Ambasciata Teatrale - Novembre 2013

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circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze

NOVEMBRE 2013 ANNO V • NUMERO

Spacciatori

Poesia

Spacciatori 1

Editoriale

by James O’Mara

Spaccia spaccia, ma roba buona

Contro la notte dei morti viventi

di Maria Cassi

di Igor Trumeau

Consiglio di cantarla ognuno con la propria personale melodia...

A

lla faccia del Ministero della salute pubblica o di chi vi pare a voi. Alla faccia delle milizie armate di penne a sfera, o dell’ultima moda in cucina come in salotto. Alla faccia di corrotti e corruttori che si spartiscono, come zombi, questo plastificato mondo, io scappo dai loro luminescenti scaffali, dalle loro multisale del cibo premasticato e dai loro inutili convegni. Io, nascosto sotto un fico e immerso nel suo profumo, sniffo finocchiona, e grazie a un sac à poche, e alle volte con una siringa da pasticceria, capaci di contenere strutto di montagna, la stupefacenza è per me garantita. Più raramente, e solo per prender sonno, fumo con orientali pipette affumicati di ogni genere, anche se potendo scegliere è la provola la mia preferita. Trito cipolle per poi caramellarle e vetrificarle, con un formula segreta, in pillole che considero la mia personale dose di estasi che condivido solo con chi amo. D’inverno, camminando per sentieri di alte montagne, mastico pepe nero e trasporto massicce dosi di peperoncino macinato oltre ogni frontiera, scambiandolo con stagionati e freschi formaggi d’alpeggio con cui rientro notte tempo in dispense amiche, sempre disposte a nascondermi. In autunno l’olio extra mi inebria, e se posso annuso glicine in primavera con massima soddisfazione. Dopodiché tutto il resto, come si sa, scompare. D’estate vivo in una drogheria che funziona come una spaccio alimentare. Sono il droghiere di me stesso. Nel retrobottega, quando posso, arrostisco sarde e friggo acciughe prendendo molto seriamente il mio lavoro di bravo spacciatore. Invece tutti i pomeriggi dell’anno sbruciacchio croste di parmigiano, la più potente droga mai apparsa sulla terra e con cui corrompo bambini in giovanissima età. Lo so, prima o poi mi arresteranno, ed è per questo che tengo sempre pronto un guanciale di mora romagnola bello grasso, perché sia ben chiaro che non entrerò mai nelle loro galere. Prima di farmi catturare vivo, mi sparo una carbonara con un chilo di spaghetti, stappo due bottiglie di lambrusco, ingoio un capo d’aglio di Sulmona e berrò un’ultima birra, ovviamente fresca. Nello spacciarmi morto, un secondo prima di morire, farò loro un grande e profumato rutto in faccia. Sorridendo sarò intimamente felice, e sognerò così, prima di chiudere gli occhi per l’eternità, di essere in sella a un rombante chopper lanciato a tutta velocità sulle strade della mia personale libertà.

Spaccia, spaccia, ma roba buona, banane lamponi cieli azzurri e aquiloni. Donne felici accanto ai loro amori, cani senza guinzaglio, ma accanto ai padroni... Spaccia spaccia, ma roba buona, colori e canzoni, musiche belle, occhi di donne innamorate e mani intrecciate su bocche di rosa. Spaccia, spaccia, ma cose buone, grida di bimbi, luce di fuoco e mari in tempesta... Spaccia, spaccia ma roba buona baffi di gatto che gioca a baratto canto di uccel al mattino in campagna. O spacciatore del mondo spaccia per me speranza e fiducia. O spacciatore del mondo spaccia per noi amor amor a volontà.

Staino

L’orto

Preghiera alla Terra di Stefano Pissi

S

ulle sponde di un fiume, accosto ad un muro di una casa di campagna, oppure su di un micro fazzoletto di terra, confinante con altri. Coltivare un orto è un po’ come fare all’amore, non conta il luogo, ma la voglia. Per gli ortisti incalliti è una seconda casa, ma anche una chiesa, dove si erigono altari personali, e ci si riposa su dismesse, ma regali poltrone. Io lo penso come un tabernacolo, in opposizione alle cattedrali o ai supermercati, un avamposto dove potersi raccogliere, per ritrovarsi, in mezzo al tutto, nel nulla. Per questo la preghiera è un atto che si fa dritti in piedi, con braccia e sguardo al cielo di sopra. Tante persone sperano di morirci, lì, dopo un bel respirone, abbracciati alla vanga, nell’ultimo valzer. Casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra. Talvolta senza saperlo, proprio nell’orto, esercitiamo inconsapevoli quel diritto salutare che è la sovranità alimentare, ovvero il nostro diritto di sapere cosa ci destiniamo come alimentazione, conoscere la freschezza dell’acqua che bagna la terra e la bontà del concime che nutre le radici, tutti elementi che poi andranno a costituire noi stessi. Si dice infatti che siamo quello che mangiamo, ma se tu ti nutri di chi non sai chi sei e accetti caramelle dagli sconosciuti, allora sei spacciato!

Occhio di bue


Lasciate che i bambini

Perle del Sale La rana gracida Storia del partigiano Gino

“C’

L’acquaiolo di Siviglia, un sacerdote che alza il calice di Tomaso Montanari

I

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mmaginatevi su una strada polverosa, in piena estate, nel profondo sud dell’Europa. Le tre del pomeriggio, un sole calcinante, senz’acqua. Immaginate il sudore, la sete, la stanchezza. E poi immaginate di vedere all’improvviso – in fondo alla strada, quasi un miraggio – un venditore d’acqua, uno spacciatore di freschezza, ristoro, benessere. Una scena qualunque, certo. Ma anche una scena sacra, perché racchiude il principio stesso della vita. Ecco perché Diego Velázquez la ferma per sempre in questo quadro, in cui le povere figure umane hanno

una monumentalità che ben si adatterebbe ai santi di una pala d’altare, mentre il venditore d’acqua porge il bicchiere con la gravità di un sacerdote che alzi il calice della messa. È la luce, quella di Caravaggio, che cava fuori i corpi dall’oscurità e li scolpisce come sculture: tutti i corpi solidi, intendo, perché una delle caratteristiche più affascinanti di questo quadro è l’equazione tra gli uomini e gli oggetti, tutti egualmente sottoposti alla luce, tutti egualmente protagonisti del dipinto. Come dimenticare le goccioline di condensa formate sull’otre di coccio a causa del-

la freschezza dell’acqua, e del clima torrido? Non vi viene voglia di berla, di tracannarla tutta? E come dimenticare lui: questo mercante d’acqua, originario della Corsica, che batteva le strade di Siviglia, straordinario Sean Connery del Seicento spagnolo? Quel sorriso, quella schiettezza, quell’acqua fresca e pulita. È ciò che vorremmo, e non vediamo, oggi in Italia: assediati da spacciatori di acque avvelenate, trincerati dietro sorrisi ebeti.

Diego Velázquez, L’acquaiolo di Siviglia, 1621 circa. Londra, Wellington Museum

era lo spirito giovanile di avventura e di lotta. Anche oggi non c’è una spiegazione razionale per quello che ho fatto. Io dovevo farlo e l’ho fatto”. Sono le parole di Gino, anzi del partigiano Gino, ovvero Renato Masi, che a 17 anni decide il suo destino. Parole di una persona che oggi sfiora i 90 anni e che qualche anno fa ha deciso di raccontare la sua storia. Lo ha fatto con una autobiografia, un libro di memorie pubblicato dall’editrice Pascal. E che adesso è diventato uno spettacolo teatrale. Si chiama La rana gracida e va in scena al Teatro del Sale per la regia di Francesco Burroni e Silvia Bruni, le musiche di Francesco Oliveto (tastiere) e Martina Bellesi (violoncello). La rana gracida è una produzione Aresteatro in collaborazione con Anpi di Siena, Istituto storico resistenza senese e dell’età contemporanea, Stanze della memoria. Lo spettacolo va in scena il giorno 7 novembre. Esattamente il giorno prima dell’89esimo compleanno di Renato Masi. Che ad oggi, arzillo più che mai, guida, cerca funghi, vive, ricordando una vita che poteva prendere altre direzioni. A 17 anni Renato, prima di diventare il partigiano Gino, non era né carne né pesce. Non era obbligato per età ad unirsi ai repubblichini di Salò, non era obbligato ad andare in montagna e a fare il partigiano. Renato non era obbligato. Poteva starsene rintanato, in silenzio, decidere comodamente ed automaticamente di appartenere a quella zona grigia di indifferenti, omologati ed egoisti, che fino all’8 settembre erano stati dei fascisti convintissimi e che dopo il 25 aprile raccontarono di aver nascosto in cantina gli antifascisti, di essere stati loro stessi degli antifascisti, anzi di essere stati addirittura dei partigiani. Gino invece - giovanissimo - decise di prendere parte. “Non c’è una spiegazione razionale per quello che ho fatto”. Però Renato lo fece. Da giovane cantava canzoni invise al regime, e allora giù botte, la testa nel secchio durante un fermo per spiegargli come ci si doveva comportare. Renato invece pensa di comportarsi diversamente, di fare l’agitatore, di volantinare. E così, la storia de La rana gracida inizia proprio con l’arresto di Renato a Siena per volantinaggio e prosegue con il trasferimento nel carcere di Parma e la fuga sotto un bombardamento. Poi, un nuovo arresto e la liberazione a Casciano di Murlo, l’ingresso nella brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, la battaglia di Monticiano, la liberazione di Siena e ancora la partenza come volontario nella Divisione Cremona per la liberazione del nord est d’Italia. Dal racconto emerge uno spaccato inedito della lotta partigiana, ma anche una fotografia fedele di quegli anni in Fontebranda, il quartiere della contrada dell’Oca, dove Renato ha passato tutta la sua vita e dove si era costituto il gruppo antifascista clandestino La riscossa. “Ripercorrere la storia di quegli anni – dice Francesco Burroni – serve in primis a ristabilire la verità storica, senza limitarsi a compiere nostalgici tuffi nel passato, per ricercare nella storia della Resistenza quei valori che sono validi ancora oggi e che sempre lo saranno e sui quali non ci si deve mai stancare di riflettere: il rifiuto istintivo di ogni sopruso e di ogni dittatura, la volontà di reagire a qualsiasi tipo di violenza fisica e psicologica, la speranza di una società migliore più libera e più giusta per tutti”. Per questo il partigiano Gino trovò necessario astenersi da ogni forma di vendetta. Quando incontrò l’uomo che lo aveva fatto camminare sulle braci ardenti e che - per terrorizzarlo - aveva simulato una fucilazione, dopo la guerra, quando lui era il vincitore e il suo ex aguzzino lo sconfitto dalla storia, semplicemente gli disse di levarsi dalle scatole. Dopo la guerra - nella memoria di Renato - ci sono due ex repubblichini, che vengono nascosti in casa di ex partigiani per sottrarli alla furia della vendetta. Vendetta che avrebbe generato altro odio, degli orfani racorosi, una comunità spaccata. Sembra di sentire Giorgio Bocca, quando diceva che se non c’era bisogno di uccidere, non si uccideva: “facevamo di tutto per non diventare come loro, perché alla fine puoi anche vincere la battaglia, ma se ti sei comportato come loro, alla fine, comunque, hanno vinto loro”. Questo è il messaggio di Gino, un messaggio di grande umanità, portato in scena in uno spettacolo straordinariamente credibile e necessario. Ancora Burroni, parla di uno spettacolo che è “una storia d’amore”. “Questo ragazzo - dice - racconta soprattutto di una storia d’amore”. Amore per chi? Chiediamo. “Renato da ragazzo, durante la guerra, fa cose folli. Come uno che ama l’umanità. Per amore dell’umanità”. Al Teatro del Sale La rana gracida, 7 novembre, regia di Francesco Burroni e Silvia Bruni, le musiche di Francesco Oliveto (tastiere) e Martina Bellesi (violoncello).


Spacciatori 2

Gesti teatrali

by James O’Mara

Iliade nello spaccio di Alberto Severi

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Palazzo Strozzi Pushers by James Bradburne

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e see them every day, crowding at the entrances of schools and day-care centres. Looking around furtively, they cast covetous glances at the young children who flock to the schools daily. They peer lovingly at babies, and casually chat up young mothers nearby. Every day, every week, the scene is repeated across the country. One place they are not welcome, however, is at the museum. Guards turn them away, some visitors look around, embarrassed,

still others move quickly to get as far away as they can from the source of trouble. Why all this aggression and anxiety? After all, they are doing society a huge service. Their activity swells the coffers of the nation, and provides jobs for thousands – why such discrimination? At Palazzo Strozzi, pushers are welcome. Every first Tuesday of the month, at 10am, parents and carers with children younger than 18 months – and their prams – are invited to visit

In scena

C

’è chi dà pacche (sulle spalle), chi spacca (meglio non dire cosa), e chi spaccia. Tra tutte le sostanze da spacciare, termine che già indica clandestinità, buio e illegalità, che sennò sarebbe offrire, dare, regalare o al limite vendere, una delle peggiori è la cultura. E ce ne sono molti, troppi in giro, anche nella nostra Firenze di pusher della falsa qualità, di ammennicoli e ghirigori pronti per assonnolentire e ammansire un pubblico già provato, di chiacchiere inutili che niente hanno a che vedere con la realtà, l’intorno, il mondo che ci sta cambiando sotto piedi, mani ed occhi. Qui, ovviamente, non faremo i nomi dei pusher (li conosciamo i pomposi,

SuperDrug Consumi di massa by Kate McBride

S

he bought pink high-heeled jellies in an outdoor shopping mall on holiday last year. There was nothing better to do. She wanted them. Her cousins had them. Some friends back home had them. Her need defined the afternoon. She had to have them. Cross border shopping price comparisons spiced up before dinner conversation. The best deal and what you could get were enough to stave off boredom. Nature and humanity proved difficult to reach safely. Choices became limited to places where cameras look after us. Where and who disembodied from landscape and personality. This could be anywhere, save the dull roar of voices contemplating goods in the tongue of the land we occupy. Supermercato=superstore=superal=superdrug Mass consumption without borders. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

the exhibition on the piano nobile at Palazzo Strozzi. We understand that the children may make a fuss, we understand that the prams may take up room, but at Palazzo Strozzi, we don’t believe that the decision to have a family should mean the doors to culture should slam shut. At Palazzo Strozzi, some of our favourite pushers even have twins. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

di Tommaso Chimenti i tronfi, i polverosi, i paludosi) ma, come sempre, cerchiamo il positivo, il buono, il bello. E c’è, statene certi c’è. Eccome. Se volessi regalare un sorriso, non compiaciuto ma terreno, anche amaro ma sincero, non mi perderei il Benvenuti in casa Gori (Teatro di Rifredi, dal 6 al 10), dell’omonimo Alessandro, gigante di comicità ed umanità, testo che tra poco taglierà le trenta stagioni. Se volessi sentire come una lingua centenaria, la nostra antenata, possa ancora risuonare attuale e vera, allora il Pinocchio (San Casciano 14 e 15, Rifredi dal 19 al 24) di Ugo Chiti, farebbe al caso mio. Se avessi voglia di vita vissuta, anche stropicciata o delusa, infranta o spiegaz-

zata, corrosa e tagliente, non potrei non affrontare le tre serate di e con e dedicate a Saverio La Ruina ed ai suoi tre lavori, Dissonorata, il 28, La Borto, 29, Italianesi, 30, nella lungimirante retrospettiva che il Cantiere Florida affida al pluripremiato Ubu degli ultimi anni. Se fossi giovane e bello, come gli eroi deceduti, il mio luogo sarebbe il Teatro Studio di Scandicci dove parte Zoom, dal 13 al 23, con il meglio dei gruppi underground, dove ancora si vedono facce entusiaste, sorridenti, piene, desiderose di vita, di conoscenza, gli occhi spalancati, così come le orecchie a prendere, carpire, sapere. E non c’è spacciatore che regga il confronto con la curiosità.

o spaccio di droghe, in quel minuscolo villaggio a cavallo dell’Appennino dove, in luglio e in agosto si andava in villeggiatura, era altresì detto drogheria, ma anche semplicemente spaccio, oppure, a partire dal rosso dopoguerra, con grande scorno di Aristarco Margheri soprannominato il Puppo, l’ex federale dai capelli impomatati, cooperativa. Non si sa bene perché, del resto. Né chi fossero, nella sedicente cooperativa, i soci cooperanti, dal momento che gli spacciatori e titolari effettivi, si riducevano al solo vecchio Ettore Amidei, ultraottantenne, vedovo di lungo corso, misantropo, e al maggiore dei suoi tre figli, l’unico scampato alla guerra, Paride: già maturo, e vistosamente stempiato, ma sempre, e ormai inesorabilmente, zibo. La loro cooperativa si sostanziava, nella realtà effettuale, in una piccola bottega satura di fragranze, dove si spacciavano droghe, cioè sale, pepe, zenzero, zafferano, ma anche alimentari in genere, soprattutto pane di Firenzuola, o di Barberino, formaggi e insaccati. Ettore era un vecchio burbero, di poche parole, con un gran naso bitorzoluto e screziato di venuzze che andavano dal rosso carminio al violetto, e un riporto di radi capelli dal sospetto color biondo-stoppa tirato a traverso del grosso cranio di forma irregolare, tutto bozze e protuberanze. Da quando, in seconda media, avevamo studiato ad epica l’Iliade nella traduzione del Monti, lo chiamavamo beffardamente il Domatore di cavalli Ettorre, e lui, senza nemmeno comprenderne bene il perché, ma sospettando la canzonatura, si incazzava di brutto. In fondo, però, era un buon diavolo. Paride invece era inquietante. Ammiccava strano, a noi ragazzi. E a volte, dall’uscio socchiuso del retrobottega faceva un gesto che già allora vedevo fare solo in televisione dalle ballerine smorfiose di certe coreografie birichine: avvicinava il pugno chiuso alla bocca, rivolto verso l’alto, ne estrofletteva l’indice e poi, piegando le falangi, lo accartocciava, e di nuovo lo distendeva, e poi ancora lo piegava come un piccolo, lubrìco gancio di carne, un lombrico che laidamente si contorceva, sempre con quell’ammicco losco e furbino, gravido di promesse e sorprese: “vieni, vieni qui, che ti faccio vedere...” Che cosa? Io, di norma, distoglievo lo sguardo. Luca, invece, quella maledetta volta scrollò le spalle, andò, entrò nel retrobottega con Paride, e ne uscì una diecina di minuti dopo, ridendo come un matto. “Quello è scemo”, mi disse poi per strada. “Scemo e finocchio. Guarda cosa mi ha dato.” E mi mostrò un’immaginetta oscena, con una donnina che, se le soffiavi sulla gonna di piume, mostrava le sue pelosissime intimità. Io e Luca soffiammo e la guardammo a lungo, dietro una siepe ai confini del paese, tenendo a turno l’immaginetta, rigorosamente con una mano sola. “Ma perché”, opinai, quando ci fummo ricomposti, “perché dici che Paride è scemo e finocchio?” Luca mi guardò con uno sguardo improvvisamente torbido, poi rise di una risata sforzata, un po’ stridula. “Secondo te? Che dici? Pensi che questa roba qua lui me l’ha data gratis?” “Come! L’hai dovuta pagare?” “Sì, palle. Ma non con i soldi. Quell’idiota ha voluto che in cambio io gli facessi vedere il mio”. “Il tuo che?” “Il mio, cavolo! Il mio. Sveglia, dorminpiedi!” Capii. Arrossii. E all’improvviso avvampò anche Luca. “E... e lui”, balbettai, “lui che cosa ti ha fatto?” Luca si inalberò, piccato. “Oh, ma sei bacato nel cervello? Niente, mi ha fatto. Si fosse provato a... a farmi qualcosa... a toccarmi, avrei spifferato tutto al Domatore di Cavalli Ettorre. Lui, piuttosto...lui sì che si è fatto... Una roba...! Blah! Che schifo, aveva la bava alla bocca, quel pervertito...” Rise di nuovo la risata sforzata, stridula. Che gli morì in gola. E da allora in poi, molte altre volte lo vidi seguire Paride nel retrobottega, dopo che lui gli aveva fatto quel gesto col ditino, un gesto che da allora non posso vedere fare dalle ballerine smorfiose della tivvù senza un moto di disgusto. Ogni volta, il mio sciagurato amico tornava in bottega con immaginette sempre nuove e sempre più esplicite, eccitanti e divertenti. Ma i suoi occhi erano sempre più torbidi, e il suo sorriso più bieco. Finché un giorno non lo trovarono impiccato nudo ad una trave, nel granaio del Puppo, e Paride finì i suoi giorni nella prigione dei matti, a Montelupo. Perché ecco: la cosa davvero oscena, nello spaccio del retrobottega dello spaccio, non era tanto il materiale che vi veniva spacciato, ma il prezzo pagato per averlo. Ed è sempre così, sapete? Finché non sei spacciato tu, e qualcuno non tira il SIPARIO.

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Pieni d’Islam

Dylan Bob

Spacciatori di banalità islamiche

Mr. Tambourine man

di Giovanni Curatola

di Marco Poggiolesi

È

sempre lì, in quel sottopassaggio che mantiene e cura come fosse casa sua ed in effetti lo è. Saluta i viandanti, quelli che conosce bene, quelli distratti e anche quelli che ricambiano voltando lo sguardo con altezzoso giudizio ma a tutti indistintamente offre la sua merce più preziosa. Alle volte suonata da un disco, altre volte dalla sua armonica e senza chiedere mai alcunché. Offre bellezza in cambio di gentilezza questo moderno bianconiglio a chi passa veloce e disilluso nella sua tana. Spaccia note che risuonano in tutte le pareti e che illuminano quel buco più del sole che con i suoi raggi non riesce ad entrare. Una volta avevo la chitarra e mi sono fer-

mato con lui. “Allora fammi scomparire tra gli anelli di fumo della mia mente giù nelle brumose rovine del tempo, lontano dalle foglie gelate, dai terrifici alberi infestati dai fantasmi, su spiagge ventose, fuori dal corso attorcigliato del folle dolore. Sì, danzare sotto il cielo adamantino con una mano che fluttua libera stagliata contro il mare, con intorno un cerchio di sabbia, con i ricordi ed il destino persi nelle onde, lasciami scordare l’oggi fino a domani. Hey signor Tamburino, suonami una canzone. Non ho sonno e non c’è nessun posto dove andare. Hey signor Tamburino, suonami una canzone. Nel mattino tintinnante ti seguirò”.

Classika Maestri, la sostanza che conta

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on è facile, questa volta, attenermi al tema o ai temi dello spaccio e continuare a parlare d’Islam e come sempre cercare di essere il più obiettivo possibile. Non ho una raccolta di fatwa (sentenza od opinione giuridica espressa da un mufti o giureconsulto), riguardante quello che è consentito o meno per sostanze lecite o illecite, come il vino, anche perché mi viene subito in mente un verso poetico: “Voglio una coppa di vino, e la voglio da quella sua mano”, quasi una blasfemia a un esame approssimativo; si tratta di un verso scritto da Ruhollah Khomeini, quando, potremmo dire si spacciava per poeta di ghazal. Trattando i mondi islamici (mi raccomando il plurale, sempre) quello che mi sorprende ancora, ai giorni nostri, è la quantità di persone, anche intelligenti, perfino moderatamente colte, vittime di pregiudizi (talvolta orrendi, talaltra ridicoli, e la sintesi fra le due opzioni è micidiale), frutto dell’ignoranza e della superficialità che inducono a scegliere come via maestra la scorciatoia facile, la semplice accettazione acritica di un fatto notorio. Esempio: l’arte islamica è iconoclasta. Un fatto ripetuto fino alla nausea (con il corollario che uno alla fine si stufa di confutare, come i voti ricevuti alle elezioni da un candidato politico, dieci milioni, che poi sono 7.332.667) fino a farne una certezza e poi un dogma. Si contrabbandano miti inventati ed è interessante come lo spaccio intellettuale non solo non sia clandestino (pur facendo più danni di altri), ma anzi sia ostentato, esibito, rivendicato. Reagire è necessario, ma c’è sempre un grande imbarazzo (peggio che quando chi si debba contestare sia in mala fede), un senso di estraniamento, un imbarazzo forte, una vertigine (specie quando le fesserie sono patrimonio anche degli amici più cari) e allora ci si può rifugiare, colpevolmente, in uno sdegnato e ammutolito silenzio. Tanto più che la mamma degli spacciatori di luoghi comuni fintamente islamici è, diciamo così, molto attiva, anche, se non soprattutto, fra le genti del vicino e medio oriente (i quali non solo non si imbarazzano, ma sembrano trovare in questi stantii equivoci - gli sceicchi con cento mogli – un ebete autocompiacimento). Genti (basterebbe riflettere sul minimo fatto che i musulmani e gli arabi non sono la stessa cosa) le quali mediamente sono ignoranti tanto quanto noi lo siamo diventati in merito al cristianesimo. Ora e sempre, che fare? Leggere, studiare, imparare, confrontarsi, avere l’umiltà dell’ignoranza, essere curiosi e approfondire. Perché, altrimenti, noi siamo davvero spacciati!

Il popolo del blues

di Gregorio Moppi

D

a qualche anno i conservatori italiani, con la complicità del ministero, spacciano titoli di studio inutili. Prima da queste scuole si usciva maestri, oggi dottori. Dottori in musica. Qualifica tanto pretenziosa quanto superflua. Ormai neanche molti insegnanti amano più venir chiamati maestri. Gli sembra squalificante, forse. Fa troppo scuola elementare. Eppure se professore è chi professa un mestiere, maestro è chi possiede davvero, nel profondo, i segreti di un’arte, e solo davanti a un tale sapere bisognerebbe abbeverarsi con de-

Les dealers di Juan Pittaluga

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e cinéma est fasciné par les dealers, les trafiquants de marchandises, comme Al Pacino dans Scarface, Christopher Walken dans King of New York, ou Johnny Depp dans Donnie Brasco. Au fond il est fascinée par la transaction illégal, par ce qui détourne les règles. Le cinéma lui même est un intermédiaire douteux, bien intentionné, manipulateur, indépendant et furieusement dépendant du sucées. C’est le grand dealer culturel qui vent de la marchandise trafiquée. Au début les secteurs de la production de fraude était clair, et des films comme Casablanca, Le Parain, The Graduate, The Sound Of Music, Gone With the ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

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Wind, on eu un grand succès. Le pourvoir était fait de contre pouvoir, des réalisateurs comme Ford, Wilder, Huston, Hitchcock, Capra, Hawks ou Kazan, travaillaient au même temps que des producteurs comme Evans, Golwyn, Warner, Spiegel, ou De Laurentis. Aujourd’hui les plus grand succès de ses dernières années sont Avatar, Iron Man 3, Transformers, Pirates of The Caribbean, Toy Story 3, Harry Potter 2, Shrek 2, Madagascar 3, Kun Fu panda 2. Cela fait peur. Ni les consommateurs ni les réalisateur sont devenu plus simplistes, mais les intermédiaires son devenu les propriétaire du produit. Il se sont fraudée eux même.

Sintesi esaustiva

di Giulia Nuti l mio primo spacciatore di cultura l’ho incontrato a sedici anni. Un’età sensibile, si sa, per cadere in certe trappole. Sono consapevole di ripetermi, ma non posso non citare Ernesto De Pascale, firma per anni qui sull’Ambasciata Teatrale, ideatore del marchio che dà il nome a questo spazio: Il Popolo del Blues. Spacciatore di idee e sopratutto di musica. Meritevole di avermi attaccato il vizio così giovane da sperare, forse, di non perderlo più. A volte, invece, si rischia di guardare lontano senza accorgersi di quel che si ha vicino. A chi verrebbe in mente di parlare di spacciatori di sogni e di cultura, se non a chi in prima persona si occupa della materia? Una grande fucina di sapori, idee e cultura per me è proprio il Teatro del Sale, così come lo sono le pagine di questo meraviglioso giornale a cui ho il privilegio di contribuire. Spacciano cultura le scuole di musica e i conservatori, come la Scuola di musica di Fiesole, dove per la prima volta ho preso in mano uno strumento musicale. Spaccia cultura chi si interessa di giovani, come Controradio che tiene in piedi da oltre 25 edizioni il Rock contest, concorso nazionale per band emergenti. Ho incontrato spacciatori di cultura anche persi nel verde della campagna inglese, a Tenbury Wells, Worcestershire. Lì c’è una fattoria e studio di registrazione che si chiama The Hatch, www.thehatchstudio.co.uk. La gestiscono un gruppo di ragazzi che non hanno ancora trent’anni. Coltivano la terra, realizzano e vendono prodotti alimentari in proprio, cucinano, affittano un paio di cottage eco sostenibili, mandano avanti lo studio di registrazione e organizzano concerti. Un posto incredibile, surreale, dove ci si guadagna da vivere con la musica e la natura. Lo cito perché l’ho trovato estremamente affascinante, non perché necessariamente si debba sempre guardare all’estero. Gli esempi più importanti e in grado di costruire qualcosa per la comunità in cui viviamo sono quelli dietro l’angolo, più vicini a noi di quanto spesso si creda.

o non laurea, quel che conta per farsi largo tra i moltissimi musicisti in circolazione è saper suonare, o cantare, o dirigere, o scrivere musica – e talvolta, dati i tempi, non basta nemmeno questo. Salvatore Sciarrino non ha un diploma di conservatorio, né tantomeno una laurea: eppure è uno dei maggiori compositori viventi, eseguito in tutto il mondo. Invece tanti altri suoi colleghi che possiedono diplomi e lauree musicali in abbondanza, stenterebbero a mettere insieme il pranzo con le cena se per campare non facessero altro.

Cinema

Augurabile vizio

I

vozione. Nel passato gli artisti andavano a bottega dai maestri, non dai professori. E Toscanini, per esempio, nessuno l’ha mai chiamato dottore. Né Muti, o Abbado, o Pollini, o Mehta, o Pappano, o Barenboim, o Chailly. Tutti maestri. E se loro non si vergognano di lasciarsi chiamare maestri, perché dovrebbero vergognarsene gli insegnanti di conservatorio o i giovani diplomati. Anzi laureati, perché diplomi non se ne danno più in conservatorio; solo lauree. Ma lauree, però, che non valgono un fico secco nel mondo reale: perché, laurea

Spes contra spem di Milly Mostardini

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e conosco, o incontro, o magari frequento degli spacciatori? Anche troppi ne conosco, dato che quotidianamente ne vedo e ne ascolto in televisione, o li leggo sui giornali. Potrei dire che mi sono entrati in casa, tanto che ne riconosco le voci, anche da un’altra stanza. E succede ad alcuni di essere costretti a spegnere gli elettrodomestici, perché quelle ciance non sono più tollerabili. Sono questi oggi, per me, gli spacciatori più perniciosi e pericolosi e incombenti, proprio perché appartengono a una buona parte del ceto politico, che ci dovrebbe rappresentare. Loro parlano, straparlano e riparlano, a tutte le ore, attaccati come telline allo scoglio, alla voglia assatanata di poter personale, con tanti corollari. E sul fondo, il basso continuo del rumore dei soldi. Ci martellano addosso le banali menzogne, le mediocri ipocrisie, la

spudorata mistificazione dei fatti, malafede e inganni costanti, voltafaccia contraddittori e continui. Le facce di bronzo di lorsignori hanno al seguito una corte di servi, spin doctor segreti, yesmen and escort ladies, comprati e venduti al solito mercato del bestiame. Con tutto il rispetto del mercato. Vorresti qualche nome? Lo spazio che questo giornale mi consente, non sarebbe sufficiente e mi rammaricherei di dover trascurare qualche spacciatore esemplare. Il loro spaccio (ahimè nobile e cara parola antica, ma qui piange anche l’italiano, come lingua), il loro spaccio, in parole, fatti e azioni, è una sostanza tossica che inquina l’aria e distrugge la coscienza collettiva. Noi ci sentiamo quasi spacciati, si accorcia il nostro respiro. Vuoi che nomini qualcuno che ci fa respirare meglio? Qui lo spazio sarebbe sufficiente, poiché i loro nomi

stanno nelle dita delle due mani. Ma le loro sembrano voci, che gridano nel deserto, come gli antichi profeti. Nel chiasso di biechi spacciatori e di astuti giullari, ai quali converrebbe stare muti, come gli angeli sterminatori di Gomorra, in quanto già miracolati, ascoltiamo invece con attenzione ed emozione il respiro profondo ed inesprimibile dei tanti, forse dei più: ci passano vicino, accanto nelle strade, nelle case, le scuole, nei luoghi dove si lavora, nelle piazze di chi non ha lavoro. Come si dice comunemente, tirano il carro e vedono quello che succede, patendone, pagandone i prezzi amari, provando vergogna, sconcerto, confusione. Non deflettendo dall’amare il proprio Paese. Pensi che non gridano, perché sono rassegnati, drogati dal presente? Non è così: prova a pensare che siano loro la nostra unica spes contra spem.


Spacciatori 3

by James O'Mara

Una stella a Firenze

Biodinamica

La Mostramania

Spacciatori di felicità

di Stella Rudolph

di Cristian Giorni

O

E

gni anno si allestiscono in Italia centinaia di mostre sull’arte del passato che, quando concepite bene (come varie in corso a Firenze), aguzzano e dilettano sia gli addetti ai lavori che il grande pubblico. Ma purtroppo da tempo si è infilato lo spaccio anche in siffatte iniziative culturali con la formula di generiche, ripetitive mostre intitolate “Da […] a […]” - tipo Da Rembrandt a Van Gogh - che scarsamente alimentano le nostre percezioni di un preciso momento storico-artistico, anzi talvolta contribuiscono a deformarle. Esse sono organizzate da accorti imprenditori che le noleggiano a grande costo, come ad esempio quella attuale presso il Palazzo della Gran Guardia a Verona, Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento: una carrellata di dipinti in cui figurano due grandi paesaggi di Salvatore Rosa prestati dal Ringling Museum di Sarasota, invero un po’ spaesati nell’evoluzione della pittura del paesaggio a fine ‘800 compiuta da Monet (il solito grande nome di richiamo). Sta di fatto che il museo americano si è privato di un paio di quadri notevoli inviativi per completare la mostra che da Verona traslocherà nel febbraio 2014 pochi chilometri in là a Vicenza (Basilica Palladiana) fino al 4 maggio in una prolungata reiterazione dell’evento. Così al museo americano e agli altri enti prestatori mancheranno codesti dipinti per ben mezzo anno; peraltro vi si aggiunge il potenziale logorio nel trasferimento colà di quadri preziosi, delicati, mettendone in forse la tutela. Occorrerebbe arginare gli spostamenti di opere d’arte per mostre a temi così indeterminati con criteri di responsabilità e coerenza al fine di gestire un patrimonio talmente fragile ed unico. Dunque andrebbero casomai scansati gli spacciatori che si danno da fare per sfruttarlo senza produrre un indotto di alta qualità scientifica. Intanto noi utenti rimaniamo irretiti come polli da mostre itineranti confezionate a pacchetto secondo slogan mistificatori che rischiano di banalizzarne i contenuti e quindi finiscono, strano a dire, per offuscare la mente pure quando ci si trova al cospetto di qualche capolavoro immesso in un contesto potenzialmente depistante.

bbene sì, lo confesso anch’io sono uno spacciatore. Uno di quei discutibili ed eccentrici individui che elargiscono sotto variabili compensi sostanze e merci di dubbia o sconosciuta provenienza. Ciò che io tratto però non ha a che fare con sostanze illegali o pericolose, ma con particolari pratiche che mutano la materia nel loro stato trasformandola in humus. Io sono uno spacciatore di fertilità, che dopo aver innescato uno stato di dipendenza nel terreno, agisce sul frutto, lo accompagna nella sua trasformazione e lo rende unico, tipico e ricco di piacere: il vino. Mi guadagno da vivere in strada, selezionando ed assumendo massicce dosi della sostanza in oggetto (il vino), per garantire ai miei clienti assoluta sicurezza e qualità. Spesso, con il mio socio, prendiamo parte ai delicati processi produttivi, sempre rivolti a creare al terreno una dipendenza alla fertilità, per ottenere un frutto e poi una merce, pura, mai tagliata con sostanze chimiche e sempre unica, quasi irripetibile. È un lavoro duro e di estrema attenzione quello della produzione. Lunghe giornate di osservazione atte ad interpretare le peculiarità dei vari territori in cui personalmente operiamo. Intervenendo con pratiche alchemiche e riti magici, la pericolosissima biodinamica, per offrire il vino giusto nelle diverse piazze, per cercare di causare nei bevitori attenti, un’overdose da naturalità. Di sicuro mi ritengo uno spacciatore d’alto bordo, uno di quelli che offre solo roba sopraffina, non certo dello stesso stampo dei tanti colleghi che spacciano vini clonati e spesso impuri, capaci solo di qualche mal di testa e devastanti sbronze che cancellano la memoria del piacere. Per me invece il piacere è tutto, inteso non solo come piacere fisico, ma come mezzo per educare i propri sensi a percepire una qualità emozionale, che passa per un’interpretazione analitico sensoriale, valutando anche la qualità culturale conoscitiva di ogni singolo drogato di vino. Sì perché è troppo semplice dire questa roba non mi piace o mi piace molto, ricordo che la merce che io tratto non è assolutamen-

te indispensabile, va scelta, ricercata. Direi che il vino rappresenta il prodotto edonistico per eccellenza e nella mia visione è legato ad un’etica che vede il raggiungimento del piacere non solo come effetto immediato, ma come conseguimento del piacere stabile e duraturo ottenuto dalla privazione del dolore, del male fin dall’origine del vino. Troppo rischioso lavorare soltanto per il dio denaro, le sterili equazioni numeriche confondono il reale valore di tanta preziosità racchiusa in una bottiglia, snaturano il vino, così fortemente legato alla sua origine, alla sapienza ed alla prosperità di un areale. Sostanze stupefacenti come il nettare di bacco, non possono essere regolate da comuni logiche di mercato, con il prodotto inteso come ricetta più o meno sterile e replicabile. Da una bottiglia di vino non ci si dovrebbero mai aspettare le stesse sensazioni anno dopo anno. Il mio lavoro di spacciatore di vino di qualità, oltre ad essere incentrato su un’attenta consapevolezza dei naturali ritmi che regolano la produzione della merce, è basato su rapporti umani e sulla condivisione di una spiccata sensibilità al buono e sano. Una ricerca che va oltre il corretto abbinamento con una pietanza, ma indaga su un legame più profondo e più animico, capace di stuzzicare il nostro piacere oltre le note gusto olfattive. Vendere il vino o spacciarlo come davvero qualcuno fa oggi, non è più così semplice, il consumatore attento è ormai assuefatto e stanco di bottiglie sempre uguali, senza anima nè cuore, spesso solo memori di un passato radioso all’ombra di un blasone, o sotto l’austerity di una Docg. Il vino è una droga viva, capace di interazioni sorprendenti quando lo si degusta e lo si saggia, accompagnato da opere d’arte culinarie, in un gioco di esaltazione del piacere, di appagamento dei sensi. È vivo quando parla del suo frutto, della sua tradizione in evoluzione con l’ambiente e la cultura di chi lo ha concepito. Quando è privo di contaminazioni industriali e figlio della sua terra, della sua annata. Quindi bevete con moderazione e consapevolmente.

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Lucio Diana - Spaccio d’opere

Ri-cercata Spacciatori di falsi scientifici di Clara Ballerini

S

e siete un editore di rivista scientifica, è possibile che vi arrivi una lettera firmata Clare Francis, che vi avverte che in uno qualsiasi dei lavori da voi recentemente pubblicati, è presente un falso. Francis è di fatto un informatore, ed in quanto tale vuole restare anonimo. Intendiamoci, non sempre ha ragione ma lotta perché gli spacciatori di falsi scientifici siano fermati, perché ci sia un’attenta riflessione su ciò che è pubblicato e di conseguenza diventa conoscenza comune. Cercare i falsi nella letteratura scientifica è per molti un compito sgradevole: spesso il lavoro in questione può essere di un caro amico, di un vecchio maestro o peggio di qualcuno con cui siamo in competizione e questo fa sì che molti di fronte agli spacciatori chiudano gli occhi. Alcuni editori hanno dichiarato che senza sapere l’identità dell’informatore non procederanno a nessuna verifica, temendo sempre che dietro l’angolo ci sia un’ingiusta caccia alle streghe. Altri a ragione pensano che di fronte agli spacciatori non sia proprio importante l’identità di chi te li segnala, ma tenere ben in mente che esiste uno spaccio che avvelenerà tutti, sì.

l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Raffaele Palumbo. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi. Anno V Numero 9 del 1/11/2013. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it

SI RINGRAZIA

CONTI CAPPONI [conticapponi.it] MARCHESI MAZZEI [mazzei.it] MUKKI [mukki.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP [oliotoscanoigp.it]

Di line e di lane Il trafficante di bugie di Pietro Jozzelli

S

pacciandosi per unto del signore (sapeva bene che questo Paese è fatto di liturgia più che di spirito evangelico), ha spacciato per vent’anni idee false e bugiarde gabellandole come modernità, alla fine è stato lui a ritrovarsi spacciato da ciò che non aveva preso in considerazione, quella sorta di forza evanescente e flebile e spugnosa e tuttavia imbattibile che tiene insieme da settant’anni la bislacca società italiana. Chiamiamola forza di un certo orgoglio costituzionale, dell’unica conquista che abbiamo davvero fatto, beninteso cosa accettata come dato di fatto più che di principio, stemperata nel suo urto innovatore dal logorio dei decenni, un teniamoci quel che abbiamo perché il resto è sicuramente peggiore. Qui c’è anche l’eterna attitudine italiana del tirare a campare, esemplare spiegazione della nostra voglia di accontentarsi di mezze rivolte, rifuggendo sempre dai veri cambiamenti di scena. Che cosa sperare in questo lungo stillicidio dell’addio, adesso che l’uomo dei miracoli progetta il lancio sulla scena della figlia, avvinta dal cordone ombelicale di tanto padre? Alziamoci da terra e libriamoci nello spazio. Con l’aiuto di Jean-Jacques Rousseau (permettete la citazione): “Talvolta le (…) fantasticherie finiscono nella meditazione, ma più spesso le meditazioni finiscono nel sogno, e durante questi vagabondaggi, l’ (…) anima erra e vola nell’universo sulle ali dell’immaginazione, in estasi che sorpassano ogni altro godimento”. E se, dopo tanto grigiore, il futuro fosse davvero così?


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