reflections about International Law

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Università degli Studi di Milano Bicocca Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche “Culture e Società delle Americhe” A.A. 2009/2010 Prof. R. Malighetti, Prof.ssa V. Fialho, Prof. A. Wagner de Almeida

“L’uso delle categorie nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni”

Paper di: Andrea Mariani 724457

La questione della tutela dei popoli indigeni è stata affrontata con attenzione sin dagli esordi dell’antropologia, in particolare da Lewis Henry Morgan, il quale impegnandosi in prima persona nella difesa degli Indiani Americani, sottolineò la necessità di tutelare l’eguaglianza dei loro diritti, al fine di assicurarli un’esistenza dignitosa e priva di discriminazioni (Eggan, 1965). Ad oltre un secolo e mezzo di distanza, l’adozione della “Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni” del 13 settembre 2007 (UN, 2008) da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si configura come il primo vero strumento internazionale per la tutela delle comunità indigene, diventando per quest’ultime un riferimento indispensabile al quale appellarsi per far valere i propri diritti. Un’analisi della Dichiarazione rappresenta un lavoro utile per comprendere non soltanto i diritti delle popolazioni che gli antropologi studiano, ma soprattutto per evidenziare come tale conquista sia il risultato della tensione tra le politiche degli Stati e le pratiche dei popoli indigeni. E’ necessario premettere che la Dichiarazione, pur non avendo un valore legale vero e proprio, prefigura lo sviluppo dinamico delle norme giuridiche internazionali e riflette l’impegno che gli Stati Membri hanno assunto per muoversi in determinate direzioni (Gilbert, 2007, p.229). Di conseguenza delinea l’iter legislativo che i sistemi giuridici delle singole nazioni dovranno seguire per adeguarsi ai principi dichiarati; soltanto in questo modo la Dichiarazione diventerà realmente uno strumento vincolante per i Governi, i quali non potranno più esercitare indiscriminatamente la propria forza verso le persone ed i gruppi indigeni (UN, 2008, 1


art.38, art.41). Inoltre, va sottolineato che la Dichiarazione non propone nuovi diritti, ma rafforza il riconoscimento di quelle leggi, presenti nelle convenzioni del Diritto Internazionale, che già per azione degli Stati avrebbero dovuto tutelare gli individui indigeni in quanto esseri umani. Proprio per tale ragione il testo della Dichiarazione è stato costruito attingendo ad elementi della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione Universale Dei Diritti dell’Uomo, degli Accordi sui Diritti Umani ed di altre convenzioni esistenti a tutela dell’umanità (Oldham, Frank, 2008). Si compone di un preambolo composto da 24 paragrafi e da 46 articoli, alcuni dei quali sono stati motivo di accesi dibattiti tra gli Stati e le delegazioni dei popoli indigeni (Oldham, Frank, 2008, p.6), in particolare: il diritto all’autoidentificazione (art.8, art.9, art.33), il diritto all’autodeterminazione (art.3, art.4), il libero, previo e informato consenso per le attività degli Stati concernenti il territorio e le risorse indigene (art.7, art.8, art. 32.2), la partecipazione a progetti che riguardano il loro sviluppo (art.18, art.19, art.23, art.32.1), il diritto al riconoscimento della proprietà ed alla restituzione della terra (art.26, art.27, art.28, art.32.3). Inoltre, ammette le ingiustizie storiche patite dai popoli indigeni a causa della “colonizzazione e della spoliazione delle loro terre, territori e risorse” (par.6) ed incoraggia gli Stati a fare rispettare i diritti individuali previsti dalle legislazioni internazionali e a riconoscere quei diritti collettivi che sono “indispensabili alla loro esistenza, al loro benessere e sviluppo in quanto popoli” (par.22). Tale corpus sancisce anche il diritto dei popoli indigeni di conservare e proteggere il patrimonio culturale, i costumi e le tradizioni attraverso le quali definiscono la loro identità (art.25, art.31, art.33, art.34). Come mette in evidenza Zagato (2006), il percorso compiuto per raggiungere questo obbiettivo non è stato affatto semplice. Benché esistessero già delle convenzioni a tutela delle persone indigene, come la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del Lavoro1 e la Convenzione di Rio del 19922, non c’erano ancora norme internazionali specifiche per la difesa dei popoli indigeni. Il Progetto di Dichiarazione venne redatto nell’estate del 1994 da parte del Gruppo di Lavoro sulle Popolazioni Indigene, appositamente fondato nel 1982 per la stesura del Progetto di Dichiarazione. Nel 1995 fu creato un gruppo di lavoro intergovernativo al fine di revisionare e concludere il testo finale, al quale contribuirono attivamente i delegati 1

Vieta forme di discriminazione in materia di lavoro, vita pubblica e sicurezza. Sottolinea che le conoscenze tecniche tradizionali dei popoli indigeni contribuiscono alla biodiversità e alla sostenibilità delle risorse. 2

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di diverse associazioni indigene, gli attivisti ed i rappresentanti di alcune organizzazioni non governative ed anche qualche antropologo (Oldham, Frank, 2008, p.5, p. 9). Nel 1995 le Nazioni Unite inaugurarono il primo “Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni del Mondo” (1995-2004), al fine di sensibilizzare alla tutela dei popoli indigeni. Nell’arco di questo decennio, in particolare durante la “Conferenza mondiale contro il razzismo e la discriminazione razziale” di Durban nel 2001, venne ribadita le necessità di mettere fine ad ogni discriminazione, sottolineando l’urgenza di adottare quel Progetto di Dichiarazione che tanto stentava ad essere preso in considerazione. Dopo un anno dall’inizio del “Secondo Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni del Mondo” (2005-2015), il 26 giugno 2006 il testo della Dichiarazione venne adottato dal Consiglio dei Diritti Umani e finalmente nel corso della sessantunesima sessione del 13 settembre 2007 anche da parte dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma questo soltanto in seguito ad una votazione richiesta espressamente da Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Canada (Oldham, Frank 2008, p.8), che ottenne 144 voti favorevoli, 4 voti contrari (Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda)3 ed 11 astensioni (Azerbaijan, Bangladesh, Bhutan, Burundi, Colombia, Georgia, Kenya, Nigeria, Federazione Russa, Samoa e Ucraina). Il lungo percorso richiesto certamente va ricondotto alle perplessità che molti Stati hanno espresso in merito all’ambiguità di alcuni articoli; cercare di comprendere le motivazioni che hanno guidato queste opposizioni offre la possibilità di mostrare le differenti politiche che gli Stati ed i popoli indigeni mettono in atto nel relazionarsi alle diverse categorie presenti nella Dichiarazione, quali: l’identità, lo sviluppo, il territorio ed il patrimonio culturale. Sin dall’inizio dei lavori, la prima preoccupazione fatta emergere dai Governi è stata quella della mancanza di una definizione condivisa di “indigeno” ed in particolare di “popolo indigeno”. Infatti, la novità di questo documento, rispetto ad altri strumenti legali internazionali, è costituita dall’applicazione di tali diritti ai popoli (Oldham, Frank, 2008, p.6); per quanto la tutela della sfera individuale non sia trascurata (art.1, art.2, art.22), è la dimensione collettiva in quanto “gruppi distinti” ad essere 3

La Dichiarazione è stata adottata in seguito da Nuova Zelanda, Australia, Samoa e Colombia, mentre Canada e Stati Uniti hanno dichiarato tra marzo e aprile 2010 di voler rivedere la loro posizione (UN Permanent Forum on Indigenous Issues, http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/en/ declaration.html).

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maggiormente accentuata e protetta in ogni suo aspetto (Zagato, 2006, p.46). La scelta della Nazioni Unite di non inserire una definizione è stata ragionevole; se nel passato prevalevano logiche di integrazione4, non c’è stato neppure un esplicito riferimento

alla

definizione

presente

nella

Convenzione

169

del

1989

dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, né a quella della Direttiva Operativa 4.20 del 1991 della Banca Mondiale5 (Zagato, 2006, p.37). Questa decisione si spiega per la volontà di accentuare il diritto all’autoidentificazione, che consente agli stessi popoli indigeni di definirsi e di determinare la propria identità come collettività distinta, in relazione ad una specificità culturale, ad un dato territorio e ad un passato storico di marginalizzazione6. Lasciare ad altri il potere di identificare, avrebbe negato non soltanto il diritto all’autodeterminazione, ma avrebbe creato un concetto rigido non applicabile in parecchie regioni del mondo (Gilbert, 2007, p.216). Questo inevitabilmente ha causato delle reazioni forti, in particolare da parte di alcuni Stati africani, i quali temevano che tale libertà potesse innescare rivendicazioni etniche, sia di singoli individui, sia di sottogruppi della popolazione, minacciando così la stabilità nazionale. Benché i loro timori fossero comprensibili, colpisce l’esplicita richiesta di arrogarsi il potere di identificare e quindi di quantificare l’ “indigenità” di un gruppo presente entro i propri confini (Oldham, Frank, 2008, p.7). Una pretesa di questo tipo mirava ad indebolire il diritto concesso ai popoli indigeni di autoidentificarsi e quindi di rivendicare le terre e le risorse di loro appartenenza. Pertanto, emerge in modo chiaro il tentativo delle autorità statali di istituzionalizzare la facoltà di riconoscere le diversità, con l’intento di inventare nuove categorie e classificazioni della realtà (Amselle, 1999, p.25), per riprodurre i meccanismi dell’epoca coloniale e così alimentare nuove forme di esclusione e subordinazione (Malighetti, 2009, p.79). Alla fine, nessuna definizione è stata inclusa all’interno della Dichiarazione, né alcun potere classificatorio è stato conferito ai Governi; questo anche per le delucidazioni fornite dai popoli indigeni, i quali hanno spiegato che il presupposto dell’autoidentificazione non spetta a singoli individui o a gruppi ristretti, bensì è una prerogativa esclusiva delle comunità indigene, intese come

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La Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ed i Patti internazionali del 1966 non contenevano una definizione di indigeno e questo perché nascondevano logiche di integrazione. Inoltre, la Convenzione 107 dell’OIL del 1957 aveva un intento assimilatorio. 5 Entrambe sostengono il procedimento dell’autoidentificazione. 6 Questi erano i principi di identificazione utilizzati dal Gruppo di Lavoro sulle Popolazioni Indigene (Zagato, 2006, p.39).

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collettività (Gilbert, 2007, p.217). Tuttavia, le apprensioni degli Stati africani non sono rimaste un caso isolato e questo perché le perplessità, suscitate dall’autoidentificazione, si intrecciavano fortemente con le relative preoccupazioni di Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda riguardo il diritto all’autodeterminazione. Quest’ultima nella Dichiarazione è proposta come strategia7 che i popoli indigeni hanno a disposizione per “autodeterminare le loro identità” (Gilbert, 2007, p.218), scegliendo il proprio statuto politico e perseguendo lo sviluppo economico, sociale e culturale che ritengono più opportuno (art.3). L’articolo ha sollevato molte polemiche, in quanto i Governi ritenevano che quanto enunciato fosse confuso e soggetto a possibili interpretazioni conflittuali, soprattutto in relazione alla questioni delle terre, delle risorse e degli eventuali risarcimenti statali (The American Society of International Law, 2007). Come per gli Stati africani, anche la paura degli Stati Uniti era quella che i popoli indigeni potessero rivendicare la creazione di nazioni indipendenti (Zagato, 2006, p.49), perciò cercarono sia di far cancellare l’articolo 3, sia di svuotare di ogni effettivo valore legale il senso della autodeterminazione. Inoltre l’articolo 4, che ribadisce il diritto all’autonomia e all’autogoverno nelle questioni interne, aumentava il timore dei delegati statali che si potessero davvero attuare delle frammentazioni nel tessuto sociale (Gilbert, 2007, p.219). Tale situazione ha avuto effetti concreti sulla Dichiarazione, portando all’inserimento di nuovi elementi nel testo, poco tempo prima che fosse adottato. Il primo è l’introduzione del paragrafo 23 che, mettendo in evidenza le particolarità nazionali e regionali ed il retroterra storico e culturale di un dato contesto, intende sminuire le possibilità legate all’autoidentificazione. Il secondo è l’articolo 46, il quale ribadisce la sovranità di ogni Stato, con il chiaro intento di evitare che l’autodeterminazione di un popolo indigeno possa minare l’integrità nazionale, causando eventuali separazioni (Oldham, Frank, 2008, p.7). In sostanza, i cambiamenti costituiscono dei dispositivi di tutela per legittimare il potere statale ed evitare che qualunque gruppo marginale possa mettere in dubbio l’ordine preesistente, intaccando i confini rigidi e ben definiti disegnati dagli Stati durante la loro storia coloniale (Malighetti, 2009, p.85). Quindi, queste trasformazioni si configurano come un bilanciamento tra l’integrità

dei

territori

statali

ed

i

diritti

all’autoidentificazione

e

all’autodeterminazione dei popoli indigeni, e riflettono il diverso modo in cui le 7

Riconosciuta legalmente anche da alcune convenzioni del Diritto Internazionale (Gilbert, 2007, p.220).

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organizzazioni governative e le delegazioni indigene percepiscono l’intera questione. Se da un lato gli Stati ipotizzavano scenari secessionisti, dall’altro i popoli indigeni consideravano l’autodeterminazione non come uno strumento per creare nazioni indipendenti, bensì come un diritto collettivo all’identità (Zagato, 2006, p.48) e alla possibilità di scegliere il proprio sviluppo e stile di vita (Gilbert, 2007, pp.219-220). Questa situazione ha origine dal differente rapporto che Stati e popoli indigeni hanno verso il territorio; la dichiarata “fragilità” delle potenze democratiche va probabilmente ricondotta alla presunta razionalità con cui le loro “teste pensanti” gestiscono lo spazio (Ranciere, 2005), secondo quel principio “naturale”, per cui ogni gruppo debba “far coincidere la sua identità con il suo territorio” (Amselle, 2001, p.215). Suddetta considerazione deve anche tenere conto della concezione capitalista ed individualista delle società occidentali nei confronti dell’ambiente, che le ha portate a depredare, nel passato come nel presente, le risorse naturali dei popoli indigeni, privandoli dei propri mezzi di sussistenza (Armiero, Barca, 2004, p.91). Al contrario, per le collettività indigene è ben diverso il rapporto con la natura e gli esseri viventi, in quanto trascende l’esclusiva dimensione utilitaria e possiede delle implicazioni spirituali estremamente profonde, sia a livello collettivo che intergenerazionale. Questo legame è fondamento della loro identità a tal punto che non è possibile pensare di districare gli aspetti culturali e valoriali da quelli naturali (UN, 2000, pp.6-7). Sebbene l’articolo 25 tuteli tale relazione spirituale, era l’articolo 7 del Progetto di Dichiarazione ad applicare una protezione davvero efficace. Infatti, l’espropriazione della terra era giudicata come un vero e proprio “etnocidio” e gli spostamenti forzati dai loro territori tradizionali equivalente ad un “genocidio culturale”, in quanto causa della distruzione dell’identità e della cultura comunitaria (Gilbert, 2007, p.224). Purtroppo l’articolo è stato modificato e riscritto secondo le categorie occidentali del genocidio e quindi risulta annullata tale connessione con la terra. Nel definitivo articolo 7.2 affermando che i popoli indigeni “non devono essere soggetti ad alcun atto di genocidio o qualsiasi atto di violenza” si innescano una serie di problematicità molto complesse, che vale la pena analizzare. Infatti, il concetto di genocidio inteso come “ogni azione commessa con l’intenzione di uccidere degli individui perché facenti parti di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” (UN, 1948, art.2) finisce per costruire i gruppi in quanto tali (Amselle, 2001, p.197), pensati come entità statiche ed autentiche. Il pericolo è che si

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diffondano rivendicazioni identitarie giocate sull’ancestralità e sulla purezza, le quali escludendo

a

priori

ogni

possibilità

di

meticciamento,

contribuirebbero

indirettamente a rafforzare politiche statali costruite sul razzismo o su un multiculturalismo basato sulla separazione piuttosto che sull’interattività (Amselle, 2001, p.208). Ed il successivo articolo 8, nonostante abbia il merito di sottolineare il rapporto tra i popoli indigeni ed il territorio, accentuando la tutela “della loro integrità come popoli distinti” e “delle loro identità etniche” rischia davvero di alimentare ulteriori classificazioni essenzializzanti. Il timore è che le culture indigene subiscano un processo di reificazione, entro il quale sia escluso a priori ogni contatto ed influenza precedente con altre realtà culturali. Una situazione di questo tipo non farebbe che legittimare le politiche multiculturali degli Stati, le quali diffondendo immaginari costituiti da monoculture ben distinte, finirebbero per rafforzare esclusivamente l’identità e la cultura nazionale, annullando così ogni sfumatura ed interconnessione culturale (Malighetti, 2007, pp.19-20). Nell’affrontare queste tematiche è impossibile tralasciare come la terra ed il suo sfruttamento siano all’origine di molte contese sorte tra gli Stati ed i popoli indigeni. Risorse idriche, minerarie, faunistiche e floreali spesso situate nei territori di quest’ultimi, entrano nelle mire di grandi imprese statali e private, le quali in ogni modo cercano di ottenere i diritti di sfruttamento, in cambio della promessa dello sviluppo. La Dichiarazione non trascura questo aspetto, considerata la contestualità e la contingenza che porta alcuni popoli indigeni a desiderare realmente lo sviluppo ed altri ad opporsi in modo netto. Per tale ragione l’articolo 32 sancisce il diritto ad un “libero, previo e informato consenso” per ogni progetto o questione che riguarda il loro sviluppo, al fine di informare le comunità non soltanto dei suoi possibili benefici, ma anche degli effetti negativi che spesso ne derivano, quali l’inquinamento, la dipendenza economica e lo sfaldamento del tessuto sociale. Questo perché il più delle volte la retorica dello sviluppo ha giustificato interventi di “civilizzazione”, che hanno contribuito ad arricchire esclusivamente i paesi sviluppatori, impoverendo ulteriormente i contesti locali (Malighetti, 2005, p.16). L’articolo, rafforzato dal diritto alla partecipazione politica (art.5, art.18) e alla consensualità su ogni progetto (art.19), costituisce un vero e proprio diritto di veto, accentuando allo stesso tempo i doveri degli Stati (Gilbert, 2007, p.222); inoltre,

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stabilisce dei meccanismi di indennizzo per tutti quei progetti che abbiano intaccato le risorse naturali indigene. Il problema del risarcimento si ricollega alla questione della restituzione degli spazi sottratti nel passato; nonostante venga ribadita la proprietà collettiva delle terre ed i doveri dei Governi verso i popoli (art.26, art.28), la restituzione di molte aree spesso non è possibile. Per questa ragione è prevista, soltanto a seguito di un processo di riconoscimento (art.27), la restituzione di un’equivalente superficie di territorio o di un’equa contropartita monetaria. Il problema è che i risarcimenti non possono realmente compensare la perdita dei luoghi comunitari, i quali sono percepiti come elementi fondanti della cultura e dell’identità collettiva (Gilbert, 2007, p.228). A tale proposito manca all’interno della Dichiarazione una clausola che, autorizzando i popoli indigeni a demarcare i propri territori, avrebbe realmente protetto questi luoghi da ogni eventuale azione di sviluppo futuro (Gilbert, 2007, p.226). Quindi, non è un caso che la demarcazione del territorio rimanga ancora una prerogativa esclusiva degli Stati. Ciò nonostante la modalità in cui è affrontata la tematica dello sviluppo, puntando su partecipazione e consenso, è stata considerata come espressione del progetto democratico che guida l’intero documento (Gilbert, 2007, p.221). E’ ragionevole allora domandarsi quanto siano realmente democratici gli Stati, considerato che è servita una Dichiarazione Universale per ribadire dei diritti fondamentali, spettanti per legge ad ogni essere umano. Senza voler dubitare dell’utilità di questa Dichiarazione per la tutela sia dei diritti collettivi che di quelli individuali, non si può trascurare il rischio che possa diventare uno strumento di “discriminazione positiva” (Amselle, 1999, p.39). Un confronto tra gli articoli 5 e 33, che ribadiscono il diritto alla partecipazione e ad “ottenere la cittadinanza degli Stati in cui gli indigeni vivono”, e gli articoli 6 e 9, che sanciscono il diritto “ad una nazionalità” e all’appartenenza “ad una comunità o nazione indigena”, evidenzia come la cittadinanza indigena sia negata. Il caso dei Kanak della Nuova Caledonia (Paini, 2007, pp.350-353)8, diventa un buon esempio per mostrare non solo la delicatezza e la complessità di questi argomenti, ma anche la spregiudicatezza con cui gli Stati agiscono, utilizzando gli strumenti e le politiche demografiche a seconda dei propri interessi. Per concludere, la Dichiarazione costituisce un punto di partenza fondamentale per gli sviluppi futuri del Diritto Internazionale, mettendo in evidenza la possibilità che 8

Dove nel 1998, a seguito dell’Accordo di Nouméa, è stata introdotta una novità istituzionale, che prevede la distinzione tra nazionalità francese e cittadinanza caledoniana.

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entro uno stesso strumento coesistano diritti collettivi ed individuali (Gilbert, 2007, p.226); allo stesso tempo crea un nuovo canale di dialogo tra le popolazioni indigene ed i Governi, sollecitando quest’ultimi ad una maggiore attenzione nei confronti delle 370 milioni di persone indigene sparse in tutto il mondo (Gilbert, 2007, p.230). Tale documento rappresenta anche una conquista importante per l’antropologia, la quale, non può trascurare la sua portata storica, proprio in considerazione delle preoccupazioni espresse dai precursori della disciplina rispetto al futuro delle popolazioni indigene. Quindi, risultano interessanti le proposte di Oldham e Frank (2007, p.9) di integrare la Dichiarazione nei percorsi di studio antropologici e di revisionare i Codici Etici della professione alla luce della sua adozione; l’antropologo, fin da subito, potrà configurarsi come una figura attiva nel monitorare l’effettiva applicazione di questi diritti presso i contesti dove effettua le sue ricerche.

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