della nazionale irachena

Nato a Plymouth il 19 aprile 1954. Una carriera spesa nel calcio britannico, tranne due esperienze in Italia con Samp e Atalanta. Ha disputato oltre 600 partite segnando 230 reti. In nazionale ha disputato 52 gare, raelizzando 12 reti.

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LOTHAR MATTAHAEUS Nato a Erlangen il 21 marzo 1961. Ha giocato con Borussia, Bayern, Inter e Metro Stars.Ha disputato 485 partite e segnando 161 reti. Nella nazionale tedesca ha disputato 150 gare segnando 23 reti.

DANIEL PASSARELLA Nato a Chacabuco il 25 maggio 1953.Ha disputato 447 gare ufficiali con Sarmiento, River Plate, Fiorentina ed Inter segnando 143 reti. Con la nazionale argentina ha collezionato 70 presenze realizzando 22 gol.

GRZEGORZ LATO Nato a Malbork l’8 aprile del 1950. La sua carriera di calciatore si è sviluppata tra Stal Mielec, Lokeren e Atlanta, disputando 304 partite e segnando 144 reti. Con la nazionale polacca ha giocato 100 partite segnando 45 reti.

PAULO ROBERTO FALÇAO Nato a Abelardo Luz il 16 ottobre 1953. International di Porto Alegre, Roma e San Paolo le sue squadre con le quali ha disputato in totale 276 gare, segnando 44 gol. Con la nazionale brasiliana ha giocato 28 partite segnando 6 reti.

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FRANÇOIS VAN DER ELST Nato a Opwjik il 30 aprile 1961. Brussels e Bruge le squadre della sua carriera comunque luminosa: 469 presenze e 15 reti. Con la nazionale belga ha disputato 86 partite segnando 1 rete. Ha vinto due volte la Scarpa d’oro belga

THOMAS N’KONO Nato a Dizangue il 20 luglio del 1956. Ha al suo attivo quasi 400 presenze nei vari campionati tra cui quello spagnolo con la maglia dell’Espanyol. Con la Nazionale del Camerun ha disputato 112 partite.

MARIO KEMPES Nato a Bel Ville il 15 luglio 1954. Una lunga tra club argentini (tra cui il Rosario Central) e europei (tra cui il Valencia) totalizzando oltre 530 presenze e segnando quasi 300 reti. Con la nazionale argentina ha giocato 43 partite per 20 reti

GRAEME SOUNESS Nato a Edimburgo il 6 maggio 1953. Una carriera spesa nel calcio britannico tranne l’esperienza con la maglia della Samp e quella col Montreal: 540 presenze e 73 reti. Con la Scozia ha giocato 54 volte e segnato 4 gol.

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KEVIN KEEGAN

SOCRATES

Nato a Armthorpe il 14 febbraio del 1951. La sua carriera si snodata nel campionato britannico tranne l’esperienza al l’Amburgo, oltre 480 presenze per 181 reti. Con la nazionale inglese ha disputato 70 gare realizzando 21 gol.

Nato a Belem il 19 febbraio 1954, è morto a San Paolo il 4 dicembre 2011. Botafogo, Corinthians, Fiorentina, Flamengo, Santos, Garforth le sue squadre, 396 presenze per 207 reti. In nazionale ha giocato 60 volte e segnato 22 gol

HERBERT PROHASKA

ALAIN GIRESSE

Nato a Vienna l’8 agosto 1955. Austria Vienna, Inter e Roma (con la quale vinse il titolo) le sue squadre di club con le quali ha disputato quasi 540 partite e realizzato 107 gol. Con la nazionale austriaca ha giocato 83 gare segnando 10 reti.

Nato a Langoiran il 2 agosto 1952. Due sole squadre hanno contrassegnato la sua carriera di calciatore: il Bordeaux e il Marsiglia, giocando in totale 686 gare e segnando 173 gol. In nazionale ha disputato 47 gare per 6 gol. Ora guida il Mali

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PORTIERE SI NASCE SPAGNA 1982 E (NON SOLO) NEI RICORDI DI DINO ZOFF

UNA VITA FRA I PALI A DIFESA DI UN AZZURRO MAI SBIADITO di Mauro SIMONCELLI Foto Bruno - Getty Images

olti dicono con troppa leggerezza che se Italia-Brasile del 1982 fosse stata rigiocata dieci volte, i brasiliani ne avrebbero vinte almeno otto. Ebbene io dico proprio il contrario. Per me otto volte su dieci, se non di più, quella partita la sarebbe nostra. Eravamo una squadra pericolosa, attenta in difesa e micidiale, velocissima in contropiede, anche se loro erano dei grandi campioni ci avrebbero sempre sofferto». Dino Zoff da Mariano del Friuli. Te lo immagini come un uomo dai toni moderati e ci azzecchi, ma guai a mettere in dubbio, anche con levità e senza malizia, la legittimità del trionfo al Mondiale di Spagna, e la voce cambia ritmo, riavvolge il nastro e torna a quella torrida estate di tenta anni fa.

«M

Zoff, da quello che capiamo la gara simbolo di quell’impresa resta quella con il Brasile?«Non solo ovviamente, ma con il Brasile penso di aver passato i cinque secondi più lunghi della mia esistenza». Si riferisce per caso alla parata su

Oscar?«Esattamente, fece un gran colpo di testa, io parai ma non trattenni, poi bloccai la palla proprio sulla linea di porta. La gente mi ricorda agitato dopo quella parata? Certo che lo ero, con l’Argentina la rete di Passarella era irregolare. Stavo sistemando la barriera, lui calciò facendo gol e Rainea (l’arbitro romeno dell’incontro, ndr) iniziò a correre come un matto verso il centro del campo convalidando il gol. In quelle situazioni può succedere di tutto, ecco perché ero così agitato». Torniamo a qualche giorno indietro, prima della partenza per la Galizia. «Ci stavano dicendo di tutto, le offese più basse. Facemmo una partita di rodaggio a Braga contro una buona squadra del campionato portoghese, ed ovviamente non spingemmo a fondo cercando di trovare i meccanismi giusti. Invece il giorno dopo sulla stampa uscì di tutto, e la cosa proseguì fino a quando decidemmo il silenzio stampa. Oltre a Bearzot parlavo solo io, e non era certamente facile ri-


Palmarès CALCIATORE Club Campionato italiano: 6 Juventus: 1972-1973, 1974-1975, 1976-1977, 1977-1978, 1980-1981, 1981-1982 Coppa Italia: 2 Juventus: 1978-1979, 1982-1983 Coppa UEFA: 1 Juventus: 1976-1977 Nazionale Campionato del mondo: 1 - 1982 Campionato d’Europa: 1 - 1968 Giochi del Mediterraneo: 1 - 1963 Individuale Nominato UEFA Golden Player per la FIGC (2004) Inserito nel FIFA 100 Inserito nelle “Leggende del calcio” del Golden Foot (2004) ALLENATORE Club Coppa Italia: 1 Juventus: 1989-1990 Coppa UEFA: 1 Juventus: 1989-1990 Individuale Seminatore d’oro: 1 1990 Presidente Coppa Italia: 1 Lazio: 1997-1998

spondere fermamente al fuoco di fila di domande». Anche mister Bearzot fu bersagliato dalla critica. «Bersagliato è un termine riduttivo, fu fatto oggetto di una serie di insulti irripetibili, sembrava che dargli addosso fosse diventato lo sport nazionale. Lui però era un grandissi-

Ma proprio tutta la stampa vi dava contro? «No, Italo Cucci e Giovanni Arpino stavano con Bearzot».

Una volta ottenuto il minimo sindacale, tanto per non venire accolti a pomodorate al rientro, si è più sciolti».

Però venivate da tre pareggi, con Polonia, Perù e Camerun decisamente poco esaltanti. «Va detto però che la Polonia era un’ottima squadra, aveva un Boniek straordinario inserito su un

Una volta superato lo scoglio Brasile la strada fu in discesa. «In discesa, con Polonia e Germania da affrontare, no. Diciamo che però sarebbe stato difficile fermarci».

«TIRÒ DA 40 METRI, ‘STA PALLA CON UN EFFETTO STRANO CHE USCIVA FINO A FINIRE IN RETE» mo, il vero segreto della nostra vittoria. Ci proteggeva, faceva scudo, catalizzava le critiche isolando la squadra. E’ stato veramente un uomo grandissimo».

complesso già buono. E poi l’Italia tradizionalmente dà il meglio dopo aver passato il primo turno. Prima c’è troppa paura di fallire, di uscire subito e si rende di meno. CALCIO | 134

Senza dover fare l’elenco dei 22 convocati, ci parli di qualche giocatore della spedizione. «Mi viene in mente la grande classe di Scirea, come giocatore ma anche come uomo. E poi Tardelli che era infaticabile, Conti un funambolo, Gentile un combattente, Collovati il signore dell’area, Rossi un uomo gol semplicemente straordinario». Molti sostengono che la squadra di Argentina 1978 giocasse un calcio


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Carriera Presenze in squadre di club 1961-1963 Udinese 1963-1967 Mantova 1967-1972 Napoli 1972-1983 Juventus

38 131 143 330

Presenze Nazionale 1968-1983 Italia

112

Carriera da allenatore 1984-1986 Juventus (Portieri) 1986-1988 Italia Olimpica 1988-1990 Juventus 1990-1994 Lazio 1996-1997 Lazio 1998-2000 Italia 2001 Lazio 2005 Fiorentina

addirittura migliore. «Beh, nel 1978 avevamo un Bettega in condizioni eccezionali, fossi andato un po’ meglio io avremmo potuto centrare la finale, anche se l’Argentina penso ci avrebbe battuto. Si dicono tante cose sull’appoggio politico che ebbe la squadra di casa, ma bisogna riconoscere che erano fortissimi». Per caso quando parla del suo rendimento si riferisce al gol di Haan? «Si, tirò da 40 metri, ‘sta palla con un effetto strano che usciva usciva usciva fino a terminare in rete. Sul tiro di Brandts (pareggio olandese, ndr) non ci fu inve-

ce nulla da fare. Ma ormai aveva preso piede la storia della mia miopia».

quel modo? «Eravamo probabilmente arrivati alla fine di un ciclo...».

Ed è andata avanti per tanto tempo? «Una gara giocata mi pare a Cesena. Venivo da un periodo di forma notevole, ad un certo punto mi tirano una punizione da una ventina di metri. Un siluro che si infila nel sette, di quelli che proprio non c’è nessuna possibilità di prenderlo. Il giorno dopo sul giornale Brera disse ‘le solite diottrie di Zoff’».

Eppure in quel periodo ha stabilito il record di imbattibilità in Nazionale. «Esattamente 1142 minuti, da una partita con la Jugoslavia del settembre del 1972 al gol di Sanon contro Haiti in Germania. Va bene, diciamo che abbiamo perso perché a comandare erano in troppi, ci fosse stato Bearzot le cose sarebbero andate diversamente».

Andiamo ancora a ritroso e passiamo al 1974. Come avete fatto ad uscire in

Ricordiamo un’Italia-Germania Ovest a Roma. I tedeschi avrebbero poi vinto il Mondiale, ma gli azzurri giocarono

Della Lazio fu anche Presidente Dal 1990 al 1994 assunse la guida tecnica della Lazio. Ricoprì fino al 1998 anche la carica di presidente durante la gestione di Sergio Cragnotti e, nel 1997, coprì la doppia veste di presidente e allenatore dopo l'esonero di Zeman. Nel gennaio 2001, tornato nella società biancoceleste nel ruolo di vicepresidente, venne richiamato in panchina per subentrare al dimissionario Sven-Göran Eriksson; dopo una lunga serie di risultati utili consecutivi, a fine stagione ottenne un 3º posto ma, nella stagione seguente, fu esonerato il 20 settembre, dopo un inizio d'annata sottotono.

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IL RAPPORTO CON SIVORI Dino Zoff ed Omar Sivori, quanto di più distante si possa immaginare dal punto di vista caratteriale. Un friulano dal carattere d’acciaio, non proprio personaggio ma scrupoloso al punto tale da apparire taciturno nell’atto di difendere la propria porta. Un sudamericano istrione, dotato di classe purissima, di uno dei migliori sinistri di tutti i tempi, ma sempre sul filo dei nervi. Pronto nel farli saltare agli avversari con le sue finte, i suoi tunnel, le sue provocazioni, ma anche vittima del suo stesso modo di fare, come testimoniano le tante risse ed espulsioni in carriera. Zoff e Sivori si incrociano per un paio di stagioni al Napoli, quanto basta per stringere un bel rapporto e far venire alla luce gustosi aneddoti che Zoff si diverte a raccontare. I primi sono relativi a quando i due non giocavano insieme. Sivori era la stella della Juve, Zoff non era neanche approdato al Napoli. Succede che l’argentino inizia ad avere problemi con il metodico Heriberto Herrera, un paraguaiano salutista, maniaco degli schemi, che sposa un filone rivoluzionario dell’epoca, per il quale il calcio è ‘movimiento’. I due non si amavano, e si dice che Sivori scagliasse palloni di proposito per colpire Heriberto in panchina. Le cose però non andarono esattamente così. Racconta Zoff: «Un giorno parlavo con Omar e mi dice ‘Sai che quella cosa che io tiravo le pallonate in panchina contro Heriberto non è mica vera? Se io gli tiravo le pallonate in panchina stai pur certo che lo prendevo...». Altro episodio, durante un Mantova-Juventus. Sivori si scontra con Zoff in uscita e si rompe due costole: all’epoca ancora le macchinine che portano i giocatori fuori non c’erano, entra quindi in campo lo staff tecnico e porta a braccia l’argentino fuori dal campo. Anni dopo Sivori rimprovera Zoff: «Ti ricordi Zoff quandi mi hai rotto due costole? Quella cosa non te la perdonerò mai, ma mica per la ossa rotte. È che tra quelli che mi hanno preso di peso e portato fuori campo c’era anche Heriberto...». Il terzo aneddoto finalmente li riguarda compagni di squadra al Napoli, stavolta meno malizioso. Diceva Sivori: «Tutta la settimana mi dicono che verrò marcato da Trapattoni o da questo o da quello che mi starà attaccato alle costole. Ma io mi preoccupo dei rinvii di Panzanato, che sbaglia mira e mi coglie sempre». Per i più giovani, Panzanato era un valido giocatore del Napoli, forse più di quantità che di qualità, tanto che Sivori ironizzava sulle sue capacità tecniche.

meglio. «Io di quella gara ricordo un tiro di Schwarzenbeck che terminò alto. Era talmente potente che la palla quando mi passò sopra la testa fischiava». Ci spiega il ‘vaffa’ di Chinaglia a Valcareggi? «È stato enfatizzato, non fu così grave. Certo, Giorgio aveva un carattere particolare, dovette arrivare Maestrelli per fargli capire che non era a casa sua». Ma la foto con cui sta con Chinaglia in barca? «Nel ritiro in Germania, vicino all’albergo c’era un laghetto». Ma lei Chinaglia già lo conosceva? «Abbiamo fatto il militare insieme, lo ricordo già ai tempi dell’Internapoli. All’inizio era un ragazzone esuberante, poi alla Lazio è diventato un condottiero, è stato decisivo nella conquista del primo Scudetto». Ma i bomber dell’epoca che ricorda di più? «Riva, emblema assoluto di potenza con un sinistro eccezionale, Boninsegna, rapido in area oltre che potente, e Pulici». Il più ostico per lei? «Pulici, in casa si trasformava e nei derby contro il Torino era un vero incubo. Una furia, ti dava la sensazione di poterti fregare in qualsiasi momento». Altri nomi? «Si rischia sempre di fare qualche torto, mi vengono in mente Milani, Hamrin, Sormani, Rivera, Altafini». Ormai abbiamo preso l’abitudine di andare a ritroso. Lei è l’unico italiano ad aver vinto Mondiale ed Europeo. «Nel 1968 fummo bravi e fortunati. In semifinale c’è stata la monetina che ci ha permesso di andare in finale, ma vorrei ricordare che con l’Unione Sovietica abbiamo giocato quasi tutta la partita in 10, perché allora non c’erano le sostituzioni. Inoltre oggi abbiamo il frazionamento in Russia, Ucraina, Georgia ecc., ma prima era una squadra sola ed in quanto tale fortissima». Un po’ come la Jugoslavia, che battemmo nella doppia finale. «Nella prima loro giocarono meglio e passarono in vantaggio. Poi ci pensò Domenghini a met-

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spq ort tere a posto le cose. Nella ripetizione non ci fu storia, vincemmo 2-0. La cosa più bella fu la fiaccolata all’Olimpico alla fine della gara, fu la prima grande manifestazione collettiva del tifo». Lei, prima di diventare titolare, faceva la staffetta con Albertosi. Ma è vero che non andavate d’accordo? «Non è vero, solo che eravamo talmente diversi che non potevamo certo uscire

Di loro ha qualche ricordo particolare? «Quando ho smesso feci una festa per salutare il mondo del calcio giocato. Ricordo che venne il grande Jascin e mi regalò un Samovar, un recipiente caratteristico per fare il tè. Lo conservo gelosamente a casa». La squadra più forte che ha mai affrontato? «L’Ajax, anche se nella finale del 1973 ci battè pur non facendo una

«NON ESISTEVA LA TELEVISIONE AD ISPIRARMI, SENTII SOLO CHE MI PIACEVA FARE IL PORTIERE» insieme. Io lavoravo sempre per migliorare la tecnica da portiere, meticoloso, attento. Lui era un istintivo, dotato di classe naturale, magari si metteva a giocare in attacco e segnava. In pratica, due opposti». Una classifica di portieri? «Non ne faccio, me ne scorderei qualcuno. Però dico Albertosi, Banks, Jascin, avvicinandoci ai nostri tempi Peruzzi e attualmente Buffon».

grande partita. L’amarezza più grande la provai dieci anni dopo, quando perdemmo ad Atene con l’Amburgo. Anche allora si disse che Magath aveva tirato da 30 metri, tiro parabile, macché. Basta vedere le immagini, batte dal limite ed il tiro finisce all’incrocio». Dallo Zoff protagonista in Nazionale a quello delle squadre di club. Esordio difficile con l’Udinese nel 1961, 5 gol beccati dalla Fiorentina. «Ma non eb-

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bi problemi a ripartire, erano tutti poco parabili. Certo, qualche giorno dopo sono andato in un cinema e la settimana Incom faceva vedere le immagini della gara. Mi sono lasciato scivolare sotto la poltrona...». Lei aveva 19 anni all’esordio in A, quando aveva deciso di fare il portiere? «Ne avevo cinque, fu una cosa istintiva. Non c’era la televisione ad ispirarmi, sentii solo che mi piaceva fare il portiere». Dall’Udinese il passaggio al Mantova. «Una sana città di provincia dove sono stato molto bene, l’ambiente giusto per crescere. Non a caso dopo il Mantova mi prese il Napoli, e fu in quel periodo che iniziai a collezionare presenze in Nazionale». Allora non è vero che bisogna giocare nella Juve per andare in azzurro? «Sono arrivato alla Juve che avevo giù 19 presenze in Nazionale, quindi...». Ma che ricorda della rivalità con la Roma? «Ma non la vivevamo come una rivalità. La Juve era sempre ai vertici e le


avversarie si avvicendavano, c’era sempre una rivalità da fronteggiare». Lo Zoff allenatore, una folla immensa salutò il suo primo allenamento alla Lazio. «Sì, ma quando le cose non andavano bene qui due-trecento che venivano a contestare non scherzavano (ride)...». Il rapporto con Gascoigne? «Particolare, lui era un genio, un artista, ma non basta il talento per fare la differenza se non c’è un comportamento professionale nella vita. E poi con tutti quegli infortuni è stato anche sfortunato».

Zoff allenatore della Nazionale. «La squadra che è arrivata in finale quest’anno è stata glorificata. Giusto fare i complimenti, ma sembrava che agli Europei non avessimo mai combinato niente. Ricordo che noi siamo stati nel 2000 a pochi secondi dal titolo, ed in tutta la manifestazione abbiamo sofferto solo con l’Olanda padrona di casa. E poi Totti in Nazionale ha giocato bene solo con me». Sapeva che Totti avrebbe fatto il cucchiaio con l’Olanda? «No, non lo sapevo, e non mi sono neanche arrabbiato quando lo ha fatto».

Ma lei come tecnico non ha mai ripreso nessuno? «Mai, né come tecnico né come giocatore. Il che non significa essere umili, perché per difendere la porta o dirigere una squadra non si può fare professione di umiltà».

Ma le dimissioni dopo le critiche di Berlusconi, non furono eccessive? «Furono attacchi molto duri alla mia persona. Diciamo che facendo un gioco di parole, non era da dimettermi ma non potevo non farlo».

Ma qualche aneddoto? «Con la Lazio. Eravamo a Seefeld, mi dicono che Riedle è rientrato tardi in ritiro. La sera dopo lo aspetto, non mi faccio vedere e scopro che è vero. La mattina seguente ci parlo e lui mi dice che andava a trovare la madre, che abitava vicino. ‘Ma se me lo dicevi ti prestavo la mia macchina’ gli dissi... Invece chi appena arrivato tendeva a fare un po’ il furbo era Winter, allora l’ho preso con calma da una parte e gli ho detto: ‘Tu sei qui da sette giorni, ma noi a pallone giochiamo da cento anni’».

Aveva il miglior Maldini tra le sue fila, un confronto con Cabrini. «Il primo era forse superiore a livello difensivo, Cabrini era più attaccante. Comunque, due grandi, non si discute».

Un rimpianto con la Lazio? «Stagione 2000-2001, stiamo avvicinandoci alla Roma capolista, giochiamo contro l’Inter. Dominiamo e poi all’ultimo minuto Dalmat si inventa un incredibile gol del pareggio. Avessimo vinto quella gara per la Roma si sarebbe messa male».

Ci tolga una curiosità, con le regole attuali nelle quali il portiere gioca con i piedi, si sarebbe trovato a disagio? «Questa l’ho sentita qualche volta, ed è una stupidaggine. A parte il fatto che avevo un buon sinistro, non bisogna mai dimenticare che la prima cosa che deve saper fare un portiere è stare tra i pali!».

La Lazio, la città di Roma. Come ci si trova un friulano come lei? «Mi sento un po’ sradicato, ma alla fine tra gli 8-9 anni di Lazio e il periodo della Nazionale Roma è la città dove ho vissuto di più. Si sta bene, è una città splendida con tanto da vedere e tutte le comodità».

Dopo di lei in Nazionale è arrivato Giovanni Trapattoni, che è stato a lungo il suo tecnico. «Persona straordinaria, fisicamente preparato come i giocatori, sempre impeccabile. Grande conoscitore di calcio e, nel senso buono del termine, molto molto furbo».

In pratica, come quando gli parli del Brasile ‘82, mai toccare i punti fermi di Zoff: da quel carattere di friulano apparentemente chiuso può sempre uscire qualche sorpresa.

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Elisa Di Francisca, 29enne fiorettista azzurra, oro olimpico individuale e a squadre ai Giochi olimpici di Londra 2012, ama vestirsi comoda e sportiva durante il giorno, ma non disdegna tacchi alti e abiti fashion nelle serate con gli amici.

1 T-shirt

3 Scarpe

Semplice, con il collo largo e la bandiera britannica al centro

Sneakers nere alte con logo in tinta con il disegno della t-Shirt

2 Pantaloni

Fuseaux neri non troppo aderenti, per stare ancora più comoda

4 Accessori

Serie di braccialetti neri e colorati, molto fashion

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Notizie d’attualità

R Rubriche dal mondo dello sport 1

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ELISA DI FRANCISCA NEL CONTINENTE NERO

R Filmati nella storia R Profili

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Elisa Di Francisca schermitrice azzurra di Jesi e vincitrice di una "doppia" medaglia d'oro alle Olimpiadi di Londra nel fioretto femminile è in partenza per il Kenya con l'Associazione Intervita. La campionessa olimpica, vicecampionessa mondiale, campionessa europea e detentrice della Coppa del Mondo aveva detto ad agosto: «Voglio partire per il Continente Nero. Ho avuto tanto dalla vita, credo sia il momento di restituire qualcosa».

R Fitness&wellness

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La rubrica che fa scoprire come si vestono i campioni dello sport

QUESTIONE DI

Style

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L'ELENCO DELLE RUBRICHE

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Lo sai che… 148 Statistiche 148 Vocabolario dello Sport 149 SportStar 150-151 Chi l’ha detto 152 Sport e tecnologia 153 Cinema e Sport 154-155 Filatelia e dintorni 156 Campidoglio. Non solo sport 158 L'Evento 159-161


10 KM SU STRADA DELLE POLIZIE LOCALI

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Nel campionato italiano Polizie Locali di 10 km su strada, sono andati a punteggio per il G.S. Polizia Municipale di Roma: Stefano Miccolis (amatori A); Emiliano Portone; Maria Grazia Lavalle (amatori B).

ASI TROFEO TENNIS ui campi del Club Infernetto il 1° trofeo provinciale ASI Tennis femminile 2012. Le squadre si sono confrontate con una formula atipica (15 games) e sono arrivate in semifinale: l'Aris Club A e l'Aris Club B, l'Infernetto e il Sette Colli-Lanciani. Con il punteggio di 15-13 si è aggiudicata la finale la Sette Colli-Lanciani vincendo il titolo di Campione Provinciale ASI Tennis 2012.

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NEWS E MAX BIAGGI METTE LA MOTO IN GARAGE Max Biaggi ha detto basta. Durante la conferenza stampa tenuta di recente a Vallelunga, il Corsaro, uno dei piloti che hanno fatto la storia del motociclismo recente, ha reso noto di aver deciso di ritirarsi ufficialmente dalle corse. Classe 1971, romano e romanista, Max Biaggi è stato quattro volte campione del mondo della 250 e due volte Campione del Mondo di Superbike (2010 e 2012). Il grande pilota aveva già preannunciato la sua decisione via Twitter: «È un'alba molto diversa oggi per me. Niente sarà come prima. Forza comunque!».

SPORT: UN’ARMA DI RISCATTO o sport come riscatto sociale. Ma anche umano. È il motto di Oscar De Pellegrin, 49 anni, medaglia d’oro nel tiro con l’arco ai recenti giochi paralimpici di Londra. «Una medaglia che ti regala sensazioni uniche. Il coronamento di un sogno frutto di impegno e sacrificio, mio e di tutto lo staff. Un’emozione indescrivibile in questa fantastica palestra di valori». Il suo trionfo nello sport, lo ripete spesso, deve essere da stimolo anche per altri ragazzi che hanno conosciuto il dramma dell’handicap. «Non bisogna mai abbattersi, la reazione deve essere immediata. La famiglia e gli amici sono importantissimi. E lo sport ti permette di riscattarti. Forza». Il suo futuro nello sport. «Con l’oro olimpico si è conclusa la mia carriera agonistica. Ma non vorrei uscire da questo ambiente, vorrei mettere a disposizione la mia esperienza o come allenatore o come dirigente».

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sport’s history


FILMATI NELLA STORIA Nasce a: Copparo (FE) il 19 maggio 1995 La sua specialità: Trotto I suoi titoli: Derby italiano di trotto (1998), Gran Premio delle Nazioni (1999), Premio ENCAT (2001 e 2002), Prix d'Amerique (2001 e 2002), Gran Premio Lotteria di Agnano (2000, 2001 e 2002), Elitloppet (2001 e 2002), Breeders Crown (2001)

Momenti indimenticabili che hanno fatto la leggenda dello sport

Il supercampione a Tordivalle È il 1998 e Varenne, guidato dal fantino romano Giampaolo Minnucci, vince a Tordivalle la “corsa della vita”, ossia il derby italiano del trotto.

Varenne

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NEWS

LE DICHIARAZIONI DELL’OLIMPIONICA VAN BELKUM

WATER LAKE POLO

Grande successo per il 1° Trofeo Lake Waterpolo Women dei Rioni di Trevignano Romano. Tra le atlete che hanno preso parte alla competizione, infatti, spiccavano nomi di assoluto livello: primo fra tutti quello di Iefke Van Belkum, accompagnata da altre compagne della nazionale orange, come Marianne De Groot, le sorelle Ilse ed Ester Koolhas ed il portiere Linda Westera. Insieme a loro alcune delle migliori giocatrici del panorama giovanile italiano, come le azzurrine Loredana Sparano (Posillipo), Gaia Lanzoni e Giulia Secondi (Rari Nantes Bogliasco), Giada Sinigaglia, Alessandra Rovetta e Francesca Vezzù (SIS Roma). Altro tocco internazionale grazie al portiere greco Stefania Nalpanti e, poi, tutto l'entusiasmo delle altre atlete provenienti da altre squadre romane (Racing, 3T), dalla Liguria (Locatelli), dalle Marche (Idor Fermo) e della stessa SIS Roma, società che, in collaborazione con l’ASI Roma, ha curato la parte organizzativa

della manifestazione. Le parole di Iefke Van Belkum rendono pienamente lo spirito della manifestazione: «È stata un'esperienza bellissima. Io che ho giocato in Olanda, in Grecia e negli Stati Uniti e girato le piscine di tutto il mondo non avevo mai visto una cosa simile. Mi sono divertita moltissimo e, visto che non potevo essere alle Olimpiadi di Londra, è stata un'ottima occasione per tenermi in forma per la prossima stagione. L'organizzazione è stata perfetta, la location è veramente fantastica ed è stato piacevole trascorrere questi giorni in compagnia di altre giocatrici con cui abbiamo condiviso tanti momenti divertenti. Non sono ancora certa dei miei progetti futuri, vorrei provare nuove esperienze e misurarmi in campionati che mi consentano di crescere ancora, ma di certo sarei molto felice di tornare ancora a Trevignano per giocare di nuovo questo torneo». Roberto CIPOLLETTI

Quando le manifestazioni per far rimanere i giocatori avvengono via web. È accaduto con i tifosi dell'Atletico Mineiro che hanno avviato una petizione online, nel tentativo di convincere Ronaldinho a rimanere nel club nel 2013 NEWS | 143

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NEWS

Alessandro Cochi

Pino Battaglia con il Patron della Maratona di Roma, Enrico Castrucci

Massimiliano Valeriani

Gianluca Quadrana

Paolo Masini

I CONSIGLIERI IN GARA

MEMORIAL RIZZI LA GARA essantasei le squadre partecipanti di cui cinque S femminili, e sette miste, con un totale di circa 800 atleti in pista, in rappresentanza delle maggiori società della podistica laziale e non solo viste le tre squadre provenienti da Grosseto. Questo il quadro della diciassettesima edizione del Memorial Rizzi allo Stadio Nando Martellini delle Terme di Caracalla, nella staffetta podistica delle 12 per un’ora. È stata la podistica Solidarietà, sia in campo maschile che femminile, ad aggiudicarsi la vittoria. Ben 440 i giri percorsi dagli atleti dalla squadra vincitrice con il secondo posto conquistato con 423 giri dalla Kappam e il terzo, con un giro in meno, dai podisti della maratona di Roma. Da segnalare il discreto risultato della squadra degli esponenti politici di Roma Capitale e la prestazione di Romano Dessi che da solo si è cimentato in tutte le dodici ore con 151 giri percorsi. Le due squadre dei nipoti di Alberto Rizzi, il medico del pronto soccorso del Grassi di Ostia, deceduto tragicamente a soli 41 anni, il 14 settembre del 1995 mentre percorreva in bicicletta la Via Ardeatina travolto da un tir fuori controllo e al quale è dedicata la manifestazione, si sono piazzate al cinquantanovesimo e sessantesimo posto, meglio degli anni precedenti dove finivano sconsolatamente in ultima posizione. Ma anche animazione a Caracalla con la banda della Scuola Media Statale Mazzini di Roma, quella di Montecompatri, prodotti gastronomici con i funghi e il pane di Lariano, gli ortaggi dell’Istituto Agrario di Roma e tra spugnaggi, massaggi,latte e biscotti maremmani, distribuzione acqua, ristoro degli atleti, pasta party, circa cinquemila persone hanno partecipato alla kermesse podistica che di fatto apre la stagione della atletica laziale. L’Acsi Campidoglio Palatino, organizzatrice dell’iniziativa, ha dato appuntamento per la diciottesima edizione a sabato quattordici settembre 2013.

ANCHE ROMA CAPITALE VA DI CORSA C’è voluta la staffetta podistica dodici per un’ora alle Terme di Caracalla durante il Memorial Alberto Rizzi,Trofeo Acsi Campidoglio Palatino per vedere gli esponenti politici di Roma Capitale correre insieme e sostenersi a vicenda nonostante la diversità di appartenenza partitica. Di buon mattino hanno corso in contemporanea Alessandro Cochi, Delegato alle Politiche Sportive di Roma Capitale e Massimiliano Valeriani, Pd, Presidente della Commissione Garanzia e Controllo di Roma Capitale. Ma non soltanto loro due. Anche Paolo Masini, Pd, Vicepresidente della Commissione Sport di Roma Capitale, si è prodigato dalle dieci alle undici sul giro di pista. Ottima la performance di Pino Battaglia, Pd, Presidente della Commissione Sport della Provincia di Roma, che ha realizzato ben 28 giri. Anche il Consigliere Gianluca Quadrana della Lista Civica per Veltroni e Dario Nanni, Pd, hanno evidenziato un ottimo stato di forma.

LA STORIA DELLA MANIFESTAZIONE Tutto inizia dopo una tragica giornata di uno spaventoso giovedì del 14 settembre del 1995 quando alle otto di mattina,in una splendita giornata di sole, Alberto Rizzi veniva travolto da un autocarro “Bilico” sulla Via Ardeatina al chilometro 8, a due passi dal raccordo anulare mentre percorreva in bicicletta, insieme a due compagni,fortunatamente illesi,quella maledetta strada che lo avrebbe dovuto portare da Ostia fino a Rocca di Papa, dove non è mai arrivato. Non ci fu nulla da fare. Alberto scompariva all’età di 41 anni, il più piccolo di 14 tra fratelli e sorelle della Famiglia Rizzi. Era un medico del pronto soccorso dell’ospedale Grassi di Ostia. Da allora, la famiglia Rizzi, ha cercato un modo adeguato e diverso per poterlo ricordare e decise di dedicargli una manifestazione podistica che si svolge presso il “Nando Martellini” alle Terme di Caracalla. Un evento che unisce i valori dello sport con la gioia di stare insieme. Durante l’intera giornata, pasta, party, funghi porcini, vino dei Castelli, banda musicale di Montecompatri, corsa dei bambini, musica degli Anni Sessanta, silenzio fuori ordinanza alle diciasette, starter, spari, giudici, testimoni, conferenza stampa, foto, porchetta, biscotti, miele, latte, ristoro degli atleti. Il tutto a titolo completamente gratuito per tutti: docce, spogliatoi, bagni, indicazioni e tutto il necessario. La premiazione sul posto, alle 20,30 al termine della gara.

D'Antoni, come ha rivelato il Los Angeles Times, ha raggiunto un accordo quadriennale con i Lakers. L'intesa gli garantisce 12 milioni di dollari per le prossime 3 stagioni, il prolungamento per la quarta annata sarà vincolato alla volontà del team

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PROFILI

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VALERIO ASPROMONTE Nato a Roma Nazionalità Italiana Abita a Roma Specialità Fioretto Peso Società sportiva Palmares olimpico Altri sport

Il 16.02.1987 Soprannome La bestia Professione schermidore Altezza 187 cm 84 kg Fiamme Gialle Oro a squadre ai Giochi di Londra 2012 Surf e sci

«È tutta l’aria che si respira attorno che rende magici quei momenti durante i giochi olimpici. Basti pensare a quando vai in mensa e ti trovi accanto a gente come Federer o Bolt»


FITNESS&WELLNESS A CURA DELLA REDAZIONE DI MONDOFITNESS MAGAZINE

Fitness: tradotto in lingua italiana con i termini idoneità, capacità, preparazione fisica e stato di forma fisica

Il termine wellness è un'estensione del concetto di fitness: si riferisce ad una filosofia di vita che si focalizza sul benessere con sport e mental training combinate con un'alimentazione corretta

Trazioni alla sbarra Esercizio principale per tutta l’area dorsale, sfruttando solo il peso corporeo, per lo sviluppo dei muscoli dorsali, favorisce anche lo sviluppo dei bicipiti.

Pettorali Distensione su panca inclinata con bilanciere, anche questo esercizio rientra nella categoria dei fondamentali e si esegue principalmente per lo sviluppo dei muscoli pettorali, interviene nell’esercizio in maniera importante il muscolo tricipite.

Military Press

Squat

Si pratica con l’uso del bench ed è una distensione lenta avanti con il bilanciere, attacca il muscolo deltoide e coinvolge nel lavoro il muscolo tricipite.

Esercizio che si esegue da in piedi, intervengono principalmente i muscoli quadricipiti, glutei e bicipite femorale. È l’esercizio principale per la tonificazione e lo sviluppo delle gambe e dei glutei.

Stacco da terra È considerato uno degli esercizi base del body building e coinvolge l’area completa della schiena, glutei e bicipiti femorali. Serve anche questo principalmente per la tonificazione di gambe e glutei.

Distensione alle parallele Esercizio a carico naturale fondamentale per lo sviluppo dei tricipiti e dei pettorali. La sua efficacia sui muscoli compromessi è evidente dopo poche sedute.

HALF RACK BASE È un attrezzo multiplo di Panatta che serve per allenare tutto il corpo: spalle, pettorali, dorsali, braccia, quadricipiti, glutei lombari, bicipiti femorali, polpacci e addominali. Multiuso è inteso per allenamento per la tonificazione e dimagrimento generale di tutto il corpo sfruttando esercizi che sono alla base del body building. Le applicazioni di questo attrezzo possono essere molteplici. Ve ne presentiamo alcune tra le più usate dai maggiori trainer professionisti.

KINESOMATICA La Kinesomatica©, è una metodologia di allenamento e una filosofia allo stesso tempo. In essa le più aggiornate conoscenze scientifiche di anatomia, fisiologia e biomeccanica si combinano con una concezione globale e tradizionale dell'Uomo considerato nella sua interazione profonda con la psiche. Strumento principe della Kinesomatica è il movimento (kinesis) che, abbinato ad esercizi di controllo respiratorio e tecniche di training mentale, viene eseguito in modo del tutto originale per indurre un corretto e cosciente utilizzo del corpo (soma). E' strutturata come un vero e proprio percorso suddiviso in 4 fasi (Acqua, Terra, Aria e Fuoco), ciascuna delle quali ha una sua caratteristica peculiare. L’obiettivo finale è il raggiungimento di uno stato di benessere riportando il corpo ad una corretta funzionalità.

Il Messner Mountain Museum (MMM) è un progetto museale ideato dall'alpinista altoatesino Reinhold Messner. La sede principale (La montagna incantata - Der Zauberberg) è a Castel Firmiano, presso Bolzano.

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hanno detto…

ALESSIA FILIPPI NUOTATRICE Sul suo ritiro «E' una scelta difficile perchè questo sport è la mia vita. Mi ha dato tanto. Purtroppo il momento di dire basta è arrivato e mi spiace perché la decisione non dipende soltanto da me».

ALEX ZANARDI ATLETA PARALIMPICO Dopo la sua vittoria a Londra 2012 «A vent’anni è la vittoria quello che conta. Adesso, a 46 anni, ho vissuto una cosa diversa rendendomi conto di quello che stavo facendo».

GIANPAOLO MONTALI EX CT AZZURRO DI VOLLEY

Sulle parole di Zeman «Sono rimasto sorpreso nel leggere le motivazioni che ha dato Zeman sull’esclusione di De Rossi, perché si tratta di un ragazzo che si impegna sempre, dal primo all’ultimo giorno di allenamento».

GIGI DATOME ALA VIRTUS ROMA Sui 1000 punti con la Virtus «Mi piace pensare di essere una bandiera della Virtus e non è certo un peso, piuttosto uno stimolo. Io gioco per prendere responsabilità in campo e sapere di avere un ruolo così importante con Roma è gratificante».

Mario Balotelli è sempre più personaggio. La rivista statunitense Time gli ha dedicato addirittura la copertina, trattamento che di solito l’importante giornale statunitense riserva solo alle persone più in vista NEWS | 147

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MATCH INFINITO

LO SAI CHE…

La rubrica che racconta in pillole storie e curiosità dello sport

L’incontro più lungo disputato con le regole del marchese di Queensberry (45 round) è stato quello del 1906 tra il campione del mondo dei pesi leggeri Joe Gans e lo sfidante Battling Nelson. Al 42° round, Nelson andò a segno con un plateale colpo sotto la cintura che fece crollare Gans al tappeto, l’arbitro lo squalificò assegnando la vittoria a Gans.

SQUALO CINESE La nuotatrice cinese Ye Shiwen, ai Giochi olimpici di Londra 2012 ha vinto l’oro nei 400 metri misti con una frazione a stile libero da record, 58”68. Sulla stessa distanza, nessun atleta uomo, inclusi i due specialisti statunitensi Ryan Lochte e Michael Phelps, hanno mai chiuso l’ultima frazione con un tempo così basso.

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i record del mondo stabiliti in carriera da Federica Pellegrini, dei quali 3 sono ancora rimasti imbattuti. I Gran premi di Formula 1 disputati in 323 carriera dal brasiliano Rubens Barrichello, recordman di presenze nella categoria.

CICLISTA AL GIRO

I km/h raggiunti dal base jumper 1341 austriaco Felix Baumgartner

Una delle prime donne italiane capace di sfidare gli uomini fu la ciclista Alfonsina Strada che nel 1924 venne ammessa a partecipare al Giro d’Italia. Nella prima tappa, la MilanoGenova, arrivò due ore e mezza dopo i migliori. A Perugia, dopo l’ennesima frazione da 300 km, arrivò fuori tempo massimo: venne esclusa ma ottenne il permesso di correre fuori classifica.

nel lancio con il paracadute effettuato da 39.000 metri di altezza. Le presenze in Nazionale dell’ex tec474 nico della M. Roma, Andrea Giani: record ancora imbattuto in campo maschile.

STATISTICHE

SQUADRA DEI RECORD Il Milan detiene ancora a distanza di 20 anni il record di imbattibilità nel campionato di Serie A. Dal 26 maggio 1991 (ultima giornata del campionato 1990-91, con Sacchi in panchina) al 21 marzo 1993 (capello in panchina), il Milan mantenne l’imbattibilità collezionando 58 partite senza sconfitte.

A causa dello scandalo doping che lo ha travolto, al texano Lance Armstrong sono state revocate le sette vittorie consecutive del Tour de France, dal 1999 al 2005

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BLOCCO ORIZZONTALE Termine utilizzato nel basket. Indica il blocco portato lungo una traiettoria parallela alla linea di fondo con lo scopo di favorire un taglio verso la palla e verso canestro di chi lo sfrutta.

ANTICALCIO Termine riferito al gioco messo in atto da una formazione di calcio mirato a ottenere la vittoria con un gioco efficace ma poco spettacolare e improntato a ridurre le opzioni di gioco avversarie più che a crearne di proprie.

DERAPATA Termine usato nello sci. Sta a indicare quando le code degli sci scappano leggermente in curva tracciando una traiettoria imprecisa con le code che spazzolano la neve.

STRETCHING Attività atta a ridurre la tensione muscolare, soprattutto dopo l’esercizio fisico. Comporta il mantenimento di posizioni specifiche degli arti e del corpo, aumenta la flessibilità, incrementa la capacità di movimento.

La pallacanestro è stata inventata dall'insegnante canadese James Naismith negli Stati Uniti e le sue regole sono state in seguito rimaneggiate e ampliate: la prima a farlo fu Senda Berenson nel 1893, che adattò lo sport alle donne. NEWS | 149

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SPORTSTAR Il personaggio del mese, il divo, l’uomo copertina: ogni numero alla ricerca delle star che anche grazie allo sport sono diventati le icone del momento...

STAR

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USCITA CINEMA: 11 ottobre 2012 REGIA: Len Wiseman SCENEGGIATURA: Kurt Wimmer, Mark Bomback, James Vanderbilt ATTORI: Colin Farrell, Jessica Biel, Kate Beckinsale, Bryan Cranston, Bill Nighy, John Cho, Steve Byers, Bokeem Woodbine, Dylan Smith

NEL MONDO DELL’ICE PARK ce Park è il nuovo villaggio a Roma dedicato allo sport, al relax e al Iolimpionica, divertimento. Uno spazio coperto di 3000mq con pista di ghiaccio area fitness e wellness, area giochi, libreria, caffetteria, spazio bimbi e tutto quello che serve per i il tuo relax e divertimento. Arte, moda, sport e musica si fondono per un’emozionante programma di spettacoli ed eventi. L’ingresso al villaggio è gratuito. Nella foto a destra la conduttrice Veronica Maja nel giorno dell’inaugurazione. In basso la foto di gruppo con le allieve.

Il Celtic ha festeggiato i 125 anni di storia battendo in Champions League il Barcellona per 2-1. Hanno fatto il giro del mondo le immagini del tifoso più noto, il cantante Rod Stewart, in lacrime per la gioia

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SPORTSMAN

COLIN FARRELL tto di forza, il film di Paul ASchwarzenegger Verohoeven con era un adattamento, Total Recall di Len Wiseman con Colin Farrell è il suo remake. Tra i due film ci sono più di 20 anni e la differenza si vede tutta. È la differenza tra un’epoca in cui il fisico aveva la precedenza su tutto e una in cui l’influenza del cinema asiatico ha creato il culto della leggerezza e della stilizzazione. E Colin Farrell ne è un simbolo e in merito al suo fisico dichiara: «Mangiare sano, sport e fitness. Ecco segreto!», comunque buon sangue non mente visto che il padre era un giocatore di football, carriera che anche lui intraprese e che lasciò

per la sua grande passione la recitazione. Oggi l’eroe di Total Recall, l’uomo a cui hanno impiantati ricordi che non gli appartengono per renderlo innocuo e cancellare la memoria della sua vita da agente, pensa a se stesso e alla ragazza che amava prima che la consapevolezza dei fatti gli sconvolgesse la vita. Nella sequenza dell’incubo che apre entrambe i film Schwarzenegger ha paura che gli scoppi la testa per l’esposizione all’aria di Marte, mentre Colin Farrell ha il terrore di separarsi inevitabilmente dall’amata. Ma come ha fatto a entrare nel personaggio? «Il mio approccio è stato simile a

quello che uso per i film indipendenti, anche se questa è una produzione grossa. Credo che questo personaggio abbia molto da dare, é stato bello scoprire la sua psicologia, il dualismo tra l’intelletto e le emozioni di una persona. All’inizio lui è come un po’ come molti uomini, si sente abbastanza deluso dalla vita. È un’esperienza che viviamo in tanti. Andando avanti nel film scopre che tutta la realtà che conosceva… il suo matrimonio, la sua identità, la sua vita… È tutta una montatura. Nel resto del film vive questa nuova situazione e cerca di capire chi è veramente».

CHI L’HA DETTO MIROSLAV KLOSE

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E ORA BASTA CON LE CAPRIOLE

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Stavolta Miroslav Klose l’ha promesso e lo ha mantenuto: ad ogni gol non farà più la capriola per festeggiarlo. Un’azione fisica che potrebbe a lungo andare minare la sua fascia muscolare. E allora per prevenire i rischi ha deciso di esultare in altra maniera. A 34 anni vuole ancora recitare un ruolo da protagonista. Si è posto sin da adesso un obiettivo: i Campionati del Mondo in Brasile fra due anni. Vuole esserci a tutti i costi e per centare questo traguardo, meglio una capriola in meno, ma una spinta in più per la sua carriera.

Il primo giocatore a vincere il Pallone d’Oro, nel 1956, fu il fuoriclasse dello Stoke e della nazionale inglese Stanley Matthews. Si dice che da ragazzo, per svilupparne la resistenza, il padre lo facesse dormire con la finestra aperta NEWS | 151

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GRANDE SLAM 2012-13

ILoma ROMANO CHE HA FATTO GRANDE LA SAMP non si dimentica mai dei suoi figli, anche se questi, per mille ragioni,

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sono costretti a vivere la loro esistenza lontani dalla Città Eterna. È il caso, recentissimo, di Paolo Mantovani, romano doc, grande imprenditore nel ramo dei petroli e illuminato presidente della Sampdoria calcio con la quale ha vinto tutto quello che c’era da vincere. Carica, quest’ultima, che non lo ha mai però distolto dalla sua incrollabile fede biancoceleste. Nonostante la scelta professionale di diventare “genovese” quando dal 1955 si trasferì dagli uffici capitolini della Cameli Petroli alla sede ligure, divenendo self-made-man nel 1974, commerciando petrolio negli anni della crisi energetica, non hai rescisso il forte legame con la sua Roma. Ebbene, il buon Paolo, scomparso prematuramente 19 anni fa, da poche settimane è entrato nella toponomastica della Città Eterna. A lui è stato dedicato un largo, appunto, Largo Paolo Mantovani, che si trova lungo Via Erminio Spalla, all’altezza del mercato rionale di Grotta Perfetta. La richiesta di intitolare un’area della città di Roma all’ex Presidente della Sampdoria è stata inoltrata nel 2004 e inserita nell’elenco delle denominazioni viarie di riserva in attesa di reperire un’area adeguata. La denominazione è stata ratificata con Delibera di Giunta Comunale il 29 dicembre del 2006. La cerimonia dell’inaugurazione della targa toponomastica ha visto la presenza di alte personalità del mondo politico, sportivo ed imprenditoriale. Oltre ai familiari di Mantovani, c’erano tra gli altri gli assessori Dino Gasperini e Rosella Sensi, nonché il Presidente della Federcalcio Giancarlo Abete e il Delegato alle Politiche Sportive di Roma Capitale Alessandro Cochi.

DI CARAMBOLA A 3 SPONDE

Prosegue il lungo tour della carambola a tre sponde partita nel mese di ottobre per chiudersi il prossimo giugno. I vincenti delle giornate, più i migliori classificati, parteciperanno alla Poule finale: 16 giocatori si scontreranno in partite ad eliminazione diretta ai 30 punti. Il torneo si svolge presso il Circolo Italia sito in Circonvallazione Nomentana,160

ome fare attività sportiva privata con il concetto del sociale? C Ce lo spiega Emanuele Zanchè, uno dei responsabili della palestra Sportlife, moderna struttura nel quartiere di Casal Bertone. «La nostra palestra sorge in un quartiere popolare e popoloso, una zona di confine tra il centro di Roma e la periferia, dove tra vari disagi giorno dopo giorno i giovani del quartiere cercano di trovare riscatto alla loro condizione. La nostra palestra è sicuramente un luogo di aggregazione dove i bambini, i ragazzi ed i meno giovani possono passare momenti di spensieratezza». Come vi sostenete? «Abbiamo riaperto il centro ormai chiuso da più di un anno con risorse personali e cerchiamo di andare avanti sempre con le nostre risorse pur applicando tariffe comunali, proprio perché al centro del nostro progetto vi sono le persone

ed il quartiere, non il lucro».Quali discipline praticate? «Possiamo vantare corsi di eccellenza per le arti marziali quale judo con diversi atleti e campioni nazionali, il karate ed il pugilato.Come è strutturata la vostra palestra «Il centro si compone di una grande sala pesi circa 350 mq, 2 sale dedicate all'ampia offerta dei corsi fitness, 1 sala dedicata allo spinning, 1 sala dedicata al corpo libero ed 1 sala dedicata alle arte marziali. Abbiamo all'interno un bellissimo centro benessere con mini piscina idromassaggio, bagno turco, sauna e docce emozionali con cromoterapia. Oltre al centro benessere abbiamo in prossima apertura un centro estetico, con sale massaggi, solarium e trattamenti estetici, oltre ad una zona dedicata alla socializzazione con un lounge bar».

Sara Simeoni è l’unica atleta azzurra capace di salire sul podio in tre olimpiadi diverse: argento a Montreal nel 1976 ed a Los Angeles nel 1984, vinse l’oro a Mosca nel 1980

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QUANDO UN CENTRO PRIVATO PRATICA TARIFFE COMUNALI sp ort

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PAOLO MANTOVANI


a cura di Alberto BRUNELLA

TIMEFLEX TimeFlex è un timer usa e getta gommoso da appiccicare alla mano per tenere sotto controllo il passare del tempo in piscina, in un campo da gioco o generalmente quando si fa sport. I nuotatori sollevano spesso la testa per guardare al grande orologio da parete presente in piscina, e potrebbero risparmiare tempo ed energia dando un semplice sguardo al TimeFlex. Il dispositivo si può essere piegare, ripiegare e arrotolare, dando la forma che ognuno preferisce. Dopo averlo utilizzato, dovrete staccarlo e gettarlo.

w w w. s p o r t i n c o m u n e . i t La Juventus, perdendo contro l’Inter, ha interrotto la striscia positiva in campionato che durava da 48 gare. Salvo a quota 58 il record stabilito dal Milan di Fabio Capello NEWS | 153

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Federico PASQUALI

La rubrica che racconta sport e celluloide

Focus sul

& SPORT

STADIO

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l rugby, sport di origine britannica, sta diventando sempre più popolare in tutto il mondo, ad eccezione degli Stati Uniti, dove la “variante” football americano la fa da padrona. Nonostante la lunga tradizione e il grande fascino di questa disciplina sportiva, il cinema si è occupato di raccontarla attraverso le immagini. Partite memorabili e campioni immortali non sono mancati, così come aneddoti e leggende riguardanti non solo il gioco ma anche ciò che accade fuori dal campo. La letteratura sull’argomento, in effetti, è ampia, al contrario della filmografia. In Italia il primo film sull’argomento risale al 1934: successivamente ne sono stati girati soltanto un paio.

regia Carlo Campogalliani Ita 1934 Diretto da Campogalliani, soggetto di Romolo Marcellini, in seguito regista de “La Grande Olimpiade”, capolavoro sui Giochi olimpici di Roma 1960. Stadio vinse la medaglia d’oro alla 2ª mostra del cinema della biennale di Venezia. La storia: un giovane atleta, ferito in uno scontro di rugby, abbandona lo sport e si dà alla vita galante. In una partita di allenamento un atleta della sua squadra è ferito. Il protagonista, spinto dalle incitazioni dei compagni e della sua fidanzata, riprende il suo posto e, naturalmente, fa vincere la partita.

ve a partecipare erano 18 società tra le più importanti e prestigiose di hockey e di disabili in Europa. E così si è partiti. In quei 4 giorni si è vissuta una delle pagine più belle dello sport. Buon successo hanno riscosso le finali a Roma della prima edizione della coppa dei campioni di hockey su prato, riservata alle società europee qualificate, che operano con atleti aventi un disagio intellettivo relazionale. Quattro le squadre che si sono date battaglia due italiane e due spagnole rispettivamente: Associazione Polisportiva L’Archetto (ITA), Associazione Sportiva Dilettantistica Mercurio (ITA), Group Catalònia (ESP), Paideia Foundation F.C.B (ESP).

Torino entra nella storia dello sport italiano. Nel capoluogo piemontese è stato inaugurato il primo museo dello sport permanente, con cimeli di tutte le discipline.

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NEWS

Tutto è cominciato nel 2009 da l’ok del Presidente della Federazione Italiana Hockey Luca di Mauro che ha dato carta bianca ed estrema fiducia a Marco Carboni, l’attuale direttore tecnico della società L’Archetto, specializzata per l’attività sportiva di atleti con disabilità intellettiva relazionale per avviare questo settore anche in questa disciplina. Si è quindi iniziato un percorso al fine di creare una squadra con i “migliori” giovani. A luglio 2011 arriva in Federazione (FIH) un volantino di un torneo che era in programma a Mönchengladbach (Germania) dal 24 al 28/08/2011, torneo già alla sedicesima edizione e pari ad una sorta di coppa dei campioni do-

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HOCKEY SU PRATO - DISABILE A CHI?


INVICTUS-L’INVINCIBILE

IO SONO UN CAMPIONE

regia Clint Eastwood Usa 2009 Adattamento del romanzo “Ama il tuo nemico” di John Carlin. Coppa del Mondo di rugby del 1995, in Sudafrica poco tempo dopo l'insediamento di Nelson Mandela come presidente della nazione. Lo stesso Mandela, interpretato da Morgan Freeman, è fra i protagonisti del film, insieme al capitano della nazionale sudafricana di rugby, gli Springboks, François Pienaar.

regia Lindsay Anderson Gbr 1963 Tratto dall’omonimo romanzo di David Storey. La trama: è la storia di un professionista della rugby league (il rugby a 13 giocatori), Frank Machin, che gioca con la squadra del Wakefield, una zona mineraria dello Yorkshire. Assoldato dal manager del club in quanto molto efficace in campo, alla brillante carriera sportiva non corrisponderà una vita sentimentale altrettanto “vincente”.

FOREVER STRONG

ASINI

regia Ryan Little Usa 2008

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Antonello Grimaldi Ita 1999 Italo (Claudio Bisio), è un quarantenne milanese che vive alla giornata. Ama il rugby che può praticare soltanto in panchina per via dell'età. Chiamato a fare da insegnante di ginnastica in un convento francescano che raccoglie asini e che dà rifugio a ragazzi orfani, Italo dovrà cercare di dare loro un ruolo nella vita insegnandogli a giocare a rugby, dando un senso anche alla propria.

Rick Penning, giovane giocatore di rugby, con problemi di droghe e alcool. Dal riformatorio passa all'Highland Rugby, allenata da Larry Gelwix che gli insegna cosa è davvero importante della vita. Grazie a lui e ai suoi compagni di squadra diventa un ragazzo nuovo capace di portare avanti la sua squadra fino alle finali dei campionati nazionali.

PUROSANGUE, IL FILM NEGATO omplimenti alla pellicola e nonostante la commissione non sia rimasta indif«C ferente alle qualità del film, siamo spiacenti di non essere riusciti a trovare una collocazione all’interno della selezione per la settima edizione del festival Internazionale di Roma». Firmato la direzione. Con queste poche parole, il film “Purosangue”, diretto da Virginio Favale e prodotto da Massimiliano Monteforte, si è visto sbarrare la strada per accedere alla rassegna cinematografica capitolina. Una “bocciatura” forse inaspettata vista la qualità della pellicola e l’importante tema toccato, quello del doping. Il film racconta una storia dove, lo sport, la fatica, il doping e la lealtà s’incrociano e si rincorrono. Un modo deciso per dire un no forte al doping. Venticinque minuti di pellicola in cui sono stati racchiusi sogni, attese, scomode verità del mondo dell’atletica. Due atleti a confronto su pia-

ni diversi, il doping cercherà di appiattire tutto, levigando il percorso, azzerando le distanze facendo sentire tutto più semplice Il film si chiude con una scena corale, quasi d’altri tempi, un momento di gioia e riscatto del mondo dello sport dove tutte le comparse indossano una maglia rossa che come globuli rossi portano ossigeno verso il futuro. E la scelta di non inserire “Purosangue” nelle selezioni dispiace. Gli ingredienti per accedervi c’erano tutti. Il forte tema, la denuncia, la fotografia, la bravura degli interpreti e del regista. Insomma, poteva essere l’occasione per il Festival romano di andare ad impossessarsi di un argomento che di sicuro avrebbe fatto parlare e discutere. Un’occasione persa per i responsabili della rassegna. “Purosangue” sarebbe stato propedeutico verso la società, sportiva e no. Un segnale forte da lanciare soprattutto ai giovani.

Sono lontani i tempi di Nando Martellini e Bruno Pizzul, che erano le incontrastate voci ufficiali della Nazionale. Ora i telecronisti si alternano e da febbraio 2013, Claudio Gentili lascerà il posto a Stefano Bizzotto. NEWS | 155

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A CURA DELL’UNIONE ITALIANA COLLEZIONISTI OLIMPICI E SPORTIVI

F I L AT E L I A E D I N T O R N I di Pasquale Polo La rubrica che racconta i grandi eventi sportivi e i luoghi che hanno fatto la storia dello sport attraverso il materiale dei collezionisti

ra le corse a tappe ciclistiche di primavera che vantano più edizioni c’è sicuramente la Parigi-Nizza. Nel 1959, in occasione del 3° anniversario del gemellaggio tra Parigi e Roma, la corsa a tappe francese, si svolse sul percorso ParigiNizza-Roma. Nelle tappe che si svolsero sul territorio italiano; Mentone-Ventimiglia, Ventimiglia-Chiavari, Chiavari-Firenze, FirenzeSiena e Siena-Roma, alla carovana pubblicitaria si aggiunse l’autobus delle Poste Italiane con l’Ufficio Postale Mobile n. 3, che all’arrivo delle tappe forniva a tutti gli appassionati la targhetta speciale della tappa illustrata con la Torre Eiffel e il Colosseo, naturalmente in ogni sede di tappa la targhetta veniva sostituita con quella della nuova città di partenza e di arrivo. La tappa finale a Roma, lungo la passeggiata archeologica. fu vinta allo sprint da Armando Pellegrini mentre la classifica finale arrise al Franco-Polacco Jean Graczyk davanti al Francese Gérard Saint e all’indimenticabile Pierino Baffi.

V U O I V E D E R E P U B B L I C A T O I L T U O M A T E R I A L E D ’ E P O C A ? S C R I V I C I A R E D A Z I O N E @ S P Q R S P O R T. I T

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UNA CORSA CICLISTICA A TAPPE D’ALTRI TEMPI, LA PARIGI-NIZZA-ROMA

annullo della tappa ventimigliachiavari con guller e timbro lineare per le raccomandate

1959 - francobollo da 15 lire che celebra il 3 anniversario del gemmellaggio di Roma con Parigi

annullo della tappa finale siena - roma

targhetta commemorativa della tappa Chiavari-Firenze

cartolina con l'annullo della tappa Firenze-Siena con l'autografo di Riviere

targhetta commemorativa della tappa VENTIMIGLIA CHIAVARI

Sportivi in politica in Ucraina. Il campione del mondo dei pesi massimi, Vitali Klitschko, ha ottenuto alle elezione quasi il 15% dei voti, flop invece per Andriy Shevchenko, fermo appena all’1,6%

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DA SAN PIETROBURGO PER VINCERE Oxana Corso, vincitrice di due medaglie d’argento nei 100 e nei 200 metri alle recenti Paralimpiadi di Londra, che si aggiungono ai due oro agli Europei di Stadskanaal sempre quest’anno, è stata premiata dall’Us Acli, società con cui l’atleta è tesserata. «Oxana - dice Luca Serangeli, Presidente dell’Us Acli di Roma è l’emblema dello sport pulito e noi siamo orgogliosi di averla con noi. A noi delle Acli - ha aggiunto - piacerebbe che la sua storia venisse raccontata nelle scuole per spiegare ai ragazzi come il sacrificio e l’impegno siano l’unico viatico positivo per affermarsi nella vita». Ma chi è Oxana Corso? Nata a San Pietroburgo 17 anni fa, del suo passato però non si sa nulla. È stata adottata da una coppia romana. Frequenta il liceo Psicosocio-pedagogico. Ama il cinema, la musica, la lettura, è tifosa della S.S. Lazio. Prima di gareggiare, come gesto scaramantico, le scarpe gliele allaccia il suo allenatore. Ma come è nato l’amore per lo sport? «A scuola, nelle ore di educazione fisica. Avevo a 11 anni quando il professore di ginnastica mi ha notata. Poi sono venuti i raduni promozionali, e l’incontro con il CT Nazionale Mario Poletti, avvenuto a Oristano quando avevo 13 anni». Come ha vissuto le Paralimpiadi 2012? «A Londra non avevo obiettivi particolari, quando sono stata convocata ufficialmente sono scoppiata a piangere. Ho scoperto che i grandi risultati arrivano solo quando mi diverto». E i risultati sono arrivati.

GLORY 3, PETROSYAN RE DI ROMA iorgio Petrosyan vince la finalissima di G “Glory 3” e si riconferma Campione del Mondo dei pesi medi delle Glory World Series. Di fronte a circa 5 mila spettatori accorsi al Palalottomatica per il grande evento e in mondovisione con 183 paesi collegati in tutto il pianeta, l’armeno “azzurro” ha conquistato la prestigiosa cintura al termine di una competizione eliminatoria avvincente e durissima battendo lo statunitense Ky Hollenbeck, il georgiano Davit Kiria e, nella finalissima per il titolo, l’olandese Robin Van Roosmalen. Distrutto, stremato, ma felice. Petrosyan è messo subito a disposizione di microfoni e taccuini, significative le sue poche parole: «È stata la vittoria più bella della mia vita, più di quella in Giappone dove mi sono laureato campione del mondo di K1, sono felicissimo – dichiaGiorgio ra il campione – sapevo che non sarebbe stato facile, la finale poi è stata davvero dura, nell’ ultima ripresa ho voluto rischiare pochissimo perché sapevo di essermi aggiudicato le prime due, volevo vincere e ho vinto. Il pubblico? Fantastico, ho sentito il calore della gente di Roma che incitava il mio nome nei momenti meno facili, questo mi ha dato più carica in ogni incontro, ho sempre detto che senza di loro non potevo vincere. Una dedica? Per la mia famiglia, mio fratello e il mio allenatore”

Petrosyan

Segnando due reti al Maiorca, Leo Messi ha stabilito l’ennesimo record: è infatti il giocatore ad aver segnato più reti in un anno solare, ben 76, uno in più di quelli segnati da Pelè nel 1958 NEWS | 157

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CAMPIDOGLIO NON SOLO SPORT

A CURA DELL’UFFICIO FOTOGRAFICO DI ROMA CAPITALE

Campidoglio – visita ufficiale del Presidente dell’A.N.P. Abu Mazen

Terrazza Caffarelli – ricevimento e sfilata in occasione della visita della delegazione EAU

Piazza del Campidoglio – centro mobile per donazione sangue della CRI in occasione della campagna per il 2012 “Dona il sangue salva una vita”.

Museo Mercati di Traiano – mostra fotografica “Bianca Balti: immagini di una favola di moda”.

Roger Federer ha ottenuto un record al Masters in programma a Londra, cogliendo la 40esima vittoria nella competizione, una in più di quanto seppe fare Ivan Lendl

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NOVEMBRE - NOVEMBER 2012

N. 11- ANNO 31 - N. 11 - YEAR 31TH

un OSPITE a

ROMA A GUEST IN ROME

GLI EVENTI DELLA TUA CITTÀ L’Evento, rivista specializzata di Roma Capitale, sceglie per voi i principali avvenimenti che si svolgono a Roma

FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA 9/17 NOVEMBRE 2012

SPORT

CINEMA

EVENTI

MOSTRE

MUSICA

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FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA, OMAGGIO A CARLO VERDONE Il cinema di Carlo Verdone visto da una prospettiva più intima, con gli attori, i tecnici e gli amici che lo hanno accompagnato nella sua straordinaria avventura professionale. Al grande attore e regista romano va l’omaggio della settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, protagonista del documentario “Carlo!” diretto da Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni. Il lavoro sulla vita artistica e privata di Verdone, che vedremo in primavera nel prossimo film di Paolo Sorrentino “La grande bellezza” in un ruolo drammatico, aprirà la nuova sezione dedicata alle produzioni italiane “Prospettiva Italia”, introdotta nella kermesse targata Marco Müller per fare il punto sulle tendenze dei giovani registi e valorizzare il grande patrimonio cinematografico nazionale. Confermate le tradizionali categorie in concorso e fuori concorso, a cui si affiancano diverse linee di programma per esplorare nuovi linguaggi del cinema mondiale, per il pubblico di appassionati che potranno contare, dal 7 al 19 novembre, su otto sale (Sinopoli, Petrassi, Teatro Studio, Salacinema Lotto, Salacinema 2, Auditorium MAXXI – Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, cinema Multisala Barberini, Casa Alice) e un Villaggio del Cinema di 6mila mq appositamente realizzato per accogliere i visitatori. A fare gli onori di casa nella serata di apertura e di chiusura, la madrina Claudia Pan-

dolfi che presenterà al pubblico la giuria, presieduta dal giovane regista e sceneggiatore americano Jeff Nichols, e darà il via alla proiezione di due prime mondiali, rispettivamente “Aspettando il mare”, il kolossal del russo Bakhtiar Khudojnazarov per l’inaugurazione e “Una pistola en cada mano” del regista e sceneggiatore catalano Cesc Gay per la conclusione del Festival. Programma, curiosità ed eventi sul sito ufficiale www.romacinemafest.it Dal 9 al 17 novembre Auditorium Parco della Musica Via Pietro de Coubertin Informazioni: www.romacinemafest.it STANLEY KUBRICK FOTOGRAFO, IL LATO INEDITO DEL GENIO DELLA MACCHINA DA PRESA Se non avesse incrociato il cinema, sarebbe stato un fotografo di successo, grazie alla passione ereditata dal padre. Centosessanta immagini inedite esposte al Chiostro del Bramante raccontano le radici della creatività di un acerbo Stanley Kubrick, poco più che adolescente, prima ancora di diventare il maestro osannato che conosciamo tutti, regista di pellicole come “Lolita”, “Arancia Meccanica”, “2001: odissea nello spazio” ed “Eyes Wide Shut”. Tra il 1945 e il 1950, dopo l’assunzione nella nota rivista americana “Look Magazine”, Kubrick si trovò a documentare con la macchina fotografica la vita quotidiana nell’America dell’immediato dopoguerra. La mostra, per un mese soltanto, permette di approfondire un intenso periodo della carriera del cineasta americano ancora po-

Francesca CELLAMARE (Ufficio Stampa Roma Capitale)

co conosciuto, rivelando al pubblico il suo modo di fare fotografia, che si esaurì nel breve spazio di un quinquennio. Fino al 25 novembre Stanley Kubrick. Photographer Chiostro del Bramante Via Arco della Pace, 5 Informazioni: 06 68809036 ISRAELE RACCONTATO ATTRAVERSO IL CINEMA Torna dal 3 al 7 novembre alla Casa del Cinema di Roma, il Pitigliani Kolno’a Festival. Giunta alla settima edizione e prodotta dal centro ebraico “Il Pitigliani”, la rassegna, dedicata alla cinematografia israeliana, propone interessanti titoli che hanno avuto riconoscimenti in tutto il mondo. Come per esempio “La sposa promessa” di Rama Burshtein, il film scelto da Israele per concorrere ai prossimi Premi Oscar e che sarà presentato da Hadas Yaron, vincitrice della Coppa Volpi come miglior attrice all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. E poi ancora, lungometraggi e documentari con un omaggio a David Ofek, che vede la presentazione di quattro opere tra cui “Luxuries”, e tre documentari sui registi ebrei più conosciuti e amati dal pubblico (Roman Polanski, Woody Allen e Stanley Kubrick) che si raccontano tra vita professionale e privata. Un festival che propone spunti di riflessione per superare una visione spesso stereotipata di Israele e della cultura ebraica. Dal 3 al 7 novembre Pitigliani Kolno’a Festival Casa del Cinema Largo Marcello Mastroianni, 1 Informazioni: 060608

Michael Ballack ha annunciato il ritiro dal calcio. Il trentaseienne giocatore tedesco ha giocato, tra le altre, con Bayern Monaco, Leverkusen e Chelsea, collezionando 98 presenze con la nazionale NEWS | 159

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NOVEMBRE - NOVEMBER 2012

N. 11- ANNO 31 - N. 11 - YEAR 31TH

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GIAMPIERO INGRASSIA

LA PRIMA VOLTA DI “FRANKENSTEIN JUNIOR” A quarant’anni dal film, arriva per la prima volta in Italia “Frankenstein Junior”, il musical originale scritto da Mel Brooks nel 2007, per la regia di Saverio Marconi. Protagonista Giampiero Ingrassia nei panni del dottor Frederick, insieme un cast di tutto rispetto composto da Giulia Ottonello, Mauro Simone, Altea Russo, Valentina Gullace, Fabrizio Corucci, Felice Casciano, Davide Nebbia, Roberto Colombo e Michele Renzullo, Divertimento mostruoso assicurato! Dal 28 novembre al 9 dicembre Teatro Brancaccio via Merulana 244 Info: 06 80687231/32, www.teatrobrancaccio.it

LA SFIDA MOSTRUOSA A

ttore, cantante e ballerino. Giampiero Ingrassia, poco più che cinquantenne ma con un aspetto ancora da ragazzino, incarna l’interprete ideale di un genere che in Italia sta spopolando, il musical. Il prossimo 28 novembre debutterà nella nuova produzione della Compagnia della Rancia al Teatro Brancaccio e in vista di quella data prende lezioni di tip tap dall’amico Marco Rea e ne approfitta per mantenersi in forma. Sempre pronto a calarsi in personaggi diversi e stimolanti, Ingrassia porterà in scena “Frankenstein Junior”, la trasposizione musicale del leggendario film diretto da Mel Brooks. Cosa pensi dello stravagante personaggio che interpreterai? «Sono felicissimo di riportare in vita il protagonista Frederick Frankenstein perché, come tutti quelli della mia generazione, “Frankenstein Junior” rappresenta un cult: Si tratta di un film brillante che amo particolarmente, scritto e interpretato da Mel Brooks e Gene Wilder, due geni assoluti della comicità. Sono grato al regista Saverio Marconi per aver scelto me in questo ruolo, a cui mi avvicino con umiltà. Lo spettacolo ricalca il musical originale che Mel Brooks ha portato in scena nel 2007, riscrivendo alcune parti della sceneggiatura, che era anche di Wilder, e componendo anche le musiche. La Compagnia della Rancia ha già prodotto il primo esperimento musicale in cui si lanciò il regista americano, “The Producers”. Ora è la volta di “Frankenstein Junior” cha arriva in prima assoluta in Italia». Come ti approcci a questo personaggio? «Sicuramente non voglio imitare Gene Wilder, pur mantenendo determinate caratteristiche che il professore aveva nel film come le pause di riflessione. Fisicamente ho cambiato colore di capelli: mi sono tinto rosso per evitare di portare la parrucca. In ogni caso, la maggior parte del lavoro è fatto… sta tutto nel copione. L’ha scritto Mel Brooks, mica uno qualunque! Già è un passo avanti rispettare ciò che ha scritto lui. Al momento poi dobbiamo ancora iniziare le prove. Di certo seguirò le indicazioni del regista, ci metterò qualcosa di mio ma sostanzialmente il personaggio è quello, lo spettacolo è quello per cui non c’è tanto spazio per la fantasia. Con un personaggio nuovo ti puoi inventare qualcosa , in questo caso no. Più si rimane ancorati al testo e meglio è».

Il Fluminense ha vinto il campionato brasiliano per la quarta volta nella sua storia. Decisiva la vittoria sul campo del Palmeiras, che ha permesso il trionfo con tre giornate di anticipo

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In questo musical la recitazione avrà un ruolo fondamentale, più che in altri dove spesso si privilegia il canto e il ballo? «Il pubblico conosce a memoria il film quindi noi attori dobbiamo rispettare per forza il testo e ogni singola battuta». Pensando ai musical che si producono in Italia, che differenza c’è con quelli che si vedono all’estero? «Io sono stato uno dei primi a interpretare un musical in Italia. Nell’89 ho debuttato ne “La piccola bottega degli orrori”, prima produzione della Compagnia della Rancia firmata Saverio Marconi, e fu un successo inaspettato. Devo dire che non abbiamo nulla da invidiare agli altri. Tutti i ragazzi che si cimentano nei musical, ormai nemmeno più tanto giovani, hanno una preparazione pazzesca: studiano, ballano, cantano e recitano in modo straordinario. Forse alcune produzioni sono meno ricche perché ci sono meno soldi nel nostro Paese. All’estero ci sono le lunghe teniture che durano anni e molti teatri vengono costruiti o adattati per certi spettacoli, pensiamo a “Cats”. La differenza sicuramente sta nel budget… abbiamo produzioni tendenzialmente serie. E dal punto di vista attoriale non c’è differenza alcuna». A proposito di capacità recitative, la scuola che dirigi che funzione ha nella formazione di un giovane attore? «La Fonderia delle Arti che ignobilmente dirigo (ride, ndr) è una scuola molto seria. Naturalmente in due anni non si può formare un attore completo, ma in così poco tempo io cerco di dare degli imput utili per cominciare questa splendida avventura e per proseguirla. Credo molto in questo progetto, anche perché ci metto la faccia ogni giorno».

nei giornali perché vuol dire che tutto ha un senso. Chiamarmi così non l’ho mai vissuto come una limitazione. Sono gli altri che all’inizio hanno avuto dei pregiudizi. Essere figlio d’arte è una cosa più che naturale. I figli dei dentisti fanno i dentisti, i figli degli avvocati fanno gli avvocati, i figli degli attori fanno gli attori, se sono capaci». L’hai detto tu… «Certo, non basta essere figlio di un attore per dire io seguirò le sue orme. Sai qual è la prova del nove per me? Il tempo che è passato. Nel 2013 saranno 30 anni che faccio questo mestiere e non è poco. Ci ho messo parecchio ad affrancarmi dalla mia provenienza: prima ero il figlio di, ora sono Giampiero Ingrassia e basta. Piano piano ho assunto una mia identità, che peraltro avevo dall’inizio perché non ho mai voluto copiare nessuno né rifarmi a qualcuno. Ma il pubblico inevitabilmente ti identifica con chi ti ha preceduto». Nel 2013 ricorrerà anche un altro anniversario particolare per te, il 10° anno dalla scomparsa di tuo padre. «Mi piacerebbe ricordarlo in qualche modo. C’è gente che ha realizzato documentari e che ha scritto libri su di lui. Ma io ancora non ho ben chiaro che tipo di evento vorrei dedicargli. So solo che sarà una cosa bella, degna di lui». Ti piacerebbe che tua figlia proseguisse il percorso di cui parlavi prima? «Intanto Rebecca mi aiutata con la memoria dei testi…senza di lei sarei perso. Per il resto, vedremo…». Francesca CELLAMARE

Riuscire a infondere la tua passione è gratificante… «Un mio allievo nel nuovo musical farà l’eremita cieco, il ruolo che ebbe Gene Hackman nel film. Questo mi dà grande soddisfazione perché vuol dire che si è impegnato nello studio e che vuole continuare questo percorso che ha iniziato con me. Mi gratifica soprattutto perché il team di insegnanti che dal ’96 porta a vanti la scuola insieme a me funziona! Parecchi allievi sono in giro e già lavorano». E la più grande soddisfazione che ti regala il pubblico o un complimento particolare che ti è stato rivolto di recente? «Mi dà gioia sentire che gli spettatori entrano in empatia con lo spettacolo e partecipano. Un po’ di tempo fa mi ha colpito ciò che mi ha detto un ragazzo abbastanza giovane che nel giro di pochi mesi ha assistito a tre spettacoli in cui ero protagonista “Complimenti Giampiero, in ogni rappresentazione ho visto un attore diverso”. Devo ammettere che mi ha fatto molto piacere…queste attestazioni di stima confermano che la mia scelta è stata giusta». Avere un cognome così importante ti ha caricato di responsabilità? «Non direi. Io mi sono limitato a seguire un percorso intrapreso molti anni fa da mio padre. Ciccio Ingrassia è stato un grande uomo e un grande professionista amatissimo dal pubblico. Mi piace che la ditta Ingrassia continui a essere presente nei manifesti, nei teatri,

Il Brasile del calcio a 5, che vorrebbe mettere due stelle in più sulla maglia (corrispondenti ad altri titoli mondiali). La Fifa contesta decisione, perché i mondiali a cui si riferiscono i verdeoro furono organizzati a carattere privato NEWS | 161

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ORIAL KOLAJ

E I PUGNI DI KOLAJ TRIONFANO A ROMA i fronte a 2000 spettatori Orial Kolaj, il romano d'AlbaD nia. Il 29enne della BBT, neil main event del Palatiziano, di fronte a ben oltre 2 mila persone, batte per ko tecnico al 6o round il ceko Tomas Adamek e mantiene suo il titolo Unione Europea dei pesi mediomassimi. «Innnanzitutto devo ringraziare il Maestro. Questa persona, Mario Massai, mi ha rivoluzionato. Mi ha cambiato totalmente, sia sul ring che fuori» dice Orial. «Un grazie anche al pubblico di Roma, che è sempre al mio fianco, come una forza in più. Adamek non è un pugile facile da affrontare, lo sapevamo. Ed è stato così anche sul ring. D'altra parte io voglio solo match contro pugili di valore, lo sanno anche i miei manager. Ormai sono un altro, uno che sente di poter, di voler dare il massimo in ogni incontro. In passato ho affrontato pugili forti, ho assaggiato i ring esteri, il tappeto e più di una volta la sconfitta. Mi sono rimesso in gioco e sono pronto a farlo ancora, per titoli più importanti di questo che ho conservato. Non dipende solo da me, ma io sono pronto e voglio andare più lontano possibile».

TROFEO BRAVIN. NELLA STORIA i è svolta la 45ª edizione del trofeo Giorgio Bravin di atletica leggera riSservata alla categorie giovanili svoltasi allo Stadio Paolo Rosi il 30 giugno. Oltre trecento atleti provenienti da varie regioni italiane hanno dato vita ad entusiasmanti gare con risultati tecnici di assoluto valore, in cui molti giovani sono riusciti a migliorare le loro prestazioni stagionali. Sono stati inoltre stabiliti nuovi primati del trofeo evidenziando una crescita di questa importante rassegna italiana dello sport giovanile. Nel corso delle gare, con un caloroso applauso, si appreso della vittoria di Fabrizio Donato nel Campionato Europeo nella gara del salto triplo, stessa specialità con cui nel 1993 vinse il Trofeo Bravin con la sua società di origine l’Atletica Frosinone. L’organizzazione particolarmente curata dal settore tecnico dell’Asi di atletica leggera ha avuto la collaborazione del Comitato regionale della Fidal e il patrocinio del Dipartimento sport di Roma Capitale, presieduto da Alessandro Cochi. Il Trofeo Bravin che viene assegnato al migliore risultato tecnico nella categoria allievi e allieve è stato vinto da Erika Furlani nel salto in alto, per la categoria cadetti e cadette il Trofeo è stato vinto da Aurora Cuzzocrea della nella gara del lancio del martello. Altri risultati individuali di rilievo segnaliamo nella categoria allievi la vittoria nei 100 metri di Giovanni Canu con il tempo di 11,10, nella gara dei metri 400 si è imposto Emanuele Grossi con un ottimo 49.89; vittoria anche di Simone Poccia nei 110 ad ostacoli con 14.49, mentre nella gara dei 400 ad ostacoli bella affermazione di Frederick Sanna in 54.96. Nelle gare dei salti ancora una prestazione di rilievo nel salto in alto con Lorenzo Carlone della Studentesca Cariri di Rieti con metri 1,92, suo primato personale.

Con il decimo posto al MotoGp di Valencia, si è conclusa l’avventura di Valentino Rossi con la Ducati. Esperienza deludente: due anni, neanche una vittoria

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SPQR SPORT, il mensile voluto dal Dipartimento Sport di Roma Capitale, è sfogliabile anche online sul sito www.spqrsport.it SPQR SPORT sarà presente anche nei principali social network ed inviato tramite newsletter. Un modo per raggiungere una fetta quanto più ampia della popolazione capitolina. Internet garantisce un’importante diffusione parallela rispetto al prodotto cartaceo che rispetta i canali classici della diffusione freepress: la rivista è distribuita in occasione dei grandi eventi sportivi della Capitale e anche sul territorio grazie alla scelta di esercizi commerciali (edicole, bar, etc) nelle piazze più importanti dei 19 municipi romani. L’elenco è consultabile sul web.


www.acea.it

Cento anni di know-how, una rete di acquedotti di oltre 46.000 km e acqua di qualitĂ distribuita ogni giorno ad 8 milioni di italiani. Questa è la realtĂ di Acea. Una realtĂ all’avanguardia che fa bene all’ambiente, alla popolazione, al futuro. L’acqua, l’uomo, la tecnologia.


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