UNIVERSITA‟ DEGLI STUDI DI MILANO - BICOCCA Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche Curriculum Culture e Società
PROSPETTIVE OCEANICHE Un’identità regionale per l’Oceania
Elaborato finale di: Andrea MARIANI Matr. n. 724457
Relatore: Prof.ssa Elisabetta GNECCHI RUSCONE Correlatore: Prof.re Mauro VAN AKEN
Anno Accademico 2009 - 2010
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INDICE INTRODUZIONE
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CAPITOLO I VISIONI A CONFRONTO 1.1
11
RAPPRESENTAZIONI OCCIDENTALI DELL‟OCEANIA
1.1.1 Categorie della mente, cartografie della realtà
11 12
1.1.2 Il colonialismo e la dissoluzione dei circuiti tradizionali familiari ed economici
19
1.1.3 La decolonizzazione e i nuovi paradigmi della dipendenza
25
1.2
34
UN PENSIERO DI RESISTENZA PER UNA NUOVA OCEANIA
1.2.1 Un mare di isole
35
1.2.2 La metafora dell‟oceano per una nuova identità regionale
39
CAPITOLO II UN’IDENTITA’ OCEANIANA?
43
2.1
45
UN PASSATO COMUNE
2.1.1 La prima ondata migratoria e il popolamento dell‟Oceania Prossima
45
2.1.2 La seconda ondata migratoria, la nascita del complesso culturale Lapita e l‟esplorazione dell‟Oceania Remota
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2.1.3 I Lapita: pratiche e paesaggi trasportati
51
2.2
LA CONNESSIONE OGGI
56
2.2.1 Paesaggi naturali, paesaggi culturali
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2.2.2 Pratiche e paesaggi condivisi
62
2.2.3 Il passato, l‟identità e la cultura “davanti a noi”
79
3
CAPITOLO III L’IDENTITA’ E LA CULTURA NEI PROGETTI E NELLE POLITICHE DI SVILUPPO
89
3.1
IL CASO DELLA OK TEDI MINE
90
3.1.1 Pratiche e paesaggi fra gli Yonggom
91
3.1.2 La costruzione della miniera e la perdita del paesaggio
94
3.2
STRATEGIE PER LA COOPERAZIONE E L‟INTEGRAZIONE REGIONALE: IL PACIFIC PLAN
106
3.2.1 Gli obbiettivi del Pacific Plan
107
3.2.2 L‟identità e la cultura nella visione regionalista del Pacific Plan
112
CONCLUSIONE
117
BIBLIOGRAFIA
121
RINGRAZIAMENTI
127
4
INTRODUZIONE
Figura 1 L‟Oceania nel mondo (Fonte: Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.105).
Il continente invisibile; così è stata definita l‟Oceania dal premio Nobel per la Letteratura J.M.G. Le Clézio (Le Clézio, 2006) nell‟intento di sottolineare la scarsa considerazione con cui è trattato questo continente, tanto da apparire come un luogo privo di riconoscimento internazionale, una sorta di passaggio, quasi un‟assenza (Le Clezio, 2009, p.11), se non addirittura una geografia del vuoto (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.3). Tale espressione colpisce nel segno tenendo anche conto della concreta difficoltà di “vedere” e di “capire” l‟Oceania. Infatti, se le rappresentazioni cartografiche costituiscono il primo strumento attraverso cui proviamo a conoscere il mondo, è significativo che nei planisferi occidentali la regione oceaniana non compaia mai nella sua interezza, bensì risulti divisa in due parti collocate all‟estremità opposte della carta geografica, impedendoci così di comprenderne sia la sua effettiva estensione, sia i territori in essa racchiusi. Tuttavia perfino un‟indagine più approfondita talvolta non pare sufficiente a chiarire la complessità che la contraddistingue, disorientando non poco i nostri modelli interpretativi; difatti l‟Oceania si presenta come una realtà atipica, composta 5
prevalentemente da oceano, entro il quale si trovano più di diecimila isole1 (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.3). Queste peculiarità geografiche, oltre ad avere condizionato gli immaginari coloniali del passato, hanno pregiudicato anche le descrizioni contemporanee che raffigurano l‟Oceania come un mondo di piccole realtà insulari, all‟apparenza impossibilitate a comunicare tra loro poiché separate da superfici di mare troppo vaste. Quindi una regione da sempre vista come frammentata e marginale ed oggi considerata ancor più insignificante per la presenza di stati troppi esigui e incapaci di competere negli scenari economici internazionali. Traendo spunto proprio da questo tipo di retoriche, provo per prima cosa a riflettere sulle categorie e sugli stereotipi occidentali che nel corso degli ultimi due secoli sono serviti a descrivere l‟Oceania e le sue popolazioni. Ciò nel tentativo sia di mostrare l‟artificiosità di tali costrutti, sia di contestualizzare il pensiero di resistenza che contraddistingue le riflessioni di un antropologo oceaniano, Epeli Hau‟ofa2. Quest‟ultimo attraverso la forza creativa delle sue idee prova ad articolare una nuova visione dell‟Oceania, ribaltando le classiche descrizioni euro-americane che considerano tale regione come un mondo di piccole isole in un oceano immenso; contrapponendo invece l‟immagine di un “mare di isole” in collegamento tra loro, riavvicina le comunità del Pacifico nell‟intento di ricostruire una regione unita, interconnessa e competitiva. Il mio lavoro assume quindi le prospettive oceaniche, poiché è proprio il Pacifico secondo Hau‟ofa a diventare metafora di un‟identità regionale, nonché eredità collettiva di tutta l‟Oceania; l‟oceano costituisce un punto di contatto tra le comunità, un elemento condiviso che consente agli abitanti di questa regione di sentirsi parte di uno stesso mondo e partecipi di una comune identità.
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Tra le quali spiccano per dimensione la Nuova Guinea, la Tasmania, la Nuova Zelanda e l‟Australia; quest‟ultima con la sua massa rappresenta il 98% di tutte le terre emerse in Oceania. 2 Epeli Hau‟ofa (1939-2009), scrittore e antropologo, ha insegnato presso l‟University of the South Pacific ed è stato fondatore e direttore dell‟Oceania Center for Arts and Culture; di famiglia tongana, è nato in Papua Nuova Guinea dove ha frequentato le scuole per poi spostarsi a Tonga, nelle Fiji e in Australia. Ha svolto i suoi studi universitari in Australia e in Canada; nel corso della sua carriera universitaria ha viaggiato per tutti i dodici stati (ad eccezione di Tokelau) afferenti all‟University of The South Pacific (Hau‟ofa, 2008, p.189).
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Assumere quindi le prospettive dell‟oceano significa per prima cosa cambiare punto di vista e staccarsi, non senza difficoltà, dalle modalità classiche di concepire questo continente. L‟oceano per Hau‟ofa non è una barriera che divide, bensì un canale di collegamento che gli stati oceaniani devono rivalutare affinché, lasciando da parte i propri interessi, ricomincino a perseguire dei traguardi collettivi. Soltanto rafforzando quest‟identità ed agendo come una regione appare possibile per le società dell‟Oceania fronteggiare le molteplici sfide che un pianeta globalizzato comporta (Hau‟ofa, 2005, p.33). Per Hau‟ofa consolidare il legame con le acque oceaniche serve a riscoprire quella connessione che l‟Oceano Pacifico con i suoi 175 milioni di kmq ha reso possibile fin dall‟antichità; esso è ancora oggi una parte integrante di questo contesto e conferisce unità geografica all‟intera regione oceaniana (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.3). Obbiettivo del mio elaborato è quello di capire se un‟identità regionale nelle modalità in cui ne parla Hau‟ofa possa realmente esistere; dato che è l‟oceano a costituire il collante sia metaforico che fisico di questa identità, la mia analisi esamina quelle pratiche che le comunità dell‟Oceania hanno agito nei confronti dei paesaggi oceanici, ma anche di quelli insulari. Questo perché la vita degli abitanti oceaniani si è modellata in stretta relazione con le acque e con i territori delle loro isole; gli esseri umani, nel passato così come nel presente, hanno interagito con la natura compiendo una serie di attività e operazioni indispensabili a garantire loro la possibilità d‟abitare determinati spazi. Ho cercato di mostrare come l‟Oceania, sin dalle più antiche fasi esplorative del continente, fosse caratterizzata da una grande unità culturale (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009 p.46). Questo grazie ai comuni antenati lapita che scoprirono e popolarono le maggior parte delle isole, diffondendo per l‟intero Pacifico simili tratti linguistici e culturali, tra cui anche una serie di pratiche del paesaggio indispensabili a garantire loro la sopravvivenza nei nuovi ambienti insulari. In particolare si trattava di attività come l‟orticoltura, l‟arboricoltura, l‟allevamento dei maiali, ma anche la pesca e la navigazione.
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Nonostante siano passati parecchi secoli e molti siano stati i cambiamenti e le diversificazioni culturali e linguistiche emersi nei vari contesti, è significativo che tali modalità di rapportarsi con il territorio e l‟oceano siano ancora oggi largamente diffuse nelle società oceaniane (Smith, Jones, 2007). Ciò mi ha portato a supporre che tali pratiche ancora oggi possano rappresentare una sorta di “spazio condiviso” tra tutte le società dell‟Oceania, un mondo d‟esperienze comuni indispensabili non solo ad abitare gli spazi, ma anche a costruire i propri modelli sociali e culturali. I paesaggi plasmati dall‟agire dell‟uomo si configurano allora come testimonianze riconoscibili del passato, segni che, strettamente vincolati alle vicende individuali e collettive e alla loro narrazione, diventano luoghi della memoria conservando così la storia necessaria ad articolare l‟identità d‟individui e comunità. Tenendo conto di questi aspetti un‟identità regionale potrebbe esistere; tuttavia essendo consapevole
della notevole varietà culturale e linguistica 3
che
contraddistingue l‟Oceania, ho ritenuto opportuno soffermarmi a riflettere maggiormente sulla nozione d‟identità regionale. Poiché tale costrutto nella proposta di Hau‟ofa non intende configurarsi come una categoria omologante, bensì come una risorsa supplementare per le comunità dell‟Oceania (Hau‟ofa, 2005, p.34), è stato utile far dialogare le sue riflessioni con quelle di Jean-Marie Tjibaou, leader politico della Nuova Caledonia. Ciò nel tentativo di mostrare che l‟identità regionale non intende annullare le identità nazionali, le quali al contrario in alcuni casi possano addirittura favorire la condivisione di una stessa identità oceaniana. Quindi emerge un quadro singolare del legame che unisce storia, identità, pratiche e paesaggio, che porta a riflettere sulla necessità di tutelare quest‟ultimi. Nell‟intento di approfondire tali aspetti ho esaminato un caso specifico, relativo alla costruzione di una miniera in Papua Nuova Guinea, il quale mette ben in evidenza come certi interventi di sfruttamento del territorio possano causare non solo delle
3
E‟ significativo che l‟Oceania, nonostante abbia una popolazione di soli 34 milioni di abitanti, cifra esigua rispetto a quella di ogni altro continente, presenti un‟immensa varietà culturale e linguistica; ad esempio le lingue parlate sono oltre un migliaio, ovvero il 20% di tutti gli idiomi presenti sul pianeta.
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pesanti ricadute sugli ecosistemi, ma anche sulle popolazioni locali e i loro modelli culturali, alterando profondamente il rapporto con il paesaggio circostante. Infine, poiché le dinamiche dello sviluppo negli ambiti locali si inseriscono entro il quadro più ampio delle politiche nazionali e regionali, mi è sembrato utile valutare le recenti strategie adottate dai leader dell‟Oceania per favorire lo sviluppo e la cooperazione a livello regionale. In particolare l‟analisi del Pacific Plan, strumento pensato per assecondare un regionalismo oceaniano, serve a fare emergere alcune divergenze tra l‟Oceania immaginata dalle classi politiche nazionali e quella invece articolata da Hau‟ofa. Questo tipo di indagine metterà ulteriormente in risalto l‟interconnessione che lega l‟identità, il paesaggio e le politiche dello sviluppo, offrendo quindi delle chiavi di lettura interessanti del mondo oceaniano. Per realizzare questo lavoro mi sono avvalso di diverse fonti bibliografiche; materiali storici, archeologici e geografici sono stati utili per acquisire una conoscenza approfondita della regione oceaniana, mentre saggi ed articoli antropologici sono serviti ad esaminare contesti specifici, nell‟intento di comprendere più a fondo la relazione tra le pratiche, i paesaggi e l‟identità. Inoltre, conoscenze indispensabili sono state quelle acquisite durante il corso di Culture e Società del Pacifico tenuto dalla Prof.ssa Gnecchi Ruscone; lo studio di materiali etnografici, supportato dalla visione e dalla discussione di documentari, mi ha aiutato a cogliere la grande eterogeneità del mondo oceaniano, ma allo stesso tempo anche i molti elementi comuni che realmente avvicinano le comunità del Pacifico. Allo stesso modo il corso di Antropologia Economica e dello Sviluppo del Prof.re Van Aken mi ha fornito le competenze necessarie sulle pratiche e sul paesaggio, le quali mi sono risultate fondamentali per costruire la prospettiva attraverso la quale ho sviluppato la tesi di questo elaborato. Certamente un‟influenza determinante hanno avuto gli scritti dell‟antropologo Epeli Hau‟ofa i quali, oltre ad essere stati oggetto della mia analisi, costituiscono anche una sorta di filo conduttore che si estende per tutto il lavoro. Il pensiero di questo autore è stato vera fonte d‟ispirazione e la forza delle sue idee mi ha spinto ad approfondire lo studio di questo continente.
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A tale proposito ritengo che sia davvero molto significativa la capacità che le parole di certi autori hanno nel superare i confini e le distanze tra i gruppi umani, riuscendo a raggiungere luoghi lontani e a comunicare dei significativi condivisibili. Proprio in questo modo alcuni paesi del mondo ci raggiungono, si raccontano e ci lasciano qualcosa ancor prima di averli visitati e conosciuti personalmente; così è stato per me con le parole di Hau‟ofa. Questo lavoro, pur non essendo frutto di una ricerca sul campo, si sforza di capire un po‟ di più l‟Oceania, nella convinzione che anche un‟indagine da lontano può arricchire in modo significativo i nostri orizzonti culturali, aiutandoci a comprendere meglio non solo le comunità d‟altri luoghi, ma anche il funzionamento delle nostre stesse società4. Le questioni trattate offrono punti di vista interessanti su tematiche che riguardano ogni realtà umana ed invitano a riflettere sul vincolo che lega gli uomini ad un dato territorio; questo rapporto non è una prerogativa del mondo oceaniano, bensì contraddistingue le vicende degli esseri umani in qualsiasi contesto geografico. Tenere conto però delle peculiarità che emergono in Oceania può essere utile a cogliere delle prospettive diverse su argomenti come l‟identità, il paesaggio, la storia, la cultura e il regionalismo; temi questi molto attuali anche nelle nostre società.
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Traggo ispirazione da Evans-Pritchard (1946, pp.92-98), il quale ritiene che questo sia uno degli scopi principali dell‟antropologia.
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Capitolo I VISIONI A CONFRONTO Sono passati oltre due secoli dalla “scoperta” dell‟Oceania e a dispetto degli ingenti progressi compiuti dal mondo scientifico e culturale, stereotipi e luoghi comuni rimangono ancora lo strumento conoscitivo privilegiato per capire questo continente. L‟Oceania considerata nel passato un mondo di isole paradisiache, dalla natura selvaggia, incontaminata e in profonda armonia con le popolazioni “esotiche” che l‟abitavano, è progressivamente diventata una realtà problematica, afflitta da povertà, sovrappopolazione, instabilità politica e degradazione ambientale. Se certi pregiudizi nel tempo sono stati modificati, una convinzione comune non è stata scalfita; quella che l‟Oceania sia un mondo composto da piccole realtà, chiuse, distanti, isolate appunto entro i margini insulari e per questo incapaci di fronteggiare le sfide create dalla globalizzazione economica contemporanea. Un approfondimento di come e perché questa visione si sia affermata a partire dalle prime mappe disegnate dell‟esploratore Dumont D‟Urville, servirà a comprendere la proposta di una nuova Oceania, ideata invece da Epeli Hau‟ofa, il quale al contrario mostra una regione dalle grandi potenzialità, sempre più estesa e interconnessa.
1.1
RAPPRESENTAZIONI OCCIDENTALI DELL’OCEANIA
Cercare di comprendere come gli occidentali nel corso degli ultimi duecento anni hanno considerato questo mondo e quali categorie hanno messo in atto risulta una sfida interessante, perché aiuta a svelare molte più cose sui preconcetti europei piuttosto che sui modelli culturali indigeni (Gnecchi Ruscone, 2009, p.33). In particolare l‟analisi si focalizza su determinati quadri concettuali emersi in tre fasi storiche: le cartografie deterministiche prodotte tra Settecento e Ottocento a seguito dell‟esplorazioni occidentali; i pregiudizi della chiusura e della staticità nati in concomitanza alle spartizioni coloniali e alla diffusione delle missioni religiose nell‟Ottocento; i paradigmi della dipendenza necessaria frutto dei processi di decolonizzazione del Novecento.
11
Tale percorso mostrerà come gli occidentali in questi ultimi due secoli abbiano progressivamente costruito la retorica di un‟Oceania frammentata e ristretta e questo in molte circostanze sia servito a giustificare nel passato gli interventi coloniali e nel presente le nuove forme di subordinazione economica e politica.
1.1.1 Categorie della mente, cartografie della realtà Indagando sull‟origine del nome Oceania è facilmente rintracciabile come tale termine sia un lascito dell‟esplorazioni coloniali che a partire dal sedicesimo secolo si alternarono su questi territori. La parola venne utilizzata per la prima volta nella designazione francese Océanie, per accompagnare i testi e le mappe dell‟esploratore francese Dumont d‟Urville (1832) e riprodotte da Domeny De Rienzi (1834-1836). Tale termine, traendo spunto dalla centralità dell‟oceano in questo contesto, finì per sostituire l‟espressione Mari del Sud, rimasta in uso sino agli anni trenta del diciannovesimo secolo (Jolly, Tcherkézoff, 2001, p.23). Quest‟ultima espressione era nata dalle parole dell‟esploratore spagnolo Vasco Nunez de Balboa, il quale nel 1513 dalle spiagge del Golfo di San Miguel, alla vista del cosiddetto mare occidentale, lo proclamò possedimento del re di Spagna nominandolo Mar del Sur, vale a dire Mare del Sud. Soltanto a partire dall‟Ottocento si cominciò ad utilizzare per questo oceano sconfinato il nome Pacifico, coniato nel 1520 da Ferdinando Magellano proprio in virtù delle correnti marine e dei venti favorevoli che aveva trovato durante la sua risalita lungo le coste del Cile (Corneli, 1988, p.21). Benché ipotesi sull‟esistenza di questo continente fossero state prodotte sin dai tempi di Pitagora e Tolomeo, tanto da giungere ad immaginare un mondo dove ancora nulla era stato scoperto e a battezzarlo come Terra Australis Incognita (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.8), fu soltanto grazie a Magellano che prese avvio un nuovo stadio per la storia dell‟Oceania. Egli infatti, dopo avere virato con le sue imbarcazioni verso nordovest al fine di completare il suo viaggio di circumnavigazione, giunse nel 1521 presso l‟isola di Guam, dando ufficialmente il via a consistenti spedizioni esplorative. Durante il sedicesimo secolo furono
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soprattutto spagnoli e portoghesi che si contesero questo nuovo mondo5, mentre a partire dal diciassettesimo secolo giunsero le flotte olandesi e nel secolo successivo quelle francesi e inglesi, le quali più d‟ogni altre contribuirono a portare a termine le cartografie dei principali arcipelaghi (Gnecchi Ruscone, 2009, pp.22-23). Il ruolo degli occidentali in questi territori non fu mai neutro, poiché nel momento in cui entrarono in contatto con le popolazioni locali, compresero la realtà alla luce di quel bagaglio di strumenti concettuali che portavano con sé e che erano al centro dei dibattiti scientifici e filosofici in atto nel vecchio continente (Gnecchi Ruscone, 2009, p.24). Inevitabilmente ciò non solo condizionò pesantemente i primi contatti diretti con le popolazioni locali, bensì contribuì ad inesatte e superficiali interpretazioni, portando alla costruzione di mappe geografiche e resoconti di viaggio che rispondevano maggiormente all‟esigenze del progetto coloniale e alle tassonomie europee piuttosto che ad un‟attenta comprensione del contesto regionale (Gnecchi Ruscone, 2009, p.26). Ed è in questi termini che fu prodotta la rigida distinzione tra Polinesia, Melanesia e Micronesia, ad opera proprio dell‟esploratore francese Dumont D‟Urville che nel 1832 la presentò alla Società Geografica di Parigi. Nei suoi scritti e in quelli di Domeny de Rienzi distinte aree geografiche vennero individuate sulla base di differenze somatiche, alle quali si associavano inoltre specifiche attitudini comportamentali e perfino diverse organizzazioni politiche. Questo contribuì a diffondere la visione di un mondo composto da tre zone completamente eterogenee in cui le diversità somatiche, le caratteristiche geografiche e i sistemi politici finivano per costruire vere e proprie categorie razziali, nonché classificazioni morali dei popoli del Pacifico (Jolly, 2007, p.516). Un approfondimento delle modalità in cui sono state prodotte queste tre categorie mostra chiaramente la debolezza scientifica che le caratterizza e testimonia invece quanta rilevanza abbiano avuto i pregiudizi occidentali. Il termine Polinesia (che significa molte isole) venne utilizzato per la prima volta nel 1756 da Charles De Brosse per riferirsi alla maggior parte delle isole del Pacifico (Jolly, 2007, p.535) ed era costruito su un dato geografico, la moltitudine delle isole. 5
Il Trattato di Saragozza del 1529 sanciva la raya del Pacifico, ovvero la linea di divisione della sfera di sovranità spagnola e portoghese. La Spagna nel 1668 occupò le Marianne e alcune isole delle Caroline; il Portogallo occupò le Molucche e le Isole Sonda, che poi passarono all‟Olanda nel secolo successivo (Corneli, 1988, pp.22-23).
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Però tale vocabolo si diffuse soltanto grazie a D‟Urville che, riadattandolo alle varietà razziali tracciate da Forster6, giunse ad immaginare la Polinesia come una regione unitaria collegata dal punto vista etnico, culturale, linguistico e ben distinta dalle altre isole poste nella parte nordovest del continente. Indagando la nascita del termine Micronesia (che significa isole piccole) emerge con chiarezza la presunzione che ha guidato tale suddivisione. Infatti De Rienzi ipotizzava un‟Oceania divisa in cinque regioni7 in cui la sua Polinesia era contraddistinta da una serie di fattori: colore della pelle, concessioni sessuali, proibizioni rituali, pratiche materiali e culturali. Essa occupava una vasta superficie, da Tikopia nel Pacifico occidentale sino alle coste sudamericane, comprendendo anche gli arcipelaghi delle Caroline, delle Gilbert e delle Marianne8. La Micronesia invece includeva quella fascia di isole poste sopra i suddetti arcipelaghi e si estendeva dal sud-est del Giappone sino alle isole delle Hawai„i9 (Hanlon, 2009, p.93). Tuttavia D‟Urville proprio in occasione della presentazione del 1832, incluse le Caroline, le Gilberts e le Marianne entro la Micronesia, giustificando codesta scelta in considerazione dell‟assenza di un linguaggio comune e di determinate proibizioni; così facendo, quest‟isole dalle ridotte dimensioni vennero identificate come una realtà a sé stante, nonostante la suddivisione del De Rienzi le comprendesse giustamente entro i perimetri della regione polinesiana10. L‟artificio di D‟Urville negava però l‟evidenza; gli abitanti della Polinesia e della Micronesia non solo erano caratterizzati da una somiglianza fisica, bensì condividevano una stessa origine culturale e linguistica, che un‟attenta analisi avrebbe fatto emergere 11. La presunta differenza venne motivata attraverso dei criteri fittizi, quali la presenza o meno di certi divieti rituali e sessuali, di pratiche specifiche come il tatuaggio e di 6
J. R. Forster era un naturalista che costruì una classificazione razziale delle popolazioni oceaniane frutto però d‟ipotesi scientifiche che le differenze fisiche fossero causate dalle condizioni ambientali, nonché riconducibili alle diverse ondate migratorie che popolarono tale continente. 7 Tra le quali ce n‟era una con il prefisso micro, da cui D‟Urville fece derivare il termine Micronesia (Hanlon, 2000, p.93). 8 Che oggi invece rientrano nella Micronesia. 9 Comprendendo le isole Midway, Johnston, Wake, Bonin e Volcano, e anche quelle disabitate poste a ovest delle Hawai„i, a sud est del Giappone, a nord est delle Marianne e a nord delle Caroline. 10 Questo ragionamento mostra come in realtà la Micronesia sia una vera e propria forzatura, costruita su criteri specifici, che tenevano maggiormente conto delle poche differenze più che dei molti tratti comuni con le altre popolazioni della Polinesia. 11 Tutte le lingue polinesiane e quelle micronesiane (ad eccezione del Chamorro e del Paluano) appartengono al ceppo Oceanico, sottogruppo linguistico dell‟Austronesiano (Tomilson, Makihara, 2009, p.18).
14
variazioni linguistiche subite nel corso del tempo; questi però non erano parametri indicativi della complessità culturale delle subregioni, né tenevano conto del medesimo background culturale e linguistico (Hanlon, 2009, p.94). Inevitabilmente ciò portò al restringimento della concezione iniziale di Polinesia, la quale al contrario circoscriveva la maggior parte delle isole del Pacifico. Infine una simile superficialità è riscontrabile nell‟origine del termine Melanesia (cioè isole nere); se i micronesiani e i polinesiani si assomigliavano per la pelle chiara e un fisico generalmente statuario, invece ben più scuri e meno slanciati apparivano i melanesiani. Proprio il colore della pelle12 divenne il principio per delimitare quest‟area, la quale servì a D‟Urville come una sorta di raggruppamento per quelle isole poste nel Pacifico sudoccidentale (Hanlon, 2009, p.94). Tuttavia anche in questo caso il pregiudizio razziale portò a trascurare la comunanza di elementi culturali e linguistici che le popolazioni melanesiane condividevano con il resto degli abitanti del Pacifico, dimostrando quindi l‟assurdità di tali interpretazioni. L‟effetto della tripartizione oceaniana non fu solo quello di reificare queste tre aree come entità a se stanti, bensì di essenzializzarle come categorie culturali distinte e omogenee entro confini immaginati e rigidi. Se consideriamo il fatto che lo stesso D‟Urville non si scomodò neppure a visitare interamente le isole della Micronesia per approfondire le sue teorie13, è comprensibile da dove derivi la debolezza scientifica delle sue categorizzazioni, le quali finirono per negare la stessa origine culturale e linguistica, nonché la connessione che legava l‟intero mondo oceaniano (Hanlon, 2009, p.94). In Europa, anche in considerazione del fervore coloniale ottocentesco, l‟elaborazioni di D‟Urville vennero ben accolte (Hanlon, 2009, p.95), diventando un riferimento importante per le riproduzioni cartografiche dell‟Oceania; un esempio era la mappa ad opera di Emile Levasseur del 1854, la quale utilizzando colori diversi enfatizzava
12
Melanesia trae spunto da melanina o melanine, dal greco mèlas, cioè nero, pigmento biologico che determina il colore della pelle. 13 Colpisce che D‟Urville istituì la Micronesia senza neppure aver compiuto adeguate ricerche sul campo e basandosi perfino su resoconti non scientifici (Hanlon, 2009, p.94); tuttavia per l‟epoca tali formulazioni rappresentavano un notevole passo avanti, considerato che la scoperta occidentale dell‟Oceania era avvenuta da relativamente poco tempo.
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proprio la distinzione tra le tre aree subregionali, come se fossero state dei mondi assolutamente distinti e separati da confini reali.
Figura 2 Ocèanie, mappa attribuita a Emile Levasseur, Paris, 1854 (Fonte: National Library of Australia).
Tali categorizzazioni rispecchiavano il contesto culturale e scientifico che fece da sfondo all‟esplorazioni nel Pacifico; infatti i discorsi sullo stato di natura dell‟uomo selvaggio14 e la nascita di una scienza finalizzata alla classificazione delle razze nel corso
degli
ultimi
decenni
del
Settecento
ebbero
un
peso
notevole
nell‟interpretazione di questo nuovo mondo, servendo allo stesso tempo da pretesto per un progetto di conquista e civilizzazione (Gnecchi Ruscone, 2009 pp.24-25). Non è un caso che un anticipatore di queste categorizzazioni fosse proprio un uomo di scienza, il naturalista J. R. Forster, il quale accompagnò James Cook durante la sua seconda spedizione compiuta tra 1772 e il 1775. Nei suoi scritti Forster, basandosi su una metodologia combinata di presenza sul campo e obbiettività
14
In particolare l‟immagine del buon selvaggio frutto del romanticismo rousseauiano contrapposta a quella dell‟ignobile selvaggio descritto da Hobbes.
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scientifica, analizzò profondamente le “varietà” delle popolazioni del Pacifico collocandole su una scala evolutiva umana. Giunse così a contrapporre due diversi tipi: i polinesiani, atletici, di bell‟aspetto e docili nel temperamento e i melanesiani, più scuri e dai capelli crespi, magri, bassi di statura e dal punto di vista caratteriale15 più aggressivi e diffidenti. Sebbene le sue tipizzazioni non fossero concepite come essenze statiche, bensì il frutto di determinate condizioni geografiche e sociali mutabili nel tempo, ebbero ugualmente un certo ascendente negativo, contribuendo a rafforzare una retorica razzista (Jolly, 2007, pp.516-520); difatti gli occidentali considerandosi la massima espressione dell‟evoluzione umana si posero al vertice di queste gerarchie razziali, legittimando così le proprie missioni come azioni civilizzatrici. Per tale ragione non stupisce la facilità con cui delle semplici tipizzazioni siano state essenzializzate e trascinandosi nel corso dei secoli si siano progressivamente arricchite di nuovi parametri introdotti dai diversi agenti alternatisi su queste isole. In questo modo sono rimaste in voga nel mondo scientifico e nella percezione comune sino a Novecento inoltrato16. Fortunatamente oggigiorno la decostruzione scientifica di questi paradigmi, grazie alla cooperazione di differenti rami del sapere, ha offerto uno sguardo più critico della realtà e ha portato a considerare le distinzioni di Melanesia, Polinesia e Micronesia soltanto come delle semplici etichette. Ciò nonostante quest‟ultime sono ancora usate sia dagli occidentali, sia dalle stesse popolazioni oceaniane; difatti colpisce come gli stessi nativi e in particolare le elite culturali e politiche le abbiano adoperate come strumento per autodefinirsi e sulle quali costruire rivendicazioni finalizzate a rafforzare la propria
15
Anche la figura della donna ha giocato un ruolo determinate nella costruzione di queste classificazioni razziali; nell‟immaginario europeo si era diffusa l‟idea che le donne polinesiane, le quali oltretutto rispondevano maggiormente ai canoni estetici occidentali rispetto alle melanesiane, vivessero in condizioni di maggiore libertà, in quanto apparivano più indipendenti e disponibili agli incontri con gli uomini bianchi. Al contrario le donne melanesiane sembravano più soggiogate ai loro uomini e tale presunto stato d‟inferiorità sociale divenne un altro criterio per considerare le società della Melanesia più primitive ed arretrate di quelle della Polinesia (Tcherkézoff, 2009, p.118). L‟analisi di Tcherkézoff rivede in modo critico tali questioni, mettendo in luce che le donne polinesiane, in realtà ragazze vergini ancora in giovane età, erano costrette dai loro stessi parenti o dai capi ad offrirsi agli uomini bianchi, in quanto percepiti come dei semidei. In questo modo i loro primogeniti avrebbero assunto una sorta di sacralità e quindi uno status più elevato (Tcherkézoff, 2009). 16 Questo fa molto riflettere anche sulla storia del Novecento e sui molti conflitti e odi razziali; Margaret Jolly precisa comunque che le tipizzazioni di Forster erano ben altra cosa rispetto alla scienza razziale e all‟evoluzionismo di fine Ottocento (Jolly, 2007, p.517).
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identità, non solo in contrasto al vecchio mondo bensì anche rispetto ad altri abitanti del Pacifico17 (Jolly, 2007, p.521). Questo nel tempo non ha fatto che rafforzare l‟immagine di un‟Oceania divisa, frammentata e in conflitto, finendo per negare così quel patrimonio culturale comune che fin dall‟antichità legava le popolazioni del Pacifico. Invece un‟indagine più approfondita avrebbe mostrato la fragilità delle conclusioni alle quali si era giunti e avrebbe messo in luce la reale interconnessione che legava non soltanto gli arcipelaghi più vicini, bensì anche le isole più lontane, collegate da rotte che tagliavano i confini immaginari disegnati dagli europei (Hanlon, 2009, p.106).
Figura 3 L‟Oceania e le sue tripartizioni (Fonte: Gnecchi Ruscone, Paini, 2009).
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Mi riferisco in particolare alla “Melanesian Way”, al “Polynesian Triangle” e al “Micronesian World”, modalità talvolta usate per rivendicare la propria unicità anche rispetto agli altri abitanti del Pacifico.
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1.1.2 Il colonialismo e la dissoluzione dei circuiti tradizionali familiari ed economici. Terminate le spedizioni esplorative e concluse definitivamente le cartografie di questi territori fu inevitabile che le potenze coloniali e le missioni religiose si impegnassero concretamente ad esportare le proprie attività anche in quest‟ultima regione del mondo. Mentre l‟Australia nel 178818 e la Nuova Zelanda nel 184019 divennero vere e proprie colonie d‟insediamento, Melanesia, Micronesia e Polinesia, a partire dal 1790, furono soltanto inserite entro i circuiti commerciali globali, configurandosi come basi d‟appoggio20 per le rotte commerciali delle nazioni europee e degli Stati Uniti; quest‟ultimi pur non essendo una potenza coloniale, cominciarono sempre più a nutrire un crescente interesse economico e politico per i nuovi territori (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.146). Talvolta le navi, durante le loro lunghe traversate oceaniche, trovarono un riparo sicuro sulle isole della Polinesia e della Micronesia, e i loro equipaggi cominciarono ben presto ad instaurare rapporti di scambio con i nativi21. Quindi non fu un caso che durante lo stesso periodo si sviluppò il fenomeno dei cosiddetti beachcombers22, i quali furono i primi occidentali a stringere vere e proprie relazioni materiali e di convivenza con le popolazioni locali (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.147-148). L‟annessione ufficiale degli arcipelaghi del Pacifico entro la sfera d‟interessi degli stati occidentali avvenne solo a partire della metà dell‟Ottocento. In breve tempo tutte queste isole furono progressivamente spartite tra le maggiori potenze, in particolare: le Isole Marchesi (1842), Tahiti e Taumotu (1847), la Nuova Caledonia 18
L‟Australia divenne una colonia penale ed era considerata terra nullius, ovvero terra di nessuno, nonostante fosse popolata dagli aborigeni, verso i quali ci fu una scarsissima considerazione (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.123-124). 19 Colonia di popolamento sin dal 1840, anno del trattato di Waitangi che sancisce un ruolo paritario ai Maori; tuttavia molte terre vennero sottratte agli indigeni e rivendute ai nuovi coloni per costruire fattorie e insediamenti urbani (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.139-142). 20 I porti preferiti per scambiare acqua e cibo erano le Hawai„i, le Marchesi, Tahiti, la Nuova Zelanda e Pohnpei. La Melanesia era evitata a causa della malaria, ma anche per l‟ostilità dei nativi e per la difficoltà d‟individuare dei capi riconoscibili con i quali trattare (Gnecchi Ruscone, 2009, p.28). 21 Uno scambio diseguale, che il più delle volte vide gli europei nel ruolo di veri e propri saccheggiatori (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.147). Inizialmente i principali beni scambiati erano ferro, ami, chiodi, asce, coltelli, ma in seguito anche perline, specchi, stoffe, utensili vari e armi da fuoco (Gnecchi Ruscone, 2009, p.28). 22 Sono avventurieri, prigionieri evasi, marinai ammutinati. In particolare molto famoso è l‟ammutinamento dell‟equipaggio della Bounty, che si rifiutò di ripartire dall‟isola di Tahiti, dopo cinque mesi di permanenza.
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(1853), le Isole della Lealtà (1864), Wallis e Futuna (1888), le Isole Australi (18871889) divennero francesi; Pitcairn (1838), le Fiji (1874), Rotuma (1881), la Nuova Guinea sudorientale (1884), le Cook, le Kermadec e le Tokelau (tra 1887-1888), Gilbert e Ellis (1892), alcune isole delle Salomone (1893) andarono all‟Inghilterra, mentre Vanuatu (1906) era amministrata in condominio con i francesi; le Samoa occidentali (1899), alcuni territori della Nuova Guinea (1884), le Marshall (1885) e le Isole Bismarck (1893) diventarono sede di alcune colonie della Germania; parte della Nuova Guinea (1884) e le Isole Norfolk (1913) passarono sotto l‟amministrazione dell‟Australia; le Isole Cook (1901), Niue (1904), Tokelau (1925) furono gestite dalla Nuova Zelanda dopo essere state sotto il protettorato inglese; le Midway (1867), le Hawai„i (1898), Guam23 (1897-1898), Wake (1899) e le Samoa orientali (1904) diventarono degli Stati Uniti; infine le Isole Bonin (1876) e l‟isola Volcano (1891) furono occupate dal Giappone24 (Corneli, 1988, p.22). Queste molteplici spartizioni25, le quali nell‟arco di pochi decenni subirono numerosi passaggi di proprietà tra le varie amministrazioni coloniali, testimoniano il grande interesse che l‟ultimo continente ormai suscitava. L‟Oceania a tutti gli effetti era entrata negli scenari internazionali e risultava estremamente decisiva per i nuovi assetti geopolitici globali. Molti di questi arcipelaghi non solo per la ricchezza di risorse naturali26, ma soprattutto per la posizione da loro occupata diventarono degli obbiettivi strategici per le maggiori potenze dell‟epoca, dando il via ad una sfida che si è prolungata per quasi due secoli27 (Corneli, 1988, p.23). Alla competizione tra le potenze coloniali si legò inevitabilmente anche quella tra le missioni cristiane afferenti alle diverse chiese. Nonostante avamposti cristiani cattolici fossero già presenti a Guam sin dal 1668 con l‟arrivo degli spagnoli, la vera espansione missionaria avvenne proprio in concomitanza con le spartizioni coloniali, tanto che dopo la seconda metà dell‟Ottocento missioni cattoliche e protestanti 23
Ottenute in seguito alla guerra del 1897-1898 con la Spagna, che ormai aveva perso influenza su quest‟area geografica e sui molti territori che precedentemente deteneva nel Pacifico. 24 Che durante gli anni venti del Novecento occuperà molte isole della Micronesia. 25 Non riporto tutti i passaggi di proprietà delle isole; rimando ai volumi di Corneli (1988, p.22) e a Giusti, Sommella, Cigliano (2009, pp.151-153). 26 Ad esempio la Nuova Caledonia era molto ricca di nickel e Nauro di solfati. 27 Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Germania e prima Spagna, Portogallo e Olanda si erano impegnati in questa battaglia strategica. Anche la Russia si inserì all‟interno di questo conflitto; uno degli obbiettivi principali era quello d‟acquisire influenza sull‟area cinese (Corneli, 1988, pp.23-27).
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risultavano diffuse su tutte le isole dei principali arcipelaghi28. In certi casi furono le chiese stesse ad avere un ruolo rilevante nel facilitare l‟occupazione dei territori coloniali, agevolando l‟inserimento delle nuove figure di potere entro i villaggi. Anglicani e metodisti supportarono l‟occupazione delle Nuova Zelanda nel 1840, la quale con l‟Australia costituì la base di partenza per la colonizzazione inglese nel Pacifico. Furono invece i missionari cattolici a favorire tra il 1842 e il 1864 le conquiste francesi in Polinesia e Melanesia (Corneli, 1988, p.22). La presenza d‟amministratori coloniali e missionari ebbe inesorabilmente forti conseguenze sia a livello regionale, sia a livello locale; quest‟area del mondo, sconosciuta agli europei sino alla fine del Settecento, si trovò ad affrontare in poco tempo dei cambiamenti radicali, dovendosi confrontare con nuovi sistemi di leggi e imposizioni, stili di vita e sistemi valoriali completamente differenti. Di certo va sottolineato come l‟azione delle missioni e delle potenze coloniali fosse strettamente collegata; l‟espansione coloniale favorì il diffondersi degli ordini religiosi, i quali a loro volta cercarono d‟incoraggiare a livello locale il consenso per le amministrazioni a cui facevano riferimento. Provare a descrivere l‟impatto di questi agenti non è semplice, poiché ogni contesto ha diversamente risposto alla presenza degli stimoli esterni. In generale è possibile affermare che con l‟arrivo degli occidentali si diffusero nuove malattie29 che brevemente decimarono le popolazioni di molte isole; allo stesso tempo si instaurò una nuova pratica di schiavitù verso le piantagioni30, fenomeno quest‟ultimo definito come blackbirding31. A partire dalla metà dell‟Ottocento, proprio la diffusione delle coltivazioni intensive diede un forte impulso alla creazione di una rete commerciale più estesa (Gnecchi Ruscone, 2009,
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Non era comunque raro trovare sulla stessa isola o nel medesimo arcipelago sia missioni protestanti, che cattoliche, come ad esempio presso Tahiti nelle Isole Marchesi (Gnecchi Ruscone, 2009, p.185) e in Nuova Caledonia (Paini, 2007). 29 In particolare: l‟influenza, il morbillo, la varicella e alcune malattie veneree. 30 Si erano diffuse nuove coltivazioni che producevano caffè, cacao, canna da zucchero, cotone, gomma, vaniglia e frutti tropicali. 31 Tale fenomeno è stato considerato in maniera meno univoca negli ultimi anni, in quanto alcuni studi hanno mostrato che degli elementi d‟agentività erano presenti fra molti indigeni reclutati come lavoratori. Infatti spesso avevano dei buoni motivi culturali e delle valide ragioni socioeconomiche per partecipare a questo tipo d‟esperienza, che in alcune società, oltre a richiamare l‟usanza dei viaggi tradizionali fra le isole, poteva anche sostituire delle forme d‟iniziazione. Di certo le informazioni e i beni, così come i nuovi elementi culturali, linguistici e religiosi che i lavoratori portavano con sé una volta ritornati a casa, rappresentavano un ampliamento degli orizzonti culturali per l‟intera comunità (Gnecchi Ruscone, 2009, p.29).
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p.28), in funzione della quale vennero anche creati nuovi servizi di collegamenti nautici nell‟intento di facilitare gli spostamenti dei lavoratori (D‟Arcy, 2006, p.165). Attraverso questi circuiti commerciali cominciarono a circolare denaro e nuovi prodotti, i quali erano sempre molto ambiti dagli isolani; in particolare le tecnologie e i materiali fino ad allora sconosciuti contribuirono a modificare profondamente le tecniche tradizionali di navigazione, di pesca e di costruzione delle imbarcazioni (D‟Arcy, 2006, p.165) mentre la diffusione d‟armi (Otto, 2009, p.178) e alcol (Paini, 2007, p.193) ebbe effetti rovinosi in alcuni arcipelaghi. Nei contesti più bellicosi si stanziarono presidi armati di polizia coloniale (Otto, 2009, p.178), i quali pur portando a situazioni di relativa tranquillità, causarono forti ripercussioni sulle configurazioni di quelle società che vantavano classi di guerrieri. Però gli effetti più gravi erano dovuti alle rigide ripartizioni coloniali, le quali generarono confini politici artificiali (Gnecchi Ruscone, 2009, p.28), limitando di fatto la navigazione indipendente dalle coste delle Isole britanniche Gilbert sino alla Polinesia francese (D‟Arcy, 2006, p.165). L‟interruzione dei tradizionali circuiti di scambio produsse la rottura di quei legami sociali che erano mantenuti con le popolazioni delle altre isole, causando inevitabilmente un indebolimento delle reti tradizionali. E‟ in questo clima di trasformazioni che le missioni religiose trovarono le condizioni ideali per cominciare a radicarsi nel tessuto sociale di molte realtà locali. In parecchie circostanze il messaggio cristiano fu accolto anche molto positivamente, poiché le nuove pratiche cultuali rappresentavano per i nativi una vera e propria risposta sia al caos portato dai colonizzatori, sia al decadimento dei sistemi locali di potere32 (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.148-149). Ovviamente ci furono anche casi in cui i missionari, diventando il capo d‟accusa per le terribili epidemie che avevano decimato gli indigeni, subirono pesanti ritorsioni. In ogni modo va evidenziata l‟agentività delle popolazioni indigene, le quali spesso seppero rielaborare in una nuova sintesi culturale gli elementi religiosi esogeni, trasformandoli e adattandoli in modo creativo ai modelli della propria cultura (Gnecchi Ruscone, 2009, p.31).
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Allo stesso tempo il discorso religioso si legò inevitabilmente a quello politico, tanto che la presenza di missionari favorì in certi casi, come a Tonga, la costruzione di uno stato nazionale.
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Tuttavia, nonostante tale flessibilità e pragmaticità, i sistemi cosmologici ne furono molto condizionati e questo anche in base alle diverse politiche messe in atto dai missionari. Infatti, cattolici e anglicani generalmente mostrarono una maggiore accondiscendenza rispetto agli usi locali, mentre più rigido fu il comportamento dei protestanti, i quali, con l‟obbiettivo di costruire una società basata sull‟etica del lavoro, applicarono delle forti proibizioni agli stili di vita delle popolazioni oceaniane, ricorrendo nel peggiore dei casi anche a dure punizioni (Gnecchi Ruscone, 2009, p.186)33. Benché le tensioni a livello locale fossero già molte, non era raro che le rivalità coloniali si riproducessero anche sottoforma d‟antagonismi missionari, i quali innescavano a loro volta contrapposizioni tra differenti gruppi tribali che ad essi facevano riferimento34. Questo ovviamente diede inizio a delle rigide divisioni (Paini, 2007, p.181) anche tra quelle popolazioni che un tempo erano connesse nei tradizionali circuiti di scambio. Emergono quindi le grandi responsabilità delle potenze coloniali e delle missioni religiose nell‟aver accentuato la separazione e l‟irrigidimento dei confini tra le isole, così come le tensioni fra i gruppi nativi residenti nel medesimo territorio. Queste circostanze e in particolare il crollo della navigazione indipendente che ne era seguito, modificarono profondamente l‟insieme di pratiche che erano mantenute proprio attraverso i circuiti marittimi di scambio. La riduzione degli spostamenti non fu solo quindi una limitazione alla libertà di movimento, bensì ebbe delle pesantissime ripercussioni economiche e sociali; i percorsi marittimi, infatti, servivano non solo per alimentare le reti commerciali35, ma perfino i circuiti matrimoniali, i quali nel corso dei secoli avevano contribuito a consolidare i
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Tuttavia ci sono contesti, come in Nuova Caledonia, dove i protestanti si sono dimostrati molto più flessibili dei cattolici, pubblicando da subito le Sacre Scritture nella lingua locale; iniziativa questa che ha creato maggior attaccamento alla religione da parte dei nativi protestanti (Paini, 2007, p.159, p.163). 34 E‟ il caso delle isole della Lealtà dove gruppi residenti in zone di diffusione del protestantesimo inglese si trovarono contrapposti ad altri nativi residenti in aree sottoposte al cattolicesimo francese (Paini, 2007, p.181). 35 B. Malinowsky che compì ricerche tra il 1914 e il 1918 nelle Isole Trobriand della Papua Nuova Guinea (Malinowski, 1922), mostrò bene come il kula, circuito commerciale di scambio intertribale tra isole distanti anche centinaia di chilometri, fosse strettamente legato alla dimensione sociale delle realtà insulari coinvolte.
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collegamenti intertribali, trascendendo le circoscritte realtà insulari36 (Gnecchi Ruscone, 2009, p.31). L‟Oceano che fino ad allora aveva costituito il vero collegamento tra i vari arcipelaghi, diventò un ostacolo alle comunicazioni, soprattutto con le isole più lontane. I viaggi su lunga distanza, benché fossero ancora diffusi dopo il 1770 in molte zone, andarono progressivamente diminuendo nel corso dell‟Ottocento, a tal punto che in diversi contesti si persero addirittura le conoscenze necessarie per navigare in mare aperto37 (D‟Arcy, 2006, p.94). Le società maggiormente colpite da queste pressioni esterne si richiusero su se stesse e ciò contribuì ad alimentare in Occidente la visione di un mondo fatto d‟isole piccole e disperse in un grande oceano, non tenendo invece conto che tale situazione fosse un effetto della colonizzazione europea. Colpisce, infatti, come nel 1899 l‟antropologo F.W. Christian definì la Micronesia, un mare di piccole isole, espressione che, in considerazione delle analisi pregiudizievoli da lui proposte sugli abitanti delle isole Caroline, bastò ad incoraggiare la colonizzazione dell‟intera regione (Hanlon, 2009, p.95)38. Inoltre va considerato che in Europa la produzione letteraria ed artistica dell‟Ottocento, sulla scia dei resoconti di viaggio del Settecento39, subì una grande influenza dal mondo oceaniano. Gli inglesi Robert L. Stevenson e Joseph Conrad, gli americani Hermann Melville e Jack London, i francesi Jules Verne e Paul Gauguin, l‟italiano Emilio Salgari, con le loro produzioni culturali, di cui non si mette certamente in dubbio il valore artistico, contribuirono ad accrescere una concezione esotica e pastorale di quest‟area del mondo, alimentando il mito di micro mondi solidali immersi in una natura generosa; discorsi questi che in parte finirono
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Molti isolani continuarono a muoversi per lavorare nelle piantagioni e nelle miniere, ma anche come soldati e missionari, usufruendo proprio dei servizi di collegamento creati dagli europei. 37 D‟Arcy ritiene che la perdita di conoscenza delle tecniche marinare non fosse direttamente collegata al colonialismo europeo, ma influissero altri numerosi fattori sociali ed economici, specialmente in quei contesti che subirono meno l‟influenza coloniale. 38 Lo studio di D‟Arcy (2006) compiuto proprio sull‟area Micronesiana mette invece in evidenza la forte interconnessione che legava le isole micronesiane fra il 1770 e il 1870 (D‟Arcy, 2006, p.146). 39 I quali avevano contribuito a diffondere una visione idealizzata ed esotica di questo mondo, in cui la figura della donna si caricava di erotismo e la natura invece di provvidenzialità, in quanto forniva tutto il necessario per vivere (Paini, 2007, p.181).
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per ripetere le classiche categorie occidentali40. Tra queste quella dell‟inferiorità di tali popoli, i quali mai avrebbero potuto dimostrasi superiori all‟uomo bianco, neanche se fossero state date loro le stesse opportunità41; proprio in considerazione della loro “primitività”, chiesa e stato, certi della validità universale dei propri sistemi valoriali, proseguirono la loro missione d‟addomesticamento del selvaggio, al fine di normalizzarlo entro un ordine morale, economico, sociale e religioso europeo (Paini, 2007, p.86). Solo attraverso le disposizioni occidentali, queste persone sarebbero potute emergere dalle tenebre in cui stavano navigando ed essere condotte verso la luce della verità, che li avrebbe redenti dalla condizione d‟ignoranza e peccato (Gnecchi Ruscone, 2009, p.186). Fu proprio attraverso queste modalità che le amministrazioni coloniali, insieme ai missionari cattolici e protestanti, crearono consenso intorno al loro progetto di colonizzazione, in cui civilizzazione ed evangelizzazione non erano altro che facce dello stesso processo (Paini, 2007, p.93).
1.1.3 La decolonizzazione e i nuovi paradigmi della dipendenza La seconda guerra mondiale raggiunse il Pacifico il 7 dicembre 1941 con l‟attacco non dichiarato delle basi americane di Pearl Harbour alle Hawai„i. Da questo momento molte isole e tratti di mare divennero il teatro delle principali battaglie tra le forze alleate e i giapponesi; numerose le portaerei e le imbarcazioni militari che si spostavano tra le acque di questi territori trasportando truppe e armamenti42. Tali 40
Hermann Melville (1819-1891), con il romanzo Typee (1846), nonostante evidenzi la bellicosità degli indigeni Typee, contrastando quindi con il classico ideale di paradisiaca felicità, complessivamente finisce per alimentare due stereotipi: il primo del “felice selvaggio” e il secondo di una società con usanze estremamente violente (Fabietti, Pellegrino, 2002, p.7). Jules Verne (1828-1905) in I figli del Capitano Grant (1864) descrive questo mondo come “favoloso” e popolato da “indigeni selvaggi all‟ultimo grado dell‟intelligenza umana, ma di costumi pacifici e non sanguinari” (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.121). In Jack London (1876-1916) lo scenario dei Mari del Sud compare in molte opere e sono caratterizzati da due facce: la prima è quella della Melanesia, vista come terra primitiva, in cui la malattia è un simbolo degenerativo dell‟intera società, la seconda quella della Polinesia, una paradiso perduto, luogo ideale per un viaggio di ricerca interiore, ma a rischio a causa dell‟incombente civilizzazione (Maffi, 1989, p.VII). Emilio Salgari (1862-1911), autore di letteratura per ragazzi, con i suoi libri e racconti d‟avventura, frutto della commistione tra fantasia e immagini dell‟alterità culturale, contribuì a diffondere modelli e stereotipi sull‟Oceania in voga nella sua epoca (Fabietti, Pellegrino, 2002, p.19). 41 Dichiarazione di Emma Hadfield, responsabile della missione protestante a Lifou, Isole della Lealtà in Nuova Caledonia (Paini, 2007, p.86). 42 Molti e determinanti furono i conflitti combattuti in Oceania, ricordiamo: la battaglia del Mar dei Coralli (1942), la battaglia delle Midway (1942) e la campagna di Guadalcanal (1942-1943).
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conflitti erano da collegarsi all‟espansionismo giapponese, che in quest‟area si era intensificato a partire dagli anni Venti e aveva portato all‟occupazione delle isole delle Micronesia43, dove erano state introdotte radicali politiche di sviluppo forzato e d‟alienazione della terra a vantaggio dei coloni giapponesi (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.175). I conflitti e le numerose presenze militari ebbero un forte impatto sulla vita delle popolazioni locali44; se le zone occupate dai giapponesi subirono aspri regimi di violenza, quelle invase dai contingenti americani, come le Samoa e le Fiji, vissero alcuni momenti di prosperità economica, grazie ai nuovi flussi commerciali prodottisi per la presenza dei militari statunitensi. Inevitabilmente i tradizionali circuiti economici basati sul commercio intraisolano, anche in considerazione della distruzione delle piantagioni e degli alberi da frutto a causa delle operazioni belliche, ne risultarono sensibilmente indeboliti. Inoltre tale situazione incrementò ulteriormente l‟isolamento di quelle realtà situate nelle aree più calde del conflitto (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.202).
Figura 4 Il Pacifico nella Seconda guerra mondiale (Fonte: Giardina, Sabbattuci, Vidotto, 2002, p.502).
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E da cui era partita l‟occupazione giapponese nel 1941 delle Isole Gilbert, delle Isole Salomone e della Nuova Guinea. 44 E‟ interessante che cinque battaglioni di Papua e della Nuova Guinea parteciparono attivamente al conflitto nelle foreste, mentre una squadra delle Fiji prese parte alle operazioni presso le isole Salomone (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.175-176).
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I decenni che seguirono alla guerra rappresentarono comunque una nuova fase per il mondo oceaniano; la lotta contro il nazifascismo aveva stimolato la nascita di movimenti per l‟indipendenza e per la libertà, i quali, benché non avessero la forza concreta di contrastare le amministrazioni coloniali45, resero manifesto il desiderio d‟indipendenza. A partire dalla fine degli anni Sessanta molti territori coloniali o in regime di protettorato cominciarono ad essere svincolati dai legami di subordinazione con le amministrazioni occidentali, diventando almeno sulla carta stati nazionali a tutti gli effetti. Nacquero le seguenti entità statali: Samoa Occidentale (1962), Nauru (1968), Fiji (1970), Kiribati (1970), Tonga (1970), Papua Nuova Guinea (1975), Salomone (1978), Tuvalu (1978), Vanuatu (1980), gli Stati Federali della Micronesia (1986), Isole Marshall (1986) e Palau (1994) (Corneli, 1988, p.52). Parecchi territori non ottennero la libertà sperata e ancora oggi vivono in regimi di dipendenza: Guam, le Samoa americane, le Marianne settentrionali e le Hawai„i46 appartengono agli Stati Uniti47; la Nuova Caledonia, Wallis e Futuna, la Polinesia Francese alla Francia48; le isole Pitcairn sono sotto il regime della Gran Bretagna; la Papua occidentale è amministrata dall‟Indonesia. Ci sono poi altre isole che pur godendo di una relativa autonomia non sono indipendenti, anche in considerazione della loro esigua popolazione: le isole Norfolk sono ancora legate all‟Australia e le Isole Cook, Tokelau49, Niue risultano dipendenti dalla Nuova Zelanda50 (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.203-204). Durante gli anni Settanta e Ottanta la situazione di queste nuove entità statali ovviamente non era delle più stabili, mettendo in luce che al raggiungimento di una
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Alle quali quindi spettò sempre l‟ultima parola per l‟indipendenza (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.202). 46 Le Hawai„i sono il cinquantesimo stato americano; è curioso il fatto che un trattato degli Stati Uniti garantisse l‟indipendenza di questo arcipelago, il quale però una volta inserito nei circuiti economici statunitensi fu praticamente annesso sin dal 1898 (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.151). 47 Il rapporto che lega gli Stati Uniti e gli Stati delle Micronesia è detto di “libera associazione”, ma di fatto rappresenta una forma di dipendenza. 48 Per la Francia questi arcipelaghi non sono colonie bensì territori d‟oltremare e quindi terra francese a tutti gli effetti; per questo non è stato concepibile negoziare alcuna indipendenza (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.204). 49 Che ha scelto volontariamente di rimanere sotto il controllo della Nuova Zelanda. 50 L‟Australia e la Nuova Zelanda benché diventarono indipendenti ufficialmente nel 1938 e nel 1947, costituivano delle realtà ben differenti, in quanto erano colonie inglesi di popolamento che godevano di ampia autonomia; comunque esse sono rimaste fortemente legate alla madrepatria per gran parte del Novecento.
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formale sovranità politica non necessariamente corrispondesse un‟indipendenza economica.
Figura 5 Indipendenza degli Stati oceaniani (Fonte: Atlante Zanichelli 2009, p.82).
I lasciti del colonialismo, le conseguenti tensioni politiche interne e l‟economie stagnanti non consentirono a questi stati di poter reggere il confronto internazionale; ciò anche in considerazione della crescita di un‟economia globalizzata sempre più competitiva e poco collaborativa verso i piccoli contesti (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.205). La fragilità economica e l‟instabilità politica51 delle neonate entità statali in molti casi divennero il pretesto per stabilire regimi di sudditanza economica impedendo così, perfino alle nazioni che ne sarebbero state in grado, di poter competere a livello mondiale. Tali circostanze fornirono l‟occasione al mondo occidentale per elaborare paradigmi inediti, che servissero a giustificare interventismi finalizzati ad instaurare nuove forme di dipendenza negli stati appena liberati. Il più in voga tra gli economisti era certamente quello delle “MIRAB Societies”
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, che definiva le comunità del Pacifico come incapaci d‟autosostenersi
economicamente e per questo destinate a dipendere per sempre dalle migrazioni e dalle relative rimesse, dagli aiuti e dalla burocrazia internazionale. Tale idea sminuiva la capacità degli abitanti dell‟Oceania di costruirsi in modo autonomo
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In particolare nelle Fiji e in Nuova Caledonia. E‟ un acronimo per migration, remittance, aid and bureaucracy.
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perfino in quelle società dotate di risorse abbondanti, che perciò apparivano eternamente costrette in uno stato d‟indebitamento e di fragilità economica e politica (Hau‟ofa, 1993, p.4). Ma non fu l‟unico; l‟idea del Pacific Rim, diffusa intorno agli anni Settanta e Ottanta da economisti e scienziati politici statunitensi, vedeva l‟Oceano Pacifico come un collegamento per i flussi di capitali americani e quelli delle potenze asiatiche emergenti53. Tale visione non prendeva minimamente in considerazione le realtà oceaniane a tal punto da percepirle come un vuoto54, negando di fatto la presenza delle stesse popolazioni che in tale vuoto vivevano. L‟oceano diventava così metafora borghese del capitalismo, espressione della nuova libertà che i flussi di denaro potevano trovare nell‟acqua, a tal punto da ridefinire la dialettica della navigazione e del movimento (Jolly, 2007, p.526). Tuttavia questa‟idea non fu universalmente condivisa; in Australia benché diffuso, l‟immaginario americano risultava principalmente subordinato a quello della Pacific Region, che prediligendo una visione regionale, tendeva a far emergere il ruolo australiano nello scenario del Pacifico, con l‟intento di rafforzare la sua leadership a livello internazionale. In questi termini l‟Australia si definiva come una guida per l‟intera Oceania, un modello di riferimento per tutte le altre isole, che al contrario erano connotate molto negativamente. Infatti burocrati, scienziati e giornalisti descrivevano i nuovi stati in termini apocalittici, esprimendo grande preoccupazione per il futuro di queste realtà, le quali per sopravvivere alle loro economie stagnanti, alla sovrappopolazione e alla degradazione degli ecosistemi naturali avrebbero dovuto necessariamente seguire l‟esempio asiatico, aprendo ulteriormente le loro economie ed operando decisi cambiamenti strutturali (Jolly, 2007, p.527). Senza questi interventi il prezzo da pagare sarebbe stato quello di “falling off the map”, ovvero scomparire dalle carte e quindi dalle cornici economiche globali di riferimento (Fry, 1997, p.305).
53
In particolare Giappone, Thailandia, Malesia, Indonesia e Cina costiera, che crescevano come nuovi stati industrializzati. 54 Come spiega Jolly (2007, p.526), l‟Oceano una volta percepito come lago (lake) americano (e prima spagnolo), diventava ora un vuoto (lack), se non addirittura il classico buco della ciambella (Hau‟ofa, 1993). Tale immagine ben esprime il fatto che secondo questa visione erano i margini rappresentatati dagli stati americani ed asiatici a contare, mentre il continente oceaniano era ritenuto privo di alcun valore.
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Tali rappresentazioni sono durate per decenni in ambito australiano, contribuendo alla diffusione di un nuovo immaginario per l‟Oceania sudoccidentale, definita come un arco di instabilità. Nonostante ci siano state molte accuse di neocolonialismo e imperialismo mosse verso l‟Australia, la sua presenza nel Pacifico55 è andata rafforzandosi in quest‟ultimo secolo, a tal punto che l‟oceano è considerato dagli australiani come il proprio giardino dietro casa (Jolly, 2007, p.529). In questo clima pregiudizievole, il mondo scientifico e gli operatori dello sviluppo non sono stati in grado di offrire resoconti capaci di far luce sulle vere ragioni alla base di questa debolezza economica e politica, né di far emergere le risorse e le capacità locali56 sulle quali costruire una descrizione più attenta della realtà. E‟ in questi termini che per rappresentare lo stato di vulnerabilità delle società oceaniane si è giunti ad utilizzare una serie di categorie teoriche maturate in altri contesti geografici e storici. E ovviamente sono state quelle connotate negativamente a conoscere
il
più
ampio
successo
mediatico,
quali:
caraibizzazione57,
balcanizzazione58 e africanizzazione59. Sebbene la comparazione sia uno strumento indispensabile per accrescere una consapevolezza globale rispetto la somiglianza delle vicende umane, un uso scorretto come in questo caso ha soltanto incentivato delle retoriche fortemente discriminanti, che poco hanno agevolato la comprensione di questi contesti. Trascurando completamente le specificità dei quadri oceaniani e il significato delle rivendicazioni d‟eccezionalità fatte dalle classi dirigenti autoctone rispetto la situazione dell‟Oceania60, si è giunti a mettere in pratica i classici
55
Bisogna ricordare come nel Pacifico siano in gioco molti interessi a tal punto che gli australiani non sono i soli ad investire economicamente e militarmente, bensì ci sono anche americani, canadesi, francesi, neozelandesi e cinesi. 56 Quali ad esempio l‟economia di sussistenza, scarsamente considerata, eppure così importante e in grado di soddisfare l‟esigenze dei contesti locali (Jolly, 2007, p.527). 57 Utilizzato nel 1992 da S. Duratalo per paragonare la politica degli aiuti, delle relazioni economiche e militari degli Stati Uniti nei Caraibi e nel Pacifico; il problema è che tale analogia fortemente retorica e scarsamente dimostrata ha creato eccessivo allarmismo (Teiwa, 2006, p.76). 58 Riferito agli odi etnici nelle Fiji e nelle isole Salomone (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.222). Sebbene nessuna analisi scientifica abbia esplicitamente parlato di depurazione etnica e apartheid, in molti scritti giornalistici e forum di discussione è emerso tale paragone (Teiwa, 2006, p.77). 59 Esprime la somiglianza di certi indicatori di alcuni contesti del Pacifico con quelli di varie società dell‟Africa Sub-Sahariania, quali: debolezza economica, riduzione della democrazia ed aumento dei conflitti etnici (Teiwa, 2006, p.80). 60 La retorica della Pacific Way e della Melanesian Way sottolineano proprio tale particolarità (Teiwa, 2006, p.82-83).
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meccanismi occidentali, i quali nel tentativo di spiegare fenomeni nuovi, riconducono loro entro schemi concettuali predeterminati61 (Teiwa, 2006, p.73). Proprio rispettando questo tipo di logica l‟emergenti realtà statali furono definite come microstati62, cioè “entità eccezionalmente piccole per superficie, popolazione e risorse umane ed economiche, che accedono attualmente alla condizione di stato indipendente”63.
Seguirono
descrizioni
estremamente
dure
come
quella
dell‟americano Daniel S. Papp64, che giungendo a delle conclusioni molto affrettate disse: “sono politicamente insignificanti e relativamente stabili, ma economicamente poveri e senza reali prospettive di sviluppo” (Corneli, 1988, p.53). Tali immaginari hanno finito per alimentare la retorica della dipendenza necessaria per questi microstati, percepiti troppo esigui e demograficamente irrilevanti e a dispetto d‟eventuali ricchezze di risorse naturali, eccessivamente vulnerabili alle pressioni esterne (Corneli, 1988, p.53), quindi incapaci di competere a livello mondiale con le altre entità statali e le loro economie65. In effetti non si può negare che la maggior parte delle realtà insulari e degli atolli presentano delle caratteristiche geografiche e naturali estremamente peculiari, quali la scarsa estensione delle isole, la mancanza di date risorse nonché una demografia ridotta; fattori questi che in parte hanno condizionato un processo di sviluppo autonomo. Tuttavia in molti casi tale vulnerabilità è da imputare proprio alle politiche messe in atto dalle potenze coloniali, che hanno finito per proiettare le loro economie entro dei circoli viziosi dai quali spesso risultava complicato svincolarsi. Infatti, specifici regimi di subordinazione economica nell‟ambito di determinati scenari politici hanno ostacolato la costruzione di un reale processo d‟indipendenza, anche dove sarebbe stato possibile attuarlo. Un esempio è offerto dalla Nuova 61
In sostanza si ripetono i meccanismi utilizzati da D‟Urville per costruire le cartografie dell‟Oceania. Esempi più sottili sono quelli forniti da Teiwa, quali per esempio l‟utilizzo della categoria “feudalesimo”, per descrivere il sistema polinesiano di capi; oppure la traduzione del termine akua polinesiano in god inglese (Teiwa, 2006, p.74). 62 La specificità dell‟Oceania ha richiesto qualcosa in più; nella conferenza di Montego Bay del 1994 infatti è stata coniata l‟espressione “Stato-arcipelago”, che meglio descrive l‟entità statali oceaniane, le quali sono composte da più isole (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.222). 63 Definizione informale del 1967 dal segretario delle Nazioni Unite U Thant (Corneli, 1988, p.53). 64 Professore in Affari Internazionali, attualmente presidente della Kennewsaw State University, Georgia, US. 65 Fa riflettere come un discorso di questo tipo sia fortemente legato ai termini e ai criteri della comparazione. In fondo, forzando un po‟ il parallelismo, anche l‟Italia potrebbe essere un microstato se in un confronto con la Cina, l‟India, gli Stati Uniti o il Brasile considerassimo come parametri di riferimento soltanto la popolazione, l‟estensione geografica e le risorse naturali.
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Caledonia, alla quale ancora negli anni Novanta era imposto di ricevere assistenza esclusivamente dalla Francia, oltretutto senza beneficiare completamente degli introiti derivanti dalla vendita delle proprie risorse. Ma è anche il caso di Guam, isola a cui fu impedita, per la ferma opposizione degli Stati Uniti, l‟istituzione della zona economica esclusiva (ZEC) di 200 miglia66. Proprio l‟istituzione delle ZEC è stato un passo molto significativo per gli stati autonomi, soprattutto i più piccoli, in quanto gli ha consentito di diventare delle vere e proprie potenze, dotate di superfici marine immense esclusivamente a propria disposizione (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.222); ciò permette loro anche di rivendicare sia i diritti sull‟uso dell‟ambiente e delle risorse marine, sia di limitare il transito e la circolazione dell‟imbarcazioni straniere.
Figura 6 Le zone economiche esclusive e le relative aree d‟influenza delle potenze europee (Fonte: Corneli, 1988, p.40).
Le ZEC per i territori non ancora autonomi non costituiscono invece un vantaggio, in quanto l‟uso delle risorse spetterebbe principalmente alle amministrazioni occidentali, le quali, disponendo di mezzi finanziari e tecnici non presenti in loco, possono beneficiare totalmente dei guadagni derivanti dal loro sfruttamento, espandendo oltretutto la propria area d‟influenza in Oceania (Corneli, 1988, p.41). Tali casi dimostrano che la presenza degli occidentali ha continuato ad esercitare un 66
ZEC, istituita nella conferenza di Montego Bay (16 novembre 1994), è la superficie di mare di 200 miglia intorno ai propri territori sui cui gli stati esercitano la sovranità e i diritti rispetto le risorse marine (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.222).
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forte condizionamento allo sviluppo economico (Corneli, 1988, p.67), rispondendo spesso alle dinamiche geopolitiche internazionali e alle logiche imperialiste, le quali non hanno fatto altro che spostare la competizione globale e le relative tensioni entro le acque dell‟Oceano Pacifico. Non è un caso che durante la guerra fredda i territori dell‟Oceania siano diventati siti per centinaia di test nucleari atmosferici e sotterranei67, effettuati da americani, inglesi e francesi. Tali esperimenti sono proseguiti sino al 199668, manifestando apertamente che, per alcuni paesi europei, il Pacifico era ancora lo scenario ideale per rivendicare il proprio status a livello internazionale69. L‟interconnessione tra razzismo, colonialismo e sperimentazioni nucleari mette in evidenza che in fondo questi territori, sino alla fine della seconda metà del Novecento, erano ancora considerati terra nullius e ciò nonostante le ampie proteste delle popolazioni locali e della comunità internazionale70 (Maclellan, 2005, pp.363-364). Proprio in considerazione della scarsa attenzione a livello internazionale e nell‟intento dichiarato di costruire la propria indipendenza politica ed economica, la tendenza dei microstati oceaniani è stata quella d‟incentivare la cooperazione a livello regionale (Corneli, 1988, p.63). Il primo organismo di questo tipo fu il South Pacific Forum fondato nel 197171, trasformatosi nel 2000 in Pacific Islands Forum, con l‟obbiettivo specifico di rafforzare l‟integrazione a livello regionale, facendo
67
Svolti non sempre in aree isolate; Bikini infatti si trovava vicino all‟atollo di Rongelap, evacuato soltanto il giorno dopo l‟esplosioni nucleari effettuate dagli americani (Kirsch, 2001, p.169). 68 I test americani si sono svolti tra il 1946 e il 1958 presso l‟atollo di Bikini nelle Isole Marshall; quelli francesi tra il 1966 e il 1996, in particolare in prossimità dell‟isola di Mururoa e Fangataufa nella Polinesia francese; gli esperimenti Inglesi vennero invece condotti in Australia tra il 1952 e il 1957 nelle acque dell‟arcipelago dell‟Isole Montebello (a nordest dell‟Australia) ed entro i deserti della South Australia in località Marilinga ed Emu Field. Inoltre gli inglesi tra 1956-1958 sganciarono bombe nelle vicinanze dell‟isole Malden e Christmas nell‟Oceano Pacifico. 69 La Francia con i test del 1996 ha voluto rivendicare il suo ruolo di potenza globale di media dimensione e allo stesso tempo ha intenzionalmente portato instabilità entro il movimento internazionale per l‟abolizione del nucleare (Maclellan, 2005, p.367). 70 Gli esperimenti francesi del 1996 hanno infranto il trattato sulla denuclearizzazione (che riguardava anche le zone della Polinesia francese), firmato dai paesi del South Pacific Forum a Rarotonga il 6 agosto 1985. 71 Che ebbe il merito nel 1985 di rivendicare la necessità d‟indipendenza per la Nuova Caledonia, ma senza esiti positivi; inoltre portò alla realizzazione del trattato sulla denuclearizzazione del 1985. Va sottolineato che già nel 1947 le potenze coloniali avevano creato un organismo, la South Pacific Commission (SPC), la quale però rispecchiava maggiormente gli interessi occidentali piuttosto che i bisogni delle popolazioni oceaniane (Corneli, 1988, pp.61-62).
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dialogare i 16 stati indipendenti del Pacifico72. Lo scopo è quello di perseguire gli interessi delle popolazioni dell‟Oceania, coordinando i governi dei singoli stati al fine di stimolare la crescita economica e la stabilità politica. Lo strumento di riferimento per concretizzare tali propositi è rappresentato dal Pacific Plan73, che delinea le tappe da seguire per incentivare il processo di rafforzamento regionale. Questi organismi sono la dimostrazione che da oltre 40 anni c‟è un impegno concreto dei governi e delle popolazioni locali a perseguire un percorso d‟indipendenza economica ed equilibrio politico. Tuttavia come è emerso, pregiudizi e stereotipi sono duri da sradicare e ancora oggi costituiscono i filtri attraverso i quali gli organismi internazionali si rapportano con il mondo oceaniano.
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UN PENSIERO DI RESISTENZA PER UNA NUOVA OCEANIA
Storicamente l‟antropologia risulta fortemente legata all‟esperienza coloniale e ai rapporti di potere con le relative amministrazioni, tanto che in molti contesti furono proprio i governi a supportare studi e ricerche al fine di giungere ad una comprensione più approfondita delle realtà in cui operavano. Tra fine Ottocento e metà Novecento l‟antropologia costituì la scienza privilegiata per comprendere le popolazioni indigene e i loro universi culturali, fornendo in alcuni casi delle giustificazioni agli stessi progetti coloniali. E‟ necessario constatare come nell‟arco di un secolo la disciplina antropologica sia diventata un campo di studio aperto alle stesse popolazioni native, circostanza che ha comportato non solo delle riflessioni teoriche profonde, bensì ha necessariamente dato vita ad ampi dibattiti rispetto al ruolo di questa scienza e ai suoi strumenti d‟indagine. Considerare il pensiero di Epeli Hau‟ofa, “antropologo indigeno”74, le cui riflessioni non sono passate inosservate agli oceanisti di tutto il mondo, aiuta a comprendere 72
Il Pacific Islands Forum ha la priorità di rappresentare gli interessi di tutti gli stati indipendenti dell‟Oceania, ne fanno parte: Australia, Isole Cook, Stati Federati di Micronesia, Fiji, Kiribati, Nauru, Nuova Zelanda, Niue, Palau, Papua Nuova Guinea, Repubblica delle Isole Marshall, Samoa, Isole Salomone, Tonga, Tuvalu e Vanuatu. 73 Trattato nel terzo capitolo. 74 Ossimoro questo nato nell‟ambito del processo di riposizionamento postcoloniale/neocoloniale dell‟antropologia, che però non è più adatto a qualificare gli studiosi che effettuano ricerche nelle loro
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come certe dinamiche di potere in ambito antropologico si siano realmente modificate. I suoi scritti75 sono una testimonianza preziosa della pervasività che immaginari, logiche coloniali e politiche di sviluppo hanno avuto sulle popolazioni oceaniane, sottolineando allo stesso tempo la centralità del ruolo dell‟antropologo nella comprensione e nella denuncia delle pratiche del potere. Nella sua produzione emerge un duplice punto di vista; quello di nativo, che ha abitato in diversi paesi oceaniani, constatando concretamente gli effetti delle politiche coloniali e postcoloniali; e quello di antropologo che, formatosi in università australiane e canadesi, risulta idealmente connesso ad una comunità scientifica internazionale (Hau‟ofa, 2008, p.3). Se tale condizione ha favorito un‟indagine più profonda del mondo nativo studiato, allo stesso tempo lo ha reso consapevole del paternalismo con cui i ricercatori occidentali hanno considerato per molto tempo i loro colleghi nativi, lasciandoli spesso ai margini del pensiero accademico (Hau‟ofa, 2008, p.8). Tuttavia il tentativo di Hau‟ofa d‟articolare una nuova visione dell‟Oceania76, che potesse semplicemente essere una rappresentazione più veritiera di questa realtà, ha goduto progressivamente di un‟ampia considerazione sia tra gli antropologi d‟area, sia entro i circuiti accademici e non77, dimostrando in concreto il valore delle sue idee.
1.2.1 Un mare di isole Oggigiorno agli occhi occidentali l‟Oceania appare come un vuoto, un continente di micro mondi isolati, distanti tra loro, bloccati entro le proprie tradizioni primitive, nonché in balia delle acque dell‟oceano che li circonda. Invece per Hau‟ofa, l‟Oceania è una regione fortemente interconnessa, in cui il passato comune e la condivisione dell‟elemento oceanico costituiscono proprio un collegamento oltre le società di origine. Rinvio a Clifford (2008, p.102), che riflette su come sia cambiato il significato di campo nella ricerca antropologica. 75 In particolare saggi come: “Our Sea of Islands” (1993) e “We are the Ocean” (1998). 76 Come sottolinea Clifford (2008, p.102), Hau‟ofa ha provato ad articolare una nuova/vecchia Oceania, pubblicando prevalentemente in ambito regionale. Nel 1993 il saggio di Hau‟ofa gli fu addirittura consegnato a mano e ciò spinge a riflettere su quale possa essere l‟influenza di una data opera rispetto ai circuiti editoriali e il pubblico a cui si rivolge. 77 Va infatti ricordato che Hau‟ofa è stato anche scrittore di poesie, racconti e romanzi molto apprezzato e conosciuto a livello regionale, tra le sue opere più famose: Tales of the Tikongs (1983) e Kisses in the Nederends (1987). In italiano è stato pubblicato un suo racconto, “Vino vecchio in bottiglie nuove” nel volume a cura di Simone Garzella (2006).
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barriere nazionali e le variazioni linguistiche e culturali. La sua è una visione alternativa che prova ad opporsi alle suddivisioni coloniali, alle categorizzazioni di Melanesia, Micronesia e Polinesia e agli immaginari fortemente discriminanti legati alle politiche occidentali di sviluppo78, le quali si limitano a pensare l‟Oceania tenendo conto unicamente delle sue carenze e degli elementi di debolezza (Jolly, 2007, p.529). Per comprendere la portata di questa nuova concezione, frutto anche di lunghi anni di ripensamenti, va tenuto conto del fatto che si è materializzata, in modo molto significativo, proprio nell‟ambito del suo ruolo educativo79. Se infatti scopo dell‟insegnamento è quello di fornire delle chiavi di lettura della realtà per poterla capire e cambiarla in meglio, se insegnare significa aprire gli occhi sul mondo in cui si abita o almeno provare a fornire degli spunti per guardare le cose da una prospettiva diversa, non era di certo un caso che, nel corso delle sue lezioni universitarie, Hau‟ofa si sentisse fortemente in conflitto con se stesso. Nel momento in cui spiegava ai suoi studenti che le società nelle quali vivevano erano inevitabilmente destinate ad una dipendenza perpetua a causa delle loro esigue dimensioni e che mai avrebbero potuto reggere il confronto con le economie globali, certamente non poteva altro che aspettarsi visi perplessi e dubbi da parte suoi giovani allievi. Pertanto è stata proprio la messa in discussione della sua figura di educatore a causare la vera rottura, fornendo la spinta necessaria a plasmare una nuova visione di questo continente, che finalmente potesse rendere onore alla storia e al presente delle sue genti (Hau‟ofa, 1993, p.5). L‟Oceania pensata da Hau‟ofa è completamente diversa da quella immaginata dagli europei nel corso degli ultimi due secoli80, che risulta al contrario prevalentemente costruita su un topos persistente, quello dell‟esiguità territoriale e dell‟eccessivo isolamento delle realtà insulari. Tale luogo comune ha distorto la comprensione del continente oceaniano sin dalle prime esplorazioni, subendo per di più una forte 78
E in particolare ai giudizi degli economisti della World Bank e della Australian National University (Jolly, 2007, p.529). 79 Hau‟ofa è stato Professore all‟University of South Pacific; la sua esperienza mette ben in evidenza il legame che da sempre e in ogni contesto lega potere e sistema educativo e questo aiuta a comprendere perché certi immaginari siano davvero difficili da sradicare. 80 L‟Oceania di Hau‟ofa non è immaginaria, perché quest‟autore in fondo non fa che descrivere con più attenzione la realtà, cercando di fare emergere i punti di forza dei contesti locali e le cause che invece alimentano quelle situazioni di vulnerabilità, le quali da sempre sono il tema preferito dei resoconti fatti dagli “altri”.
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accentuazione proprio durante il periodo coloniale, quando l‟irrigidimento dei confini causò in effetti la diminuzione dei collegamenti tra le diverse società isolane. In seguito ai processi di decolonizzazione ha rappresentato la base teorica su cui fondare la costruzione di microstati indipendenti, sui quali poi sono stati articolati i paradigmi della dipendenza, come appunto quello delle MIRAB Societies o dell‟arco di instabilità (Hau‟ofa, 1993, p.10). Il protrarsi di tali immaginari non ha fatto altro che giustificare regimi di subordinazione, agendo come un vero e proprio dispositivo coloniale, funzionale a sminuire le agentività locali e diffondendo addirittura stati di svilimento e apatia tra le popolazioni81. Per tale ragione è duro il suo giudizio contro questo topos, che operando più come una condizione della mente che uno stato di fatto (Hau‟ofa, 1993, p.7), ha funzionato alla stregua di un meccanismo deterministico neocoloniale, finendo per negare qualsiasi possibilità di scelta, cambiamento e indipendenza (Hau‟ofa, 1993, p.5). Le difficoltà concrete che hanno caratterizzato le società oceaniane negli ultimi decenni, quali le crisi economiche e politiche, la degradazione ambientale, la forte subordinazione agli aiuti internazionali non vengono negate da Hau‟ofa. Tuttavia sottolinea come siano diventate un pretesto attraverso il quale alimentare ulteriormente la vulnerabilità di tale regione, anche in quelle isole dove le risorse naturali terrestri e marine sarebbero bastate a garantire condizioni d‟autonomia e ricchezza economica. Viene evidenziato come i parametri di scienziati sociali, economisti e agenti dello sviluppo abbiano contribuito ad avvalorare tali convinzioni, pur non tenendo conto di molti altri fattori; considerare il ruolo centrale dell‟economia di sussistenza e della pratica della reciprocità negli scambi, l‟importanza della pianificazione finalizzata a dare stabilità e continuità alle reti familiari e alle alleanze, la circolazione di beni tra i paesi di migrazione e i contesti natali, avrebbe invece mostrato la vivacità dell‟economie locali (Hau‟ofa, 1993, p.11). Se quindi quella occidentale è la visione di un‟Oceania composita da microstati, piccoli, problematici ed economicamente irrilevanti, quella proposta da Hau‟ofa è 81
Diversi ovviamente i fattori, tra i quali spiccano principalmente: la condanna delle culture locali da parte delle missioni cristiane, il paternalismo delle amministrazioni coloniali verso gli indigeni e ovviamente lo stereotipo della ristrettezza delle isole, troppo piccole e povere per consentire loro una vera autonomia (Jolly, 2001, p.422).
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invece un‟Oceania sempre più grande, d‟isole interconnesse e popolazioni in movimento, in cui il mare non costituisce una barriera, bensì un fluido di collegamento. Il continente oceaniano appare ancora più grande nel momento in cui si guarda alle cosmologie e alle tradizioni mitiche dei suoi popoli, i quali concepiscono l‟universo non come un mondo circoscritto alle superfici terrestri, bensì inclusivo dei mari e delle sue profondità nascoste, dei cieli stellati e delle sue divinità, che durante la notte fungono da guida indispensabile per la navigazione (Hau‟ofa, 1993, p.7). Tale grandezza è percepita anche come qualcosa direttamente legato alla geografia fisica di questa regione, la quale comprende numerosi vulcani che attraverso le loro frequenti eruzioni finiscono per dare origine a nuove isole, allargando per davvero il mondo oceaniano (Hau‟ofa, 1993, p.6). Quella di Hau‟ofa è quindi un‟Oceania che ritrova la sua interdipendenza, in cui i confini statali non rappresentano più delle barriere e questo anche per la natura stessa dei moderni meccanismi economici e finanziari globali, i quali per facilitare la circolazione di merci e persone rendono estremamente permeabili le frontiere tra gli stati nazione (Hau‟ofa, 1993, p.193). L‟autore arriva così a formulare l‟immagine di un mare di isole, al fine di enfatizzare la relazione tra le diverse realtà insulari, contrapponendola invece a quella delle isole in un vasto mare, di fattura europea, che invece accentuava l‟isolamento e la chiusura (Hau‟ofa, 2008, p.7). Tale divergenza la si ritrova anche nel diverso uso con cui viene chiamato attualmente questo continente; se Oceania connota infatti un mondo estremamente grande, che nell‟Oceano trova i suoi margini, l‟espressione Pacific Islands, prediletta dagli anglofoni e dagli agenti dello sviluppo, meglio si addice ad assecondare gli immaginari di sminuimento che ben supportano le loro retoriche progressiste (Hau‟ofa, 2008, p.8). Parlare di Oceania presuppone una maggiore considerazione per l‟elemento marino, attraverso cui le popolazioni si sono mobilitate per insediare queste isole, intessendo reti di scambio commerciale e matrimoniale (Hau‟ofa, 1993, p.8). Proprio il mare rappresenta la dinamicità che da sempre ha contraddistinto i popoli oceaniani, abili navigatori che compirono, centinaia d‟anni prima degli europei, “il vero viaggio di scoperta” dell‟intera regione (Jolly, 2001, p.420). Eppure nonostante tale propensione al viaggio, gli occidentali hanno da sempre visto un mondo di persone statiche nello spazio e nel tempo, bloccate in un passato 38
primitivo, in tradizioni immutabili e radicate entro i confini della propria terra82 (Jolly, 2001, p.419). Attraverso la visione di un mare di isole, l‟oceano riacquista la sua capacità di creare connessione, diventando espressione di un mondo di reti sociali, di persone che si spostano e mantengono legami; proprio quest‟ultimi hanno conosciuto un ulteriore ampliamento, grazie soprattutto al trasporto aereo, il quale non solo ha rafforzato i collegamenti tra le isole del Pacifico, bensì anche con le coste del Canada, degli Stati Uniti, dell‟Australia e della Nuova Zelanda (Hau‟ofa, 1993, p.13)83. In questi termini l‟Oceania torna ad essere una regione vasta, dinamica, interconnessa e con tutte le potenzialità per poter essere autonoma e indipendente.
1.2.2 La metafora dell’oceano per una nuova identità regionale Hau‟ofa, nonostante la forza della sua visione, è consapevole dell‟impossibilità di poter parlare di una regione completamente omogenea, proprio in considerazione delle numerose varietà culturali e linguistiche84 che la contraddistinguono. Inoltre in molti stati, dati elementi culturali sono diventati il fulcro di nuove identità pensate per rafforzare l‟unità statale o utilizzate per rivendicare il proprio riconoscimento a livello nazionale e internazionale (Hau‟ofa, 1985, p.167). Purtroppo in tanti casi i processi d‟essenzializzazione delle politiche identitarie hanno generato forti “tensioni etniche”, causa di veri e propri conflitti armati85. Pur essendo cosciente di
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Invece, come sottolinea Jolly, una duplice spazialità contraddistingue i popoli del Pacifico, articolata sia nella ricerca di nuovi orizzonti attraverso il mare, sia nell‟attaccamento alla propria terra. 83 Anche se come giustamente fa notare Jolly (2001, pp.422-423) le migrazioni contemporanee prediligono come mete quelle città che costituiscono i centri dell‟economia globale. Tuttavia, non tutti i migranti hanno le possibilità economiche per raggiungere questi luoghi e quindi la loro migrazione in molti casi avviene entro un‟area più localizzata, solitamente quella del proprio arcipelago o dello stato nazionale. 84 In Oceania ci sono oltre 1100 lingue, un quarto di quelle parlate in tutto il mondo. In Melanesia la diversificazione linguistica è diventata una strategia per distinguersi da altri gruppi e definire la propria unicità (Gnecchi Ruscone, 2009, p.17). Questo fa comprendere come sia impossibile soltanto ipotizzare l‟esistenza di un‟identità regionale intesa come un‟entità conforme e circoscritta; e infatti non è questo lo scopo della metafora oceanica di Hau‟ofa. 85 In Papua Nuova Guinea, Bernard Narokobi propose la Melanesian Way come modalità per rafforzare l‟unità nazionale e la cultura melanesiana, mentre a Vanuatu, Padre Walter Lini ricorse al Kastom per unire i propri cittadini nella lotta per l‟indipendenza (Hau‟ofa, 1985, p.167). L‟identità estremizzata ha portato momenti di grande tensione in parecchi contesti: in Nuova Caledonia negli anni Ottanta l‟identità kanak venne contrapposta non soltanto ai francesi, ma anche ad altri gruppi kanak, causando duri scontri; nelle Fiji l‟opposizione dei melanesiani nei confronti della minoranza indiana ha provocato tra il 1987 e il 2000 ben tre colpi di stato; presso le Isole Salomone l‟opposizione dell‟etnia originaria di Guadalcanal a
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queste problematicità, Hau‟ofa senza forzare un discorso omologante, ritiene che ci sia realmente un background comune il quale, fungendo da punto di contatto tra le diverse realtà, possa diventare terreno fertile su cui articolare una nuova identità regionale. Il retroterra storico-culturale, costituito dalla prevalente appartenenza linguistica alla famiglia Austronesiana e dalla discendenza dal complesso culturale Lapita86, rappresenta un elemento fondamentale per la costruzione di un‟identità oceaniana. Ma non si tratta solo di questo; perché ciò che realmente lega le popolazioni dell‟Oceania è l‟esperienza condivisa dell‟Oceano Pacifico, le cui acque non solo sono fonti di cibo e beni di scambio da sempre, bensì sono all‟origine di stili di vita e culture simili87, poiché modellatesi in costante relazione con affini condizioni climatiche e ambientali (Hau‟ofa, 2005, p.37). L‟oceano costituisce un dato di fatto per tutti gli oceaniani e se è innegabile l‟influenza sulle popolazioni costiere, neppure può essere trascurato l‟influsso esercitato sugli abitanti delle zone interne88. Per tale ragione il Pacifico rappresenta la vera eredità comune, riuscendo a legare perfino quelle popolazioni che non sentono di condividere un analogo passato culturale con gli altri popoli oceaniani. L‟oceano, le cui acque fluttuando oltre i confini e le delimitazioni territoriali89 giungono a toccare tutte le coste delle isole oceaniane, viene così elevato a metafora di una nuova regionalità condivisa (Hau‟ofa, 2005, p.39). L‟identità di queste genti è nell‟oceano perché la loro storia è fisicamente radicata nei paesaggi marini e terrestri, inscritta negli elementi naturali, che evocando reali fatti storici90 creano le trame delle loro narrative orali (Hau‟ofa, 2005, p.40). Il loro passato è concretamente posto davanti a loro, negli ambienti
quella degli emigrati dell‟Isola di Malaita ha dato origine a forti conflittualità (Giusti, Sommella, Cigliano 2009, pp.222-223). 86 Questo è certamente riconducibile alla diffusione del gruppo linguistico Austronesiano e dalla formazione del complesso culturale Lapita presso le coste della Nuova Guinea e delle Isole Bismarck, da cui partirono le spedizioni nautiche che portarono all‟insediamento nelle isole dell‟Oceania. Tali questioni saranno approfondite nel capitolo successivo. 87 E‟ stato l‟oceano per secoli ad aver separato dall‟influenze culturali asiatiche ed americane, consentendo ai popoli dell‟Oceania di compiere un proprio percorso storico e culturale (Hau‟ofa, 2005, p.38). 88 Le popolazioni che abitano sugli altopiani all‟interno della Nuova Guinea, le quali molto probabilmente non hanno mai visto l‟oceano, danno invece molto valore ai suoi prodotti come per esempio le conchiglie, che giungono ai loro villaggi attraverso i circuiti di scambio. 89 Hau‟ofa appare critico alla suddivisione delle superfici marine tra i vari stati, perché in questo modo l‟acqua che da sempre ha unito potrebbe diventare un fattore di divisione (Hau‟ofa, 2005, p.39). 90 Antenati, luoghi di battaglia, tombe, siti sacri sono inscritti negli elementi del paesaggio e non è possibile scinderli da essi (Hau‟ofa, 2008, p.72).
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naturali che vivono e attraversano durante gli spostamenti, i quali necessariamente devono essere tutelati in quanto segni carichi di significato, la cui perdita corrisponderebbe ad uno smarrimento effettivo della propria memoria (Hau‟ofa, 2008, p.73). Quindi cultura, storia e natura non appaiono come universi separati, bensì come un unicum inscindibile, che spinge gli abitanti dell‟Oceania a diventare i veri guardiani del mare, perché soltanto tutelando le acque e i paesaggi sarà possibile conservare e valorizzare la propria identità (Hau‟ofa, 2005, p.40). Proteggere l‟oceano più vasto, il quale copre un terzo della superficie terrestre svolgendo una funzione determinante negli equilibri bioclimatici globali, garantisce un prezioso contributo al benessere del pianeta e dell‟intera umanità (Hau‟ofa, 1993, p.14). Allo stesso tempo tale protagonismo, già messo in atto in alcune importanti battaglie ambientali91, ha evidenziato che solo un approccio regionale può davvero fornire delle risposte concrete a problemi ambientali condivisi, sottolineando al contrario l‟irrazionalità dei microstati nel voler proteggere esclusivamente il proprio tratto di mare (Hau‟ofa, 2005, p.35). Prendersi cura dell‟ambiente oceanico in prospettiva regionale rappresenta una sfida ancora più importante in quello che è chiamato il secolo del Pacifico92, proprio a causa del crescente interesse dell‟economia internazionale, delle pressioni dei mercati e delle logiche dello sviluppo in quest‟area del mondo, che spesso però finiscono per lasciare in secondo piano il benessere dei popoli indigeni e degli ambienti terrestri e marini. Proteggere l‟ecosistema diventa anche un meccanismo utile a rafforzare un senso comunitario regionale e locale, messo sempre più a dura prova dalle nuove ambizioni materialiste legate alla diffusione di sistemi valoriali capitalistici (Hau‟ofa, 2005, p.33). Condividere l‟oceano significa abitare la stessa casa e quindi compartecipare alla costruzione di una stessa identità, che non intende sostituire le appartenenze
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Ricordiamo in particolare: la firma di un trattato per un Pacifico libero dalle armi nucleari, l‟opposizione allo stoccaggio di scorie nucleari, la denuncia di armi chimiche sulle Johnston Islands, la dura presa di posizione contro la Francia per gli esperimenti nucleari del 1995 e più recentemente la mobilitazione per portare a conoscenza l‟opinione pubblica internazionale del rischio della scomparsa di alcuni atolli a causa dell‟innalzamento delle acque per il surriscaldamento globale (Hau‟ofa, 2005, p.35). 92 Nel 1975 il settimanale inglese “The Economist” pubblicò un articolo intitolato “1975-2075 Il Secolo del Pacifico?”, secondo cui il secolo del Pacifico stesse prendendo il posto del secolo americano (18751975) che a sua volta aveva rimpiazzato il secolo inglese (1775-1875) (Corneli, 1988, p.15).
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nazionali o subregionali, bensì punta a configurarsi come una possibilità addizionale a cui fare riferimento per il bene comune (Hau‟ofa, 2005, p.33). L‟identità oceanica dovrebbe superare ogni forma d‟insularità (Hau‟ofa, 2005, p.40) diventando l‟essenza di questo nuovo regionalismo, il quale ben si distingue da quello pensato da pianificatori e politici, che considerano l‟oceano soltanto come una risorsa da sfruttare economicamente (Hau‟ofa, 2005, p.39), al fine di soddisfare esclusivamente i propri interessi nazionali (Hau‟ofa, 2005, p.43). Pertanto l‟auspicio di Hau‟ofa è che la “meravigliosa metafora” dell‟oceano non abbia limiti e così l‟identità regionale, alla stregua delle acque del Pacifico che mescolandosi a quelle di altri mari finiscono per attraversare tutto il globo, possa espandersi a tal punto da connettersi idealmente a tutto il resto del mondo (Hau‟ofa, 2005, p.40)93.
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E‟ curioso che la globalizzazione sia sempre stata trattata come un processo prima economico e poi culturale. Ma da pochi anni i cambiamenti climatici ci hanno ricordato di come la Terra sia soprattutto interconnessa dal punto di vista fisico. E‟ significativo allora il fatto che Hau‟ofa veda nell‟oceano un collegamento con il resto del mondo, quasi a ricordarci che in fondo il benessere del pianeta è un fatto condiviso.
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Capitolo II UN’IDENTITA’ OCEANIANA? La nuova visione proposta da Epeli Hau‟ofa appare fortemente rivoluzionaria e netto il contrasto rispetto all‟immaginario occidentale. Indagare l‟attendibilità di tale prospettiva per cercare di comprendere se è possibile parlare di un‟identità oceaniana condivisa tra tutte le popolazioni del Pacifico induce a riflettere sia sul passato di questa regione, sia sulla situazione contemporanea. Approfondire il popolamento dell‟Oceania aiuta a spiegare non soltanto le ragioni della sua grande varietà culturale e linguistica, ma serve a mettere in luce come la maggior parte delle società del Pacifico condividano concretamente lo stesso background storicoculturale. E‟ significativo per esempio che grazie agli studi del linguista Andrew Pawley e dell‟archeologo Roger Green si è giunti addirittura a formulare una nuova suddivisione del continente oceaniano, la quale pur costituendo sempre un‟interpretazione occidentale, rappresenta comunque una valida alternativa alla classica e discussa partizione tra Melanesia, Micronesia e Polinesia. Secondo questa nuova divisione l‟Australia, la Nuova Guinea e le Isole Salomone rientrerebbero nell‟Oceania Prossima, mentre il resto dell‟Oceania, separato dalla Linea Andesita, farebbe parte della cosiddetta Oceania Remota (Gnecchi Ruscone, 2009, pp.4-5). Tale bipartizione è costruita su un criterio storico-geografico, in considerazione del fatto che le isole dell‟Oceania Prossima, di origine continentale, furono popolate in fase Pleistocenica a partire da 50000 anni fa; invece, quelle dell‟Oceania Remota prevalentemente di formazione vulcanica e corallina, sarebbero state scoperte e occupate tra il 1500 a.C. e il 1000 d.C. da diversi gruppi umani accomunati da stessi tratti culturali e linguistici, i lapita. Questo nuovo quadro svelerebbe il “collegamento ancestrale” tra le varie popolazioni del Pacifico; approfondire le modalità attraverso le quali le popolazioni lapita riuscirono a creare un continente dalla grande unità culturale (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.46) di certo fornirà delle chiavi di lettura utili a comprendere meglio il senso d‟identità regionale nei termini in cui ne parla Hau‟ofa.
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Tuttavia, in considerazione delle molteplici differenze che si sono articolate nel corso dei secoli tra le varie popolazioni dell‟Oceania, la connessione del passato non basterà a dimostrare una condivisione identitaria oggigiorno.
Figura 7 La Linea Andesita divide il continente in Oceania Prossima ed Oceania Remota (Fonte: Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.5).
Poiché secondo Hau‟ofa è l‟oceano a costituire la metafora identitaria dell‟intera regione, nella seconda parte di questo capitolo mi soffermerò ad analizzare le modalità in cui le popolazioni oceaniane si rapportano agli ambienti naturali marini, ma anche a quelli terrestri. Questo perché ritengo che un‟identità nei termini in cui ne parla Hau‟ofa potrebbe esistere tenendo in considerazione le pratiche agite dagli abitanti di questa regione nei confronti della natura; ciò nella convinzione che l‟uomo e il paesaggio si costruiscano reciprocamente attraverso un‟interazione dinamica e l‟ambiente in cui una comunità vive non è mai concettualizzato in senso oggettivo, bensì come un insieme di pratiche possibili (Ligi, 2003, pp.273-281). Ovviamente la vastità e la complessità del mondo oceaniano mi rendono consapevole della difficoltà d‟articolare una prospettiva di questo tipo; per tale ragione il mio va considerato un esperimento che, sulla base di materiale etnografico, provi a mostrare la somiglianza che accomuna i taskscapes degli
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abitanti dell‟Oceania nell‟interazione con i propri landscapes (Ingold, 1993)94. Proprio l‟affinità delle pratiche e dei dispositivi culturali che le diverse comunità attuano negli ecosistemi in cui vivono, può avvalorare in modo convincente l‟esistenza di un‟identità regionale.
2.1 UN PASSATO COMUNE L‟Oceania, secondo recenti studi, costituisce l‟ultimo continente ad essere stato popolato dagli esseri umani; in particolare furono tre le ondate migratorie che progressivamente portarono alla scoperta di queste terre. Si ipotizza che il contatto tra gruppi di lingue austronesiane e di lingue papua (o non austronesiane) avesse dato origine ad un nuovo complesso culturale, chiamato Lapita, contraddistinto da innovazioni culturali, tecniche e linguistiche. Le ricerche effettuate suppongono che siano stati gruppi legati a questo nuovo universo culturale a scoprire la maggior parte delle isole oceaniane, diffondendo per tutto il Pacifico sia i tratti della loro cultura, sia una serie di pratiche e attività, che agite nei confronti della natura hanno influenzato profondamente gli ambienti dell‟Oceania, gettando le basi per i successivi sviluppi umani nella regione.
2.1.1 La prima ondata migratoria e il popolamento dell’Oceania Prossima Nel periodo glaciale del tardo Pleistocene95 l‟Oceania presentava un assetto geomorfologico completamente differente da quello contemporaneo; infatti l‟Australia, la Nuova Guinea e la Tasmania formavano un unico blocco denominato Sahul o Grande Australia. Anche il Sud-Est asiatico aveva una conformazione diversa, in quanto le isole di Giava, Sumatra e il Borneo erano unite alla penisola malese, formando la Terra della Sonda o Sunda (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009,
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Secondo Tim Ingold, i taskscape sono compiti, pratiche, modalità dell‟abitare che gli uomini svolgono negli ambienti in cui vivono; quest‟ultimi costituiscono i landscape, cioè il paesaggio, il quale però non si presenta come una realtà oggettiva immutabile nel tempo, bensì come un tessuto d‟interazioni tra percezioni e pratiche agite dall‟uomo in uno specifico contesto naturale. 95 Periodo tra 1,6 milioni di anni fa e 10.000 anni fa circa, caratterizzato da cicli glaciali-interglaciali. Pleistocene ed Olocene (tra 10.000 anni fa e l‟attualità) costituiscono l‟era Quaternaria o Quaternario (Smiraglia, Bernardi, 1999, p.148).
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p.19). Tali blocchi continentali risultavano separati dalla Wallacea96, tratto di mare disseminato da isolette97, le cui acque presentavano profondità decisamente minori rispetto ai livelli attuali98.
Figura 8 Sunda e Sahul (Fonte: Gnecchi Ruscone, 2009, p.6).
Proprio queste condizioni favorirono la prima ondata migratoria tra i 50.000 e i 36.000 anni fa, compiuta da popolazioni di lingue non austronesiane (NAN) provenienti dal Sud-Est asiatico, che popolarono la Nuova Guinea e l‟Australia99, navigando con zattere o canoe100 lungo le coste, ma spostandosi anche da isola ad isola per tratti di 80-100 chilometri (Giusti, Sommella, Cigliano, 2010, p.19). Tra i 38000 e i 35000 anni fa piccoli gruppi umani erano praticamente diffusi per tutto il Sahul ed erano giunti persino alle isole dell‟arcipelago delle Bismarck e delle 96
Dallo scopritore Alfred Russel Wallace (Giusti, Sommella, Cigliano, 2010, p.19). Le quali costituiscono oggi l‟odierna Indonesia. 98 Solo a partire da 15000 anni fa si sarebbero innalzate le temperature e quindi le acque. 99 Tuttavia, nuove ricerche effettuate su basi genetiche evidenziano che ben quattro diverse ondate migratorie giunsero dall‟Asia continentale in Nuova Guinea, prima ancora dell‟arrivo dei gruppi austronesiani (Gnecchi Ruscone, 2009, p.5). Inoltre, gli studi basati sulla termoluminescenza rivelano che il Sahul potrebbe essere stato popolato addirittura tra i 60000 e i 50000 anni fa, mentre le datazioni con il radiocarbonio fanno supporre che il suo popolamento sia avvenuto 45.000 anni fa, fase storica in cui cominciarono anche le altre migrazioni umane a livello globale. 100 Non si sa ancora con certezza quale tipo d‟imbarcazione usassero (Giusti, Sommella, Cigliano, 2010 p.20); in ogni caso si è ormai certi che avessero le conoscenze necessarie per viaggiare intenzionalmente in mare aperto (Gnecchi Ruscone, 2009, p.5). 97
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Salomone101; questi spostamenti potevano essere spiegati soltanto grazie ad una grande flessibilità tecnologica e ad una capacità d‟adattamento eccezionale a condizioni ambientali così diverse (Gnecchi Ruscone, 2009, p.6). A partire da 15.000 anni fa ci fu un graduale aumento delle temperature e quindi un innalzamento del livello delle acque, che portò alla separazione della Tasmania intorno a 14000 anni fa. Le nuove condizioni climatiche migliorarono progressivamente dando avvio 10.000 anni fa ad una nuova fase post-glaciale, denominata Olocene, in cui si formò quel tratto di mare conosciuto oggi come Stretto di Torres, che divise, intorno a 7000 anni fa circa, l‟Australia102 dalla Nuova Guinea (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.19). Benché alcuni gruppi rimasero isolati in zone interne, le ricerche archeologiche hanno dimostrato come già a partire da 20.000 anni fa fosse attiva un rete di scambio a livello regionale103. Tali legami erano l‟espressione di un processo di manipolazione dell‟ecosistema, che aveva portato i nuovi abitanti, costituiti inizialmente da cacciatori e raccoglitori, a sfruttare le risorse marine e terrestri e a praticare le prime forme di coltivazione, nonché a importare piante e animali che avrebbero meglio soddisfatto i loro fabbisogni alimentari104. Le nuove condizioni ambientali diedero un input significativo alla produzione di cibo e nell‟Antica Melanesia si cominciarono a praticare forme d‟agricoltura ad uno stadio più avanzato105. Sistemi d‟irrigazione e deforestazione, scoperti in Nuova Guinea, attestano l‟esistenza di un complesso sistema agricolo risalente ad un periodo compreso tra 9000-6000 fa, legato alla
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La parte occidentale della Melanesia viene definita dagli archeologi come Antica Melanesia, proprio per distinguerla da quella orientale popolata dai lapita a partire dal 1500 a.C. (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.20). 102 Lo scioglimento dei ghiacci che circondavano i blocchi continentali causò sia un innalzamento delle acque, sia un restringimento della massa delle terre (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.23). 103 Tali collegamenti sono stati documentati attraverso il movimento dell‟ossidiana tra la Nuova Britannia e la Nuova Irlanda. 104 Tra i 20.000 e i 10.000 anni fa risale l‟importazione nelle Isole Bismarck di alcune specie di marsupiali arboricoli (Phalanger) autoctoni della Nuova Guinea, le quali solo intorno a 6600 anni fa furono anche trasportate presso le Isole Salomone; in quest‟epoca compaiono anche alberi da frutto con semi commestibili, come il Canarium e l‟Aleurites moluccana (Gnecchi Ruscone, 2009, p.7). 105 In Australia invece l‟agricoltura e l‟allevamento non si affermarono sino all‟arrivo degli Europei, nonostante la presenza di piante da seme (miglio e varietà di riso) e tuberi (ignami e taro). Il sistema di caccia e raccolta non venne mai sostituito, benché gli Aborigeni praticassero l‟uso intenzionale del fuoco, il reimpianto di alcuni tuberi e le basilari forme di pulizia e sarchiatura del terreno (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.20, p.24).
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coltivazione di banane, d‟ignami in pianura e di taro a quote più elevate106 (Gnecchi Ruscone, 2009, p.7). Infatti, molte popolazioni si erano spostate nelle zone montane più elevate e salubri, tra i 1200 metri e i 2700 metri d‟altezza dove, dedicandosi principalmente alla coltivazione dei tuberi, avevano dato vita a un tipo particolare d‟agricoltura, l‟orticoltura. Tratti della foresta tropicale venivano tagliati con l‟ascia, fatti essiccare e poi bruciati; in questo modo si creavano appezzamenti di piccole dimensioni detti orti o giardini, i quali dopo alcuni anni di messa a colture si lasciavano riposare al fine di recuperare la loro fertilità. Inoltre erano realizzati canali di drenaggio, i quali si svilupparono prevalentemente tra i 6000 e i 4000 anni fa quando furono realizzati i primi terrazzamenti. Alla diffusione di questi modelli di sussistenza corrispose un avanzamento tecnologico nella lavorazione di conchiglie ed ossa, che avevano anche un preciso uso ornamentale (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.38-39). Tuttavia la popolazione dell‟Oceania Prossima non raggiunse mai un‟alta densità; questo fu dovuto alla malaria e alle difficili condizioni ambientali sull‟alture e in pianura (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.39). L‟adattamento a diversi ambienti produsse una forte varietà culturale, riscontrabile anche dal punto di vista linguistico; infatti, le lingue papuane andarono differenziandosi proprio a partire da questa fase storica, diversificandosi nei vari contesti sino ai giorni nostri107 (Gnecchi Ruscone, 2009, p.7).
2.1.2 La seconda ondata migratoria, la nascita del complesso culturale Lapita e l’esplorazione dell’Oceania Remota La seconda ondata migratoria avvenne intorno al 1500 a.C. quando popolazioni di un particolare gruppo linguistico, gli austronesiani, proveniente dal Sud-Est asiatico da località vicine a Taiwan, approdarono sulle isole dell‟Oceania Prossima, passando per l‟arcipelago delle Molucche. Qui trovarono terre già abitate da differenti gruppi autoctoni, discendenti lontani delle popolazioni non austronesiane. L‟interazione tra i nuovi arrivati e queste genti fu molto intensa come è stato dimostrato da studi genetici, archeologici e linguistici, dando origine presso 106
La domesticazione del taro avrebbe addirittura preceduto le prime coltivazioni avvenute nella Mezzaluna fertile durante il Neolitico, tra il 5500 e il 2600 a.C. (Gnecchi Ruscone, 2009, p.8). 107 Sono 750 le lingue papuane che ancora oggi si parlano tra la Nuova Guinea, le isole Halmahera, Timor, Alor e Pantar.
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l‟arcipelago delle Bismarck e sulle coste della Nuova Guinea ad un nuovo complesso culturale chiamato Lapita. La sua formazione è avvenuta in un periodo di circa 200-300 anni, durante il quale secondo l‟archeologo Roger Green si sono verificate specifiche dinamiche interattive, che hanno gradualmente delineato le peculiarità di questo nuovo universo culturale. Il modello delle tre “I” elaborato da Green prova a rendere conto di questi meccanismi culturali, evidenziando tre processi principali: intrusione, che coincide con l‟introduzione di nuovi elementi culturali, linguistici e materiali, come piante e animali (polli, maiali cani), tecnologie in genere (recipienti di terracotta, lame in conchiglia, nuove tipologie di asce, aghi da tatuaggio), tecniche di navigazione (imbarcazioni con bilanciere, vele triangolari, ami da traino, metodi per navigare e pescare sottocosta e in alto mare) e modalità abitative (costruzione di case su palafitte lungo la costa); integrazione, intende il mantenimento di quelle tipicità già presenti in questi territori, quali forni interrati, coltivazioni di noci commestibili, commercio d‟ossidiana, uso di asce in conchiglia di tridacna108; innovazioni, racchiude tutti i nuovi elementi emersi, in particolare i miglioramenti sia nella tecniche di navigazione, sia nella costruzione delle canoe e soprattutto la creazione di un nuovo stile decorativo delle terrecotte, tratto emblematico della cultura lapita109 (Gnecchi Ruscone, 2009, p.9). Proprio i ritrovamenti dei resti di vasi lapita in tutta l‟Oceania Prossima e Remota, a sud fino alla Nuova Caledonia e ad est fino le isole di Tonga e Samoa, attestano l‟ampia diffusione che questa cultura ebbe in tutto il mondo oceaniano. E‟ significativo che tutte le isole dell‟Oceania Remota sino all‟arrivo dei lapita fossero rimaste inesplorate; infatti, furono queste genti a dare il via ad un‟impresa migratoria che in fasi distinte porterà al popolamento dell‟intero Pacifico. Le datazioni al carbonio dei siti archeologi stabiliscono che tra il 1200-900 a.C. alcuni gruppi lapita si diressero verso Santa Cruz, Vanuatu, le Isole della Lealtà e la Grande Terre in Nuova Caledonia; quindi altri naviganti, partendo proprio da Santa Cruz o Vanuatu, raggiunsero le Fiji, da cui poi sarebbero partiti alla scoperta di Tonga, Samoa e degli altri arcipelaghi della Polinesia occidentale (Gnecchi 108
Va sottolineato che anche le reti commerciali vennero ulteriormente potenziate proprio in considerazione di un miglioramento delle tecnologie e delle tecniche di navigazione. 109 Non a caso il nome Lapita deriva da una spiaggia della Nuova Caledonia presso cui furono trovati depositi delle loro particolari ceramiche (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.43).
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Ruscone, 2009, pp.12-13). In contemporanea a questa corrente migratoria altri gruppi di famiglia austronesiana si sarebbero diretti verso le isole micronesiane delle Marshall, delle Caroline e Kiribati, mentre si presume che le isole Marianne fossero state già occupate qualche secolo prima da gruppi austronesiani provenienti direttamente dalle Filippine (Finney, 1996, p.74).
Figura 9 Le principali migrazioni austronesiane nel Pacifico: 1) dalle Bismarck agli arcipelaghi delle Fiji, Tonga e Samoa (1200 a.C. - 900 a.C.); 2) la Polinesia Occidentale; 3) dalla Polinesia occidentale alla Polinesia centro orientale (a partire dal 500 a.C.); 4) migrazioni verso le Hawai„i, Rapa Nui (200 d.C - 400 d.C.) e Aotearora (800 d.C. - 1200 d.C.); 5) dalle Filippine al margine occidentale della Micronesia (1500 a.C); 6) dalla principale ondata migratoria fino alla Micronesia (1200 a.C - 900 a.C.) (Fonte: Finney, 1996, p.76).
La scoperta delle altre isole della Polinesia sarebbe avvenuta soltanto a partire dal 500 a.C., con lo stanziamento presso le Isole Cook, le Isole della Società (tra cui Tahiti), le Marchesi, le Taumotu e le Australi (Finney, 1996, p.74). In seguito proprio da questi arcipelaghi sarebbe cominciata la scoperta della Polinesia orientale, la quale rappresenta la terza fase dell‟esplorazione dell‟Oceania, che presumibilmente portò ad insediare le Hawai„i tra il 200 d.C. - 400 d.C. e Rapa Nui 50
(Isola di Pasqua) nel 400 d.C. circa (Finney, 1996, p.74). Aotearoa (Nuova Zelanda)110 e le Polynesian outliers111 furono occupate soltanto successivamente, in un periodo compreso tra l‟800 d.C. e il 1200 d.C. (Gnecchi Ruscone, 2009, pp.1314). L‟occupazione umana dell‟Oceania venne poi portata avanti nei secoli successivi, a tal punto che possiamo dire che si è definitivamente conclusa da un periodo di almeno cinquecento anni.
2.1.3 I Lapita: pratiche e paesaggi trasportati Tali processi migratori evidenziano l‟importanza che il complesso culturale lapita ha avuto non solo per le isole dell‟Oceania Prossima dove è maturato, ma soprattutto per l‟intera Oceania Remota; la sua diffusione in tutto il Pacifico testimonia come la maggior parte del mondo oceaniano condivida storicamente una stessa matrice culturale. Se certamente è impossibile negare i processi di diversificazione che hanno interessato le culture oceaniane nell‟ultimo millennio, indagare le caratteristiche culturali del fenomeno lapita aiuta a comprendere attraverso quale tipo di pratiche si realizzasse l‟interconnessione tra le diverse realtà insulari nel passato e quanta influenza abbiano avuto sulle culture oceaniane. Innanzi tutto il complesso lapita si contraddistingue per il caratteristico stile delle terrecotte. Benché i vasi appaiano simili a quelli ritrovati nel Sud-Est asiatico, sono le particolari decorazioni a costituire gli elementi di novità. I vasi, prodotti con sabbia mescolata a creta venivano modellati e poi cotti al centro di un fuoco all‟aperto, procedura che non consentiva alle pareti interne di ossidare completamente. Quando la creta era ancora cruda, gli ornamenti venivano realizzati con stampi dentati; ricorrenti erano le stilizzazioni di visi umani112 (Gnecchi Ruscone, 2009, p.11), in cui erano riconoscibili gli occhi, il naso e le braccia filiformi terminanti in cinque dita (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.50). Il ritrovamento di frammenti di vasi in tutta l‟Oceania Prossima e Remota, oltre a costituire la prova archeologica dell‟ampia espansione di questa cultura, evidenzia 110
Probabilmente fu raggiunta intorno al 1000 d.C. (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.47). Sono così definite le isole più distanti dalla Micronesia e Melanesia. 112 Esisteva anche un altro tipo di ceramica liscia utilizzata per la costruzione di grosse anfore rotonde, che servivano per la conservazione del cibo, in particolare farina di sago. Questa faceva parte della dieta dei coloni durante le prime fasi di popolamento delle nuove isole (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.50). 111
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l‟importanza simbolica di tali manufatti. Questi, soprattutto nelle fasi più antiche, erano utilizzati per le funzioni cerimoniali e servivano a mantenere un collegamento tra le varie comunità che, essendo solitamente imparentate tra loro, effettuavano degli scambi in modo regolare113. Tuttavia, tali prodotti non erano gli unici ad essere scambiati; anche l‟ossidiana, l‟argilla, le asce di pietra vulcanica e le pietre per la fabbricazione di forni erano inserite all‟interno di questi circuiti, i quali si estendevano anche per centinaia di chilometri (Gnecchi Ruscone, 2009, p.11). Proprio l‟ampiezza delle reti di scambio porta a riflettere sulle motivazioni che spinsero queste comunità ad intraprendere dei viaggi così lunghi; probabilmente oltre alla grande curiosità umana, unita alla passione per il mare, le ragioni sono da ricercarsi nell‟organizzazione della loro struttura sociale (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.48). Si ipotizza che quest‟ultima fosse costituita da clan conici, ovvero gruppi ordinati lungo la linea della primogenitura, in base alla discendenza da un antenato fondatore; quindi le società verosimilmente apparivano fortemente stratificate secondo linee di rango, situazione questa che poteva essere all‟origine di forti disuguaglianze (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.51). Tali circostanze avrebbero prodotto delle gerarchie tra i fratelli maggiori e i fratelli minori, dato che i diritti sulla terra e le conoscenze rituali sarebbero passate esclusivamente dal genitore al primogenito; ciò sarebbe stata la causa di forti rivalità tra loro e le rispettive famiglie. Per questa ragione si pensa che solo il primogenito restasse nel villaggio, mentre gli altri figli preferissero cercare altre isole sulle quali dare vita a nuovi insediamenti, assumendo a loro volta uno status più elevato 114 (Gnecchi Ruscone, 2009, p.12). Di certo prima di effettuare gli spostamenti definitivi era necessario setacciare l‟oceano per trovare dei territori adatti sui quali stabilirsi; impresa che richiedeva delle abilità nautiche non indifferenti. I lapita, probabilmente anche per tale ragione, erano diventati degli esperti marinai e sapevano perfino navigare in mare aperto, 113
Negli insediamenti da poco fondati sulle nuove isole, gli scambi servivano alle comunità per superare le difficoltà d‟adattamento, che si presentavano soprattutto nelle fasi più antiche del popolamento. 114 Tali caratteristiche della primogenitura sono ancora oggi riscontrabili nelle mitologie e nelle strutture politiche consuetudinarie polinesiane. Secondo Giusti, Sommella, Cigliano (2009, p.52) questa organizzazione costituisce addirittura il germe di una società stratificata, che sarebbe potuta evolversi sia in forme di competizione sociale, come appunto è avvenuto in Melanesia con i big men, sia nella fondazione di forme di governo rette da capi di natura divina, come si è verificato soprattutto in Polinesia.
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attività che presupponeva una profonda conoscenza del paesaggio fisico e una capacità di lettura dei suoi segnali naturali. Per muoversi tra le acque i naviganti interpretavano gli spostamenti dei venti, il fluire delle correnti, i movimenti delle onde e delle superfici marine e durante la notte la posizione delle stelle; inoltre dalla presenza di uccelli in volo e dalle ombre sulle nuvole riuscivano a comprendere in quale posizione erano collocate le isole (Gnecchi Ruscone, 2009, p.10). A queste conoscenze esperite (Ingold, 2001) si abbinava un bagaglio di nuove tecnologie, quali le canoe con bilanciere115 e le canoe a doppio scafo, così come delle tecniche di navigazione del tutto innovative; infatti, secondo l‟archeologo Geoffrey Irwin, i lapita erano in grado di navigare partendo controvento, lasciando alle spalle le proprie isole e viaggiando in senso contrario rispetto alla direzione degli alisei. In questo modo le loro esplorazioni sarebbero potute continuare per giorni e nel caso non avessero trovato nessuna terra, sarebbero stati in grado di tornare rapidamente indietro, sfruttando proprio le correnti favorevoli dei venti. Inoltre, altri ricercatori ritengono che i navigatori lapita fossero anche capaci di bordeggiare, cioè veleggiare per diagonali al fine di sfruttare la forza del vento obliquamente116. Una volta trovate le nuove terre, avveniva lo spostamento a tappe del resto dei coloni 117; tuttavia non era raro che alcuni proseguissero il viaggio verso mete ulteriori o che, dopo essersi stanziati per qualche generazione, altri ripartissero per insediare territori appena scoperti (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.45-46). Coloro che rimanevano per sostenersi si affidavano a diverse strategie di sussistenza, ma per prima cosa attingevano alle abbondanti specie naturali delle isole da poco occupate, modificando profondamente gli habitat naturali fino ad allora disabitati118 (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.49). Ma soprattutto potevano contare sui propri paesaggi trasportati, costituiti da piante coltivabili e animali domestici che avevano 115
Sono delle intelaiature galleggianti di sostegno per migliorare l‟appoggio sull‟acqua. Tali capacità non solo consentirono alle popolazioni austronesiane di popolare l‟Oceania, bensì permise loro di giungere sino in Madagascar, probabilmente navigando lungo le coste bagnate dall‟Oceano Indiano (Finney, 1996, p.75). 117 L‟importanza che assume la navigazione presuppone che ci fosse una struttura sociale ben organizzata alle spalle. Senza di essa difficilmente sarebbe stato possibile compiere dell‟imprese marinare di questo tipo. 118 Gli ambienti delle nuove isole offrivano molluschi giganti lungo le scogliere, ma anche pesci e uccelli dalle grandi dimensioni, i quali si lasciavano catturare molto facilmente, dato che mai avevano conosciuto forme di caccia da parte degli esseri umani. La presenza dell‟uomo porterà in breve tempo all‟estinzione di molte specie animali e vegetali. 116
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portato con sé nelle imbarcazioni per facilitare l‟insediamento e la permanenza nei nuovi territori119 (Smith, 2007, pp.28-29). Infatti i lapita praticavano un‟orticoltura a tuberi, prevalentemente del taro e dell‟igname ed introdussero numerosi alberi da frutto. La tecnica maggiormente utilizzata era quella del “taglia e brucia”, che rendeva fertili i terreni; questi erano utilizzati per alcuni anni, dopodiché venivano abbandonati e lasciati riposare affinché riacquisissero le necessarie sostanze minerali. All‟orticoltura, pratica120 sempre presente in tutte le terre popolate dai lapita, solitamente si affiancavano anche l‟arboricoltura e la pesca; quest‟ultima attività rappresentava un‟integrazione alimentare molto importante ed era praticata con reti e arpioni, ma anche con il veleno. Gli animali domestici introdotti erano polli, maiali e cani, i quali svolsero una funzione importante durante le fasi iniziali della colonizzazione (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.48-49). Oltre a questo tipo di pratiche di sussistenza, i lapita diffusero in tutto il Pacifico modelli abitativi molto simili; generalmente i siti prescelti erano aree costiere o lagunari in posizioni adatte a consentire un acceso agevole al mare aperto, evitando le scogliere coralline; preferiti erano anche i luoghi nelle vicinanze di fonti d‟acqua e di terreni ideali all‟orticoltura. Invece le zone interne, coperte da foreste, erano evitate a causa delle presenza di zanzare portatrici di malaria. Le abitazioni nelle fasi più antiche venivano costruite su pali e travi di legno, mentre successivamente erano erette direttamente sulla spiaggia (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.49-50). Quindi, emerge il ruolo fondamentale che i lapita ebbero nel diffondere in tutto il Pacifico una serie di pratiche rispetto al modo d‟abitare e relazionarsi agli ambienti dell‟Oceania. Ciò denota certamente la grande omogeneità culturale che caratterizzava tali popolazioni; ovviamente questa si rifletteva anche nella lingua, la quale durante la fase esplorativa mantenne tratti molto simili, grazie ai frequenti viaggi che servivano a sostenere le comunità da poco insediatesi nelle nuove isole.
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Già i non austronesiani avevano importato dalla Nuova Guinea alle isole Bismarck alcune piante ed animali (vedi Cap.II, par. 2.1.1). 120 Terrazzamenti e sistemi d‟irrigazione sono presenti soltanto in pochi contesti, in particolare dove vigevano sistemi politici fortemente centralizzati.
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Figura 10 Case su palafitta e due uomini su una canoa a bilanciere presso il villaggio Hula, Papua Nuova Guinea, 1921, foto di Frank Hurley (Fonte: National Library of Australia, Canberra).
Tuttavia tra la fine dell‟espansione lapita e l‟arrivo degli europei, le reti di scambio cominciarono a restringersi assumendo una dimensione più localizzata; iniziò così un processo di diversificazione linguistica, che progressivamente rese gli idiomi incomprensibili tra loro121 (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.54). La diminuzione di questi collegamenti, in particolare con le realtà più distanti, dipese probabilmente sia dall‟aumento della popolazione nelle isole, sia dalle migliori conoscenze acquisite rispetto all‟ambiente, condizioni queste che consentirono di sfruttare al meglio le risorse di ogni contesto. Tale situazione fece perdere d‟importanza anche alle terrecotte, le quali non svolgendo più una funzione cerimoniale diventarono oggetti d‟uso comune, con decorazioni e ornamenti meno ricercati (Gnecchi Ruscone, 2009, p.12). Ciò nonostante attraverso i lapita, pratiche eco-culturali molto simili risultavano ormai diffuse in tutto il Pacifico.
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Tra Oceania Remota e Oceania Prossima sono 450 le lingue del sottogruppo proto oceanico appartenenti alla famiglia austronesiana (AN) (la quale comprende oltre mille lingue diffuse dal Madagascar all‟isola di Pasqua, concentrate soprattutto nel Sud-Est asiatico e nel Pacifico), il cui studio convalida le rotte percorse dai lapita durante le loro esplorazioni. Inoltre in Oceania Prossima sono parlate anche altre 750 lingue, che rientrano invece nella famiglia delle “lingue non austronesiane” (NAN) o “papuane”, le quali però non formano un‟unica famiglia linguistica come nel caso delle lingue austronesiane, ma sono divise in dodici ceppi linguistici diversi; sono localizzate prevalentemente in Nuova Guinea, nelle Isole Bismarck e nelle Isole Salomone (Gnecchi Ruscone, 2009, p.15).
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2.2 LA CONNESSIONE OGGI I cambiamenti avvenuti in Oceania negli ultimi duecento anni sono stati molti, accentuati per di più dalle pressioni globalizzanti susseguitesi a partire dalla metà del Novecento; tuttavia è significativo che in questo continente, secondo molti studiosi, sia possibile riconoscere ancora oggi un senso d‟identità regionale comune, frutto della condivisione di storie, condizioni geografiche simili e relazioni genealogiche (Smith, 2007, p.18). Proverò a riflettere su questo aspetto, in quanto il tipo di connessione che si instaura tra le popolazioni oceaniane attraverso la condivisione d‟elementi comuni può realmente avvalorare la concezione di un‟identità regionale nei termini in cui ne parla Hau‟ofa. In particolare ritengo che molto sia da attribuire alla diffusione dei paesaggi trasportati dai lapita, i quali costituivano delle strategie comuni necessarie ad abitare i territori delle nuove isole. Se il paesaggio può essere interpretato come un insieme di pratiche possibili (Ligi, 2003, p.276) allora l‟unità culturale lapita, oltre che nella lingua, negli scambi cerimoniali e nei vincoli parentali, si realizzava anche nella condivisione di attività come la navigazione, la pesca, l‟orticoltura, l‟arboricoltura e la gestione degli animali. Queste, diffuse tra la maggior parte delle comunità oceaniane, oltre a fornire il cibo necessario alla sussistenza, rappresentavano una simile modalità interattiva tra l‟uomo e l‟ambiente, contribuendo allo stesso tempo ad influenzare in modo determinante i loro universi sociali e culturali. Considerato che ancora oggi questa regione presenta una fra le più alte percentuali di popolazioni indigene che vivono entro sistemi d‟autorità tradizionali e gestiscono, secondo apparati di regole consuetudinarie, superfici di terra e mare maggiori ad ogni altro contesto (Smith, 2007, p.18), è utile cercare di approfondire questo aspetto per comprendere la somiglianza che accomuna le genti del Pacifico.
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2.2.1 Paesaggi naturali, paesaggi culturali Il paesaggio122, come spiega l‟antropologo Ingold, non va inteso né come una porzione fisica di territorio, né come il mondo naturale in sé, ma neppure come una rappresentazione o una mappa mentale che gli uomini elaborano rispetto al contesto nel quale vivono (Ingold, 1993, p.152). Spesso, soprattutto in ambito occidentale, si è guardato in modo dicotomico alla relazione uomo-natura e la nozione di paesaggio nell‟uso comune ha finito per definire contesti naturali o artificiali di particolare bellezza; infatti, non è un caso che la rappresentazione pittorica del paesaggio sia stata considerata per molto tempo un modo per riannettere il mondo naturale entro la sfera culturale (Turri, 1994, p.4). Invece il paesaggio si configura come una costruzione più complessa, un documento che testimonia della vita e delle attività che una comunità di esseri umani ha svolto nel corso del tempo in un dato contesto territoriale. Non a caso Ingold parla di una “prospettiva dell‟abitare” (Ingold, 2001, p.113), per esprimere appunto la reciprocità instauratasi tra l‟uomo e un luogo specifico in un certo intervallo temporale, relazione questa che può anche proseguire nel tempo secondo modalità interattive simili o differenti (Ingold, 1993, p.152). Benché abitare sia un‟attività comune ad ogni gruppo umano, costituisce allo stesso tempo un processo complesso ed eterogeneo, che riflette il modo in cui le società si pensano ed organizzano nello spazio e nel tempo; come spiega l‟antropologo Remotti “ogni società è fatta di luoghi e di corpi, ovvero di corpi che vivono, operano, interagiscono, abitano certi luoghi. Come non possiamo pensare ad una società se non in quanto costituita da individui che coincidono visibilmente con i loro corpi, così non possiamo considerare una società se non occupante un certo spazio, e più precisamente luoghi dello spazio. Lo spazio sociale (occupato dalla società) non è mai neutro e uniforme: è variegato, è fatto di luoghi che si differenziano spesso in modo notevole (luoghi del lavoro, dello svago, della vita familiare, della vita religiosa individuale e collettiva, luoghi dei vivi e dei morti, e 122
Le nozioni di paesaggio, territorio e ambiente sono tre modalità diverse e correlate di leggere i luoghi dove vivono le comunità umane; se ambiente ha fare con problemi legati per esempio alla qualità dell‟aria, dell‟acqua, del suolo, della flora e della fauna, paesaggio si riferisce alle tracce della storia degli uomini, della natura e dell‟organizzazione formale dei luoghi, realizzata attraverso materiali, tecniche costruttive, fra quelli utilizzi che un dato contesto, che costituisce appunto il territorio, rendeva possibili (Scazzosi, 2005, p.30).
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così via). Ogni società si distende su uno spazio, lo articola e lo organizza in certi luoghi, eleggendo o ritagliando certi ambiti specifici del suo territorio in quanto destinato a certe attività. La cultura è un „abitare‟, un intervento modificatore dello spazio e dei corpi che lo abitano mediante la produzione di „abiti‟ (di costumi, di mores), i quali conferiscono a corpi e ad animi un‟impronta, uno stile, una foggia, una forma particolare di umanità” (Ligi, 2009, p.49). Quindi un paesaggio non è dato per sempre, non è mai finito, ma è perennemente in costruzione (Ingold, 1993, p.162) attraverso una relazione d‟interdipendenza tra gli ambienti e le società che li abitano, le quali si “impossessano” dei luoghi mettendo in atto una serie di attività materiali e simboliche (Ligi, 2009, p.45); perciò un paesaggio va considerato come il mondo così come è conosciuto da coloro che in esso vivono e che incorporano letteralmente le forme del loro abitare (Ingold, 2001, p.136). Quest‟ultime si modellano costantemente attraverso una serie d‟attività e d‟interattività123 definite come taskscape, che agite dalle persone verso il territorio, lo costruiscono124 (Ingold, 1993, p.163); per cui il territorio per mezzo di tale processo diventa un landscape, cioè uno spazio riconoscibile da una serie d‟elementi e caratteristiche condivise125 dal gruppo umano che in esso abita (Ingold, 1993, p.158). Pertanto, secondo tale prospettiva uomo e paesaggio non costituiscono più due universi separati, bensì complementari (Ingold, 1993, p.156), che evolvono continuamente attraverso un‟interazione costante; per cui studiare un luogo inserito in un dato paesaggio ci costringe a considerarlo non solo un artefatto culturale, bensì un vero e proprio processo socio-culturale (Ligi, 2003, p.249). Ritengo che tenere conto di questi aspetti sia fondamentale rispetto al contesto oceaniano, in quanto proprio la somiglianza delle pratiche attraverso le quali le diverse comunità hanno interagito entro i paesaggi delle loro isole, può costituire un punto di collegamento tra le diverse realtà dell‟Oceania. 123
Dato che gli uomini non interagiscono solo con la natura, ma anche tra di loro e con le altre forme viventi non si può parlare solo di attività bensì anche di interattività (Ingold, 1993, p.163). 124 Come dice Heidegger:” Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito; ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo, cioè perché siamo in quanto siamo gli abitanti (…). Il costruire è già in se stesso un abitare. (…) Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire” (Ingold, 2001, pp.134135). 125 Ingold prova a chiarire la differenza tra paesaggio e pratiche; se il landscape è ciò che può essere visto intorno a noi, le taskscape possono essere individuate dai suoni e dai rumori derivanti dalle azioni che l‟uomo e gli altri esseri viventi compiono in un dato spazio (Ingold, 1993, p.162).
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Infatti la maggior parte degli ambienti insulari sono antropici, proprio per il fatto di essere stati “trasportati”; il rapporto tra uomini e natura (Smith, 2007, p.58) è stato mediato da una serie di taskscape, quali l‟orticoltura, l‟arboricoltura, l‟allevamento dei maiali, la pesca e la navigazione. Se queste nel passato rappresentavano concretamente un‟interconnessione nel mondo lapita, colpisce che ancora oggi tali pratiche risultino diffuse a livello regionale, nonostante le trasformazioni subite nel corso del tempo126. Riflettere su queste attività è utile a mostrare il loro vero significato, in quanto oltre a svolgere una funzione di sussistenza, si connotavano di profonde implicazioni sociali e culturali per le varie comunità; per mezzo di esse quest‟ultime inscrivevano entro gli elementi del paesaggio la propria storia, le proprie conoscenze tradizionali nonché l‟organizzazione delle loro stesse società127 (Smith, 2007, p.29). Il legame interattivo tra i modelli culturali e sociali da un lato e gli ambienti delle isole e del mare dall‟altro ha fatto sì che narrative, idee, conoscenze e credenze siano state incorporate nei paesaggi stessi; questo ci consente di parlare per molti contesti dell‟Oceania di paesaggi culturali128 (Smith, 2007, p.57). Far emergere l‟interconnessione tra quest‟ultimi può fornire argomentazioni efficaci a validare l‟esistenza di uno “spazio condiviso”, il quale fornirebbe per di più elementi adatti su cui articolare un‟identità regionale nel modo in cui ne parla Hau‟ofa. Tuttavia per comprendere in modo efficace l‟interconnessione tra paesaggio e identità nel contesto oceaniano occorre affidarsi alle considerazioni dello stesso Hau‟ofa, il quale è convinto sostenitore dell‟impossibilità di separare cultura e natura, prendendo atto del fatto che gli universi culturali delle società tradizionali del Pacifico si sarebbero modellati proprio in stretta relazione con il mare (Hau‟ofa, 2005, p.41). Poiché gli antenati comuni dell‟Oceania avrebbero inscritto le loro storie nei paesaggi terrestri e marini, per rafforzare una comune identità regionale basterebbe riscoprire il legame tra la storia, la cultura, la realtà 126
Va ricordato che anche la caccia nelle isole occupate dai lapita rappresentava una pratica di sostentamento fondamentale. Tuttavia già nel periodo precoloniale tale attività aveva un ruolo significativo soprattutto in Australia e in Nuova Guinea, mentre spostandosi ad est nelle isole più piccole e con minore varietà di fauna perdeva di valore dal punto di vista economico ed era praticata per il gusto sportivo, per variare la dieta o per ridurre il numero di maiali che mettevano a rischio le coltivazioni; gli uccelli erano cacciati anche per le loro piume, utilizzate negli ornamenti cerimoniali. Oggigiorno la caccia è diffusa in particolare nelle isole più grandi dell‟Oceania (Gnecchi Ruscone, 2010, p.197). 127 Per tale ragione spesso si è parlato dei paesaggi tradizionali dell‟Oceania come “paesaggi sociali”. 128 Per una distinzione tra le varie tipologie di paesaggio culturale rinvio al lavoro di Smith e Jones (2007, pp.9-10).
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empirica e le pratiche (Hau‟ofa, 2005, p.40). Infatti, riflettendo sul ruolo della storia in Oceania, quest‟autore mette in luce come troppo spesso le narrative orali siano state eccessivamente marginalizzate in seguito all‟incontro con gli europei e relegate entro una dimensione preistorica (Hau‟ofa, 2008, p.63). Rivalutare invece tale tipo di testimonianze è indispensabile per compiere un lavoro di ricostruzione storica, che possa offrire un‟alternativa alle storia raccontata dai colonizzatori, evidenziando allo stesso tempo il significato che gli ambienti naturali possono avere nei processi di costruzione identitaria. Per mostrare l‟interconnessione che lega la storia, il paesaggio e l‟identità, Hau‟ofa riflette per prima cosa sulla concezione del tempo diffusa nelle società tradizionali oceaniane. In esse prevale una cognizione di tipo ecologica, quindi circolare, in quanto legata ai cicli della natura, i quali scandivano le principali attività nel Pacifico; ben diversa è invece l‟idea diffusa nelle società moderne, le quali, staccatesi dai ritmi del mondo naturale, concepiscono il tempo in modo lineare, progressivo e teleologico129 (Hau‟ofa, 2008, p.67). Come conseguenza “l‟uomo d‟oggi vive un tempo disarticolato, sganciato dal tempo ciclico, naturale: il suo vissuto è molteplice, aperto, quindi il suo paesaggio della memoria può essere confuso, contradditorio, forse anche meno forte e appassionato” (Turri, 1998, p.159). Nell‟ambito della prospettiva ecologica il passato è direttamente collegato al mondo naturale e viene pensato „davanti‟ agli uomini, in quanto è fisicamente radicato nel paesaggio, dunque si ripresenta ciclicamente seguendo l‟avvicendarsi delle stagioni e dei fenomeni naturali stessi. Il tempo è scandito dalla comparsa di certi fiori, uccelli, creature marine, il mutamento delle foglie, le fasi lunari, il cambiamento dei venti e delle condizioni climatiche; eventi in base ai quali le società organizzano le attività agricole e della pesca, i viaggi, i commerci e gli scambi che danno inizio a cerimonie, feste e rituali (Hau‟ofa, 2008, p.67). Questo tipo di vincolo tra i ritmi naturali e le pratiche umane fa si che il paesaggio per le popolazioni oceaniane appaia come un fenomeno esperito (Ligi, 2003, p.271) e il sapere tradizionale sia legato ad un‟esperienza corporea dello stesso, che le
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Questo soprattutto nel passato; ovviamente oggi in molti contesti oceaniani, in particolare in quelli più urbanizzati, è diffusa una concezione lineare nel tempo. Inoltre, chiarisce che molte società del centro ed est Pacifico hanno sempre avuto una concezione lineare del tempo, però di tipo sequenziale e non teleologica o evolutiva, in quanto legata alle successioni delle dinastie regnanti (Hau‟ofa, 2008, pp.6667).
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persone sperimentano durante le loro attività quotidiane. L‟importanza dei cicli ecologici conferisce un ruolo centrale al paesaggio vissuto, il quale diventa parte fondamentale nella storia degli individui e delle loro comunità; infatti, come afferma Ingold “Places do not have locations but histories”, ossia i luoghi non costituiscono soltanto dei riferimenti spaziali di un reticolo geografico, bensì sono carichi di storia individuale e collettiva, significativa per coloro che in essi hanno vissuto (Ligi, 2003, p.279). Questi spazi, attraverso una plasmazione storica-emozionale, diventano paesaggi famigliari densi di significati simbolici, perché sono vissuti e interpretati alla luce della propria esperienza di vita e di quella della propria società (Ligi, 2009, p.51). Ciò significa che “quello che era solo una roccia assume una personalità, quello che era un punto all‟orizzonte diventa un faro reso sacro dalle sue leggendarie associazioni con gli eroi, una conformazione insignificante del paesaggio acquista un senso, oscuro senza dubbio, ma carico di intensa emozione (…). E‟ l‟aggiunta di un interesse umano alle caratteristiche naturali, che posseggono di per sé meno potere di attrazione per un indigeno che per noi, che rende diverso ai suoi occhi il paesaggio (…). Questo potere di trasformare il paesaggio, l‟ambiente visibile, è solo una delle tante influenze che il mito esercita sul modo di vedere la realtà in generale degli indigeni” (Malinowski, 2004, p.302). Il mantenimento e la trasmissione delle storie inscritte nel paesaggio avveniva per lo più con l‟uso di narrative orali, attraverso le quali le realtà indigene ricordavano particolari avvenimenti e luoghi, come per esempio una battaglia o una spiaggia dove erano approdati i propri antenati. Un racconto o un canto erano in grado di segnalare le delimitazioni e le proprietà d‟uso nel territorio, ribadendo la preminenza del proprio gruppo in un dato spazio, ma potevano perfino servire per orientare coloro che viaggiavano sia per mare che per terra (Hau‟ofa, 2008, p.72). Pertanto uno stretto vincolo ha legato gli ambienti naturali alle tradizioni orali, a tal punto che “non possiamo leggere le nostre storie senza conoscere come leggere i nostri paesaggi terrestri e marini” (Hau‟ofa, 2008, p.73, traduzione mia); dunque i paesaggi dell‟Oceania non costituiscono soltanto dell‟entità fisiche, bensì anche culturali. Poiché le vicende storiche sono radicate nei paesaggi, nel momento in cui le persone attraversano questi spazi si imbattono in luoghi che conservano la memoria di eventi o antenati e in questo modo la storia si trova fisicamente dinanzi 61
ai loro occhi. Tale aspetto amplia la stessa concezione ecologica del tempo; infatti il passato non si trova „davanti‟ alle persone soltanto perché ritorna in modo ciclico, ma anche per il fatto di essere concretamente incorporato nella natura (Hau‟ofa, 2008, p.73). Ovviamente il paesaggio, attraverso le sue forme e i suoi segni può raccontare, ma questo può essere vero fino a un certo punto; infatti sono le persone, solitamente le più anziane, a doversi assumere la responsabilità di “fare parlare” gli elementi naturali; senza il loro impegno la trasmissione della memoria non può avvenire (Turri, 1998, p.157). Come racconta Malinowski: “navigando con gli indigeni, specialmente con dei novizi del kula, ho spesso osservato quanto profondo sia il loro interesse per quelle parti di paesaggio impregnate di significati leggendari, come i più anziani le indichino e le spieghino, come i più giovani le guardino con attenzione e con curiosità, mentre la conversazione si riempie di nomi mitologici” (Malinowski, 2004, p.302). Muovendosi in questo modo nello spazio si fa rivivere il passato e per tale ragione i segni nel paesaggio (Vallega, 2003, p.62) diventano elementi portanti della propria memoria personale e collettiva. Distruggere queste tracce corrisponde a cancellare il proprio passato, fatto che condanna a essere privati della storia necessaria ad ogni individuo e ad ogni comunità per definirsi. Per questo Hau‟ofa ritiene che i popoli del Pacifico siano un tutt‟uno con la propria cultura e la propria terra (Hau‟ofa, 2008, p.74) e soltanto conoscendo il passato incorporato nel paesaggio è possibile sapere da dove si viene, chi sono i propri antenati e quindi costruire la propria identità.
2.2.2 Pratiche e paesaggi condivisi Messi in luce i meccanismi attraversi i quali le società oceaniane elaborano una definizione di se stesse e della propria storia ed evidenziato il valore attribuito al paesaggio, è necessario cercare di comprendere come si costruisca un po‟ più nel concreto un‟identità regionale condivisa. Un percorso ideale per far emergere questo aspetto è rappresentato dall‟analisi dei taskscape, attuati dalle popolazioni oceaniane verso i propri landscape. Pratiche simili sono state utilizzate nel passato dai popoli oceaniani per costruire i propri
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mondi130 e queste ancora oggi, benché modificatesi e adattatesi ai diversi contesti, continuano ad essere adoperate nella maggior parte delle comunità rurali, svolgendo un ruolo significativo nelle società stesse. Questo ci consente di supporre che esista ancora oggi un sapere esperienziale condiviso tra tutte le popolazioni oceaniane, il quale costituisce un presupposto necessario per sentirsi partecipi di una stessa identità regionale. I paesaggi terrestri All‟interno delle isole131 un ruolo significativo rivestono l‟orticoltura e l‟arboricoltura, attività ampiamente diffuse a livello regionale. Molte delle specie vegetali trasportate anticamente sono tuttora presenti nelle isole oceaniane ed è grande la dedizione con la quale vengono curate. Per l‟orticoltura si tratta di tuberi commestibili tra cui i più diffusi sono: il taro (Colocasia esculenta)132, l‟igname (Disocorea spp)133 originari del Sud-Est asiatico e la patata dolce (Ipomoea batatas) proveniente dal Sud America134. Il taro, pur essendo diffuso dalla Nuova Guinea fino alla Polinesia orientale, soffre della mancanza d‟acqua e deve essere coltivato entro ambienti umidi, mentre gli ignami al contrario si adattano molto bene a clima piovosi ai quali si alternano anche 130
Interessante il modello proposto da Ligi per cui il “mondo” costruito da una data società va inteso come l‟unione tra il mondo percettivo (cioè l‟insieme di sensazioni corporee che contribuiscono a creare una rappresentazione della realtà) e il mondo effettivo (insieme delle pratiche che si effettuano ad ogni istante della vita quotidiana), ai quali poi si aggiunge un mondo affettivo (costituito da sentimenti, ricordi, storie e leggende legate ad un dato paesaggio domestico) (Ligi, 2003, pp.277-278). 131 E‟ necessario sottolineare che le popolazioni che vivono negli entroterra delle isole più grandi e che non hanno contatti diretti con l‟oceano non sono escluse dalla metafora oceanica di Hau‟ofa; quest‟ultimo infatti considera la valenza che certi prodotti del mare, come le conchiglie, assumono nei sistemi cerimoniali e politici delle società delle highlands della Papua Nuova Guinea. Inoltre, l‟autore evidenzia l‟influenza che l‟Oceano Pacifico ha nel regolare gli equilibri climatici a livello regionale, tanto da influire persino su quei contesti geografici all‟apparenza così remoti. Hau‟ofa, accentuando la condivisione di uno stesso ambiente oceanico, prova realmente ad avvicinare tutte le popolazioni dell‟Oceania (Hau‟ofa, 2005, p.37). 132 E‟ il più diffuso della sua specie, tuttavia sono anche comuni altre varietà, come il taro gigante (Alocasia macrorrhiza) e il taro d‟acqua gigante (Cyrtosperma chamissonis) il quale, crescendo in terreni acquitrinosi, necessita di un sistema di controllo delle acque. 133 Se il taro necessita per lo più di ambienti umidi e quindi di una particolare gestione delle acque, l‟igname è diffuso in ambienti asciutti, coltivato entro giardini realizzati con la tecnica del taglia e brucia. 134 Probabilmente in seguito a contatti tra le popolazioni della Polinesia orientale e le coste americane. Nel 1952 Thor Heyerdahl compì un viaggio sulla doppia zattera Kon-Tiki dal Sud America alla Polinesia orientale per provare che erano state delle popolazioni amerinde a colonizzare queste isole; le sue controverse teorie, mai dimostrate in modo efficace, presentavano anche assunti razzistici che suscitarono all‟epoca molti dibatti nel mondo scientifico (Lawer, 2010, p.1345). Al contrario recenti studi archeologici ipotizzano che, probabilmente intorno all‟anno 1000 d.C., furono delle popolazioni polinesiane a giungere in sud o in nord America, da cui importarono la patata dolce (Kirch, 2010, p.141).
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periodi di siccità. Nei giardini, oltre a questi tuberi, possono essere loro affiancati altri vegetali quali la banana (Australimusa sp, autoctona della Nuova Guinea), la canna di zucchero, l‟ananas, la curcuma (Curcuma longa) e il kava (Piper methysticum). La patata dolce si trova in particolare sugli altopiani della Nuova Guinea e nell‟isola della Grande Terre in Nuova Caledonia; predilige climi piovosi e la sua coltivazione intensiva è legata anche all‟allevamento dei maiali, che in quasi tutta l‟Oceania rivestono un ruolo centrale negli scambi, nei pagamenti, nelle feste e in occasioni speciali quali i matrimoni (Smith, 2007, p.36). Le grandi cure che vengono dedicate ai maiali si spiegano per il valore materiale e simbolico che essi assumono soprattutto nelle transizioni economiche e nelle cerimonie, diventando una risorsa utile a sostenere l‟esigenze delle famiglie e ad accrescere il loro prestigio. Solitamente sono le donne135 ad occuparsi dei maiali, i quali vengono considerati parte del nucleo famigliare stesso (Gnecchi Ruscone, 2010, p.186); perciò di regola non si mangia l‟animale che si è allevato, in quanto “sarebbe come mangiare un parente” (Kuehling, 2009, p.140). I maiali sono largamente utilizzati dalle popolazioni oceaniane per soddisfare molteplici funzioni, per esempio: i Kwaio delle isole Salomone li offrono agli antenati per riparare alle infrazioni dei tabu; sugli altopiani della Papua Nuova Guinea sono utilizzati negli scambi cerimoniali organizzati dai big men per consolidare la loro leadership; presso le isole Massim e l‟isola Dobu in Papua Nuova Guinea sono inseriti insieme ad altri beni entro i circuiti di scambio; tra i Korafe della Papua Nuova Guinea sono impiegati nell‟ambito sia di feste tradizionali, sia di cerimonie legate alle festività cristiane; a Futuna in Polinesia francese rientrano in cerimonie redistributive136 (Gnecchi Ruscone, Paini, 2009, p.XXIII). Per quanto riguarda l‟arboricoltura le specie più diffuse e con un ruolo fondamentale nel sostentamento sono l‟albero del pane (Artocapus altilis) e il cocco (Cocos sp.), coltivati in tutta l‟Oceania, ma in modo intensivo presso le isole Marchesi e nella Polinesia orientale. Altre piante presenti a livello regionale sono il castagno tahitiano
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Lo studio di Daryl Feil tra i Tombema Enga delle Western Highlands della Papua Nuova Guinea mostra la centralità delle donne sia nella gestione dei maiali, sia durante le fasi di transizione dello scambio (Feil, 1978). 136 In altri contesti, come per esempio in Nuova Caledonia, l‟allevamento del maiale non è praticato né per scopi di accumulazione, né per i rituali.
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(Inocarpus sp.), il canarium e il pandano (Pandanus), le quali oltre a generare frutti commestibili, forniscono anche materiale da costruzione (Smith, 2007, p.40). Una descrizione efficace delle attività lavorative svolte presso Raga (Isola di Pentecoste, Vanuatu), è offerta dallo scrittore Le Clézio, il quale racconta che “su queste chine sassose hanno lavorato uomini, donne, bambini. Hanno sradicato gli alberi, terrazzato, rimosso pietre, scavato canali d‟irrigazione e appiccato il fuoco per completare la pulizia del terreno. Poi hanno sotterrato le pietre magiche portate dall‟isola natale, le pietre per l‟igname, le pietre rosse per le piante di taro, i semi di zucca e di cavolo. Su un‟altra radura hanno piantato il primo albero del pane. In un frutteto hanno piantato l‟annona dolce, il jambul, l‟arancio. Hanno seminato i litchi, il pisello d‟Angola, il peperoncino” (Le Clezio, 2009, pp.60-61).
Figura 11 Esibizione di maiali e ignami durante una ridistribuzione cerimoniale presso le isole Trobriand, 1914-1918 (Fonte: Malinowski, 2004, p.XXXIV).
Nonostante siano stati differenti i processi d‟adattamento che le specie vegetali ed arboree hanno subito nei vari ambienti137, si può affermare che in ogni parte della regione è condivisa l‟attenzione per l‟estetica dei giardini138, in quanto la loro
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Infatti sono diverse le forme d‟adattamento dei paesaggi trasportati a seconda che l‟isola fosse un atollo, un‟isola con altopiani oppure un‟isola corallina. 138 I lavori di Favole, frutto delle ricerche in Nuova Caledonia (Favole, 2010) e a Futuna in Polinesia francese (Favole, 2009), evidenziano la dedizione che i popoli oceaniani hanno per i giardini e il paesaggio.
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gestione
scrupolosa
oltre a
costituire una questione d‟orgoglio,
riflette
l‟organizzazione della società stessa139 (Smith, 2007, p.34). Persino quando un paesaggio all‟apparenza si presenta caotico, in realtà è governato da una preciso assetto spaziale, che ha guidato la mano dei lavoratori; infatti “ciò che rimane, sparso, disordinato, dà l‟idea di una natura tornata allo stato selvaggio. Eppure camminando verso l‟interno, inerpicandosi sulle montagne o seguendo i corsi d‟acqua fin dentro le gole, ciò che colpisce è la gran quantità di piante nutritizie. La foresta è solcata da stretti sentieri appena visibili, che finiscono tutti in giardini nascosti.(…) Sono giardini di piante di taro, per i quali, nel corso dei millenni, i melanesiani hanno messo a punto sistemi idraulici, scivoli, serbatoi, canali. Giardini d‟ignami su lembi di terra rossa. Giardini di palme che forniscono l‟olio e il sagù. Giardini di manioca. Frutteti coltivati a manghi, a guaiave, ad aranci. Ovunque, in ogni istante, ai piedi degli alti fusti o tra la boscaglia, si scoprono cespi fioriti, piante odorose, riserve medicinali. (…) Per i melanesiani, le piante sono esseri viventi. A un certo punto della loro esistenza erano come gli umani. Non esistono soltanto per nutrire e curare gli uomini, ma sono parte del sistema vivente. Per questo crescono in libertà tra erbe e cespugli. (…) Per questa gente, il taro è donna. L‟igname è maschio.” (Le Clezio, 2009, pp.64-66). Ed anche a Dobu in Papua Nuova Guinea, “gli ignami sono come le persone” e questo se può apparire curioso in realtà va invece collegato ai miti, i quali raccontano che un tempo gli ignami maltrattati fuggirono scappando sotto il terreno. Questo per ricordare che tali tuberi, affidati in quest‟isola all‟attenta gestione delle donne, necessitano di grandi cure, di un posizionamento specifico nel terreno e di una devozione completa in ogni fase della loro crescita (Kuehling, 2009, p.139). Attorno a questi elementi vegetali e animali le società del Pacifico articolano scambi e rituali, i quali contribuiscono a definire l‟organizzazione stessa dei gruppi sociali; è interessante come nei contesti tradizionali anche dei momenti di convivialità servano a strutturare la società, ribadendo regole e stratificazioni sociali. Per esempio nell‟area polinesiana, è diffuso il consumo di kava, bevanda ricavata dalle radici dell‟omonima pianta e riservata solo agli uomini di un certo rango, i quali la 139
Infatti alcuni giardini sono amministrati da singole famiglie, mentre altri possono essere preparati dall‟intera comunità.
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condividono seguendo specifici rituali che rispecchiano le gerarchie vigenti nella comunità140. Invece in area melanesiana, in Nuova Guinea, nelle Isole Salomone e a Vanuatu, ma anche in isole della Micronesia è in voga l‟usanza di masticare le noci di betel, pratica questa che favorisce per lo più le interazioni sociali, formali ed informali (Gnecchi Ruscone, 2010, pp.238-240). Le attività della terra e i frutti che da essa si ricavano da sempre sono oggetto di forme d‟oratoria, soprattutto in occasione di feste e redistribuzioni di cibo. Su di esse si sono costruiti miti e narrazioni orali, i quali evidenziano la stretta connessione che lega le persone a questi elementi del paesaggio. Uno di questi, raccontato dall‟antropologa Jolly (Le Clezio, 2009, p.82), spiega la nascita dei maiali presso Vanuatu, mettendo in luce che tali animali ebbero origine da un uomo: un uomo di nome Wahgere si arrampicò su un albero e con le spine della corteccia si ferì i testicoli, che si ingrossarono. L’uomo allora si distese, come per partorire, e dai suoi testicoli uscirono tutti i maiali del creato, prima quelli con le orecchie pendule, poi uno rosso, uno bianco, uno nero e l’ultimo grigio. Alcuni furono catturati dagli uomini, gli altri fuggirono sulle isole vicine. Fino a quel giorno gli uomini si erano nutriti soltanto di granchi di terra. Allora Wahgere disse loro:”Uccidete tutti i granchi. Adesso abbiamo i maiali. Racconti di questo tipo se ne trovano molti, ma nulla sembra paragonabile per articolazione e ricercatezza141 a un canto celebrativo dell‟isola di Futuna, attraverso il quale il lavoro della terra e i suoi prodotti vengono onorati durante un momento di festa per l‟intera comunità. In occasione del katoaga, cerimonia distributiva di cibo142, viene declamato il fakamisimisi, il quale “costituisce una rappresentazione idealizzata e poetica del rapporto tra i futuniani e l‟ambiente, un‟espressione artistica del loro lavoro nei giardini e della produzione del cibo. In esso si rintracciano i suoni, i profumi, i colori, l‟emozioni degli orticoltori di questa piccola comunità 140
Oggigiorno il kava è usata anche in contesti meno formali per allietare la conversazione. Benché in Polinesia siano molte le feste redistributive di cibo simili al katoaga, il canto fakamisimisi si presenta come un unicum. Qualche somiglianza appare con i discorsi formali dei Maori durante la cerimonia powhiri e con i rituali kava a Tonga (Favole, 2010, p.269). 142 Maiali, frutti dell‟albero del pane, taro, ma anche fiori di varie specie sono inseriti in questa redistribuzione (Favole, 2009, p.272). 141
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della Polinesia occidentale” (Favole, 2009, p.276). Se generalmente le tradizioni orali più articolate vengono utilizzate sia come riferimento spaziale nelle demarcazioni territoriali, sia come mezzo per tramandare la storia inscritta nel paesaggio, è davvero molto significativo che un testo orale esalti invece il lavoro quotidiano dell‟intera comunità. La motivazione è da ricercarsi probabilmente nel significato che assume tale celebrazione, in quanto diventa un‟esaltazione della coutume143 futuniana (Favole, 2009, p.276), in base alla quale si manifesta il sentire comune e l‟identità del gruppo. Tale situazione rivela non soltanto l‟importanza di questi prodotti, ma soprattutto delle pratiche lavorative, le quali in questo modo assumono un valenza centrale nei processi di definizione e costruzione della società (Favole, 2009, p.282). Nel testo, in ordine d‟importanza gerarchica, sono decantati: il kava, i maiali, l‟igname, il taro secco, il taro d‟acqua, il kape o taro gigante, le banane, il tabacco e i beni occidentali, i beni femminili come le stuoie e le stoffe di corteccia (Favole, 2009, pp.277-281). A fare da sfondo alla cerimonia katoaga vi sono i luoghi dell‟isola curati nei minimi dettagli, i cui spazi sono abbelliti e decorati al meglio nell‟intento di dare vita ad una raffigurazione artistica della propria attività quotidiana (Favole, 2009, p.284). Tale relazione estetica con la terra attraversa in modo trasversale tutto il Pacifico e nonostante sia preminente negli ambienti rurali tradizionali, è degno di nota che anche nei contesti urbani della Nuova Caledonia si sia cominciato a discutere della necessità di “oceanizzare la città” (Favole, 2010, p.153). Questo perché i paesaggi urbani, nei monumenti così come nella toponomastica di piazze e strade, incorporano la memoria della storia coloniale e il ricordo di quei poteri che spesso hanno marginalizzato le popolazioni locali; riacquisire la gestione degli spazi cittadini e del patrimonio culturale che in essi risiede, diventa un modo per riappropriarsi del proprio passato e della propria identità (Favole, 2010, pp.196197). Lo stesso Tjibaou, leader indipendentista kanak, riteneva che occorresse per prima cosa recuperare e rafforzare il rapporto con la terra, valorizzando proprio la tradizionale architettura del paesaggio attraverso interventi finalizzati a migliorare la 143
La coutume è il “modo di fare locale”, costituito dal sapere e dalle pratiche locali; questo non esclude che in tale definizione siano anche compresi elementi esogeni. In Nuova Caledonia per esempio nel qene noj (così è chiamata la coutume) vi è l‟adesione sia a dettami degli antenati e degli spiriti ancestrali, sia a quelli del Cristianesimo (Paini, 2007, p.128).
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cura delle abitazioni, la raccolta dei rifiuti, l‟attenzione estetica per orti e giardini e l‟organizzazione dei centri abitati. E questo anche in virtù del legame tra il paesaggio e la tradizione orale, la quale costituisce “un archivio vivente, un catasto mentale” della memoria comune, da riattivare nell‟intento di rinsaldare il legame con le terre ancestrali. Secondo Tjibaou, soltanto valorizzando le arti e il saper fare avrebbe consentito alle comunità kanak di affermarsi nella contemporaneità e non essere più costrette a negare se stesse e i propri modelli di vita connessi alla terra, al calendario degli ignami e al rispetto della coutume (Favole, 2010, pp.165-166). Il rapporto con la terra è davvero accentuato nella maggior parte delle isole e la giustificazione di tale legame va probabilmente rintracciata, secondo Jolly, nelle storie genealogiche dei popoli oceaniani. Tali racconti, che narrano le gesta dei primi coloni, ma anche di esseri divini, mettono in collegamento luoghi e popoli diversi in quanto discendenti di stessi antenati mitici o realmente esistiti (Jolly, 2007, pp.514-515). Questo nesso con il territorio è confermato dal fatto che in parecchi linguaggi austronesiani la parola per definire „terra‟ sia la stessa per „placenta‟; quest‟ultima non a caso, subito dopo la nascita, viene sotterrata nel terreno (Jolly, 2007, p.515). Alcuni esempi utili si trovano presso varie isole, come a Tonga dove fonua serve ad identificare la connessione tra le persone e la terra, dovunque esse si trovino, designando sia un senso d‟appartenenza territoriale vincolato ad un passato mitologico, sia un senso d‟identificazione nazionale (Francis, 2006, p.345). Presso le isole di Pentecoste, i Raga utilizzano l‟espressione sia raga per esprimere il legame condiviso tra linguaggio, terra e alengan vanua, ossia il senso d‟identità che si instaura rispetto ad un determinato spazio sociale (Taylor, 2006, p.299). Nelle Fiji il termine vanua indica sia la terra, che le persone, mentre tra i Maori in Nuova Zelanda è utilizzata l‟espressione tāngata whenua, in cui il primo termine significa „persone‟ ed il secondo sia „terra‟ che „placenta‟ (Jolly, 2007, p.515). Però se il vincolo tra le persone e la terra appare indivisibile (Hau‟ofa, 2008, p.74) di certo questo è dovuto anche alla relazione che lega queste popolazioni all‟oceano; avere delle radici dipende anche dagli spostamenti, dai viaggi, dalle migrazioni che si compiono, perché “restare appesi ad un albero non significa avere delle radici”
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(Jolly, 2001, p.421, traduzione mia)144. Mare e terra diventano così modalità per definire se stessi e gli altri; per esempio i Chamorro delle Isole Marianne si considerano Taotao Tano, ossia persone della terra e questo per distinguersi dagli isolani non indigeni; invece presso le Isole Caroline gli abitanti degli atolli si pensano come Re Metau, persone del mare, per differenziarsi dai loro parenti che abitano sulle zone più alte delle isole (Diaz, Kehaulani Kauanui, 2001, p.319). Paesaggi marini e paesaggi terrestri appaiono così strettamente in connessione, influenzando quelle dinamiche attraverso cui le popolazioni del Pacifico articolano145 le proprie identità. I paesaggi oceanici Il mare, le lagune e le zone costiere sono altri spazi entro i quali le comunità oceaniane hanno attivato una serie di pratiche che è necessario approfondire in considerazione del tipo d‟analisi affrontata finora. Navigazione e pesca costituiscono le taskscape principali attraverso le quali le persone hanno “esperito” gli ambienti oceanici, i quali sono divenuti veri e propri paesaggi incorporati, nonché “palinsesto delle memorie” (Turri, 1998, p.138). L‟influenza dell‟oceano sulla vita di quelle comunità che vivono lungo i margini costieri delle loro isole è molto profonda, a tal punto che i paesaggi, i suoni, gli odori e il sapore del mare pervadono interamente le loro vite (D‟Arcy, 2006, p.27). La pesca ancora oggi fornisce un contributo non indifferente alle diete locali146, nonostante la maggior parte delle attività risultino fortemente dipendenti dalla stagionalità e dai cicli di vita delle specie marine147 (D‟Arcy, 2006, p.35). Le tecniche e le attrezzature della pesca tradizionale erano numerose e differenti sia a seconda dell‟habitat naturale148, sia in base alla tipologia del pesce. Generalmente 144
Come scrive Jolly: “finding roots depends on making routes” (Jolly, 2001, p.421). Per ulteriori approfondimenti sull‟articolazione della tradizione e dell‟indigenità rimando a Clifford (2001) e a Thomas (1992). 146 Va segnalato che, soprattutto nei contesti più urbanizzati, i prodotti gastronomici asiatici ed occidentali sono entrati nella dieta giornaliera. Ad esempio a Futuna in Polinesia Occidentale gran parte degli alimenti quotidiani sono d‟importazione, in particolare: riso asiatico, carne in scatola, carne congelata e margarine vegetali provenienti dalla Nuova Zelanda e dell‟Australia, scatolame francese, zucchero, latte e prodotti solubili (Favole, 2010, p.45). Tuttavia i prodotti alloctoni non hanno sostituito gli alimenti locali, i quali mantengono una forte connotazione simbolica, come gli ignami per i tongani e i pohnpeiani, il taro/dalo per i fijiani e l‟albero del pane per gli abitanti delle Isole Marshall (Pollock, 2009, p.112). 147 Solitamente molti isolani distinguevano il loro calendario in due stagioni: una calma ricca di pesce e una ventosa in cui la pesca risultava ridotta (D‟Arcy, 2006, p.36). 145
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dal Sud-Est asiatico sino alla Polinesia occidentale i pescatori preferivano l‟utilizzo d‟arpioni e trappole, mentre le tecniche per la pesca d‟altura erano meno in voga149. Inoltre, l‟uso d‟ami con esca appariva meno diffuso che in Micronesia e in Polinesia orientale, dove invece molteplici erano le strategie messe in atto per sfruttare gli ambienti marini. In particolare dalla zona sud ovest del Pacifico si erano sviluppati differenti tipi d‟amo e d‟attrezzature idonee a pescare anche nelle acque più profonde (D‟Arcy, 2006, p.40). Tuttora spetta alle donne il compito di raccogliere crostacei e molluschi lungo le scogliere e a pescare da riva con lenza ed amo; invece tocca agli uomini150 occuparsi della pesca d‟altura, attività questa che può comportare anche lunghi periodi di lavoro in canoa. Nonostante la suddivisione delle diverse mansioni tra uomini e donne, la pesca in molte occasioni può coinvolgere anche l‟intera comunità, specialmente entro gli spazi lagunari; il pescato del giorno solitamente viene spartito tra le varie famiglie (Gnecchi Ruscone, 2010, p.206). Tra le tecnologie utilizzate per pescare, le canoe di certo costituiscono uno degli strumenti maggiormente condivisi a livello regionale. Come mostra Finney (1996), queste imbarcazioni risultano praticamente diffuse in ogni luogo ove sono approdate popolazioni di lingue austronesiane. Esse hanno avuto un ruolo centrale nell‟esplorazione dell‟intera regione, contribuendo successivamente a mantenere i legami intertribali e gli scambi commerciali fra isole poste anche a centinaia di chilometri di distanza. Si può affermare che la canoe costituiscono davvero un elemento caratteristico del paesaggio (Malinowski, 2004, p.114), diventando oggetti centrali nella vita delle stesse comunità. Le tipologie di canoe in Oceania differiscono a seconda del contesto e del tipo di acque in cui devono navigare; storicamente le imbarcazioni idonee a viaggiare in oceano presentavano un unico scafo con bilanciere in Micronesia, mentre erano preferite con due scafi d‟uguale dimensione in Polinesia. Inoltre, in Polinesia orientale le canoe si distinguevano da quelle in uso nell‟area occidentale sia per l‟uso combinato di vela e pagaie, sia per la poppa più alta, che consentiva una navigabilità migliore in condizioni difficili (D‟Arcy, 2006 p.79). 148
La pesca poteva avvenire in mare aperto, ma anche nelle lagune e lungo le scogliere. Ad eccezione di Tonga e Samoa dove era praticata la pesca a strascico. 150 Generalmente gli uomini che hanno la reputazione di essere dei bravi pescatori godono di status e prestigio. 149
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Figura 12 Distribuzione delle canoe in grado di navigare in acque oceaniche e diffusione dei linguaggi austronesiani (Fonte: Finney, 1996, p.77).
Esistono poi una serie di canoe molto più piccole utilizzate nelle operazioni di pesca e negli spostamenti quotidiani, le quali sono solitamente provviste di bilanciere che assicura una stabilità maggiore durante la navigazione. Nel passato la costruzione delle canoe per l‟uso quotidiano era un‟operazione padroneggiata da molti, mentre la realizzazione delle canoe da navigazione costituiva una pratica complessa, che vedeva coinvolta l‟intera comunità. Costruire una canoa non era soltanto un fatto tecnico, ma anche sociale e culturale, che prevedeva l‟impegno di veri e propri specialisti151. Le prue delle canoe venivano scolpite e ornate con piume e conchiglie e nel caso si trattasse di canoe da guerra152, oltre ad essere realizzate con maggiori rinforzi, venivano anche decorate con disegni che consentissero ai nemici d‟individuarne la loro provenienza. Le stesse pagaie presentavano motivi ornamentali e decorazioni a bassorilievo raffiguranti figure antropomorfe, le quali erano in grado di favorire il successo del viaggio e di proteggere la salute dei navigatori (Gnecchi Ruscone, 2010, pp.216-221).
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Malinowski nei primi decenni del Novecento ha mostrato l‟importanza che le procedure di costruzione delle canoe avevano per le popolazioni indigene delle isole Trobriand della Papua Nuova Guinea, in quanto costruire queste imbarcazioni costituiva il primo anello della catena del kula. Per tale ragione gli alberi da abbattere per ricavarne il legno erano scelti con scrupolo, le fasi della lavorazione seguivano tempistiche e proibizioni specifiche ed il varo dell‟imbarcazione era effettuato in concomitanza di cerimonie propiziatorie (Malinowski, 2004, pp.130-151). 152 Questo prima della pacificazione portata dalle forze coloniali.
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Figura 13 L‟immagine A rappresenta la canoa proa diffusa in Micronesia, costituita da un solo scafo e con bilanciere; B invece è una doppia canoa Fijiana (Fonte: D‟Arcy, 2006, pp.80-81).
La navigazione in acque oceaniche richiede una profonda conoscenza degli ambienti marini, acquisita gradualmente sin dalla giovane età attraverso un lungo processo di apprendimento, necessario a comprendere le dinamiche naturali del mare e del cielo. Considerato che nel passato la navigazione in mare aperto era effettuata senza gli strumenti nautici utilizzati oggigiorno, colpisce la profonda abilità che le popolazioni del Pacifico svilupparono per muoversi nell‟oceano; tali tecniche continuano ad essere insegnate presso le scuole tradizionali di navigazione in Micronesia e in Polinesia (Smith, 2007, p.62), le quali negli ultimi decenni hanno conosciuto un vero e proprio movimento di rinascita (Flood, 2002, p.54).
Figura 14 Navigazione a vela di una canoa in Papua Nuova Guinea, 1914-1918, Isole Trobriand, Papua
Nuova Guinea (Fonte: Malinowski, 2004, p.XXIII).
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Orientarsi durante i viaggi nell‟oceano è possibile soltanto grazie a una profonda capacità di lettura del paesaggio; interpretare il posizionamento del sole, la direzione dei venti e delle correnti marine stagionali, il fluire delle onde rispetto al movimento della canoa stessa, è necessario per muoversi in sicurezza. La direzione e la forza del vento non solo vengono misurate osservandone gli effetti sulla vela, bensì anche attraverso le sensazioni che le raffiche procurano sul viso del navigatore153. Durante la notte sono le stelle a diventare riferimenti fondamentali per muoversi tra le acque; oltre a quelle visibili nel proprio emisfero, anche quelle che sorgono e tramontano lungo la linea dell‟orizzonte costituiscono delle guide per orientare il tragitto della propria canoa. Tutti questi elementi, insieme ad una valutazione approssimativa della velocità di marcia e del tempo trascorso, sono indispensabili ad effettuare ipotesi sulla durata restante del viaggio, tenendo conto della direzione seguita e di una stima della distanza percorsa rispetto al punto di partenza (D‟Arcy, 2006, pp. 74-75). Poiché durante il giorno le isole più alte possono essere avvistate già a 75 miglia di distanza, mentre gli atolli e le isole più basse solo a 10 miglia di distanza, i navigatori devono necessariamente affidarsi ai segnali che rivelino la presenza di queste terre ancora prima che siano visibili. Infatti, isole anche lontane possono essere individuate grazie alle formazioni nuvolose che stazionano sopra di esse, in particolare su quelle più alte; tale fenomeno è collegato al surriscaldamento della terra durante il giorno, che porta al sollevamento d‟aria umida dando origine alle nuvole, le quali poi durante la notte si dissolvono. Inoltre, scrutando meglio le nubi si può avere la certezza che vi siano isole, in quanto in esse si riflette perfino la vegetazione presente sulle superfici insulari; solitamente appaiono più scure quando si trovano sopra a territori con foreste, mentre più chiare se sotto vi sono lagune o spiagge bianche. Quest‟ultime riflettono anche la luce solare ed appaiano visibili da lunga distanza; va aggiunto che la presenza d‟uccelli, i quali si spostano a pescare lontano dalla costa al massimo di cinquanta miglia, diventa un‟indicazione utile, in quanto segnala la prossimità delle terre (D‟Arcy, 2006, p.77). Per di più, la vicinanza di quest‟ultime può essere riconosciuta dalle alterazioni che esse causano
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La percezione del paesaggio appare come un fenomeno multisensoriale, legato a tutti i cinque i sensi. Quindi il sapere tradizionale della navigazione si è costruito attraverso processi corporei ed esperiti (Ligi, 2003, pp.269-271).
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sulle superfici del mare; infatti, le onde che sbattono contro la costa di sopravento vengono rifratte e riflesse, creando particolari conformazioni nel fluire delle correnti e rendendo così individuabili persino le isole più piccole, che producono questi segnali per un diametro di circa venti miglia (D‟Arcy, 2006, p.78). La conoscenza del mare e degli agenti naturali appare per i marinai più esperti come un sapere incorporato, frutto della lunga interazione che le popolazioni hanno maturato nel tempo e tramandato di generazione in generazione154.
Figura 15 Carta di navigazione delle Isole Marshall, fatta di bastoncini in legno, fibre, conchiglie e corallo. Le conchiglie rappresentano le isole, mentre i bastoncini curvi mostrano la direzione delle onde e delle correnti marine in prossimità degli atolli e delle isole basse. Tale modellino serve ai navigatori per memorizzare la posizione delle isole in mare (Fonte: D‟Arcy, 2006, p.78).
Quindi non è un caso che il mare e gli esseri che lo popolano siano diventati elementi primari nelle narrative orali e nei rituali di gran parte delle società oceaniane. L‟oceano non è soltanto una fonte di cibo, bensì un mondo in cui gli universi personali e mitologici si interconnettono tra loro; particolari fenomeni atmosferici e creature marine possono diventare la manifestazione o l‟incarnazione 154
Tuttavia il sapere può anche perdersi se non viene custodito e insegnato ai più giovani. In molti contesti, spesso a causa dei profondi cambiamenti avvenuti in epoca coloniale, l‟abilità di navigare in mare aperto si era quasi smarrita. Grazie a parecchi progetti attivati negli ultimi decenni del Novecento è stato favorito un revival della navigazione tradizionale in molte isole (Smith, 2007, p.62).
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di dei e antenati mitici, ma anche di persone conosciute o parenti defunti in mare. Ad esempio in molto contesti, dalla Nuova Irlanda (Gnecchi Ruscone, 2010, p.214) alle Hawai„i (D‟Arcy, 2006, p.43), gli squali diventano il “luogo” dove risiede lo spirito dei propri parenti e per tale ragione la loro pesca richiede una serie di proibizioni e di rituali; inoltre a questo animale vengono perfino associati i lignaggi dei capi (D‟Arcy, 2006, p.43). Invece in Micronesia vi sono leggende che narrano d‟accoppiamenti di uomini con delfini e focene, animali questi che assumono un significato importante per molti clan (D‟Arcy, 2006, p.45). Pertanto il paesaggio marino non appare come un mondo oggettivo, in quanto la percezione del mare che questi isolani hanno, riflette sia il loro sapere pratico come pescatori e navigatori, sia le credenze che in esso coesistano uomini, divinità, spiriti e altre creature (D‟Arcy, 2006, p.46). Il mare e gli elementi del paesaggio si presentano intrisi di storie, le quali oltre a diventare testimonianze del passato di una comunità, forniscono anche demarcatori spaziali indispensabili ad orientarsi durante gli spostamenti. Certi canti antichi infatti, come il me’etu’upaki di provenienza tongana, si configuravano come delle mappe per orientarsi in mare. In particolare tale canzone, solitamente legata ad una danza, individuava alcuni elementi paesaggistici riconoscibili nel tragitto tra Kiribati e Tonga (Hau‟ofa, 2008, p.73). Questo stratagemma era praticato anche dagli Aborigeni dell‟Australia per gli spostamenti su terra; molti racconti orali servivano a delineare il percorso da seguire durante i loro viaggi stagionali, che venivano intrapresi sia per lo sfruttamento delle risorse, sia per partecipare a riti collettivi con altri gruppi155. Inoltre, le loro produzioni artistiche si presentano tuttora come delle vere e proprie mappe territoriali, in cui elementi affettivi e sacrali si interconnettono tra loro (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.32), spesso apparendo totalmente comprensibili esclusivamente ai responsabili rituali della comunità a cui appartengono (Gnecchi Ruscone, 2010, pp.136-137).
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Gli spostamenti degli Aborigeni australiani seguono le vie percorse dai loro antenati mitici, lungo le quali determinati elementi del paesaggio ricordano le loro imprese eroiche (Turri, 1998, p.140). Questo va ricollegato al Tempo del Sogno, che narra della creazione del mondo e stabilisce relazioni tra le entità spirituali degli antenati e alcuni elementi della natura. Infatti tali esseri soprannaturali, dopo aver dato vita alla terra e a tutti gli esseri viventi, si sarebbero a loro volta trasformati in montagne, laghi, dune, alberi e rocce, che per tale ragione sono diventati dei luoghi sacri (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, p.28).
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Alle tradizioni orali e mitologiche di un dato gruppo solitamente si associano anche particolari modalità di gestione del territorio marino e delle specie animali e vegetali; le narrative, oltre a sancire particolari diritti d‟uso, possono qualificare un‟area o una specie come sacra e proibita, al fine di limitarne lo sfruttamento. Queste strategie, a parte riflettere l‟organizzazione delle stesse comunità, rispondono a dinamiche ecologiche; infatti, se da un lato il potere dei clan, dei capi e delle loro famiglie si manifesta attraverso l‟applicazione di specifiche restrizioni sul paesaggio (D‟Arcy, 2006, p.99), dall‟altro l‟istituzione di queste aree contribuisce al ripristino degli equilibri ambientali in ecosistemi impoveriti, producendo un beneficio collettivo per l‟intera comunità (Vierros, Tawake, Hickey, Tiraa, Noa, 2010, p.9). Zone sottoposte a questo tipo di regolamentazioni appaiono diffuse in molte parti del Pacifico e sono definite tabu nelle Fiji, a Vanuatu e a Kiribati, ra’ui presso le Isole Cook, kapu alle Hawai„i, tambu in Papua Nuova Guinea, bul in Palau, mo nelle Isole Marshall, tapu in Tonga e rahui in Nuova Zelanda (Vierros, Tawake, Hickey, Tiraa, Noa, 2010, p.7)156. La protezione di determinati paesaggi marini, ma anche terrestri, non dimostra che tali società abbiano una predisposizione innata alla tutela della biodiversità157, bensì evidenzia l‟interdipendenza che ha legato le comunità agli ambienti delle loro isole e la consapevolezza, maturata nel corso del tempo, che per garantire la riproduzione di determinate specie animali e vegetali occorrono condizioni ideali, che un‟eccessiva pressione antropica può alterare per sempre (Weaver, 1997, pp.389-390)158.
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Tali aree rivestono un ruolo significativo per il mantenimento della biodiversità; per tale ragione sono emerse alcune ricerche che provano a riflettere sul significato che esse possono assumere nei contesti nazionali, in relazione alle aree protette statali e alle normative vigenti in materia di protezione ambientale (Vierros, Tawake, Hickey, Tiraa, Noa, 2010). 157 Ovviamente non tutti i sistemi tradizionali di gestione dell‟ambiente producono sempre effetti positivi; per questo talvolta si sono create anche tensioni tra gli ecologisti e le comunità tradizionali rispetto la tutela o meno di specie animali e vegetali (Weaver, 1997). 158 Il caso dell‟Isola di Pasqua è esemplificativo; gli studi archeologici hanno rivelato che originariamente essa era ricoperta da una fitta foresta tropicale, ricca di alberi di grandi dimensioni e palme, la quale tuttavia già nel 1400 d.C. risultava completamente distrutta. Si ipotizza che tale catastrofe ecologica fosse stata causata da fattori diversi; gli alberi erano stati abbattuti per fare posto agli orti, per costruire canoe, ma anche per realizzare gli attrezzi e le funi necessarie ad edificare le gigantesche statue (moai) ritrovate sull‟isola. La società dell‟Isola di Pasqua, anche in considerazione della difficoltà d‟accedere a risorse esterne per l‟enormi distanze che la separavano dalle altre isole polinesiane (le più vicine a 2100 km) e per la scarsità d‟acqua causata dall‟abbattimento delle foreste, dovette fronteggiare delle tensioni crescenti fra i diversi gruppi dell‟isola, che in breve tempo la portarono al collasso (Giusti, Sommella, Cigliano, 2009, pp.87-89).
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E‟ proprio grazie a questo tipo d‟interazione con i paesaggi marini e terrestri che le persone sono diventate un tutt‟uno con la propria cultura, la propria terra e il proprio oceano (Hau‟ofa, 2008, p.74), creando quindi i presupposti per una condivisione identitaria a livello regionale. I paesaggi sono “culturali” perché in essi, per mezzo di storie, mitologie e saperi tradizionali, è stato inscritto l‟agire dell‟uomo. E‟ per questa ragione che diventano testimonianza vivente del passato, ancorando le persone ad un luogo e consentendo loro di avere una propria storia e quindi un‟identità (Kirsch, 2001, p.175).
Figura 16 Tra terra e mare; è possibile osservare le capanne costruite sulla spiaggia, un uomo seduto su
una canoa e un altro con una lancia al margine dell‟acqua, Wanigella, Papua Nuova Guinea, 1921, foto di Frank Hurley (Fonte: National Library of Australia, Canberra).
Mare e terra sono strettamente interconnessi, perché entrambi contribuiscono sia ad ampliare gli orizzonti delle popolazioni oceaniane, sia a rafforzare il loro senso di radicamento nelle isole159; le canoe diventano metafora stessa della connessione che
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Il fatto che ancora oggi molti migranti oceaniani, trasferitisi in paesi lontani dalla loro isola, riescano a mantenere uno stretto legame con la propria terra e i propri antenati, è considerata una peculiarità delle popolazioni dell‟Oceania, le quali appaiono radicate ed allo stesso tempo in viaggio (Favole, 2010,
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lega le vecchie tradizioni alle nuove strade da percorrere nell‟oceano160 (Jolly, 2001, p.421). Benché ogni comunità abbia sviluppato saperi incorporati peculiari al contesto geografico in cui ha vissuto, le pratiche attraverso le quali si è costruita questa conoscenza sono state pressoché le stesse in tutta la regione; ciò significa che esiste uno spazio di condivisione, che realmente può avvicinare tra loro le comunità dell‟Oceania. Per di più considerando la connessione storica, culturale, linguistica e i frequenti legami intessuti per mezzo dei circuiti di scambio, è possibile affermare che, nonostante l‟esistenza di differenze, un‟identità regionale nei termini in cui ne parla Hau‟ofa può esistere. Di certo un‟identità legata tanto alla terra quanto al mare, che come un albero cresce e si radica in un luogo, ma il cui tronco è destinato a divenire canoa e solcare le acque dell‟Oceano Pacifico (Favole, 2010, p.100)161.
2.2.3 Il passato, l’identità e la cultura “davanti a noi” Se un‟identità regionale oceaniana può realmente essere avvalorata, come ho provato a mostrare nei paragrafi precedenti, è necessario approfondire meglio il significato di questo costrutto; infatti, parlare d‟identità è sempre molto rischioso in quanto il pericolo è che si innalzino dei confini rigidi entro i quali circoscrivere un insieme d‟individui e di gruppi umani. Per tale ragione è opportuno spendere alcune riflessioni su tale concetto, rammentando che il tentativo di Hau‟ofa è quello di rafforzare un senso comunitario a livello regionale, affinché le popolazioni oceaniane possano agire collettivamente per il bene comune, costruendo le basi indispensabili ad affrontare in modo autonomo le sfide che un mondo globalizzato comporta (Hau‟ofa, 2005, p.33). Il concetto d‟identità, come spiega l‟antropologo Remotti, ha assunto una posizione di primo piano nelle scienze sociali soltanto a partire dagli anni Settanta del Novecento; a questa nozione si legano una serie di criticità da non sottovalutare, in p.100). Tale condizione è stata evidenziata da Clifford (2008) che l‟ha definita attraverso l‟omofonia di due termini, roots (radici) e routes (strade). 160 E‟ curioso allora che nella navigazione tradizionale si abbia la percezione che le canoe siano ferme, mentre invece le isole appaiono in movimento; una sorta di ribaltamento dell‟immagine viaggioradicamento (Diaz, Kauanui, 2001, p.317). 161 Tale immagine è tratta dalla metafora dell‟albero e della piroga del geografo Joel Bonnemaison, specialista di Vanuatu.
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quanto nell‟immaginario comune essa rimanda ad una sostanza immutabile, secondo la quale un ente potrebbe rimanere sempre identico a se stesso, nonostante le sue manifestazioni contingenti e le sue apparenti trasformazioni (Favole, 2010, pp.130131). Quindi una presunta essenza inattaccabile, che come sostiene l‟antropologo Fabietti, spesso è servita a giustificare retoriche identitarie, che hanno enfatizzato la dimensione dell‟ “io” e del “noi” contrapposta a quella del “loro”, percepiti invece come estranei e distanti. Se l‟occidente possiede un‟idea alquanto rigida della propria identità, è interessante come molte altre culture nel mondo, tra cui quelle dell‟Oceania, considerino tale nozione maggiormente plastica, quindi soggetta a possibili rimodellamenti e trasformazioni162 (Fabietti, 2004, p.138). Esaminare il modo in cui le politiche dell‟identità sono state articolate in un contesto oceaniano come quello della Nuova Caledonia, può servire a svelare un diverso modo di pensare l‟identità, contribuendo ad arricchire ulteriormente la visione di un‟identità regionale condivisa. In particolare, considerare le riflessioni del leader politico kanak Jean-Marie Tjibaou163 (Favole, 2010, pp.175-180) serve a far emergere sia un‟alternativa interessante da contrapporre alla rigidità delle retoriche identitarie, sia, alla luce di quanto affermato da Hau‟ofa, degli spunti utili a delineare una strada della condivisione percorribile dalle comunità dell‟Oceania. Il suo è un pensiero di relazione che scardina le logiche legate alla sostanza e all‟identità come qualcosa d‟immutabile164; l‟azione sociale e politica che hanno contraddistinto la sua carriera è ruotata attorno alla concezione relazionale e plurale della persona, per cui gli esseri umani non possono esistere come individui in sé, ma soltanto come centri di un fascio di relazioni sociali più o meno estese. Poiché le 162
Tuttavia, come chiarisce Fabietti, non bisogna cadere nell‟errore di pensare “noi” come essenzialmente rigidi e “loro” come sostanzialmente dinamici; infatti, non si valuta mai abbastanza che la cultura “occidentale” si è plasmata in stretta relazione con molte altre culture, incorporando nella propria tradizione elementi d‟altri mondi. 163 Leader politico indipendentista della Nuova Caledonia (1936-1989) e fondatore del Festival Melanesia 2000. Durante la sua carriera politica ha avvicinato i diversi gruppi kanak spesso in scontro tra loro e ha mediato con le autorità francesi un maggiore riconoscimento delle popolazioni autoctone. E‟ stato definito come passeur culturel, mediatore culturale. Tjibaou passerà molti anni in Francia, a Lione e Parigi; aspirante etnologo stringerà relazioni con antropologi oceanisti quali Jean Guiart e in particolare con Roger Bastide; inoltre leggerà etnografie frutto di ricerche in Oceania, come i saggi di Mauss sul dono e di Leenhardt sulla teoria della persona. Questo background influenzerà molto il suo pensiero di comunicatore interculturale (Favole, 2010, p.163). 164 Il suo pensiero è di relazione, ma durante gli anni più duri della lotta per il riconoscimento kanak ha esaltato, non senza conseguenze, anche una politica dell‟identità e della sostanza. Quindi, ai suoi discorsi non sempre corrispose una pratica politica coerente (Favole, 2010, p.180).
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stesse comunità insulari dell‟Oceania sono storicamente inserite in reti e circuiti di scambio con altre realtà, l‟interdipendenza appare come una condizione peculiare del mondo oceaniano, che secondo Tjibaou doveva essere necessariamente trasposta anche sul piano politico (Favole, 2010, p.176). In considerazione di tale aspetto gli individui, le comunità, ma anche le classi politiche possono giungere ad una definizione di se stesse soltanto attraverso un rapporto d‟interazione; quindi anche l‟identità non può essere data per sempre, né può essere pensata come un‟essenza immodificabile nel tempo (Favole, 2010, p.169). Per Tjibaou, sostenere il primato della relazione su quello dell‟essenza era indispensabile per ricucire prima di tutto i rapporti della popolazione kanak165, la quale anche a causa della presenza coloniale, non costituiva una comunità unita; le differenze tra kanak del nord, del sud, delle isole e della Grande Terre166 erano molto sentite ed accentuate perfino dalle diverse appartenenze religiose. Allo stesso tempo questa politica d‟apertura era anche estesa ai discendenti dei primi coloni francesi e ai molti europei che ormai risiedevano da tempo sulle isole; soltanto seguendo la strada del dialogo poteva essere costruita una moderna identità kanak167. Questa prospettiva, che non rivendicava una presunta sostanza identitaria comune, bensì cercava l‟accordo con gli europei e tutte le comunità presenti nelle isole, permetteva alla società kanak di proiettarsi nel presente e nel futuro (Favole, 2010, p.168), senza dover rendere conto del fardello della tradizione e dell‟autenticità. Quest‟ultime, per Tjibaou, rischiavano di diventare concezioni reificanti, che legate ad un tempo più mitologico che reale, negavano soprattutto alle comunità kanak la possibilità di rivendicare la propria presenza e di costruire un‟identità adeguata a vivere nella contemporaneità (Favole, 2010, p.177). Su questi aspetti riflette anche Hau‟ofa, il quale cerca di comprendere perché molti enti internazionali esprimano continuamente preoccupazioni rispetto alla scomparsa delle cosiddette “culture tradizionali”. Se con cultura intendiamo l‟insieme dei modi 165
Il termine kanak è di origine hawaiana (kanaka) ed era utilizzato dai commercianti europei per definire in modo indistinto i “primitivi”,“selvaggi” e “naturali” che incontravano nell‟area melanesiana. Tale termine è stato risemantizzato e connotato positivamente in occasione del Festival Melanesia 2000, di cui Tjibaou è stato uno dei principali promotori (Favole, 2010, p.169). 166 E‟ l‟isola più grande della Nuova Caledonia. 167 Nel maggio 1988 ad Ouvéa vi furono duri scontri tra le forze kanak indipendentiste e l‟esercito francese che causarono la morte di diciannove kanak e di sei gendarmi. Tali eventi fecero comprendere a Tjibaou che solo attraverso l‟apertura e la mediazione era possibile perseguire il bene del paese.
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di vita che una data popolazione ha in un preciso momento storico e queste modalità cambiano nel momento in cui variano le condizioni del contesto in cui si vive, allora si domanda Hau‟ofa quale sia il senso di queste iniziative, le quali si propongono di proteggere dall‟estinzione proprio quelle culture che un tempo erano state brutalmente colonizzate (Hau‟ofa, 1985, p.152). Considerando poi che molte delle pratiche o delle credenze ritenute “tradizionali”, in realtà spesso sono anche il frutto d‟ibridazioni tra elementi endogeni ed esogeni provenienti da altri contesti geografici e culturali, allora probabilmente come dubita Hau‟ofa, questo tipo di politiche della salvaguardia non rappresentano altro che nuove strategie per perpetuare vecchie forme di dipendenza (Hau‟ofa, 1985, p.153). La preoccupazione che realmente avvicina due pensatori come Hau‟ofa e Tjibaou rimanda al posizionamento delle società oceaniane nel presente; ciò che sta cuore ad entrambi è che le comunità dell‟Oceania abbiano la possibilità di decidere autonomamente del proprio destino e con adeguata consapevolezza possano affrontare le numerose sfide che si prospettano nell‟imminente futuro (Hau‟ofa, 2008, p.76). Per tale ragione Hau‟ofa insiste sulla necessità di ricostruire e rivalorizzare la propria storia e quel bagaglio di tradizioni orali troppo spesso marginalizzate e considerate dalle prospettive euro-americane espressione di un mondo preistorico (Hau‟ofa, 2008, p.62); giacché è convinto che la loro storia non cominci soltanto con l‟arrivo del colonialismo o del Cristianesimo, bensì affondi in un passato più antico che non deve essere trascurato. Riscoprire la storia, significa far parlare i paesaggi e tutelarli in quanto testimonianze viventi del proprio passato. Perdere il legame con la propria terra significa smarrire la propria memoria e quindi la possibilità di comprendere sia da dove si viene, sia in quale direzione andare. Questo soprattutto perché asserire che “il passato è davanti a noi”168, come fa Hau‟ofa, non solo è un invito a ricostruire la propria storia e a riscrivere le proprie geografie (Hau‟ofa, 2008, p.76), bensì è un‟esortazione a definirsi come popoli indipendenti e qualificati a gestire in modo autonomo le numerose pressioni che un mondo globalizzato comporta.
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In considerazione sia della concezione ciclica del tempo, sia perché la storia è inscritta nel paesaggio.
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Ed è davvero significativo che anche Tjibaou, così attento a proiettare la società kanak nella contemporaneità, asserisca invece che “la nostra identità è davanti a noi” (Favole, 2010, p.178). Due sono le possibili interpretazioni di questa affermazione; la prima può essere intesa come un capovolgimento dall‟eccezionale creatività semantica, in quanto libera il concetto d‟identità dall‟essenzializzazione, riconducendolo per di più entro una visione più ampia e progettuale della cultura. L‟identità è „davanti‟ perché può essere soggetta ad una riformulazione permanente, che consenta ai kanak di trovare nuove forme d‟espressione per costruire se stessi, modellando e rimodellando la propria persona e la propria cultura per pensarsi entro la modernità (Favole, 2010, p.178). Tuttavia, questo non significa negare la propria storia e la propria tradizione, ma al contrario, come afferma Tjibaou: “la nostra lotta attuale consiste nel cercare di mettere più elementi possibili del nostro passato, della nostra cultura, nella costruzione del modello di uomo e società che noi vogliamo per l‟edificazione della polis” (Favole, 2010, pp.177-179). La seconda interpretazione può essere invece ricondotta alle riflessioni di Hau‟ofa sul legame tra la storia e il paesaggio; infatti, sostenere che “la nostra identità è davanti a noi” non rimanda esclusivamente ad una dimensione temporale e prospettica, ma anche ad una dimensione spaziale, fisica, quindi quella del paesaggio. Questo non è casuale, soprattutto in un contesto come quello kanak dove il legame con la terra è molto forte a tal punto che sono degli elementi vegetali, come gli ignami, a svolgere un ruolo centrale, insieme alle parole, nella costruzione delle relazioni umane nella società stessa169. Inoltre, lo stesso Tjibaou aveva sostenuto anche la necessità di “oceanizzare la città”170 ovvero di connotare gli spazi del contesto urbano con segni171 della cultura kanak, riscoprendo allo stesso tempo quell‟attenzione per gli orti, i giardini e l‟estetica del paesaggio. Per di più il legame con quest‟ultimo poteva essere rinforzato attingendo proprio alle tradizioni orali, le quali costituiscono “un archivio vivente, un catasto mentale” della storia kanak (Favole, 2010, p.166). 169
La parola degli esseri umani, necessaria ad intessere relazioni tra i vari gruppi sociali, viene spesso paragonata agli ignami. Quest‟ultimi hanno una funziona primaria nei riti della coutume e nelle cerimonie di scambio in particolari occasioni comunitarie (Favole, 2010, pp.24-25). 170 Si veda il paragrafo precedente dove è già stato accennato questo aspetto. 171 Monumenti, statue, totem che si fanno portavoce della storia e della cultura kanak, spesso messe in secondo piano dalle architetture monumentali coloniali (Favole, 2010, p.197).
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Sia per Tjibaou, che per Hau‟ofa, storia, terra e identità si legano in un rapporto indissolubile, che serve agli individui e alle comunità per definire se stesse e i propri orizzonti culturali. Le idee dell‟uno contribuiscono a rafforzare le visioni dell‟altro; infatti, la possibilità di poter riformulare continuamente la propria identità rappresenta anche un‟opportunità in più che le comunità oceaniane hanno nel modellare la propria identità regionale, affinché realmente possa funzionare come un dispositivo condiviso. Difatti Hau‟ofa immagina quest‟ultima non come una sostanza rigida ed essenzializzante, ma al contrario come una risorsa addizionale che i popoli del Pacifico possono utilizzare per riscoprire quei legami d‟interdipendenza, che le logiche nazionali troppo spesso lasciano in secondo piano. Perfino le differenze culturali e linguistiche presenti in Oceania vanno considerate dei punti di forza, diventando una ricchezza fondamentale a contrastare le forze omologanti dei meccanismi globali; tutti questi elementi possono entrare a far parte di una stessa eredità collettiva (Hau‟ofa, 2005, p.33). E se come suggerisce Tjibaou la cultura non deve essere intesa come la somma degli elementi peculiari che accomuna una specifica società, bensì come l‟insieme degli aspetti condivisibili e comunicabili tra tutti i gruppi umani (Favole, 2010, p.180)172, allora l‟oceano di Hau‟ofa diventa metafora non solo dell‟identità, ma anche della cultura stessa. Quest‟ultima non può essere considerata come un‟entità immutabile, ma come un universo in costante costruzione e trasformazione, per mano di coloro che l‟articolano e la modificano per meglio adattarla alla contemporaneità. Quindi, la cultura, come l‟oceano, diventa uno spazio di condivisione, espressione non solo dello scambio tra le varie comunità kanak, ma soprattutto delle società dell‟Oceania e dell‟intero pianeta. Così come le acque oceaniche fluttuando riescono a mettere in collegamento tutte le popolazioni della Terra (Hau‟ofa, 2005, p.40), allo stesso modo la cultura diventa un luogo collettivo in cui tutte le popolazioni, apportando il proprio contributo, si interconnettono una con l‟altra (Favole, 2010, p.180); soltanto superando le barriere che dividono ed aprendosi all‟altro appare possibile ritrovare un senso d‟umanità e di comunità (Hau‟ofa, 2005, p.33).
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Secondo Favole siamo di fronte ad una vera rivoluzione semantica del concetto di cultura. La cultura non come prodotto specifico di una realtà umana, bensì come ciò che è condivisibile tra le varie società del pianeta.
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E‟ significativo che Tjibaou e Hau‟ofa si siano fatti portabandiera di un nuovo umanesimo; svincolandosi dai discorsi dell‟autenticità e della tradizione intesa come qualcosa d‟immutabile nel tempo, hanno rimodellato in modo creativo le nozioni di cultura e identità, affinché possano essere strumenti utili ad avvicinare gli esseri umani attraverso il dialogo e la condivisione. La creatività173 che guida il pensiero di questi due autori e che si origina attraverso il contatto e la relazione tra culture differenti può diventare realmente un punto d‟incontro per le comunità oceaniane. Nella manifestazione più evidente della creatività, quella artistica, la creazione non solo diventa espressione di un‟intera comunità174, ma possibilità d‟incontro con altre società (Favole, 2010, p.36). Rispetto a tale prospettiva, fa riflettere che le vicende di Tjibaou e Hau‟ofa si siano intrecciate alla storia d‟istituzioni culturali in cui l‟arte diventa manifestazione di quella forza creativa che ha contraddistinto il loro pensiero. Il 4 maggio 1998 presso Nouméa viene inaugurato il Centre Culturel Jean-Marie Tjibaou175, ente che dedica una particolare attenzione all‟arte contemporanea, considerandola un canale privilegiato per rafforzare i legami kanak, sia entro le diverse comunità della Nuova Caledonia, sia con le altre società dell‟Oceania (Favole, 2010, p.185). Questo complesso inserito in un contesto paesaggistico a metà fra gli spazi cittadini e le aree naturali, è composto da dieci capanne in legno e acciaio176, le quali richiamano per la forma e lo slancio verticale i tradizionali edifici kanak. Le strutture metalliche composte da tiranti e bulloni sono lasciate appositamente in vista come se fossero ancora in costruzione. Il tentativo è quello di comunicare uno stato di “sospensione”, che rispecchi la condizione delle società kanak e il loro sforzo di definire la propria identità tra modernità e tradizione (Favole, 2010, p.188). Colpisce come attraverso 173
Rimando a Favole, il quale prova ad articolare una teoria antropologica della creatività culturale, riflettendo anche sulle modalità in cui le comunità oceaniane rispondono all‟influenza d‟elementi culturali esogeni (Favole, 2010). 174 Nella maggior parte delle società oceaniane la produzione artistica non è un fatto individuale, bensì collettivo; spesso l‟intera comunità si trova pienamente coinvolta nelle fasi di realizzazione di un‟opera d‟arte. 175 Il centro porta il nome di Tjibaou assassinato il 4 maggio 1989 a Ouvéà. Già nel 1988 nell‟ambito degli accordi di Matignon, Tjibaou era riuscito ad ottenere dei finanziamenti per la progettazione di un centro culturale pensato per la promozione della cultura kanak, che sarà realizzato soltanto dopo la sua morte. Va ricordato che nel corso della sua carriera Tjibaou era stato anche organizzatore dell‟evento artistico Festival Melanesia 2000, attraverso il quale aveva promosso una politica del dialogo e della relazione. 176 Il progetto è stato realizzato dall‟architetto italiano Renzo Piano con la consulenza dell‟antropologo francese Alban Bensa.
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l‟organizzazione spaziale dell‟intero museo si provi a rendere conto della diversità che caratterizza le comunità kanak, creando allo stesso tempo spazi di contatto. Tre i luoghi principali del museo: il luogo della tradizione con tre capanne che sottolineano la presenza kanak in tutte e tre le provincie della Nuova Caledonia; il sentiero kanak che costituisce un percorso entro le architetture vegetali tradizionali, quali il taro gigante, gli ignami d‟acqua, il pino, il ficus banian (Jolly, 2007, p.434)177; infine l’area esposizioni, che rappresenta il cuore del centro ed è aperto alle collezioni d‟artisti internazionali, ma soprattutto alle creazioni d‟artisti regionali. Il centro nei suoi spazi ospita anche performance artistiche di vario tipo e ha attivato iniziative per favorire la raccolta di tradizioni orali in tutte le isole della Nuova Caledonia (Favole, 2010, pp.188-192). Grazie a questa istituzione, il progetto di costruire “l‟identità davanti a noi” diventa realtà, perché in essa le politiche identitarie trovano un luogo fisico dove poter essere articolate; allo stesso tempo emerge la volontà di promuovere l‟identità kanak, evitando però che si richiuda su se stessa, ma al contrario attraverso i significati comunicabili e condivisibili dell‟arte si apra all‟intera regione oceaniana e agli altri continenti (Favole, 2010, p.193). Simile per i significati messi in gioco è anche l‟esperienza dell‟Oceania Center for Arts and Culture, istituzione culturale fondata nel 1997 presso l‟University of South Pacific a Suva nelle isole Fiji e di cui Hau‟ofa è stato tra i principali promotori, nonché direttore. Nonostante costituisca una piccola realtà rispetto al centro Tjibaou178, le implicazioni tra arte, cultura e identità sono altrettanto forti (Hau‟ofa, 2008, p.81). Già a partire dal nome appare evidente la scelta di non privilegiare localismi, bensì di ribadire che l‟obbiettivo è quello di creare uno spazio d‟incontro per tutti gli artisti del continente; ciò nell‟intento di rafforzare un‟identità regionale condivisa, senza privilegiare le produzioni artistiche di un‟area geografica piuttosto che di un‟altra (Hau‟ofa, 2008, p.86). 177
Tale percorso è costruito seguendo le orme del cammino compiuto dall‟antenato mitico Tèa Kanaké. Il centro Tjibaou infatti può contare su ingenti finanziamenti francesi; secondo parecchi artisti questo costituisce un tentativo da parte del governo francese di compensare gli errori del passato coloniale e le terribili conseguenze dei test nucleari, che hanno compromesso la reputazione della Francia a livello internazionale (Jolly, 2007, p.440). Lo stesso Hau‟ofa ammette le inferiori possibilità economiche dell‟Oceania Center rispetto al Centro Culturale Tjibaou, fatto che comunque non scoraggia gli artisti a trovare a Suva una “casa” dove potersi esprimere (Hau‟ofa, 2008, p.87). 178
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Questo perché l‟arte può davvero comunicare quei valori di reciprocità, cooperazione, apertura all‟altro che Hau‟ofa considera centrali nelle società del Pacifico (Hau‟ofa, 2008, p.85); suddetti aspetti vanno promossi e allo stesso tempo recuperati attingendo alle creazioni artistiche del passato, le quali costituiscono una fonte d‟ispirazione per gli artisti. Prendere spunto da tali opere non solo serve a mantenere vivo un legame con la propria storia, ma è anche essenziale per costruire nuovi criteri estetici e forme innovative di concepire la rappresentazione, che possano staccarsi dai canoni internazionali e occidentali, i quali troppo spesso condizionano le produzioni artistiche locali (Hau‟ofa, 2008, pp.85-86). Il centro si configura davvero come una casa per la creatività oceaniana, un luogo d‟incontro, in cui non si annullano le peculiarità che ogni studente e artista porta con sé, bensì dove si valorizzano le affinità e le relazioni; l‟arte diventa quindi un modo per valorizzare la connessione e lo scambio a livello regionale (Jolly, 2007, p.532). Tale interconnessione si riflette soprattutto nell‟impegno che il centro, insieme ai suoi creativi, rivolge alle questioni contemporanee; infatti, uno dei comuni obbiettivi è quello di mantenere accesa l‟attenzione sulle tematiche ambientali che riguardano in particolare l‟oceano e le isole. La degradazione degli ecosistemi oceanici, l‟abbattimento delle foreste, l‟impoverimento e l‟inquinamento delle acque causato dalle attività minerarie, il surriscaldamento globale e l‟innalzamento dei mari sono questioni che riguardano tutti gli oceaniani (Hau‟ofa, 2008, p.87). Questi enti culturali evidenziano ancora di più l‟interconnessione che lega paesaggio, storia, arte, cultura e identità, le quali diventano parte della stessa grandiosa metafora, contribuendo a rafforzare la nuova identità regionale oceaniana, che trova la sua casa nell‟oceano proprio perché, come dice Hau‟ofa, “l‟oceano è in noi” (Hau‟ofa, 2005, p.43).
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Capitolo III L’IDENTITA’ E LA CULTURA NEI PROGETTI E NELLE POLITICHE DI SVILUPPO Il rapporto tra paesaggio e identità porta necessariamente a riflettere sugli effetti che determinati progetti e politiche di sviluppo possono avere sul territorio e sulla vita delle popolazioni. Prendendo spunto da quanto scrive Hau‟ofa rispetto alle strategie economiche in Oceania (Hau‟ofa, 1993, p.2), anche per le questioni dello sviluppo possono essere individuati due livelli d‟analisi: un livello micro, connesso alla dimensione locale entro la quale vengono realizzati interventi di modificazione territoriale, come ad esempio miniere e deforestazioni; un livello macro, legato invece alle decisioni che i governi nazionali e le istituzioni regionali, insieme alla diplomazia internazionale, prendono sulle diverse questioni concernenti la pianificazione dello sviluppo, spesso però senza coinvolgere gli abitanti direttamente interessati. Un‟indagine di queste dinamiche serve a mostrare da un lato le conseguenze più concrete dello sviluppo, dall‟altro a rendere espliciti i meccanismi attraverso cui l‟entità statali progettano l‟Oceania del futuro. Per tale ragione nel primo caso mi soffermo ad analizzare la costruzione di una miniera; questo con l‟obbiettivo di fare emergere come la distruzione del paesaggio non causi solo il danneggiamento degli ecosistemi naturali, ma anche delle profonde modificazioni sui modelli sociali e culturali delle comunità ad esso legate. Nel secondo caso invece la mia indagine si concentra sul Pacific Plan, strumento redatto nel 2005 dal Pacific Islands Forum nell‟intento di rafforzare la cooperazione e lo sviluppo economico a livello regionale. Questo per mostrare come l‟identità regionale assuma un ruolo marginale all‟interno del piano e non venga invece concepita come il dispositivo fondamentale per articolare un nuovo regionalismo oceaniano.
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3.1 IL CASO DELLA OK TEDI MINE Il caso della Ok Tedi Mine, studiato dall‟antropologo Stuart Kirsch (Kirsch, 2006) presso i territori delle comunità Yonggom o Muyu179 nelle foreste centro meridionali della Papua Nuova Guinea, costituisce un ottimo esempio per mostrare come l‟inquinamento del territorio prodotto dalla miniera abbia causato la perdita di quelle pratiche indispensabili alle comunità per tramandare la loro storia e le conoscenze tradizionali, necessarie ad articolare la propria identità. Tenere in considerazione le riflessioni di Hau‟ofa rispetto al rapporto che lega tecnologia, società e natura può essere utile a comprendere meglio le modalità in cui si concretizza una sorta di disancoramento tra le comunità e gli spazi che abitano. Le pratiche e le conoscenze dei popoli oceaniani, come sottolinea Hau‟ofa, si sono modellate in stretta relazione ai cicli ecologici; nel tempo le società hanno adattato le loro attività agli ambienti insulari, seguendo dei ritmi di sfruttamento delle risorse tali da mantenere un certo bilanciamento degli equilibri naturali. Ma la modernizzazione e le retoriche dello sviluppo, basate al contrario su un concetto di tempo lineare e teleologico, costringono ad adeguarsi all‟imperativo morale del trasferimento di tecnologia, fatto questo che può finire per rompere gli equilibri creatisi tra la società e la natura. La convinzione di poter esportare il bagaglio tecnologico occidentale in qualsiasi area del mondo, a prescindere dalle peculiarità naturali e culturali di un dato contesto geografico, è causa di devastazione degli ecosistemi naturali, nonché di profondi cambiamenti nei modelli di vita locali delle popolazioni oceaniane (Hau‟ofa, 2008, pp.68-69). Così è stato anche nel caso degli Yonggom, i quali nell‟arco di pochi decenni si sono trovati a fare i conti con un paesaggio sempre più impoverito, a tal punto da non riuscire a produrre neppure le risorse necessarie a soddisfare le loro esigenze alimentari.
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In Papua Nuova Guinea sono chiamati Yonggom, mentre nelle aree occidentali della Nuova Guinea, sotto il governo dell‟Indonesia, sono conosciuti come Muyu. Ciò si spiega non tanto per delle differenze culturali e linguistiche, bensì per la partizione coloniale dell‟isola e per le rispettive relazioni con le amministrazioni coloniali (Kirsch, 2006, p.6). Tra l‟aprile 1984 e il settembre 1985 le popolazioni Muyu, non volendo più restare in territorio indonesiano e seguendo le direttive del movimento di liberazione Free Papua Movement, si rifugiarono nei territori degli Yonggom; da allora molti di loro risiedono ancora sul confine (Kirsch, 2006, p.14).
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3.1.1 Pratiche e paesaggi fra gli Yonggom Le comunità Yonggom vivono prevalentemente in aree rurali e le loro economie sono ancora fortemente legate a pratiche e produzioni di sussistenza, benché attualmente in parecchi si riforniscano anche di prodotti e merci che giungono in queste terre attraverso le reti commerciali globali180 (Kirsch, 2006, p.5). I principali villaggi Yonggom sono collocati lungo le sponde occidentali del fiume Ok Tedi River e su quelle orientali del Fly River; nella West Papua (Indonesia) le popolazioni Muyu sono stanziate presso entrambe le rive del Muyu River; il territorio è per la maggior parte coperto da foreste pluviali con alberi d‟altezza media tra i 27-30 metri, ma con cime che possono anche raggiungere i 45 metri d‟altezza. Abbondanti sono le precipitazioni, tra i 4000-6000 mm annui nelle zone più a sud, mentre tendono ad aumentare fino a 10000 mm all‟anno in prossimità delle Star Mountains a nord. Le piogge hanno addolcito notevolmente le cime degli altopiani, ma sono anche causa di frequenti inondazioni a valle (Kirsch, 2006, p.8). Fonte di sostentamento per queste popolazioni sono le palme di sago181 e le banane, le quali crescono in giardini ad orticoltura mista insieme ad ignami, taro, canna da zucchero e asparagi. Recentemente altre colture sono state introdotte, come la patata dolce, le arachidi, la cassava e ortaggi vari. Nei loro giardini gli Yonggom piantano anche alberi di grande utilità come l‟albero del pane e l‟okari, che produce delle noci molto simili alle mandorle per dimensione e sapore. Molte di queste specie arboree sono coltivate lungo i sentieri nelle foreste, dove si trovano anche parecchi alberi che crescono spontaneamente, generando noci aspre, fichi e frutti molto ricchi di olio, i quali forniscono un contributo importante alla loro dieta (Kirsch, 2006, pp.810). Gli uomini si dedicano anche alla caccia, per mezzo di archi e trappole; in particolare catturano cinghiali e selvaggina più piccola come marsupiali, uccelli, pipistrelli e lucertole. Una quantità ridotta di maiali viene allevata sia per scopi
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Va evidenziato che parecchi Yonggom sono convertiti da tempo al Cristianesimo; inoltre, sono alquanto informati dei principali eventi internazionali e dei “moderni” stili di vita euro-americani, ai quali ambiscono soprattutto coloro che abitano nei villaggi; chi invece vive in aree urbane spesso sogna di tornare nelle zone rurali ed avere una vita più semplice (Kirsch, 2006, p.5). 181 Dalla palma di sago (Metroxylon sp.) viene ricavato l‟amido utilizzato per produrre una farina indispensabile nella dieta locale.
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alimentari, sia in funzione degli scambi182. Inoltre nel fiume praticano la pesca, utilizzando soprattutto trappole, sbarramenti, radici avvelenate e ami metallici (Kirsch, 2006, p.10). I giardini, gli alberi, i fiumi e i terreni di caccia spesso sono protetti da diritti di proprietà, che vincolano il loro uso a specifici lignaggi; quest‟ultimi si percepiscono strettamente connessi alla terra e vengono denominati ambip kin, espressione che spiega la coincidenza tra luogo e identità. Benché la discendenza sia patrilineare, i privilegi sulla terra possono essere trasferiti anche ai non agnati e quindi la donna conserva i diritti sugli appezzamenti paterni e potrà coltivarli insieme al marito (Kirsch, 2006, p.10). Attraverso tali pratiche gli Yonggom hanno interagito con il paesaggio, acquisendone una conoscenza profonda; infatti, sanno dove sono collocati gli alberi più utili, di quali frutti si nutrono gli uccelli, dove cacciare maiali e selvaggina, in quali aree del fiume trovare i pesci migliori, i gamberi e le tartarughe. Inoltre, pianificano i giardini da lasciare a maggese e stabiliscono quali terreni preparare attraverso la tecnica del taglia e brucia, per accogliere le future coltivazioni. Muovendosi nella foresta riconoscono gli alberi migliori da utilizzare per costruire le abitazioni e le canoe, quest‟ultime indispensabili per spostarsi lungo il fiume. Per mezzo di queste attività di sussistenza hanno instaurato un legame intimo con i luoghi, a tal punto che le loro storie personali risultano inscritte nel paesaggio. Le vite degli individui sono concepite come una serie di movimenti attraverso gli spazi, tanto che viaggiando nella foresta distinguono quelle tracce lasciate da altri uomini nel passato, come un albero piantato da una persona ormai scomparsa, un accampamento di una battuta di caccia compiuta anni prima, un giardino abbandonato dove lavoravano alcune donne (Kirsch, 2006, p.10). Pertanto il passato riemerge attraverso gli spostamenti; amici e conoscenti che non ci sono più vengono ricordati attraverso i segni da loro lasciati nel paesaggio, che perdurano nel tempo oltre la durata delle loro stesse esistenze. Non a caso Kirsch, riprendendo 182
Negli anni Cinquanta e Sessanta gli Yonggom partecipavano ad un sistema di scambio regionale che coinvolgeva diversi gruppi che abitavano in prossimità del Muyu River; principali elementi delle transizioni erano i maiali e vari oggetti fatti con le conchiglie. Ancora oggi durante le feste arat, gli organizzatori dell‟evento, gli arat yariman, insieme a membri del proprio lignaggio gestiscono lo scambio di questi animali in cambio di manufatti in conchiglia, ma anche di soldi. Lo scopo di questi avvenimenti è quello di rendere visibili i legami e le relazioni sociali, non solo entro il proprio gruppo, ma anche con persone di altri villaggi. Per tale ragione in occasione degli arat possono anche verificarsi pagamenti e scambi di doni, che sanciscono nuove relazioni matrimoniali (Kirsch, 2006, pp.79-92).
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un‟espressione dell‟antropologo Steven Feld, parla di “biografia come itinerario” (Kirsch, 2006, p.11). Quindi la vita degli Yonggom si è costruita attraverso un‟interazione costante con gli elementi naturali e gli altri esseri viventi, che con loro condividono il paesaggio; gli uccelli183 costituiscono l‟esempio migliore per illustrare le modalità in cui si concretizza tale rapporto d‟interattività. Essi rivestono sia funzioni pratiche, che simboliche; per i cacciatori costituiscono un‟importante fonte di informazioni, poiché durante le loro battute di caccia attraverso il canto del passero Philemon corniculatus possono raggiungere aree dove si trovano i cinghiali, mentre grazie al Cacatua galerita riescono ad individuare la presenza di varani arrampicati sugli alberi (Kirsch, 2006, p.57). Invece il cinguettio del passero Cracticus cassicus diventa un vero e proprio dispositivo della memoria, evocando un tempo perduto e il ricordo di persone defunte, fatto questo che spesso può provocare dolore e senso di sconforto (Kirsch, 2006, p.58). Così certi uccelli, che stagionalmente ritornano nelle foreste in concomitanza della maturazione dei frutti dei quali si nutrono, scandiscono il passare del tempo e rievocano la memoria di persone ed eventi. Persino la giornata stessa è contrassegnata dal canto e dalle azioni di questi volatili; il passero On kuni (Cracticus cassicus) cinguetta al sorgere del sole, mentre al crepuscolo l‟On dokdok (Caprimulgus macrurus) si lancia all‟inseguimento degli insetti (Kirsch, 2006, p.58). Questi uccelli diventano per gli Yonggom degli agenti attivi con i quali è possibile dialogare; infatti, essi parlano il linguaggio Yonggom e sono in grado di pronunciare il loro nome184, ma anche d‟avvisare di una morte o di certi pericoli. Apparendo in sogno possono anche rivelare eventi del futuro; così la visione di un piccione può preannunciare il rischio di un imminente attacco di stregoneria, mentre altri animali, come le tartarughe, possono avvisare un uomo che 183
Molto conosciuto in Europa è l‟uccello del paradiso (Paradisaeidae), chiamato dagli Yonggom ono, il quale nella seconda metà dell‟Ottocento veniva cacciato per la bellezza delle sue piume variopinte, che erano utilizzate come decorazione per i cappelli da signora. Secondo Kirsch, i flussi commerciali che legavano le foreste della Papua Nuova Guinea con i centri della moda occidentale, mettono in luce una connessione interessante di questi territori con il resto del mondo, i quali al contrario troppo spesso sono stati considerati distanti ed isolati (Kirsch, 2006, pp.27-37). Inoltre, l‟uccello del paradiso è presente sulla bandiera della Papua Nuova Guinea. 184 I nomi degli uccelli sono onomatopeici, ad esempio il canto dell‟On dokdok (Caprimulgus macrurus) fa un suono simile a “dok dok”; inoltre i versi del piccione On kam (Macropygia) fanno “kwi kwi kwi” ed assomigliano a delle parole Yonggom, che significano “così, in questo modo, fai così” (Kirsch, 2006, p.59).
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presto una donna giungerà ad abitare nella sua casa. Generalmente i sogni con animali hanno a che fare con eventi che riguardano le persone, mentre sognare uomini e donne si ricollega alle attività venatorie di maiali, selvaggina o uccelli (Kirsch, 2006, pp.59-60). Come fa notare Kirsch, se il passato viene evocato da segni ed elementi del paesaggio, il futuro è invece rivelato dai sogni (Kirsch, 2006, p.60). Ciò che più colpisce è il fatto che gli Yonggom considerino gli altri esseri viventi sia nei sogni, che nella realtà, come dei soggetti veramente attivi, dotati di agency alla stessa maniera degli esseri umani185; per tale ragione con essi instaurano un vero e proprio rapporto interattivo, che l‟antropologo Tim Ingold definisce di “interagentività” (Kirsch, 2006, p.13). Questa è la peculiarità che contraddistingue i loro modelli d‟analisi ambientale e che manifesta secondo Kirsch delle nuove modalità d‟esperire il mondo e la connessione tra i suoi elementi, configurando così delle strade alternative alle prospettive occidentali, adatte a ripensare il rapporto tra l‟uomo e la natura (Kirsch, 2006, p.64).
3.1.2 La costruzione della miniera e la perdita del paesaggio La costruzione della Ok Tedi Mine ha sostanzialmente modificato il rapporto degli Yonggom con i loro paesaggi e con le altre specie viventi. La miniera situata a nord dei territori Yonggom in prossimità delle Star Mountains ha cominciato a produrre oro nel 1984 e rame nel 1987186. Da allora gli scarti, costituiti da residui di lavorazione dei metalli e da frammenti di roccia e terra frutto delle attività di scavo, sono stati scaricati nel fiume Ok Tedi, senza alcun sistema di drenaggio e contenimento delle scorie tossiche (Kirsch, 2006, p.15). Per oltre due decadi una quantità pari a circa un miliardo di tonnellate di detriti sono stati rilasciati nelle sue acque, causando il riempimento totale del letto e quindi un‟inevitabile straripamento oltre le sue sponde; fango e rocce hanno invaso i territori adiacenti al fiume, allagando persino le foreste pluviali e provocando effetti disastrosi sulla vegetazione e sulla fauna (Kirsch, 2006, p.16).
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Infatti gli Yonggom durante la caccia pronunciano delle brevi formule magiche, affinché le loro prede si facciano vedere e catturare (Kirsch, 2006, p.60). 186 Nel 2006 era la sesta più grande miniera di rame al mondo e i mercati di destinazione principali erano Asia ed Europa.
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Figura 17 Carta delle città, dei villaggi Yonggom e dei campi dei rifugiati Muyu. L‟Ok Tedi Mine è a nord in prossimità dell‟Ok Tedi River, il quale è anche un affluente del Fly River (Fonte: Kirsch, 2006, p.7).
Molteplici sono state le conseguenze di questa situazione; in poco tempo i sedimenti hanno distrutto i giardini, gli alberi e le palme di sago, compromettendo la possibilità delle popolazioni locali di produrre sufficienti quantità di cibo. Ciò ha causato anche un aumento della competizione per impossessarsi di porzioni di terra all‟interno delle foreste, i cui terreni risultavano comunque meno produttivi in seguito alla diffusione dell‟inquinamento. Inoltre, la popolazione ittica era diminuita drasticamente, fino al 90% in alcune zone del fiume, tanto che le persone erano molto diffidenti di cibarsi di quanto pescato (Kirsch, 2006, p.18). La pessima qualità delle acque ha allontanato anche le tartarughe, le quali durante le loro migrazioni 95
annuali erano solite depositare lungo il fiume le uova, che costituivano una preziosa risorsa stagionale. I ruscelli più piccoli si sono ben presto ostruiti a causa dai residui della miniera, rendendo impossibile la raccolta dei gamberi, i quali rappresentavano una fonte alimentare importante soprattutto per i bambini (Kirsch, 2006, p.19). Consapevoli della grave situazione i leader locali hanno subito attivato delle azioni legali187, affinché la compagnia mineraria applicasse le normative vigenti sulla tutela ambientale; ma la loro terra, già nel 1992, risultava completamente spogliata a causa dell‟inquinamento (Kirsch, 2006, p.19). In seguito agli sviluppi dei procedimenti legali, la compagnia cercò di ridurre l‟impatto degli straripamenti installando un impianto per dragare il fiume; questo ha funzionato tra il 1998 e il 2002, rimuovendo però soltanto una minima parte del materiale di scarto della miniera, che nel frattempo continua a scaricare. Come hanno spiegato i tecnici della compagnia, il materiale accumulatosi nel sistema idrofluviale è così tanto che se ne pagheranno gli effetti ancora per centinaia d‟anni. Soprattutto non può essere fermato l‟effetto a cascata dell‟inquinamento, che propagandosi attraverso le acque, provoca pesanti deforestazioni lungo tutto il percorso dell‟Ok Tedi River, per poi immettersi nel Fly River e sfociare nel Golfo di Papua Nuova Guinea. Oltre 1554 chilometri quadrati di foreste sono già andati distrutti ed è stato previsto che presto il danno potrebbe addirittura raddoppiarsi (Kirsch, 2006, pp.22-23).
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Sin dagli anni ‟80 i leader Yonggom hanno espresso le proprie preoccupazioni per l‟inquinamento provocato dalla miniera. Da subito si sono attivati contro la compagnia australiana Broken Hill Proprietary (BHP) e la compagnia privata OK Tedi Mine Limited (OTML), nonché con le entità statali, affinché fossero rispettate le misure di salvaguardia ambientale e pagate le giuste compensazione per i danni subiti. Nel 1992 hanno partecipato al Summit della Terra di Rio de Janeiro cercando di sensibilizzare l‟opinione pubblica e da allora hanno preso contatti con diversi movimenti ambientalisti a livello internazionale (Kirsch, 2006, p.17). Nel 1996 gli Yonggom vincono la battaglia legale, fatto che costituisce un precedente fra i popoli indigeni; ottengono un rimborso di 500 milioni di dollari americani (Kirsch, 2000), da utilizzare per le operazioni di contenimento dell‟inquinamento, nonché come compensazione per le oltre 34.000 persone che vivono lungo i fiumi locali (Kirsch, 2006, p.21). Tuttavia, nel 1999 la BHP dichiara che le operazioni per ripulire i corsi d‟acqua sono inutili e che i materiali tossici continueranno a propagarsi per molte altre decadi (Kirsch, 2006, pp.22-23). Nel 2000 la World Bank raccomanda la chiusura della miniera, la quale nel frattempo continua ad inquinare; nell‟aprile dello stesso anno si ritorna in aula, accusando la BHP di aver violato gli accordi stabiliti. La BHP dichiara di volersi ritirare dalla Ok Tedi Mine ed allora il governo della Papua Nuova Guinea stabilisce che il 52% delle loro quote passino alla OTML, costituendo anche un fondo per futuri progetti di sviluppo; facendo questo però sia la compagnia, che il governo, si auto tutelano da future rivendicazioni ed azioni legali. Benché tale fondo vada a beneficio delle popolazioni locali, nulla da allora è stato fatto per arrestare l‟inquinamento della miniera. Intanto la BHP, unendosi alla compagnia sudafricana Billiton, è diventata la quinta compagnia mineraria al mondo e nel 2004 l‟azione legale contro di loro si è risolta in nulla di fatto (Kirsch, 2006, p.24).
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Un problema da non sottovalutare è la tossicità di certi metalli pesanti, che assorbiti entro i prodotti della terra potrebbero entrare nella catena alimentare e causare dei rischi ingenti per la salute della persone. Per tale ragione la popolazione locale è sottoposta a frequenti controlli per valutare l‟esposizioni a cadmio e piombo; tuttavia il vero problema è l‟inquinamento, impossibile da arrestare finché i residui di scarto non verranno correttamente drenati dalle sostanze più pericolose per gli ecosistemi e per la salute umana (Kirsch, 2006, p.23). Ciò che appare evidente in questa situazione è che nell‟arco di tre decenni la compagnia mineraria, noncurante dei minimi standard di salvaguardia ambientale, ha sostanzialmente devastato gli ecosistemi fluviali e forestali lungo tutto il sistema idrico, facendo molti affari, ma non condividendone i guadagni. Benché siano state avviate operazioni di risarcimento, le cifre stanziate sono irrisorie e soprattutto non possono più restituire quella biodiversità che caratterizzava questi territori prima della costruzione della miniera188. Nonostante le popolazioni Yonggom si siano dimostrate molte attive nel rivendicare i
propri
diritti
attraverso
le
battaglie
legali,
le
testimonianze
raccolte
dall‟antropologo Kirsch fra alcune donne Yonggom mettono in evidenza il grande sconforto provocato dalle devastazioni della miniera. Bumok Dumarop racconta: Sono infelice per quello cha ha fatto la compagnia Loro hanno rovinato il nostro modo di vivere Prima vivevamo semplicemente. Il cibo dai nostri giardini era abbondante, così come la selvaggina. Il fiume stava bene. Potevi vedere i pesci, le tartarughe, e tutti gli altri animali che vivono lì. Ma ormai tutto è perso ed è difficile. Stiamo soffrendo, per questo sono infelice. (Kirsch, 2006, p.192, traduzione mia) 188
Le foreste pluviali sono uno degli ambienti al mondo con la più alta quantità e varietà di specie animali e vegetali (Smiraglia, Bernardi, 1999, p.459). Ripristinare la biodiversità di un ambiente naturale distrutto è un processo che richiede secoli, se non addirittura millenni.
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Molte donne esprimono un senso di dolore e perdita, come narra anche Dui Kemyat, donna sulla cinquantina d‟anni, che ha vissuto in prima persona la distruzione dei paesaggi: Prima il fiume non era così; mi sento disperata. In questi giorni, questo luogo è rovinato, così mi viene da piangere. Dove ero solito fare i giardini si sono formati banchi di fango Dove ero solita prendere gamberi e pesci c’è una pozza vuota… Così mi sento disperata. Prima non era così. Noi non avevamo difficoltà a prendere cibo dai nostri giardini e dalla selvaggina. Avevamo tutto quello di cui avevamo bisogno. Ora stiamo soffrendo e mi chiedo il perché. (Kirsch, 2006, pp.193-194, traduzione mia) In queste narrative emerge un collegamento tra il proprio passato e il paesaggio; vedere distrutto quest‟ultimo provoca inevitabilmente un forte sconforto e questo perché certi luoghi incorporavano la loro storia personale e quella dei propri cari ormai scomparsi (Kirsch, 2006, p.195). Muoversi ora nelle foreste o lungo il fiume è diventata un‟esperienza disorientante perché tutti quei segni che costituivano una traccia della memoria sono andati distrutti o coperti dal fango; la loro “biografia come itinerario” è stata cancellata e la storia ha perso la sua connessione con il paesaggio (Kirsch, 2006, p.189). Anche alcuni paesaggi sonori possono diventare motivo di tristezza; infatti, i suoni ritmici prodotti dalle donne che lavorano il sago rievocano un passato ormai lontano, di quando erano bambini e gli adulti preparavano loro da mangiare; il senso di perdita è forte, a tal punto che fare un sogno sulla preparazione del sago può diventare anche un segnale di morte (Kirsch, 2006, p.195). 98
Gli effetti dell‟inquinamento hanno persino modificato profondamente il rapporto d‟interattività con gli altri esseri viventi del paesaggio; la morte di pesci, uccelli, alberi ed elementi vegetali ha necessariamente fatto diminuire l‟uso delle pratiche di sussistenza, le quali però costituivano anche un modo per tramandare ai propri figli e nipoti le conoscenze sugli animali, così come i rituali legati alla caccia e alla pesca. Al giorno d‟oggi i bambini e i giovani crescono senza conoscere i nomi della selvaggina, degli uccelli e dei pesci, che oltretutto sono i protagonisti principali dei loro miti e racconti orali. Inoltre, certe narrative e discorsi magici in grado di attirare le loro prede sono andati dimenticati; pensati per avere un effetto concreto sul mondo materiale, nulla possono in un contesto paesaggistico profondamente alterato (Kirsch, 2006, p.195). Se prima il paesaggio forniva sussistenza e sicurezza, ora gli agenti inquinanti hanno infranto questo rapporto. Oltre ai cambiamenti più visibili, come la morte degli alberi, la distruzione dei giardini, la scomparsa della fauna, ci sono anche altri segnali che preoccupano le popolazioni locali. Il sole appare sempre più caldo e brucia maggiormente la loro pelle, la stagione delle piogge sembra più lunga e i temporali sono aumentati d‟intensità, tanto da distruggere le coltivazioni; perfino i venti soffiano con forza maggiore (Kirsch, 2006, p.199). Questo inevitabilmente ha fatto sì che gli Yonggom abbiano cominciato a mettere in dubbio che gli ambienti in cui vivono possano continuare a fornire loro le risorse necessarie. Ciò anche in considerazione del fatto che le conseguenze dell‟inquinamento non sono rimaste circoscritte nelle vicinanze della Ok Tedi Mine, bensì si sono propagate lungo gran parte del percorso del fiume. Gli Yonggom venuti a conoscenza su come si formano le piogge acide nei paesi industrializzati (Kirsch, 2006, p.239, nota 3) hanno compreso che l‟inquinamento nelle loro terre non rimane localizzato in un punto, bensì si muove tra i fiumi e i ruscelli, ma può anche ricadere sottoforma di pioggia sulle loro foreste. Giustamente hanno intuito che i problemi causati dalla miniera sono sistemici, hanno cioè attaccato completamente il loro ambiente e non possono essere circoscritti solo ad una particolare pianta o animale; per questo il maggiore timore è che le sostanze tossiche entrino anche nella loro catena alimentare (Kirsch, 2006, p.199). Le situazioni che queste popolazioni devono fronteggiare implicano uno stato di forte vulnerabilità; l‟invisibilità delle sostanze tossiche mina le loro capacità 99
sensoriali, dispositivi da sempre fondamentali per stabilire il livello di pericolosità in ogni circostanza. Tale condizione, approfondita dal sociologo Ulrich Beck, corrisponde ad una vera e propria perdita di sovranità rispetto al mondo che li circonda, dato che non possono più affidarsi ai propri sensi per stabilire la qualità dell‟aria che respirano e del cibo di cui si nutrono (Kirsch, 2006, p.199). La vista, il tatto, l‟udito, l‟olfatto, il gusto e l‟esperienza corporea189 dello spazio naturale non sono più sufficienti a fronteggiare nemici invisibili, che si nascondono in prodotti all‟apparenza sani; l‟invisibilità costituisce davvero un problema nel rapporto con la realtà, perché si configura come “un blocco di senso nei dispositivi „culturali‟ (ovvero rappresentazioni, memoria, coscienza, linguaggio) mediante i quali una comunità percepisce e „ordina‟ il proprio ambiente” (Ligi, 2009, p.63). Perciò le popolazioni Yonggom, per sapere se il loro pesce e i loro vegetali sono commestibili, devono necessariamente affidarsi alle valutazioni scientifiche effettuate in alcuni casi dai tecnici della miniera, poiché non hanno né le conoscenze, né le strumentazioni idonee per effettuare questo tipo d‟analisi. Perfino i loro corpi sono diventati oggetto di regolari indagini per stabilirne le condizioni di salute, in considerazione delle alte quantità di cadmio e piombo che contaminano i loro territori (Kirsch, 2006, p.199). L‟invisibilità dell‟inquinamento industriale è stata definita da Beck come una sorta di sdoppiamento del mondo, nel senso che dietro a delle apparenze rassicuranti si nascondono delle problematiche ben più gravi; i frutti e gli animali che sembrano essere commestibili, si rivelano in realtà avvelenati dagli agenti tossici e questo, oltre a compromettere la loro commestibilità, mette in dubbio anche le credenze, i rituali magici e le modalità indigene di rapportarsi con l‟ambiente (Kirsch, 2006, p.200). Ciò ha provocato ovviamente anche dei cambiamenti significativi nelle loro diete; infatti, piuttosto che affidarsi alle coltivazioni o al loro pescato, sempre più spesso gli uomini preferiscono acquistare riso e pesce in scatola nei mercati locali. Questo anche perché per trovare dei vegetali ancora in buone condizioni occorre 189
Ligi, riprendendo Ingold, mette in evidenza come la tradizione occidentale abbia privilegiato la vista rispetto agli altri sensi come fonte di conoscenza, contrapponendola alla percezione uditiva, considerata invece di grande importanza dai popoli non occidentali. Nei termini di questa dicotomia la vista è distanziante, oggettificante e favorisce un atteggiamento analitico e atomistico, che finisce per rappresentare un mondo esterno di esseri; al contrario l‟udito è unificante, soggettivo, sintetico e olistico, partecipando all‟intimo divenire del mondo (Ligi, 2009, pp.61-62).
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spostarsi di molto dalle zone più inquinate e persino per cacciare, in considerazione di un aumento della competizione per le risorse, bisogna compiere delle spedizioni molto lunghe (Kirsch, 2006, p.174). Oltretutto le tecniche dei giardini hanno subito alcuni cambiamenti; se prima infatti gli appezzamenti erano larghi, aperti e coltivati soprattutto a banane nonostante la presenza d‟altre colture, dai primi anni Novanta si cominciarono a creare dei lotti quadrati più piccoli, demarcati da bastoni e file di cassava. In essi le patate dolci erano piantate in terrapieni separati da canali di drenaggio, il taro era posizionato nelle zone più umide e in un‟area distaccata erano collocati gli ignami. L‟intensificazione di colture rappresentava una risposta alla pressione demografica, alla scarsità delle risorse e alla degradazione ambientale190 (Kirsch, 2006, p.175). Tuttavia in molte circostanze acquistare prodotti alimentari appare come una scelta obbligata; le possibilità economiche degli Yonggom dipendono dai risarcimenti monetari che la compagnia mineraria elargisce per rimborsare la perdita di produttività delle loro terre191. Da un‟economia di sussistenza192 basata sulle risorse locali, si sono progressivamente adeguati ad un‟economia monetaria e questo perché il loro paesaggio ormai non può più essere considerato un sito di produttività, bensì uno scenario di distruzione e perdita (Kirsch, 2006, p.200). Nonostante la gravità della situazione ecologica è interessante le modalità con cui gli Yonggom si relazionano sia all‟inquinamento, che alla tecnologia. L‟inquinamento non viene considerato tanto come una questione tecnica, ma piuttosto come una forma di relazione sociale (Kirsch, 2006, p.129). Questo perché la miniera oltre a rovinare l‟ambiente, distrugge anche i loro rapporti umani; per tale ragione le attività estrattive sono considerate simili ad una pratica di stregoneria e vengono connotate 190
Come fa notare Kirsch questi giardini non sono più coltivati, probabilmente per un una serie di ragioni concomitanti, come: lo scarso interesse nel consumare le patate dolci, i raccolti poco produttivi, il molto lavoro richiesto e le compensazioni derivanti dalla compagnia mineraria. Comunque gli ignami, il taro e la cassava continuano ad essere piantati nei giardini insieme alle banane e ad altri tipi di colture (Kirsch, 2006, p.238, nota 7). 191 Va sottolineato che gli Yonggom non ricevono alcuna compensazione per lo sfruttamento delle risorse minerarie che sono situati nei loro territori, ma soltanto per la perdita della capacità produttiva dei terreni, causata dall‟inquinamento della miniera (Kirsch, 2006, p.200). 192 Gli Yonggom prima della costruzione della miniera erano completamente autosufficienti nella produzione di cibo e partecipavano ad un sistema di scambio regionale in cui circolavano prodotti come maiali, conchiglie, archi e tabacco; inoltre, vendevano i prodotti ricavati dal fiume e dalla foresta nei mercati, partecipando di fatto a circuiti economici capitalisti (Kirsch, 2006, p.198).
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da una sorta di capacità umana di produrre delle conseguenze nefaste sulle loro stesse esistenze (Kirsch, 2006, p.128). Trattando l‟inquinamento come un problema sociale, cercano di fare emergere nuove possibilità rispetto al futuro del proprio territorio, proponendo allo stesso tempo delle alternative valide per pensare in modo dialettico le relazioni tra l‟uomo e l‟ambiente (Kirsch, 2006, p.218). Ciò spiegherebbe anche le numerose azioni legali attuate dagli Yonggom verso la compagnia mineraria; così facendo, cercano di stabilire con quest‟ultima una specie di legame sociale, nell‟intento di ottenere delle risposte concrete rispetto al contenimento dell‟inquinamento, nonché delle compensazioni adeguate (Kirsch, 2006, p.214). Mettendo in luce la connessione tra le attività della miniera e il danneggiamento delle comunità, gli Yonggom non fanno altro che ricondurre l‟inquinamento entro i modelli conoscitivi utilizzati per esperire il mondo che li circonda. Allo stesso tempo però hanno dato vita ad una battaglia politica, che si configura come una vera forma di resistenza, non tanto nei confronti dello sviluppo e del cambiamento in sé, ma piuttosto verso i loro sviluppatori (Kirsch, 2006, p.127). Le nuove tecnologie non sono vissute in relazione dicotomica rispetto all‟ambiente, bensì interpretate attraverso i propri schemi percettivi; un episodio accaduto a Kirsch mette bene in evidenza questo aspetto. L‟antropologo, trovandosi con alcuni amici Yonggom su una strada di passaggio abituale per molti camion, notò come alcuni di loro prestassero un‟attenzione particolare al rumore dei motori, riuscendo addirittura a capire quale autocarro fosse in arrivo e chi il suo autista. Il procedimento utilizzato per leggere i segnali della modernità è il medesimo che applicano per riconoscere il canto degli uccelli; difatti le tecnologie interessano prevalentemente per i loro aspetti sociali e per le implicazioni che hanno sulle relazioni umane. Tale fatto chiarirebbe la curiosità che molti Yonggom hanno di sapere chi ad esempio è alla guida di una data automobile, chi abita in una casa che hanno visto in città o cosa acquistano amici e conoscenti al negozio alimentare (Kirsch, 2006, p.197). Tuttavia questo interesse per la tecnologia indica anche un clima di cambiamento generale; sono aumentate le attività salariate e le migrazioni verso le zone urbane, le relazioni sociali hanno subito processi di mercificazione, le
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conversioni al Cristianesimo sono cresciute e inoltre si sono rinforzate le nuove identità regionali193 e nazionali. Il caso degli Yonggom per certi versi aiuta a ribaltare le classiche contrapposizioni occidentali tra natura e tecnologia. Va però sottolineato che, nonostante tali popolazioni siano capaci di relazionarsi in modo creativo con i nuovi elementi tecnologici sottoponendoli a processi d‟ibridazione e rielaborandoli anche in nuove metafore194, non significa affatto che accettino di buon grado la distruzione dei loro ecosistemi. La tecnologia è sempre giudicata tenendo conto dell‟interconnessione che lega le loro comunità agli altri esseri viventi, con i quali condividono i paesaggi (Kirsch, 2006, p.198). E‟ stato probabilmente questo legame d‟interattività che ha motivato gli Yonggom, sin dagli anni Ottanta, a sostenere campagne contro la Broken Hill Proprietary (BHP) e la Ok Tedi Mine, giungendo perfino a criticare il Mining Act del 2000, che consente alla compagnia mineraria, in cambio della promessa di fondi fiduciari, di continuare a scaricare nei fiumi senza risponderne delle conseguenze (Kirsch, 2006, p.212). I leader Yonggom si sono trovati ad interagire con studi legali, movimenti ambientalisti, organizzazioni non governative e altri popoli indigeni che hanno vissuto situazioni simili; ciò non solo ha ampliato il loro immaginario geografico rendendoli maggiormente consapevoli delle dinamiche dello sviluppo, bensì ha dimostrato il grande interesse che queste popolazioni hanno nel costruire un futuro diverso195 (Kirsch, 2006, pp.204-205). Le campagne contro i danni della miniera rappresentano una lotta culturale per il controllo delle loro vite (Kirsch, 2006, p.190), un modo per configurarsi come soggetti attivi e produrre dei significati autonomi in relazione allo spazio e al tempo, alla vita e alla morte (Kirsch, 2006, p.214). Le preoccupazioni che tormentano soprattutto le persone più anziane riguardano gli aman dana, i bambini del futuro. Le giovani generazioni, a causa della distruzione 193
Rispetto a territori regionali della Papua Nuova Guinea. Ad esempio una specie di pianta di provenienza cinese, dalla scorza dura e difficile da sradicare (la quale tra l‟altro può avere conseguenze negative sulle specie autoctone) è diventata metafora della persistenza che i leader politici Yonggom mettono in campo nelle battaglie politiche contro l‟Ok Tedi Mine (Kirsch, 2006, p.197). 195 I soldi non possono risarcire le perdite subite; tuttavia il loro attivismo ambientale e politico costituisce un tentativo per dare vita a nuove forme di solidarietà sociali, anche a livello internazionale (Kirsch, 2006, p.221). 194
103
dei paesaggi, oltre a non sapere più pescare e cacciare, non sono neanche più in grado di costruire una casa senza l‟uso di chiodi o assi già tagliate, né di fabbricare borse con i filamenti di certe piante. Se a questo si aggiunge la perdita di alcune conoscenze culturali e rituali è possibile comprendere il timore che manifestano i più anziani (Kirsch, 2006, p.207). I cambiamenti portati dalla miniera nel paesaggio hanno profondamente modificato i modelli di vita locali, diventando una sorta di spartiacque generazionale tra il passato e il futuro; esemplificativa la testimonianza di un operaio della miniera che ora vive in una moderna cittadina: Quando racconto ai miei figli com’era la vita quando ero ragazzo, pensano che sto raccontando loro una fiaba. (Kirsch, 2006, p.208, traduzione mia). Nonostante una profonda consapevolezza delle vicende che stanno vivendo, in molti sono ancora convinti che le compensazioni economiche possano in qualche modo bilanciare le loro perdite e siano sufficienti per costruirsi una vita “moderna” secondo gli stili euro-americani. Ma la realtà è ben diversa, perché le popolazioni che devono fronteggiare progetti di sviluppo e situazioni di degrado ambientale di questo tipo, spesso si trovano a vivere un vero e proprio dilemma; non possono né concretizzare gli stili di vita desiderati196, ma neppure poter tornare indietro (Kirsch, 2006, p.210). Le battaglie degli Yonggom contro la compagnia mineraria testimoniano che quello che c‟è in gioco è una posta ben più alta del risarcimento economico in sé; sono il paesaggio e l‟universo culturale costruitosi intorno ad esso a costituire il vero fulcro di queste rivendicazioni. La distruzione dei loro landscape corrisponde ad una perdita culturale, perché le taskscape di queste popolazioni sono maturate in stretta connessione con dei luoghi specifici (Kirsch, 2001, p.173). Non poter più attuare determinate pratiche, rende impossibile la trasmissione dei saperi ad esse vincolate (Kirsch, 2001, p.174). Perdere i paesaggi significa allora smarrire la storia che è in essi è stata inscritta (Kirsch, 2006, p.217).
196
Nel 2004 le cifre per la compensazioni erano di 5 dollari americani a testa ogni mese (Kirsch, 2006, p.211)
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La ricerca effettuata dall‟antropologo Kirsch fa emergere l‟importanza con cui gli Yonggom considerano ancora certi luoghi del paesaggio, rispetto alle loro storie individuali e collettive, tanto che è impossibile scinderli dalla dimensione identitaria (Kirsch, 2006, p.203); i disastri causati dalla miniera rischiano davvero di cancellare la storia sociale (Kirsch, 2006, p.221), negando perciò la possibilità d‟articolare la propria identità come persone e comunità. Allo stesso tempo la perdita di storie pratiche e saperi, le quali rappresentavano anche un punto di contatto con gli altri popoli del Pacifico, potrebbe diminuire le probabilità sia di sentirsi partecipi di una comune identità regionale, sia di pensarsi in connessione con le altre società dell‟Oceania197.
Figura 18 Distruzione del paesaggio lungo l‟Ok Tedi River; la vegetazione è andata distrutta a causa dell‟inquinamento e rimangono soltanto alcuni alberi spogli (Fonte: foto di Stuart Kirsch).
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Tuttavia, cosi come gli Yonggom hanno ampliato le loro geografie collaborando con studi legali e movimenti ambientalisti internazionali, allo stesso modo potrebbero pensarsi in connessione con altri popoli del Pacifico che si sono trovati ad affrontare situazioni simili a quelle verificatesi nei loro territori.
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3.2 STRATEGIE
PER
LA
COOPERAZIONE
E
L’INTEGRAZIONE REGIONALE: IL PACIFIC PLAN In seguito alla Dichiarazione di Auckland del 6 aprile 2004 i leader del Pacific Islands Forum hanno dato vita a nuovo strumento, il Pacific Plan, finalizzato a concretizzare la visione di una nuova Oceania, come scrivono: I leader credono che la regione del Pacifico può, dovrebbe essere e sarà una regione di pace, armonia, sicurezza e prosperità economica, così che tutte le persone possano vivere una vita libera e degna di essere vissuta. Noi abbiamo a cuore la diversità del Pacifico e desideriamo un futuro in cui le sue culture, tradizioni e credenze religiose siano tenute in considerazione, onorate e valorizzate. Noi ambiamo ad una regione del Pacifico che sia rispettata per la qualità dei suoi governi, per la gestione sostenibile delle sue risorse, per la piena osservanza dei valori democratici e per la difesa e la promozione dei diritti umani. Noi aspiriamo a collaborare con i nostri vicini oltre a sviluppare la nostra conoscenza, a migliorare le nostre comunicazioni e ad assicurare un’esistenza economicamente sostenibile per tutti. (Pacific Islands Forum, 2004, traduzione mia) Tale piano, già a partire dalle motivazioni che lo hanno ispirato, presenta davvero degli elementi interessanti, in quanto emerge un‟apertura da parte dei leader politici a collaborare tra loro, considerando le diversità culturali non come una barriera, bensì come una ricchezza da valorizzare. In questo si ritrovano in parte le idee dello stesso Hau‟ofa, il quale esortava le classi politiche, così come i popoli degli stati oceaniani, a superare le ristrette logiche nazionaliste e ad agire all‟unisono al fine di contribuire al bene collettivo di tutte le realtà dell‟Oceania. Precedenti tentativi di rafforzare una politica regionalista erano falliti proprio per la scelta d‟accentuare le diversità, piuttosto che gli elementi condivisibili (Hau‟ofa, 2005, p.33). Il Pacific Plan appare quindi come uno strumento dalle grandi potenzialità, che realmente potrebbe definire una nuova strada per il continente oceaniano.
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L‟analisi che segue è finalizzata a comprendere quali siano i presupposti fondanti del regionalismo proposto e quale ruolo assumano in esso le nozioni d‟identità e cultura regionale; questo tenendo anche conto degli effetti che certe scelte strategiche potrebbero avere sui paesaggi dell‟Oceania.
3.2.1 Gli obbiettivi del Pacific Plan Il piano per il Pacifico entra in azione ufficialmente nel 2005 con lo scopo di rafforzare la cooperazione e l‟integrazione tra i diversi territori della regione. Oltre a tutti i sedici stati membri198 del Pacific Islands Forum sono anche coinvolti i rappresentati degli stati non indipendenti, come la Nuova Caledonia, la Polinesia Francese e le Samoa Americane, poiché l‟intento è quello di ambire ad una cooperazione estesa fra tutte le isole della regione e non soltanto fra l‟entità statali autonome (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.3). Il piano è stato pensato come un “documento vivente” ossia modificabile nel tempo a seconda degli obbiettivi portati a termine e di quelli nuovi da perseguire in un arco temporale compreso tra i tre e dieci anni circa199 (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007). Si presenta come uno strumento innovativo, in quanto propone delle strategie collettive per affrontare quelle sfide necessarie a costruire una regione più compatta e competitiva; tuttavia al momento non ha ancora alcun valore legale, benché gli stati possano rendere vincolati alcuni traguardi da raggiungere adottando dei particolari protocolli (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.1). La sua realizzazione è avvenuta grazie ad un gruppo di lavoro comprendente sia funzionari di tutti gli stati membri, sia i rappresentanti del Consiglio delle Organizzazioni Regionali del Pacifico (CROP); inoltre, essenziale è stato anche il contributo dei leader politici del presente, ma anche del passato, poiché l‟intento era
198
Australia, Isole Cook, Stati Federati di Micronesia, Fiji, Kiribati, Nauru, Nuova Zelanda, Niue, Palau, Papua Nuova Guinea, Repubblica delle Isole Marshall, Samoa, Isole Salomone, Tonga, Tuvalu e Vanuatu. 199 Gli obbiettivi a breve termine sono di circa tre anni (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.1), mentre quelli a medio-lungo termine si estendono per un periodo di dieci anni (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.2). Ogni tre anni avvengono valutazioni indipendenti per stimare i progressi condotti nell‟attuazione del piano (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.2), tuttavia il Forum produce a cadenza semestrale ed annuale dei report sugli avanzamenti compiuti. Quest‟ultimi sono reperibili sul loro sito internet: (http://www.forumsec.org.fj).
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quello di costruire un documento il più possibile condiviso (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.3). Difatti l‟idea della condivisione guida l‟intero Pacific Plan e un intento esplicitamente dichiarato è quello di favorire un‟ampia partecipazione pubblica, coinvolgendo ovviamente le istituzioni, ma soprattutto gli stakeholders non statali, quali: le organizzazioni non governative, le comunità locali, le associazioni religiose e professionali e gli enti privati. Il fine è di costruire un documento che le popolazioni dell‟Oceania possano sentire realmente come proprio, contribuendo attivamente alla stesura degli obbiettivi da perseguire nel corso degli anni (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.3). Il piano a differenza d‟altri accordi stipulati a livello regionale e globale, i quali spesso non contribuiscono realmente agli interessi delle popolazioni del Pacifico, intende invece configurarsi come una mappa per costruire in modo collettivo il futuro dell‟intera regione (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p1). Tale approccio partecipato a vari livelli si ricollega alle motivazioni fondanti che hanno portato alla sua realizzazione. Innanzi tutto il cambiamento degli scenari globali negli ultimi decenni ha creato delle sfide molto complesse, che gli stati oceaniani difficilmente possono fronteggiare individualmente, con il rischio di subire un declino e una marginalizzazione internazionale (Huffer, 2006, p.43). A questo bisogna poi aggiungere una presa di consapevolezza da parte dei leader politici di dover correggere al più presto alcuni malfunzionamenti inerenti alla burocrazia nazionale e regionale, le quali spesso non hanno saputo gestire in modo adeguato le risorse pubbliche a loro disposizione (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.2). I leader dichiarano che attraverso il Pacific Plan puntano a stimolare la crescita economica, lo sviluppo sostenibile, una governance efficiente200, nonché a garantire maggiori condizioni di sicurezza nei territori oceaniani (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.2).
200
“Good governance”, intesa come una gestione efficiente delle questioni pubbliche, da parte degli organi statali.
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La loro visione delinea anche quelle che sono le quattro aree chiave d‟intervento del piano: 1. Crescita Economica 2. Sviluppo Sostenibile 3. Governance efficiente 4. Sicurezza Ognuna di queste si compone di diversi obbiettivi strategici, in totale 13, sui quali gli stati devono lavorare insieme. Per quanto riguarda la Crescita Economica, intesa come crescita sostenibile e in favore dell‟economie più povere, il piano punta ad incrementare i commerci, i servizi e gli investimenti sostenibili (1), migliorando l‟efficienza e lo sviluppo delle infrastrutture necessarie (2), incoraggiando il settore privato a partecipare e contribuire maggiormente allo sviluppo (3). Per lo Sviluppo Sostenibile, definito come il rafforzamento reciproco del legame tra lo sviluppo economico, lo sviluppo sociale e la conservazione ambientale201, intento del piano è quello di combattere la povertà (4), migliorare la gestione delle risorse naturali e ambientali (5), nonché le condizioni di salute (6). Inoltre, si propone di favorire l‟educazione e la formazione (7), di riequilibrare le disparità tra i sessi (8), d‟aumentate il coinvolgimento delle giovani generazioni (9), accrescendo anche i livelli di partecipazione e scambio attraverso lo sport (10). Infine riconosce e protegge i valori culturali, le identità e le conoscenze tradizionali202 (11). Rispetto ad una Governance efficiente, il piano evidenzia come una trasparente, responsabile ed equa gestione di tutte le risorse sia un prerequisito essenziale per lo sviluppo sostenibile e la crescita economica; per tale ragione tali aspetti devono essere sempre migliorati (12).
201
Inteso come un uso sensato delle risorse naturali rispetto agli sviluppi economici e sociali, con il fine di mantenere gli equilibri ecologici; inoltre non vengono escluse vere e proprie misure di protezione di specifici contesti naturali. 202 Due sono stati gli obbiettivi rispetto al punto 11 per i primi tre anni dal 2006-2008: lo sviluppo di una strategia per mantenere e rafforzare l‟identità culturale del Pacifico (11.1); la creazione di un‟istituzione per sostenere e proteggere la conoscenza tradizionale e i diritti di proprietà intellettuale (11.2) (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.17). Invece, per il periodo 2006-2015 gli obbiettivi sono: non far diminuire il numero di persone le cui esistenze dipendono da mezzi di sussistenza tradizionali o dall‟uso commerciale di prodotti tradizionali (11.42); accrescere la percentuale di proprietà dei diritti intellettuali, licenze e marchi commerciali (11.43) (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.32).
109
Infine la Sicurezza, intesa come condizione di stabilità e tranquillità sociale e politica, deve essere costantemente potenziata affinché si possano realmente raggiungere gli sviluppi desiderati (13) (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.3). E‟ curioso che la strategia proposta dai leader per raggiungere questi obbiettivi sia quella del regionalismo, definita dal Forum come l‟azione congiunta degli stati per ottenere un beneficio individuale e collettivo. Tre in particolare i tipi di regionalismo proposti: Cooperazione regionale, per incentivare il dialogo e gli accordi tra i vari governi; Fornitura regionale di beni e servizi pubblici, che prevede la compartecipazione
di
determinati
servizi
utili
agli abitanti dell‟Oceania;
Integrazione regionale, per abbassare le barriere fisiche e tecniche fra i mercati e ridurre i prezzi dei beni (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.4). E‟ reso esplicito dal piano che il regionalismo non intende in alcun modo sostituirsi ai programmi che ogni singolo stato nazionale ha stabilito per la durata del suo governo, ma al contrario cerca di funzionare da supporto e completamento (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.3). Tuttavia le politiche regionaliste, come viene spiegato, in un contesto così grande come quello dell‟Oceania potrebbero anche avere degli svantaggi economici rispetto alla condivisione di determinati servizi203. Perciò in questi casi sarebbe preferibile utilizzare delle strategie di tipo subregionale o comunque finalizzate a mettere in collegamento soltanto gli stati più vicini tra loro (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.4). Nonostante tali inconvenienti di tipo tecnico, prerogativa centrale del piano rimane quella di favorire una cooperazione estesa, incentivando nel corso del tempo l‟interconnessione tra le dimensioni nazionali e quella regionale. L‟aspirazione ultima del Forum è che nel corso del tempo le strategie statali vengano pensate sempre più in relazione a quelle progettate regionalmente e che quindi quest‟ultime siano progressivamente recepite nei programmi d‟azione dei singoli stati oceaniani (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.4).
203
Per fare alcuni esempi di servizi condivisibili: trasporti, agevolazioni commerciali, sistema d‟istruzione e sanitario, marketing turistico, tecnologie informatiche e della comunicazione.
110
La convinzione che guida il Pacific Plan e che rispecchia il pensiero dei leader politici, è che lavorando insieme sia possibile ottenere dei benefici superiori rispetto a quelli raggiungibili come entità separate; mettendo in atto politiche di cooperazione e integrazione possono essere trovate soluzioni che vanno a vantaggio di tutti gli abitanti dell‟Oceania (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.1). Un‟enfasi particolare è posta sulla necessità d‟ampliare i mercati e le possibilità di spostamento temporanee dei lavoratori, condizioni queste essenziali per favorire realmente un‟integrazione economica; inoltre, è sottolineata la necessità di collaborare strettamente con l‟Australia e la Nuova Zelanda nell‟intento di rendere possibile questa visione regionalista (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, p.9). Per la stessa ragione donatori e agenzie internazionali sono coinvolti con lo scopo di fornire assistenza tecnica e finanziaria, in particolare: l‟Asian Development Bank, l‟United Nations Development Program e la World Bank. Ci sono poi altri partners che possono dare un contributo alla realizzazione del Pacific Plan, sono: il Giappone, il Canada, la Cina, la Commissione Europea, la Francia, l‟India, l‟Indonesia, la Korea del Sud, la Malesia, le Filippine, la Thailandia, il Regno Unito e gli Stati Uniti d‟America (Pacific Islands Forum Secretariat, 2004, p.3). Quindi il piano appare come uno strumento dalle immense potenzialità, che può portare certamente dei benefici significativi alle popolazioni del Pacifico. La decisione d‟affrontare le varie questioni avvalendosi di una prospettiva regionale è un segnale forte da parte dei governi e manifesta una scelta politica condivisa di superare i confini della propria nazione e pensarsi in collegamento con gli altri popoli dell‟Oceania. La visione d‟apertura che struttura il Pacific Plan sembra davvero rievocare in parte sia le idee di Hau‟ofa, sia quelle dello stesso Tjibaou. Questo di certo è positivo poiché significa che le comunità del Pacifico, almeno per quanta riguarda gli intenti dichiarati, stanno seguendo la strada della condivisione e del dialogo. Tuttavia ci sono degli aspetti che lasciano perplessi e che non sono stati trattati nel piano con la dovuta attenzione. L‟identità, così come la cultura, che nelle “politiche della condivisone” di Hau‟ofa e Tjibaou assumevano un ruolo fondante, all‟interno del Pacific Plan rischiano invece di passare inosservate.
111
3.2.2 L’identità e la cultura nella visione regionalista del Pacific Plan I leader politici del Pacific Islands Forum ritengono che il regionalismo sia il mezzo attraverso il quale rendere concreti gli obbiettivi delineati per il futuro dell‟Oceania; tuttavia tale nozione, oltre a essere estremamente semplificata, viene considerata esclusivamente dal punto di vista economico e politico (Pacific Islands Forum Secretariat, 2007, pp.3-4). L‟identità e la cultura, che al contrario rivestono un significato fondamentale all‟interno di un concetto di questo tipo, sono completamente trascurate; nonostante compaiano tra gli obbiettivi strategici, non tenere conto degli aspetti identitari e culturali come elementi per rafforzare la struttura stessa del piano rappresenta una grave carenza. Elise Huffer, consigliere culturale dell‟Human Development Progamme del Segretariato delle Comunità del Pacifico, mette in evidenza che durante gli studi effettuati da un‟apposita commissione prima dell‟elaborazione del Pacific Plan, grande attenzione era stata data alla cultura e all‟identità culturale. Questo perché l‟intenzione era quella di focalizzarsi concretamente sulle persone e sul miglioramento delle loro condizioni di vita. Inoltre, c‟era la consapevolezza da parte di questi studiosi che la cultura fungeva realmente da collegamento tra tutti i popoli oceaniani, creando un legame con l‟oceano, la terra e gli antenati (Huffer, 2006, p.44). Sfortunatamente però, il piano successivamente stilato ha ben poco da dire rispetto alla cultura, la quale non entra in alcun modo a fare parte di quei meccanismi indispensabili ad articolare l‟integrazione a livello regionale (Huffer, 2006, p.44). Probabilmente questo, sottolinea la Huffer, è dipeso anche dall‟eccessiva fretta durante le fasi di realizzazione del piano; sarebbe servita sia una consultazione maggiore tra le popolazioni, sia dei dibattiti più ampi sul significato di regionalismo, in particolare rispetto alla questione dell‟identità culturale (Huffer, 2006, pp.45-46). La conseguenza è che il piano redatto non spiega che cos‟è un approccio regionale, ma si limita a delineare soltanto vari tipi di regionalismo e d‟obbiettivi, senza chiarire neppure cosa sia realmente il Pacifico in quanto regione (Huffer, 2006, p.47).
112
Il rischio è d‟imbattersi nuovamente negli stessi errori del passato. Già negli anni Settanta attraverso la retorica della Pacific Way, coniata dall‟allora primo ministro delle Fiji Ratu Sir Kamisese Mara, si erano compiuti sforzi per favorire un progetto regionalista. Il “modo di fare del Pacifico” serviva ad accomunare tutti gli stati dell‟Oceania e a distinguerli dalle nazioni sviluppatrici e dalle altre regioni del mondo. Ciò che veniva enfatizzato come punto di collegamento tra i popoli del Pacifico erano una serie di qualità e pregi, come: il rispetto reciproco, la moderazione, la capacità di dialogare, l‟inclusività, la flessibilità, l‟adattabilità e l‟abilità a negoziare e raggiungere sempre un compromesso. Per molti l‟ideologia della Pacific Way rappresentava una nuova consapevolezza regionale, un nuovo inizio, dato che si configurava come strumento per aprirsi alla modernizzazione e allo sviluppo, cooperando con gli agenti internazionali, ma ribadendo loro la necessità di essere rispettati in modo adeguato (Huffer, 2006, p.47). Tuttavia come mette in evidenza Hau‟ofa, il tentativo d‟unire Polinesiani, Melanesiani e Micronesiani in una sola identità regionale non si è realizzato attraverso la Pacific Way. Infatti, quest‟ultima non costituiva altro che un‟idea confinata alle elite regionali, utilizzata per spartirsi privilegi e benefici; nessun tentativo serio era stato compiuto per diffondere tale visione fra tutte le società del Pacifico (Hau‟ofa, 1985, p.168). Ciò nonostante, i valori proposti dalla Pacific Way possono ancora avere una valenza significativa, in quanto esortano sia al riconoscimento e al rispetto della differenza, sia all‟esigenza di raggiungere un consenso per costruire una regione unitaria. Proprio per tale ragione nel processo di costruzione del Pacific Plan questi aspetti sarebbero dovuti diventare gli elementi centrali del regionalismo oceaniano ed avrebbero contribuito ad articolare un‟identità culturale condivisa, dando coerenza all‟intero piano (Huffer, 2006, p.48). Come sostiene Ron Crocombe, professore dell‟University of South Pacific, in ogni contesto geografico i progetti regionalisti si basano sempre, sia su un interscambio di beni materiali, sia su una condivisione di fattori identitari; trascurare quest‟ultimo aspetto può costituire, in un contesto come quello dell‟Oceania, un limite alla strategia regionalista messa in atto dai leader politici del Forum. Infatti, in questo continente soltanto un regionalismo fondato su un‟identità condivisa, frutto del 113
comune retroterra storico, culturale e linguistico, può collegare tutte le popolazioni per farle collaborare alla costruzione di una nuova Oceania (Huffer, 2006, pp.48-49). Al contrario considerare la cultura e l‟identità soltanto come dei sotto obbiettivi dello Sviluppo Sostenibile, testimonia che durante la realizzazione del Pacific Plan è stato messo in atto un approccio limitato. Il problema allora, secondo la Huffer, è rimettere la cultura e l‟identità dentro il piano. Questo ovviamente non è semplice, in quanto la loro marginalizzazione risponde prima di tutto a scelte politiche, ma anche a una reale difficoltà da parte dei pianificatori di comprendere quali siano i benefici che esse potrebbero apportare; inoltre mancano anche dei validi strumenti concettuali in grado di fare interagire la dimensione culturale e identitaria con i meccanismi politici ed economici. Il risultato è stato che la cultura e l‟identità, per la mancanza d‟attenzione e strumenti politici, ma anche per le pressioni dell‟economie di mercato, sono rimaste eccessivamente in disparte nell‟ambito delle strategie regionaliste (Huffer, 2006, p.49). E‟ bene sottolineare che permane una consapevolezza diffusa tra gli stessi leader politici che, nonostante la grande varietà culturale nel Pacifico, ci siano dei valori comuni e delle pratiche simili diffuse in tutta la regione (Huffer, 2006, p.50). Nel passato lo stesso Hau‟ofa, pur essendo consapevole dei rischi legati alle generalizzazioni, ha cercato d‟evidenziare una serie di valori condivisi tra tutte le comunità dell‟Oceania, sono: la reciprocità; l‟importanza della famiglia e degli interessi collettivi su quelli individuali; la condivisione dei beni e dei servizi a livello comunitario; il legame con alcuni luoghi della terra e del mare, indispensabili a mantenere il collegamento con gli antenati e ad articolare i processi identitari; l‟attenzione per i membri della comunità, in particolare i più anziani e le persone con difficoltà; la capacità di essere autosufficienti grazie alle pratiche agricole e alla pesca; la propensione creativa in molteplici aspetti della loro vita (Hau‟ofa, 1985, pp.156-159). Queste caratteristiche che in parte avevano ispirato la Pacific Way, secondo la Huffer, dovrebbero diventare principi di riferimento del regionalismo oceaniano,
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nonché criteri di giudizio per ogni iniziativa attivata in ambito regionale204. Soltanto rimettendo la cultura e l‟identità nel piano si può favorire realmente un dialogo tra le società locali e gli enti regionali, scongiurando il pericolo che si arrivi a costruire una regione altamente burocratizzata e centralizzata (Huffer, 2006, p.50). Coinvolgere direttamente gli individui e le comunità delle isole del Pacifico, le quali ancora in molti contesti hanno un ruolo “istituzionale” più forte degli enti statali stessi205 (Huffer, 2006, p.51), è l‟unica strada percorribile per costruire un‟Oceania condivisa. Di certo questo cambiamento di rotta costituisce un primo passo necessario da attuare affinché il Pacific Plan possa concretamente apportare dei benefici ai popoli dell‟Oceania e non rischi invece di diventare soltanto uno strumento a disposizione di una classe elitaria. Per la Huffer la vera svolta sarebbe quella di far diventare la cultura e l‟identità regionale delle componenti essenziali nelle politiche economiche; inoltre, dovrebbero essere le pratiche economiche ad adattarsi a quelle culturali e non il contrario, come invece succede nel Pacific Plan. Questo perché è la cultura ad essere un tutto e non l‟economia che invece, pur essendo molto importante, costituisce solo un aspetto della vita degli individui e delle comunità. Quindi la cultura dovrebbe diventare il vero argomento cardine della visione regionalista proposta nel piano (Huffer, 2006, p.53). Il pericolo di questa situazione non è da sottovalutare, soprattutto in considerazione dell‟analisi effettuata precedentemente rispetto all‟Ok Tedi Mine. Se uno strumento come il Pacific Plan dà la priorità allo sviluppo economico (anche se definito sostenibile) e lascia invece in secondo piano i valori culturali, ciò significa che anche il paesaggio e le pratiche in esso radicate rischiano di essere marginalizzate; avvenimenti analoghi a quelli verificatisi tra gli Yonggom potrebbero ripetersi ancora ed essere giustificati tenendo conto esclusivamente dei benefici economici che lo sviluppo porta nella regione. Le carenze concettuali e tecniche del piano 204
Per la Huffer servirebbe davvero un ribaltamento concettuale; le strategie economiche dovrebbero essere valutate sia per gli effetti che hanno sui valori culturali, sia in considerazione dei benefici economici che apportano nelle varie comunità (Huffer, 2006, p.54). 205 Come riporta la Huffer, alcuni studi effettuati sul campo hanno messo in evidenza che varie comunità desiderano interagire maggiormente con le istituzioni regionali, piuttosto che con quelle statali, auspicando addirittura una loro presenza fisica nel territorio. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che molte risorse spesso vanno a vantaggio esclusivamente delle aree urbanizzate, penalizzando fortemente coloro che vivono nei contesti rurali (Huffer, 2006, p.52).
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rischiano purtroppo di compromettere quanto in esso c‟è di positivo, con il pericolo di provocare persino degli effetti contrari rispetto alle finalità perseguite. Il rafforzamento di un discorso regionalista appare comunque indispensabile per l‟Oceania; tuttavia l‟identità regionale, frutto della condivisione di una stessa storia, di uno stesso universo linguistico, nonché di pratiche culturali e del paesaggio simili, deve necessariamente configurarsi come la colonna portante del regionalismo oceaniano.
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CONCLUSIONE Il lavoro affrontato ha dimostrato che vi sono fra le comunità oceaniane dei punti di contatto rilevanti; una serie di pratiche condivise, nonché un retroterra comune sia culturale, che linguistico, rappresentano degli aspetti che contribuiscono a validare le visioni di Hau‟ofa e la possibilità che esista un‟identità regionale. Tuttavia come è stato evidenziato, quest‟identità non può essere considerata né un concetto reificante, né un paradigma esclusivo e ciò in considerazione delle molte differenze fra i popoli dell‟Oceania. Per questo, facendo dialogare le riflessioni di Hau‟ofa e Tjibaou, si è cercato di rileggere la nozione d‟identità, la quale potendo subire una continua riformulazione creativa e progettuale, è in grado di diventare realmente uno strumento adatto a rafforzare una visione regionale. Allo stesso modo anche la cultura non viene più considerata come la somma delle caratteristiche che una data comunità presenta, quanto piuttosto l‟insieme degli aspetti condivisibili e comunicabili fra tutti i gruppi umani. Ciò significa che un‟identità regionale, così come una cultura regionale, possono esistere soltanto se sono pensati come costrutti inclusivi, che intendono creare dei collegamenti tra le varie realtà dell‟Oceania. Ed è proprio in questi aspetti che risiede la forza della metafora oceanica, la quale cerca d‟incorporare tutti gli abitanti del Pacifico, anche coloro che con l‟oceano e le sue attività hanno ben poco a che fare. In quei luoghi dove le acque oceaniche non costituiscono fisicamente una connessione con il resto del continente, la metafora non perde di significato, bensì si amplia ulteriormente assumendo una funzione significativa. I gruppi che vivono negli entroterra come ad esempio gli Yonggom della Papua Nuova Guinea o gli Aborigeni dell‟Australia, i quali non hanno contatti fisici con l‟oceano, non sono esclusi dal prendere parte a questa identità regionale. Questo perché per essere influenzati dall‟oceano non occorre avere un‟interazione diretta con le sue acque; infatti l‟Oceano Pacifico, come ha spiegato Hau‟ofa, avendo un ruolo fondamentale nel regolare gli equilibri climatici regionali, determina anche quei fenomeni atmosferici come le piogge, le siccità, i cicloni, che condizionano profondamente la vita delle popolazioni che vivono persino distanti dal mare e sugli altopiani più isolati (Hau‟ofa, 2005, p.37). 117
Quest‟idea pur essendo corretta dal punto di vista delle dinamiche fisiche della Terra, può apparire come una forzatura; allo stesso tempo però si rivela un espediente ingegnoso per risolvere quelli che erano i limiti della metafora oceanica. Infatti in questo modo, grazie alla condivisione di uno stesso ambiente regionale, si stabilisce davvero un legame fra tutti i popoli oceaniani. Inoltre tale stratagemma è utile per superare quei “confini della differenza” che, costruiti sulle retoriche essenzialiste, non avevano fatto altro che aumentare le distanze tra le comunità del Pacifico (Paini, 2007, p.47). Il rafforzamento di una tradizione melanesiana piuttosto che di una polinesiana, se da un lato esprimevano nuove consapevolezze circa la somiglianza culturale fra vari popoli del Pacifico (Hau‟ofa, 1985, p.169), dall‟altro riproponevano ancora le stesse rigide categorie del passato. La metafora dell‟oceano invece, pur non essendo altro che una nuova retorica, intende delineare un‟altra strada per l‟Oceania, da intraprendere affinché si costruisca una regione unita da quegli elementi che possono essere condivisi, senza per questo annullare le differenze culturali. Tuttavia, come è emerso, il Pacific Plan sembra articolare una regione ben diversa rispetto a quella sognata da Hau‟ofa, un‟Oceania in cui le nozioni di cultura e identità regionale rivestono soltanto un ruolo marginale. Così facendo il rischio è che il piano, nonostante le sue grandi potenzialità, finisca per essere soltanto un altro strumento di potere, governato dalle classi politiche nazionali e internazionali. Proporre invece una nuova Oceania fondata su una metafora condivisa, come appunto ha fatto Hau‟ofa, riporta la questione regionale al livello delle persone comuni, sganciandosi da quelle logiche di sviluppo elitarie che considerano il regionalismo esclusivamente una strategia di tipo economico. L‟oceano è tangibile, così come i paesaggi all‟interno dei quali si vive; l‟esortazione di Hau‟ofa a prendersi cura dei propri ecosistemi è davvero un invito a ritrovare un legame con il proprio passato e la propria identità, per vivere il presente da popoli indipendenti e per proiettarsi nel futuro come una regione interconnessa. Attraverso questo lavoro sono stati molti gli spunti interessanti emersi rispetto l‟identità, la cultura e il territorio, tematiche che anche in Italia e in Europa sono sempre all‟ordine del giorno. Queste non possono e non devono essere trascurate,
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perché oltre a vivere in un mondo sempre più in collegamento, abitiamo in spazi sempre più affollati e con metodi sempre meno sostenibili. Il caso degli Yonggom ha mostrato che esistono altre possibilità di pensare il rapporto tra l‟uomo e l‟ambiente, il quale non deve necessariamente essere concepito come una forma di dominazione e sfruttamento irresponsabile. In un mondo che ormai ha raggiunto i 7 miliardi d‟abitanti e in cui la pressione antropica è una minaccia concreta per i già precari equilibri ambientali, tenere conto di questi aspetti ci può aiutare a riflettere anche sui modelli di sviluppo che le nostre società stanno seguendo.
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RINGRAZIAMENTI: Ringrazio la Prof.ssa Gnecchi Ruscone e il Prof.re Van Aken per avermi seguito con attenzione nella realizzazione di questo lavoro e per avermi saputo trasmettere l‟interesse e la passione per gli argomenti affrontati durante le loro lezioni. Ringrazio i miei colleghi della Laurea Triennale in Scienze Umane dell‟Ambiente, del Territorio e del Paesaggio dell‟Università Statale di Milano e della Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche dell‟Università Statale di Milano – Bicocca, nonché tutti gli amici che mi hanno accompagnato in questi anni, contribuendo ad arricchire le mie giornate di studio e le mie serate di svago. Un grazie in particolare a Nonna Giovanna, zio Orlando, zia Simonetta, Marco e Cristina, zia Gina, zia Carmela, zia Luce, zia Maria, zia Mimina, zio Vittorio, zio Fernando, zio Pinuccio, zio Pancrazio e le loro famiglie, Matteo e Maria Capizzi, Rosalia e la famiglia Ferrise, la famiglia Fiore per l‟affetto sempre dimostratomi. Infine, il ringraziamento più grande ai miei genitori, mamma Giovanna e papà Tranquillo, per aver sempre sostenuto la mia carriera universitaria dimostrando costante fiducia e illimitata pazienza; “IL grazie di cuore” è tutto per voi.
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