IL SENSO DELL’ALTRO TRA CINEMA E PSICOTERAPIA
Francesca Vignozzi Psicologa, CTA in training francescavignozzi@virgilio.it
Il senso dell’Altro tra cinema e psicoterapia Come in un tentatvo di collaborazione, la psichiatria e il cinema hanno tentato di penetrare il contenuto apparentemente casuale della vita di ogni giorno e di rilevare i segret del caratere umano. G. e K. Gabbard, Cinema e Psichiatria
Quella di ieri è stata una giornata di celebrazione del Cinema documentario, nonché dell’incontro di questo orizzonte cinematografco col mondo della psicoterapia. Ce lo ricordano anche i fratelli Gabbard nel loro testo dedicato al tema: cinema e psicoterapia rappresentano due giovani mondi che sono cresciut insieme, si sono incrociat fn dalle prime origini più e più volte, ripetutamente l’uno si è occupato dell’altro e ha fato dell’altro argomento di studio, rifessione e approfondimento. E questo è ciò che è accaduto anche ieri, grazie alla presenza del documentarista Marco Bertozzi. In parte la consonanza tra le due realtà è stata esplicitata, in parte è rimasta latente, inespressa, ma pur sempre inequivocabile fl rouge dell’intera giornata. Atraverso la visione di diferent documentari si è potuto verifcare come la rappresentazione dell’Altro nel mondo cinematografco si è evoluta nel tempo fno a quando è mutato il conceto stesso di alterità. Il cinema agli esordi, ci spiega Bertozzi, è dominato dal Paradigma dell’Osservazione. Negli anni ’10 il regista ritene di essere fuori dalla scena flmica, il mondo che riprende atraverso la macchina da presa è “supposto essere” il mondo reale. Dunque esiste una realtà esterna che prescinde da me e che io “credo di potere resttuire oggetvamente” e, con la mia presenza, rischierei di contaminare ed alterare. A questo proposito viene naturale ricordare che la stessa aria positvista di cui è intrisa la cultura del tempo permea anche il mondo psicoanalitco. Nella mente si afaccia l’immagine dell’analista schermo bianco, devoto alle regole della neutralità e dell’astnenza, che osserva da fuori il dipanarsi del processo terapeutco. Il regista, come lo psicoanalista della prima metà del ‘900, deve essere neutro afnché il suo Esserci non infuenzi una storia che si spiega davant a lui e che, in ogni caso, è Altro da lui. Passando atraverso il paradigma della Partecipazione, in base al quale ci si sforza di indossare i panni dell’altro, negli ultmi dieci anni si aferma nel mondo del cinema documentario il paradigma della Relazione. Esso mete in discussione il conceto stesso di alterità. L’Altro da me, difat, inizia ad esistere solo nel momento in cui entra in relazione con me. In questo senso la sua rappresentazione è inscindibile da me che la faccio. E quindi quando parlo di te, in realtà parlo di me. Emblematco a questo proposito è la storia dell’abbraccio mancato al termine delle riprese tra il regista brasiliano Salles e Santago, suo maggiordomo e protagonista del documentario omonimo. Tredici anni dopo la realizzazione del documentario il regista riprende e analizza tali immagini con sguardo nuovo e rimane colpito dall’infnita distanza che esse rimandano tra colui che osserva e colui che viene ripreso. Quell’abbraccio fnale impressiona ora la sua mente come allora non impressionò la pellicola. L’ abbraccio mancato di Salles ricorda la comunicazione rivelatrice che il paziente fa al proprio
terapeuta al termine di un colloquio noioso, o le informazioni dense di signifcato che un cliente distrato fornisce al professionista mentre questo sta compilando la fatura. Come a dire che fnchè c’è inter-azione, e dunque relazione, c’è set. Come fa a funzionare tra documentarista e protagonista? Qualcuno chiede. Il documentario prevede un lavoro assai complesso in cui la dimensione tempo è fondamentale. Nonostante ciò, non è deto che funzioni. Alcune volte è necessario qualcosa di più, un cadeaux, un evento inateso, un’occasione inaspetata, come l’opportunità di una condivisione emozionale profonda rispeto a qualcosa che afascina e colpisce dal punto di vista estetco. Quando queste possibilità si realizzano, si intravedono gli abbozzi di una relazione in divenire e allora si assapora il gusto sacro di un' epifania. Proprio come in psicoterapia, là dove la verità narratva che si co-costruisce all’interno della relazione terapeutca, dà vita ad un racconto della storia del paziente che, con il procedere del percorso di cura, diviene anche bello. Per fare un buon documentario, così come per fare una buona terapia, aggiungo io, è necessaria tra i protagonist un’alleanza di lavoro in nome della quale si impara a stare davant al vuoto della parola senza spaventarsi e dunque fuggire. Bertozzi infne ci propone la visione del suo Il Senso degli altri, realizzato nel 2007, vincitore del Sole e Luna Doc Festval di Palermo nel 2008. Si trata di un documentario sugli arbëreschë, albanesi stanziatesi in Italia secoli fa per sfuggire all’avanzata dei turchi. Per il regista la realizzazione di questo lavoro rappresenta l’occasione di un viaggio che scopriamo essere anche, e sopratuto, intmo ed interiore. Essere lontani dalla propria casa consente la sopravvivenza di un forte senso di identtà sociale, oltre che di una memoria colletva nei confront di un passato del quale in patria non rimane alcuna traccia. Per questo gli arbëreschë non vogliono tornare in Albania anche se ora possono farlo: la memoria adesso è qui. Di più. E’ la memoria, adesso, la patria. E’ un viaggio introspetvo, intmo e privato, quello che consente l’incontro con l’allora di questa cultura, ofre soluzione alla ricerca degli albori di una storia, per ricomporre un puzzle, assemblarne i pezzi, resttuire loro un nuovo signifcato, un senso appunto. Nel documentario la rappresentazione dell’Altro si intreccia inevitabilmente con la rappresentazione del sé-regista; così come la scritura della storia di una cultura con la scritura personale della sua propria storia, in un costante gioco dialetco tra ricostruzione di un forte senso di Sè sociale e costruzione di un nuovo senso di Sé privato. Il regista, infat, inizia il percorso che lo porterà alla realizzazione del documentario pochi giorni dopo aver dovuto lasciare per sempre la casa dei genitori, luogo dell’infanzia, luogo sicuro di ogni ritorno. Le immagini iniziali ritraggono stralci di un trasloco forzato, una migrazione dalla “terra del padre” verso un'altra casa, che ci appare, nell’immagine fnale, luogo caldo e sicuro. Sono trascorsi nove mesi, il tempo di gestazione del documentario. Come spiegare meglio che non c’è rappresentazione possibile dell’Altro se non parto da me?