Abolire la miseria della Calabria

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Giuseppe Candido Filippo Curtosi Francesco Santopolo

La rivoluzione di Tommaso Campanella

Figura curiosa che tende tranelli agli studiosi di Maria Elisabetta Curtosi

ella prefazione al volume di Mario Moretti “La rivoluzione di Fra T o m m a s o Campanella”, pubblicato da Veutro Editore, nella ‘Collana della crudeltà e della violenza’ diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, collana, precisa l’editore, “dedicata a Bertrand Russel come al simbolo più luminoso della sempre più folta schiera di filosofi, scienziati, letterati e uomini civili che lottano per un mondo pacifico e per il rispetto umano” Miguel Angel Asurias scrive: “L’anno scorso, di passaggio a Roma con mia moglie, siamo andati insieme al fraterno amico Rafael Alberti in un teatrino di Piazza Navona e il Tevere, dove rappresentavano un ‘Processo a Giordano Bruno’. La sorpresa è stata piacevole; l’occasione inaspettata. L’antitesi tirannia–libertà aveva qui la ferma e dolorosa angoscia dei grandi fatti corali, e il messaggio filtrato dai documenti autentici della vicenda di Giordano Bruno era presentato in un contesto che aveva l’impressionante, inconfondibile sapore della verità. Abbiamo voluto conoscere l’autore, Mario Moretti. Ci ha parlato della sua idea di un teatro-storia dove nulla sia affidato al caso o alla fantasia, ma dove il documento sia rivissuto e ricreato in una gamma di possibilità che va dal vero al verosimile, dal plausibile all’attendibile. Ho avuto l’impressione che il Moretti stia esplorando un terreno verminoso per estrarre dal brulichio immondo la pepita della verità”. La lettura de ‘La rivoluzione di fra Tommaso Campanella’ me lo ha confermato. Anche qui l’aggancio con la realtà risulta straziante: il dolore della storia si dilata, sorvola le epoche, le scavalca, arriva fino a noi. Leggi e ti accorgi di masticare e masticare la verità, come un pezzo di canna dalla polpa bianca. Alla fine hai la bocca amarognola, ti viene da sputare, perché la >> Pag 8

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Periodico nonviolento di Storia, Arte, Cultura e Politica laica liberale calabrese

La Questione meridionale

Aprile - Dicembre 2011 - Anno V - N. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12

Direttore Responsabile: Filippo Curtosi - Direttore Editoriale: Giuseppe Candido

ISSN 2037-3945 Abolire la miseria della Calabria Anno V - n°04 - 12

dalle origini al dibattito contemporaneo

ella nascita di una “Questione meridionale” propriamente detta si può parlare a partire dall'integrazione delle province meridionali nello stato unitario nel 1860-61: infatti, già all'inizio delle annessioni, nel momento cioè in cui da Torino ci si sforzava di liquidare mediante l'intervento regio l'ipoteca politica della dittatura di Garibaldi, Cavour_ebbe a rettificare i propri orientamenti ottimistici ed a prendere drammatica coscienza dell'esistenza di una profonda frattura fra le “due Italie”, di un distacco misurabile non solo quantitativamente, ma anche in termini sociali e morali. Alla luce delle difficoltà crescenti, il Cavour reputò forse più conveniente anteporre alle ragioni dell'autonomismo e il decentramento amministrativo quelle che persuadevano a rinsaldare un forte sistema accentratore in senso decisamente unitario. Anzi, é da dire che le preoccupazioni politiche suscitate dalla questione del Mezzogiorno influenzarono strettamente tutto il dibattito successivo sulla forma politica-amministrativa da dare al

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di Antonio Carvello

(*)

nuovo stato. Negli anni seguenti al 1861, in assenza di una politica governativa diversa da quella storicamente intrapresa – mentre si saldava l'alleanza tra borghesia industriale del nord e grande proprietà terriera del sud, che escludeva la risoluzione in termini socialmente nuovi della questione contadina – l'iniziativa dell'opera di propaganda e di denuncia non spettò alla democrazia radicale, alla quale in pratica rimase estranea la sostanza politica del problema, ma a pochi intellettuali conservatori, ma illuministicamente riluttanti a chiudere gli occhi sui problemi che la Guido Dorso *** Avellino 1892-1947

bruciante realtà meridionale (brigantaggio, fame di terra da coltivare, arretratezza economica complessiva, agricoltura arcaica clientelismo diffuso, ecc .) proponeva. Primo di tutti fu Pasquale Villari: la sua descrizione della miseria delle plebi contadine e di quelle che affollavano, cenciose e senza mestiere, i “bassi“ dell'ex capitale (Napoli) infestata dalla camorra, della situazione intollerabile esistente nel latifondo siciliano, delle dimensioni del brigantaggio, procedeva col ripensamento critico delle basi sociali che erano all'origine di quei fenomeni patologici, insieme con l'appello ai ceti dominanti di tramutarsi nel nome del buongoverno, in classe effettivamente dirigente. Analogo spirito riformatore e moralismo filantropico é presente in Sonnino e Franchetti, i quali condussero avanti un discorso polemico che aveva alla base le splendide inchieste sulle condizioni delle province napoletane (1875) e della Sicilia 1876). Anche l'espansionismo coloniale era dal Sonnino giudicato come un canale di sfogo della miseria dei contadini del sud ed >> Pag 2, 3 e 4

Cibo, cultura, evoluzione:

La straordinaria storia del pane di Francesco Santopolo

a storia proposta in queste note non ha inteso seguire l’intero percorso di un cibo che ha accompagnato l’uomo nel suo cammino ma si ferma nel punto in cui la panificazione inizia a presentare una sostanziale omologazione di processo, fatta eccezione per alcune differenze che ancora resistono in varie parti del mondo, conservando specificità ascrivibili alla storia dell’uomo, dei luoghi in cui vive e delle risorse di cui dispone. Per l’Europa, questo momento si può far coincidere con il Medioevo, quando la tecnica panificatoria è già definita nelle sue linee essenziali, pur facendo registrare adattamenti tecnologici in età moderna e contemporanea. È parere di chi scrive che la tecnologia, nel passaggio da una manifattura artigianale ad una manifattura industriale, non abbia modificato il processo ma si sia limitata ad imprimervi un’accelerazione e ad introdurre sistemi di controllo, a partire dal momento in cui le biotecnologie sono passate dall’applicazione affidata a metodi e tradizioni della cultura popolare (Pre- Pasteur Era), a quella legata alle scoperte di Pasteur sui microbi come agenti attivi della fermentazione (Pasteur Era) e alla scoperta degli antibiotici (Antibiotic Era). In sostanza, poiché in molti passaggi il lavoro umano è stato sostituito dalle macchine, sono cambiati gli “attori” del processo ma questo è rimasto sostanzialmente invariato, salvo la perdita di alcuni caratteri organolettici che solo la manualità può conferire al prodotto.

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Cibo come cultura

Sebbene si tenda a relegare l’alimentazione e il cibo nell’ambito ristretto delle esigenze fisiologiche, non v’è dubbio che essi rappresentino un punto di osservazione privilegiato, tanto per etnologi e antropologi, quanto per gli storici. Questo perché, le relazioni tra cibo, modo di procurarselo e modo di consumarlo, sono in stretta connessione con le risorse dei luoghi abitati dagli uomini, dei rapporti sociali, della cultura e degli atteggiamenti mentali di ogni popolazione e rappresentano uno dei tratti evolutivi che hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino. Facciamo un esempio estremo: le larve del Punteruolo rosso, che preoccupano il nord del mondo perché considerate una minaccia per la sopravvivenza delle palme, per alcuni popoli della Papua Nuova Guinea rappresentano una fonte importante di ferro e zinco e soddisfano fino al 30% del loro fabbisogno proteico (Martin et al., 2000). Non è per caso che Claude Lévi-Strauss abbia “costruito” la sua Mitologica sul cibo e sulle connessioni tra questo e le altre funzioni vitali (espellere, fecondare, riprodursi) e che storici e antropologi abbiano fornito testimonianze importanti su queste interconnessioni e su come e perché la storia dell’alimentazione può essere “un buon punto di osservazione […] per ricostruire le condizioni di vita della popolazione […] e verificare l’incidenza concreta, quotidiana, che una certa struttura economico- sociale ebbe sulla vita degli uomini. A patto, s’intende, di non considerare il tema del consumo alimentare in modo aneddotico […]” (Montanari, 2004). “Res non naturalis definirono il cibo medici e filosofi antichi, a cominciare da Ippocrate, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono all’ordine «naturale», bensì a quello «artificiale» delle >> Pag. 5, 6, 7 e 8


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