PER MEGLIO COMPRENDERE… IL RAPPORTO MEDICO - PAZIENTE

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PER MEGLIO COMPRENDERE‌ IL RAPPORTO MEDICO - PAZIENTE Gabriella Marchitiello Medico e counselor professionista


PREMESSA Per meglio comprendere il rapporto medico-paziente e quindi la situazione nella sua completezza, ritengo più adeguato riferirmi ad un figura costituita da tre cerchi concentrici . Il più interno rappresenta il microcosmo (diade) medico-paziente; una zona intermedia costituita dal terreno affettivo del paziente sia in senso longitudinale (coniuge, figli, fratelli, etc.) che verticale (genitori, se presenti); e la più esterna - il macrocosmo - ovverosia il mondo esterno - (riviste, enciclopedie, internet, programmi televisivi) ad influenza più o meno importante per il soggetto stesso. È inutile dilungarsi sui giganteschi progressi della medicina:abbiamo assistito con ritmo sempre più accelerato ad un processo evolutivo delle capacità medicali la cui ragione si situa nella ricerca nel campo delle scienze naturali dalle scienze esatte alla biologia. Infatti,anche se i passi più rilevanti sono stati compiuti in campi estranei, la pratica medica è rimasta l’unico luogo nel quale ha trovato spazio il modo di pensare scientifico, la traduzione creativa delle nozioni chimiche, fisiche e biologiche in diagnostica e terapia; e tutti questi accadimenti hanno strutturato una ben precisa condizione di essere medico: la malattia è un processo naturale che colpisce il corpo;il medico si trova assieme al paziente di fronte a questo indesiderato processo naturale e di comune accordo lo aiuta basandosi sulla sua abilità scientificamente fondata. “Il problema è di non ridurre l’orizzonte della presenza a ciò che il metodo scientifico per le sue particolari esigenze,rende presente. La scienza medica defilando la figura umana sullo sfondo della natura,la vede non più come persona ma come cosa.” (U. Galimberti) Ritornando all’immagine iniziale vorrei sottolineare la presenza della struttura che rende ancora più evidente la necessarietà del ruolo di un medico che abbia di fronte ai propri occhi il tutto dell’uomo nella sua situazione reale. Per comprendere come possa realizzarsi quanto sopradetto bisogna ritornare al microcosmo,o meglio diade medico-paziente e contestualizzzarla, intendendo come contesto “quella trama,quella rete,quel complesso che da’ un preciso significato alle cose che comunichi e che influenza il comportamento e l’atteggiamento degli altri” (Bert). Tralascio il contesto fisico per venire immediatamente ai singoli protagonisti ognuno dei quali porta nel rapporto un suo “bagaglio”. Ad un livello elementare il medico è un terapeuta e quindi un individuo che conosce (o che dovrebbe conoscere) le cause delle malattie,gli organi ed apparati da esse colpiti,i segni ed i sintomi attraverso cui si manifestano, ed i mezzi per combatterle:in altre parole si presume che il medico conosca il corpo umano e le sue funzioni e sia di conseguenza in grado di ripristinare lo stato di salute qualora venga turbato. Il ruolo del medico è quindi quello di esperto e possiamo dire conoscitore della macchina organismo ed è di tipo strettamente scientifico;ma è evidente che nella pratica ben di rado il medico (specialmente quello di MG) potrà limitarsi al ruolo scientifico: ciò avverrà principalmente negli ospedali dove il rapporto,la relazione possono essere ridotti al minimo o perfino assenti. In questo ambiente completamente irreale (Bert) il medico gioca in casa ed il paziente in trasferta;la struttura sottolinea il distacco tra i due e rappresenta in prospettiva la scienza laddove l’efficienza lo consenta il rapporto finisce con l’essere non più con il medico ma con la struttura in cui il medico è uno degli ingranaggi e l’impressione è accentuata dal passaggio da un medico all’altro nel corso dell’iter diagnostico o semplicemente per questioni di avvicendamento. Al di fuori di queste situazioni il medico non può limitarsi esclusivamente al ruolo scientifico oggettivo e distaccato: per poco infatti che lasci parlare (come dovrebbe) il paziente, e l’anamnesi non resti così limitata ad un interrogatorio di tipo poliziesco sui sintomi e sui disturbi in atto, verrà infatti coinvolto nella vita quotidiana del paziente, nei suoi rapporti sociali, familiari, lavorativi, nelle sue ansie, frustrazioni, tensioni, paure… Sia o no il medico consapevole di questo ruolo è comunque indubbio che esso esiste e,specialmente in medicina generale, può essere talora più importante del ruolo scientifico. Il paziente insomma si aspetta che il medico non solo conosca e sappia curare il suo corpo,ma anche che sia disposto a capire ed 2


accettare il suo io,in sostanza lui stesso nella sua totalità. Per Berne “qualsiasi tipo di rapporto sociale è riconducibile all’analisi transazionale” e quindi anche il microsistema M-P può essere considerato un rapporto sociale (seppur privato) con un obiettivo ben determinato e due protagonisti uno dei quali il medico traccia una strategia appoggiandosi alle sue conoscenze ed esperienze che deve riuscire a condividere con il paziente in modo da ottenerne l’adesione. Le manifestazioni esterne del rapporto sociale sono denominate transazioni (Berne),ed infatti in questo spazio si danno tutti gli elementi pregnanti della teoria berniana: il riconoscimento,i rituali,il flusso mutevole degli stimoli sensori che permette di conservare stati dell’Io coerenti,giochi psicologici ricchi di intensità emotiva come per la maggior parte dei giochi umani (Huizinga). Nello specifico di quest’incontro in cui ogni attore porta se stesso in tutta la sua complessità è necessario stabilire legami significativi per creare il flusso informativo adeguato al raggiungimento degli obiettivi motivo dell’incontro Quasi sempre la diade M-P si apre allo scambio comunicativo con gli altri due comparti,scambio che può influenzare notevolmente il modo di porsi del medico e l’atteggiamento del paziente; questa comunicazione spesso multidirezionale ha canali che frequentemente si sovrappongono e/o sono contraddittori: molti momenti di difficoltà e di tensione spesso originano dall’imperfetto funzionamento dei flussi e dalla percorribilità e funzionalità dei canali comunicativi.

MA PERCHÈ NON FA QUELLO CHE HO DETTO? Ogni medico conosce bene questo genere di pazienti, persone cui ripetiamo sempre le stesse cose senza nessun risultato. Con il tempo il colloquio diventa quasi un rito, il paziente sa già quello che il medico gli dirà, il medico sa che è suo dovere reiterare ma sa anche che non avrà nessun effetto. Due monologhi non fanno un dialogo. Nasce qui quella che viene definita non compliance. Le ricerche epidemiologiche indicano una situazione preoccupante:sembra che il 10% dei ricoveri ospedalieri in USA siano legati alla non compliance, così come la maggior parte dei fallimenti terapeutici in caso di malattie croniche. La mancata adesione al trattamento medico è quindi notevolmente elevata e bisogna tener presente che non si tratta di pazienti aprioristicamente dotati di atteggiamenti negativi deliberati nei confronti della medicina: in fondo dal medico ci vanno spontaneamente e in qualche modo si aspetta un aiuto per stare meglio. Allora perché un atteggiamento così irrazionale e autodistruttivo? Una persona è motivata ad accettare un trattamento o un cambiamento anche notevole delle sue abitudini di vita quando ha la percezione che i vantaggi superino gli ostacoli: se si tratta del paziente, l’importanza (percepita) della malattia deve essere tale da giustificare i sacrifici richiesti; mentre il medico conosce ovviamente i benefici dell’intervento che suggerisce, ma ignora o non tiene in considerazione gli ostacoli percepiti dal paziente. Tali ostacoli possono essere i più vari e dipendono dalle convinzioni, dai timori, dalle speranze, dai pregiudizi, dalle attese del paziente stesso; da ciò che quest’ultimo sa o crede di sapere a proposito della malattia, delle sue conseguenze o/e trattamento; dal fatto di ritenere concretamente o no realizzabile l’intervento prescritto nella sua vita quotidiana, dalla lettura degli effetti collaterali del farmaco sul foglietto illustrativo, dalle possibili ripercussioni in famiglia e nei suoi sistemi di riferimento, dallo stigma sociale percepito, dal fatto che il paziente consideri o no il proprio comportamento, una seria minaccia per la salute. 3


Un esame dettagliato servirà meglio a comprendere l’ormai irrevocabile necessarietà’ di strumenti efficaci. 1) Convinzioni del paziente: sulla propria salute le persone hanno convinzioni e non di rado certezze. Esse si basano sulle storie familiari, sulle osservazioni, sulle esperienze proprie e altrui, su quanto hanno appreso dalle fonti più disparate: Alcune convinzioni possono essere generali: ” la salute è tutta una questione di alimentazione equilibrata e naturale”, oppure riguardo determinate malattie. "Non mangio carne, cammino mezzo ora il giorno e non fumo, mi sembra proprio impossibile avere problemi di cuore”. Pazienti di questo tipo percepiscono lo ammalarsi come un’ingiustizia o un errore dei medici, e spesso sono poco portati ad aderire ai programmi terapeutici, assumendo atteggiamenti di contrapposizione. 2) Euristiche (Beat): quando è necessario prendere decisioni e/o scegliere e non si ha il tempo necessario per fare un’analisi adeguata dei dati, le persone utilizzano in genere scorciatoie mentali che sono definite euristiche. Si tratta di strategie semplificate che non seguono un ordinato percorso algoritmico, ma si affidano prevalentemente all’intuito, sulla base delle circostanze in atto. In situazioni del genere sono utilizzate di solito le informazioni più facilmente comprensibili, quelle che giungono da fonti ritenute affidabili e quelle che sono percepite intuitivamente come le più giuste. Le euristiche in certi casi possono essere causa di errori anche seri e nella situazione clinica ciò occorre in particolare quando è impiegata la cosiddetta “euristica della disponibilità” che è utilizzata quando la probabilità di un evento sia valutata in base ai propri ricordi o all’esperienza personale. Il problema è che le immagini richiamate alla memoria non sono necessariamente quelle a potere informativo maggiore; è ricordato, infatti, più facilmente ciò che la persona ha visto (o pensa di aver visto accadere con maggiore frequenza),o quello che presenta aspetti emotivi più intensi, coinvolgenti, vividi. Così ad esempio, la presenza di parenti forti fumatori ma morti in età avanzata pesa nella decisione di smettere di fumare più di qualsiasi dato epidemiologico sul rischio. Analogamente aver assistito un congiunto colpito da infarto fa sopravvalutare e rende angoscioso ogni sintomo che possa ricordare quell’evento, per quanto negativi siano i dati di laboratorio. Anche le informazioni raccolte da fonti che il paziente ritiene particolarmente attendibili hanno un peso maggiore di altre nelle decisioni e nelle scelte; e tra le fonti ci sono sia persone (non necessariamente professionisti sanitari) cui è attribuito una specifica competenza, sia trasmissioni televisive o testi giornalistici ritenuti autorevoli. È doveroso aprire una parentesi: anche sul versante del professionista l’euristica della disponibilità può condurre a errori rilevanti ad es. quando alla presenza di una sintomatologia il medico fonda la sua ipotesi diagnostica sulla propria individuale esperienza di casi analoghi, e a essa si affeziona al punto da considerare validi solo i dati che la confermano, tralasciando o scartando altre possibili scelte. 3) Pregiudizi: il paziente può avere pregiudizi che nascono da informazioni o convinzioni diverse preesistenti oppure vengono costruiti sul momento in base ad elementi disparati a partire ad es. dall’aspetto dell’ambiente,da lunghe ed inesplicabili attese,dalla difficoltà di farsi prendere in considerazione o di ricevere informazioni chiare ed esaurienti;un’accoglienza impaziente e distaccata,medici ed infermieri frettolosi e distratti. I pregiudizi sono difficili da smontare, e il paziente che li nutre tende a essere oppositivo e a bassa compliance. 4) Attese: nei confronti delle medicine e dei medici il paziente ha delle attese circa realistiche: come minimo si aspetta di essere preso in carico come malato e come persona; si aspetta che gli sia 4


consentito di narrarsi, di inserire il proprio malessere in struttura reale della sua vita, i parlare delle possibili conseguenze della sua malattia, di quanto e come peserà sui parenti più prossimi in termini sia economici sia morali, se e come la malattia dovrà far parte della sua vita quotidiana: la disponibilità del medico (indisponibilità) ad accettare questo tipo di relazione, influenza l’adesione al trattamento. 5) Informazioni: i pazienti sono in overdose informativa, questo eccesso d’informazioni proviene da storie narrate e tramandate in famiglia o in altri sistemi di riferimento, da letture di riviste divulgative sul tema della salute, da internet, da precedenti incontri con il sistema sanitario. Molto spesso questa informazione in eccesso è costituita da messaggi non raramente contraddittori o espressi in linguaggio incomprensibile. Il medico che non tiene conto di questo sottofondo informativo caotico, non aiuta il paziente a orientarsi soprattutto se si limita ad aggiungere nuove informazioni ritenute più valide scientificamente. 6) Stigma sociale: ci sono situazioni e situazioni in cui la malattia è percepita come uno stigma sociale e questa percezione(si pensi all’HIV,alla cirrosi, al disagio psichico,a molte malattie croniche) è un serio ostacolo all’adesione del paziente. 7) Importanza percepita: è uno delle situazioni in cui le convinzioni del medico e del paziente si discostano maggiormente. Ad es. ci sono patologie come l’ipertensione che non danno sintomi soggettivi e non sono quindi percepite come realmente importanti, altro danno sintomi che possono apparire banali: tipico esempio la bronchite cronica descritta come una “naturale”tosse da fumatore; il rischio di un severo bronco pneumopatia cronica costruttiva, una malattia rifatta invalidante, è difficilmente tenuto in adeguata considerazione. 8) Paure e priorità. Le paure del paziente sono molteplici ed investono non soltanto se stesso,il suo mondo e la sua affettività anche e soprattutto la vita delle persone più prossime:infatti ogni cambiamento proposto è vissuto come una potenziale minaccia per sé stesso e per i propri cari,in definitiva per la ritualità dell’esistenza;gli accertamenti diagnostici,le terapie mediche e/o riabilitative ed un’eventuale disabilità vengono percepite come una minaccia volta ad interrompere la normalità dell’esistenza,tanto che si fa fatica a comprendere la scala delle priorità dei pazienti che è assai più ampia di quella scientifica del medico,e da essa spesso divergente. 9) Reattanza Psicologica: ogni individuo ha un certo numero di comportamenti liberi (libertà) che sa di poter controllare ed esercitare in ogni momento, anche in futuro’eliminazione o anche solo la minaccia di eliminazione di qualcuna di queste libertà suscita nella persona uno stato motivazionale,definito appunto “reattanza psicologica” che tende a ripristinare o a difendere la libertà minacciata. Questo modo di comportamento è stato messa in evidenza già nei primi anni di vita,a dimostrare che non è frutto di una deliberata scelta razionale,ma una risposta spontanea e non cognitivamente mediata. Di fatto agisce anche quando accettare il cambiamento rinunciando a una particolare libertà sarebbe per l’individuo utile e vantaggioso. Ricerche dimostrano che tanto maggiore è la difficoltà di ripristinare la libertà minacciata o eliminata, tanto maggiore è l’intensità’ della reazione suscitata: quando l’individuo si rende conto che il ripristino del comportamento è troppo difficile o addirittura impossibile subentra quella che è stata definita “helplessness” “difficoltà di difendersi, impotenza” e la persona tende ad assumere atteggiamenti di tipo depressivo. Quelle che Breheem e Colla Definiscono libertà (Freetown) sono comportamenti che occorrono e hanno senso solo in una specifica situazione: ne segue che la medesima azione può suscitare reattanza psicologica in una data situazione e non in un’altra, in un determinato individuo e non in un altro. 5


Ciò che la suscita è la percezione da parte del soggetto di perdere il controllo nei confronti delle cose che considera acquisite e garantite, e, infatti, può anche essere definita “perdita delle attese di controllo”. Come affermano Micron e Breve:”le libertà (a cui ci riferiamo) sono specifiche convinzioni a proposito di ciò che una persona può o non può fare:la gente sviluppa queste attese sulla base di situazioni specifiche e le libertà sono legate a quel che l’individuo si percepisce come in grado di fare o di tenere sotto controllo,poco si conosce su come tali convinzioni si sviluppino,esistono tuttavia prove che esse siano legate al contesto sociale.

IL COUNSELING: UNA POSSIBILITÀ DI CAMBIAMENTO Il lavoro del medico è quindi in parte di tipo tecnico, legato alle competenze e alle conoscenze scientifiche di cui dispone; un’altra parte, e di non minore importanza, è invece di tipo supportavo e nello stesso tempo pedagogico. L’aspetto supportava è legato all’aiuto che più essere dato nell’accettazione della disabilità e nell’inserimento di questa nella nuova “normalità” della vita; l’aspetto pedagogico è l’educazione terapeutica del paziente ovverosia la capacità da parte del professionista sanitario di renderlo più consapevole, più capace di scegliere a vantaggio della salute, più autonomo. Lo stesso termine “dottore” (etimologicamente correlato al verbo foco insegnare) rileva questa funzione pedagogica, in assenza della quale è difficile ottenere cooperazione e adesione ancorché si sia validamente preparato sul piano clinico. Ma perché il medico dovrebbe aggiungere al suo stile di lavoro il counseling? Egli ha già acquisito una sua capacità di relazione con il paziente che può essere connotata da paternalismo, amica lita’, freddezza autorevole (o autoritaria?); pur tuttavia questo può non essere sufficiente, perché spesso si rivela difficile aiutare la persona a prendere una decisione quale essa sia. Ma che cos’è o meglio cosa non è il counseling? Per sgombrare il campo da interpretazioni fuorvianti preferisco partire da ciò che il counseling non è. I. Non è un consigliare (nonostante l’assonanza del nome): infatti, una relazione di consiglio implica una relazione complementare,cioè non alla pari riconosciuta ed accettata da entrambi, un argomento condiviso ed un riconoscimento di competenza;,il consiglio viene dato all’interno di un campo in cui chi consiglia ha un’autorità’ riconosciuta da chi viene consigliato. II. Non è un’imposizione di valori:la relazione tra medico e paziente non deve mai avere come obiettivo la definizione di una supremazia:l’obiettivo del medico non è quello di proclamare con evidenza il proprio ruolo nella relazione:comunico meglio dei miei pazienti sono dotato di conoscenze tecniche ed in più loro si rivolgono a me per risolvere i loro problemi,posso convincerli come voglio. III. Non è una psicoterapia: è molto importante che il medico mantenga una delimitazione precisa dei suoi interventi. La confusione è sempre un ostacolo alla comunicazione. Ogni volta che si utilizzano strumenti che hanno a che fare con i comportamenti,con le motivazioni,con gli aspetti meno corporei dei nostri pazienti si corre il rischio di sconfinare:infatti il contratto riguarda la salute (e non è poco,anzi forse è di più):il medico conduce il counseling in modo attivo verso un obiettivo che è sempre e dichiaratamente collegato al problema di salute del suo paziente. Quindi il counseling può essere definito come “una tecnica raffinata per condurre il dialogo oltre la semplice raccolta di notizie ed il rituale suggerimento di prescrizioni:è un comportamento comunicativo finalizzato a intervenire nel processo decisionale del paziente,per promuovere un cambiamento utile o necessario alla salute del paziente stesso(Beat) oppure per accompagnarlo nei lunghi iter diagnostici e terapeutici,rendendosi spesso necessario in caso di malattie croniche aiutarlo ad accettare un cambiamento limitante,o cercare di supportarlo nella ripresa di una nuova vita. Ogni individuo, infatti, ha raggiunto nella sua vita uno stato di equilibrio che è, se non il migliore in assoluto, almeno il migliore possibile in quel momento e con gli strumenti di cui dispone. La persistenza di 6


un tale stato garantisce un discreto benessere o almeno un malessere tollerabile; la comparsa della malattia o anche di un semplice disturbo in precedenza ignoto, incolpa a questo stato di equilibrio; insinua timori, rende minaccioso il futuro, riduce quindi la speranza e disgrega certezze. È spessa una persona in stato di profonda insicurezza quella che si presenta al medico, e quel”non voglio, non accetto, rifiuto” appare come ostinata e incomprensibile irragionevolezza: non è l’intervento clinico quello che è rifiutato, ma è la malattia. E tuttavia dal medico è andato spontaneamente. Che cosa ci dice tutto questo? Che la posizione del paziente è ambigua, contraddittoria: da una parte vuole non sapere; rifiuta il sintomo perché ha paura, ma allo stesso tempo la porta sia pure esorcizzandolo con una propria costruzione logica; è lo sforzo di riportare l’ignoto al noto, di includere il sintomo che lo spaventa nelle categorie abituali, quotidiane. In questa situazione è frequente da parte del medico seppur in eccesso di zelo, entrare in collisione con il paziente e tentare di affermare la propria verità scientifica mettendo in discussione le certezze dell’altro e quindi rifatto distruggendo una relazione nel momento in cui inizia a dividersi. In una situazione del genere è necessario:  Costruire e mantenere con il paziente una relazione buona ed efficace (in genere definita “alleanza terapeutica”)  Informare correttamente della situazione e delle possibili soluzioni.  Dosare le informazioni in modo tale che esse siano comprensibili e per quanto possibile accettabile e concretamente realizzabile.  Definire insieme al paziente un obiettivo specifico:in una relazione valida tale obiettivo può essere entro certi limiti contrattato e negoziato.  Facilitare il processo decisionale e rendere possibile il cambiamento. Un medico che non vede il mondo del malato, non comprende il significato delle sue resistenze, suscita RP ed etichetta tutti questi fenomeni come irrazionali o stupidi non costruiranno mai una relazione terapeutica efficace, cioè una situazione che permette l’acquisizione di consapevolezza da parte del paziente e facilita quanto sopradetto senza suscitare sentimenti vivacemente oppositivi o escalation per la supremazia (rischio frequente per il medico dato la sua preparazione scientificamente fondata) ostacolanti o fuorvianti. Qualsiasi relazione prevede e impone la capacità di comunicare, dalla sua il medico comunicherà con un certo tipo di ambiente e di atteggiamenti,dall’altra il paziente comunica con il sintomo che interpreta in base alle sue convinzioni profonde,ai suoi vissuti emotivi ,generalmente verniciate di cognizioni scientifiche variamente racimolate. Per quanto riguarda l’ambiente- in linea generale cosi’ come nell’immaginario comune- è asettico e neutrale quasi a rilevare la “sacralità “ di certe funzioni. In realtà da qualche anno, soprattutto nelle cliniche si ricorre al colore (pareti, suppellettili) per rendere più accogliente l’ambiente di ricezione e soggiorno dei malati ma ancora molto deve essere fatto perché non siano cornici piene solo di buone intenzioni. Per quanto riguarda l’atteggiamento, anche dopo anni di conoscenza di una persona, è sempre comunque necessario il “riconoscimento “ nel senso bercia del termine. Sono necessari pochi accorgimenti: accogliere con una stretta di mano, dire di accomodarsi dopo il saluto (il paziente tende a rimanere in piedi), raccogliere i suoi dati prima che entri in modo da far vedere che ricordiamo il problema etc. Il linguaggio indica il modello di realtà di chi parla: la scelta delle parole, le allusioni a possibili rapporti di causa-effetto, l’ordine con cui si raccontano i fatti, sono tutte indicazioni di vedere le cose di chi ci sta parlando. 7


La prima informazione indispensabile è appunto “qual è il modello di realtà di questo paziente per quanto riguarda il sintomo e la salute?” Il fatto puro e semplice non parla da solo se non è collocato in una situazione precisa, interpretato e commentato cioè narrato. Ogni malattia può essere narrata in diversi modi: la costruzione di un’alleanza terapeutica tra medico e paziente richiede una narrazione condivisa che si costruisce momento per momento,giorno per giorno e non è mai definitiva. “Distinguere la storia della vita del paziente dall’anamnesi clinica e porre una rinnovata e accurata attenzione ai suoi diversi significati sono parte integrante dell’interazione terapeutica “ (Hunter, 1991). 1) Ascoltare prima di dire o fare, il primo obiettivo per il medico è saperne di più, è necessario chiedersi “che cosa può volermi dire con questo?” 2) Comunicare attenzione, partecipazione, comprensione, fiducia evitando interpretazioni, giudizi e retro pensieri che non solo ostacolano un ascolto produttivo e portano al formarsi di pregiudizi che possono incidere negativamente sulla capacità diagnostica ma anche a un comportamento che nega mentre asserisce; e sul piano pratico alla formulazione di domande “chiuse” cioè domande che presuppongono una risposta del tipo si/no. È necessario ovviamente che il medico mantenga un ruolo attivo evitando che l’apertura del mondo del paziente si trasformi nell’accettazione passiva di un flusso d’informazioni, riflessioni, richieste eccessivamente estranee alla situazione, o troppo dispendiose in termini di tempo. L’uso consapevole delle parole diventa quindi uno strumento fondamentale. Per il counseling: nomi, avverbi, dividono delle frasi pronunciate hanno una. Notevole importanza sia per la conoscenza della realtà del paziente che del suo modo di vedersi rispetto all’evento occorso. Cancellazioni, generalizzazioni, deformazioni, nominalizzazioni sono eventi linguistici piuttosto frequenti la cui evidenziazione nel colloquio fornisce la possibilità di creare un ponte comunicativo per il cambiamento: formulazione di domande aperte, richiesta di specificazioni, trasformazione dei nomi in forme verbali per proporre una descrizione della realtà in movimento e ampliare pertanto la capacità di pensare in termini di cambiamento (Bandire & Grande 1975); tutto questo deve entrare affar parte del lessico medico. I medici e gli operatori sanitari tendono, infatti, a usare interventi comunicativi spontanei che sono esattamente l’opposto di quelli motivazionali e che sono definiti “modi barriera”.  Ingiungere, predicare (bisogna che... dovete... dovreste)  Minacciare, ammonire, profetizzare eventi negativi (altrimenti succederà C.E.)  Fare appello alla ragionevolezza (Dovreste capire C.E., sappia C.E.)  Sostituirsi (provate a fare, perché non fate)  Esprimere esplicitamente o implicitamente giudizi (non è bene,questo comportamento è inaccettabile)  Interpretare (voi siete, fate così, perché.)  Investigare (siete proprio sicuri che)  Argomentare (tutti i pazienti dicono cosi’ all’inizio P.I.)  Minimizzare (insomma ma che ci vuole aah.) Nessuna di queste modi comunicative è idonea a suscitare motivazioni al cambiamento,il clima della relazione tende a diventare conflittuale e l’efficacia dell’intervento medico si riduce di molto. Ritornando alla dia.1 vediamo che esistono più tessuti socio-relazionali intorno alla diade M-P: l’ambiente familiare ed il mondo mediatico.

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L’ambiente familiare porta spesso a consultazioni a due se non a tre, molto spesso tendono a sostituirsi (o è data la possibilità) al paziente stesso, a parlare per lui e a interpretare i suoi atteggiamenti, oppure addirittura a venire per lui e questo è molto pericoloso per l’alleanza terapeutica: infatti, con questi, pur nell’ambito di un ascolto di valutazione, solo in casi di effettiva necessità bisogna strutturare un’alleanza ed in questo caso deve essere “non sbilanciata”:il medico infatti bisogna che tenga sempre presente che la sua alleanza deve esserci con il paziente e per la sua salute e solo la perfetta consapevolezza di questo può impedire che rimanga coinvolto in giochi familiari magari inconsapevoli con il rischio di perdere la serenità e obiettività di un giudizio diagnostico,o peggio ancora di “perdere” il paziente che si sente non riconosciuto e svalutato. Tra tutti i compiti del MMG quello “educativo”, ovverosia insegnare alle persone a cambiare che è in fondo l’unico modo concreto di realizzare un’educazione sanitaria con i propri pazienti, trova nel counseling uno strumento privilegiato di utilizzo. “L’educazione terapeutica del paziente è un insieme definito di competenze professionali grazie alle quali ogni curante può efficacemente trasferire ai suoi malati le conoscenze e le abilità necessarie ad autogestire la malattia, con lo scopo di limitarne l’evoluzione, prevenirne le complicanze e utilizzare i farmaci in maniera efficace e sicura”. Il paziente sarebbe forse disposto ad accettare dei cambiamenti provvisori, se l’effetto certo fosse il totale ritorno alla situazione precedente, la comparsa della malattia cosa impossibile per due motivi: una malattia (eccetto quelle acute) è comunque una presenza la cui traccia impedisce che ci sia un ripristino dell’equilibrio precedente, magari si tratta solo di cambiamenti impercettibili; si può al più cercare di instaurare un equilibrio di tipo nuovo. Accettabile senza dubbio ma che non sarà mai dal punto di vista della nostra passata ritualità e/o strutturazione del tempo come il precedente (il corpo ha una sua “memoria”); la situazione è più complessa nel caso di malattie croniche disabilitanti o di gravissime malattie che costringono a lunghe terapie,per la persistenza di quello che chiamo “il fantasma “ di malattia. Quando poi i cambiamenti sono richiesti a una persona che si percepisce in buona salute, ed è questo il caso di patologie come l’ipertensione e l’obesità’ e di tutte le misure di tipo preventivo, la resistenza al cambiamento è ancora maggiore, in questi casi un’eccessiva pressione sul paziente può produrre l’effetto boomerang, l’accentuazione cioè del comportamento che si vuol correggere o eliminare. Tale fenomeno sta diventando sempre più evidente a causa dell’eccessivo aumento di messaggi sulla prevenzione, in base ai quali un numero sempre crescente d’individui sani è in realtà “malati che non sanno di esserlo”. Si fa sempre più screening di discutibile validità e le soglie di normalità si abbassano costantemente cosi’ come avviene per ipertensione, diabete, colesterolo etc. La prescrizione di radicali cambiamenti di stile di vita a popolazioni sempre maggiori configura chiare minacce alla libertà di comportamento ,ogni medico può infatti constatare quanto ciò cominci a suscitare reattanza psicologica osservando il comportamento dei pazienti. Il medico deve quindi essere in ogni momento consapevole della disponibilità al cambiamento del paziente. In base alla mia esperienza personale mi sento di affermare che i pazienti a cui viene prospettato un diverso stile di vita vanno incontro ad una diminuzione di autostima perché si vedono “non più riconosciuti nelle loro abitudini ,inoltre queste devono essere abbandonate cosa che configura un vero e proprio abbandono e nello stesso tempo devono “digerire”ed “assimilare” i nuovi indicatori proposti. Quindi oltre ad individuare il momento di disponibilità del paziente a cambiare,bisogna successivamente concedere il tempo per assimilare il cambiamento ed iscriverlo nei propri rituali di vita. Tutto questo è ben sintetizzato da Processa & Colla che, lavorando con pazienti fumatori hanno individuato un modello di cambiamento definito “cambiamento per stadi”. È, infatti, opportuno che il medico si trovi in sintonia con il paziente riguardo alla disponibilità di quest’ultimo a cambiare; se il paziente si trova nella fase di “contemplazione “ in cui si è pensato di cambiare, ma non si è ancora al punto da pianificare il cambiamento (che per certi pazienti non arriva mai per l’esistenza della scorciatoia 9


del farmaco) ed il medico si colloca invece a livello dell’azione,cioè del cambiamento in atto,la distanza comunicativa sarà eccessiva e di conseguenza la comunicazione sarà potenzialmente inefficace. Il modello degli stadi non è lineare ma ciclico e prevede ricadute:esse non sono da considerarsi sconfitte definitive in quanto insuccesso non è sinonimo di fallimento; i cambiamenti come ogni forma di apprendimento,avvengono attraverso prove ed errori ed aggiungerei pause di assimilazione:si può sempre iniziare il processo di nuovo e riprenderlo dal punto in cui eravamo rimasti: questo è un elemento importante se teniamo presente che tra medico e malato la distanza è in partenza molto ampia.

CONCLUSIONI Nel counseling il ruolo attivo del medico risulta accentuato:La raccolta delle informazioni,la scelta delle domande da porre,il controllo delle proprie comunicazioni e di quelle del paziente richiedono molta attenzione,molta pratica ed anche molta fatica non certo inutile. Il counseling si rivela uno strumento importante per creare un clima di non ostilità o non stato di conflitto, o comunque rende meno difficile uscirne con netto vantaggio per la salute del paziente e per il medico stesso: infatti, non meno importante è che il rispondere in maniera consapevole, portando a termine le proprie comunicazioni evita il disagio spesso intenso, di sentirsi confusi, manipolati, forse “giocati” anche se non volontariamente dal paziente e dai suoi malesseri. PA ha ora trentasette AA: mio assistito da circa quindici AA. Non è mai venuto in ambulatorio se non annualmente per il certificato a uso sportivo ed è andata solo una volta al suo domicilio per una malattia intercorrente (a quella data stava in un piccolo appartamento di proprietà della famiglia, dove conviveva con la fidanzata). Con cadenza regolare veniva la madre che mi ha con il tempo raccontato la sua storia e quella del figlio da lei considerato un ingombro, e causa di preoccupazioni notevoli: non si era laureato e faceva l’operaio; tornato dal lavoro stava sempre in casa e non aveva amici. Anzi mi ha più volte pregato, quando fosse venuto in ambulatorio, di stimolarlo a uscire e a trovarsi degli amici. L’estate scorsa PA è venuta in ambulatorio portandomi il referto di dosaggi ormonali e di una visita andrologica cui si era sottoposto per problemi di disfunzione erettile. Mi sono trovata davanti ad un ragazzone massiccio che ha molta difficoltà a parlare. Sembra che le parole gli si strozzino in gola e allora deglutisce notevolmente si passa una mano tra i capelli e poi inizia a parlare con voce bassa e gutturale, monocorde interrompendosi spesso quasi a scegliere le parole. Il disagio e la difficoltà a parlare hanno un notevole spessore e creano un’atmosfera pesante in cui si sospende l’attesa del dopo, per cui fin dal primo incontro deciso, per evitare che si chiudesse ulteriormente, di porre le poche e indispensabili domande necessarie a creare una pista che avevo deciso dispormi a seguire. Ho deciso di iniziare com’è ovvio dal motivo della consultazione e dl controllo degli esami, abbiamo parlato del suo sintomo, lo abbiamo collocato nel tempo e la difesa che ne faceva scotomizzandolo in mille modi, mi ha fatto comprendere come per lui fosse importante non averlo, perché pur in assenza di rapporti, era vitale per lui percepire una qualche forma di “potenza”. Perché questo modo di leggere il sintomo da parte sua avrebbe potuto costituire la prima “empasse” con successivo blocco, ho preferito accantonare l’argomento e prendere un’altra strada. Mi sono pertanto messa dal punto di vista di farlo parlare inizialmente anche solo di fatti: è venuto fuori il quadro di una persona che non ha niente da raccontare se non una vita”normale” e “uguale”; amici pochi, abbastanza solo, senza desiderio di uscire. Senza avvincenti curiosità, palestra e basta. 10


Da quel momento è tornato più spesso in ambulatorio con o senza la scusa di chiedere ricette per la madre e si è sempre soffermato di più come se cercasse il pretesto per parlare: in realtà questo non è mai accaduto perché anche se la richiesta era sospesa in aria, ho sempre aspettato un’esplicitazione da parte sua. E, in effetti, la richiesta è arrivata anche questa volta con la richiesta di dosaggi ormonali di controllo. Poi è tornato senza scuse, dando l’impressione di essere sempre più a suo agio, sorride ed io continuo a porgli domande che gli consentano di esprimersi anche sui suoi sentimenti. Mi sono resa conto che si giudica molto,tende a sdoganare un’immagine con caratteristiche ben precise (materne):Ad es.,una volta gli chiesi se durante le vacanze con gli amici fosse andato in discoteca e lui mi rispose con aria meravigliata e quasi offesa:”ma si figuri dottoressa,a me queste cose non interessano assolutamente...”. Sembra che il suo stato adulto sia molto contaminato dal genitore normativo –negativo pertanto ho deciso di essere all’altezza di questa “normativi’ “ ponendomi però in maniera affettiva, infatti, durante un ultimo incontro ho deciso di portarlo delicatamente sul discorso di ciò che intuivo riguardo al suo disagio chiedendo che cosa ne pensasse. Mi ha risposto affermativamente e allora ho nuovamente chiesto: “Ho però l’impressione che ci sia qualcosa che le impedisca di prenderne atto,cioè di sentirla come cosa vera, quel rimpiattarsi dietro il disturbo fisico ed insistervi, ha paura di qualcosa e se si che cosa la spaventa tanto?” “ Non credo sia paura ma impedimento si”. Il lavoro è stato molto diluito nel tempo, le mie mosse future lasceranno che siano. Guidate da lui, pur mantenendo un ruolo attivo; per adesso ho l’impressione di aver iniziato un percorso di consapevolezza (seppur agli inizi) che poi spero, lo porterà ad accettare un invio ad una psicoterapia specifica. N.B.: l’uso del “lei” ha dovuto non tanto al ruolo, quanto al fatto che ho ritenuto opportuno “dosare” la nostra reciproca distanza per non spaventarlo troppo. _______________________________________________ NOTE * Il dover “reiterare” tipicamente “un gioco” cui non ci si può sottrarre, ma che può essere modificato grazie al counseling. ** I termini compliance o non compliance sono ancora quelli più correntemente usati nel linguaggio medico: Da qualche tempo è proposto tuttavia di sostituire il termine compliance con quello di Aderente (adesione) perché più adeguato a definire una relazione terapeutica non autoritaria. Compliance si traduce, infatti, con “acquiescenza”, ”arrendevolezza”, ”sottomissione” e descrive un paziente che più che collaborare, obbedisce, si adatta senza discutere alle decisioni del medico. Il termine aderente definisce la relazione medico-paziente in termini più cooperativi (molti autori parlano, infatti, di partnership), e rileva il ruolo del paziente come attore decisionale nella relazione stessa. *** Negli ultimi anni l’informazione a mezzo stampa e/o trasmissioni televisive hanno focalizzato la loro attenzione sui cosiddetti “stili di vita” e sulla prevenzione come elementi portanti della medicina basata sull’evidenza (evidente base medicine):nonostante ciò le malattie cardiovascolari e degenerative sono in progressivo aumento soprattutto tra i giovani adolescenti e i bambini perché? Overdose informativa con conseguente R.P.? Lo psichico ha tempi sempre più lunghi (S. Vegetti Finzi.) **** Non è infrequente il caso di persone che piuttosto che riferire i sintomi e/o le sensazioni avvertite, parlano in termini diagnostici: ho la “cistite” o “la bronchite” questo fenomeno legato alla volgarizzazione della medicina ha in sé dei rischi perché porta a un’auto medicalizzazione sfrenata in cui gli antibiotici 11


fanno da padroni con possibile insorgenza di cronicità e resistenze, e poi elide completamente l’auto narrazione cosi’ importante per comprendere. Un “abbozzo” di counseling ambulatoriale Vorrei specificare che ho usato il termine che peraltro può apparire svalutante di “abbozzo” perché il counseling si è svolto nel tempo di un ambulatorio mutualistico, nel senso cioè che non era un tempo “dedicato” visto la natura “storica” del mio rapporto con i pazienti.

BIBLIOGRAFIA 

Il medico nell’età della tecnica. Ed. Cortina (saggio introduttivo di A.)

Beat, Quadrino. Il medico e il counseling. Il Pensiero scientifico

S. Quadrino. Il bello del gruppo. Ed. Change

E.Berne. Analisi Transazionale e psicoterapia. Ed. Astrolabio

G.Bert. Storie e parole nella relazione di cura. Il Pensiero Scientifico

G. Bert. Modi inusuali per dire di sè. Ed. Change

M.Novellino. Psicoanalisi transazionale. Ed.FrancoAngeli

R.Bandler, J.Grinder. La struttura della magia. Ed. Astrolabio

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