GENNAIO 2014 ANNO VI • NUMERO
circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze
Città
Editoriale
Staino
Benedetta felicità urbana di Fabio Picchi
E
ntrai al Generalife di Granada ed inciampai immediatamente nella mia anima. Per empatia di quel luogo intesi inconsapevolmente ma immediatamente di quale portato emotivo erano composti quei luoghi, così santamente islamici, quelle stanze, quelle scalinate, quei mosaici che riflettevano dal blu all’oro, quei giardini, quelle fontane. La primavera inoltrata aggiungeva aromi sensuali che promettevano, insieme alle tante acque che scorrevano ovunque, compreso in un entusiasmante corrimano in pietra scavata, di elevare il dubbio a certezza intorno alla bellezza della vita con le sue possibili mille e una notte. Amai appassionatamente quel luogo dove mi ripromisi di tornare, cosa che passati trent’anni non ho ancora fatto, anche se sono certo che prima o poi onorerò questa mia intima necessità . Quelle acque scavarono in me un indelebile sensazione di felicità. Acque lì ascoltate, acque lì viste, toccate e respirate nel loro polverizzarsi ad ogni refolo di vento caldo che arrivava dalla vicina Cordova e dalla sua strabiliante moschea. Se amate qualcuno, viaggiate in quei luoghi o comunque pro-
Londra
Occhio di bue
St.Pancras ri-suona d’immenso di Giulia Nuti
I
ncontro il mio amico Joe di Birmingham alla stazione di Euston, Londra, Inghilterra. Mi saluta e poi mi dice “spostiamoci da qui, andiamo a St.Pancras. Sai, è la mia stazione preferita al mondo”. Io lo guardo con l’espressione compiacente di chi sorride a una battuta e lui, prima ancora che apra bocca, aggiunge serio: “No, non sto scherzando”. Joe Broughton nella vita fa il musicista. Già membro della Albion Band, gira l’Europa con il suo Urban Folk Quartet ed è considerato uno dei più talentuosi violinisti della nuova scena folk inglese.
mettetegli di farlo: vi porterà fortuna; così mi disse una gitana che evidentemente ne sapeva una più del diavolo, e così io vi ripeto con sincero entusiasmo. Capirete dunque, mentre vivo all’ombra della bellissima sinagoga fiorentina, con che impazienza aspetto una moschea nella mia città dove, saltando di palo in frasca, vedrei bene anche dei giochi d’acqua come quelli del parco Citroën di Parigi. Già, dimenticavo che di recente ne hanno fatti di simili a Scandicci. Benedetta provincia dunque, che sa far divertire i bambini con semplici giochi bagnati dove mai nessun raffreddore li sorprenderà! Benedetti gli urbanisti, gli architetti, i sindaci, gl’ingegneri e i sultani illuminati e tutti quelli che con calce, mattoni, ferro, calcoli e vetri ed altri materiali, giocano divertiti con le nostre sorridenti anime. Costruendo duomi, cattedrali, ponti di Brooklyn, torri Eiffel, quartieri cinesi, metropolitane giapponesi, badie fiesolane e quello che vi può venire in mente, stando lontano dalla tristezza emotiva, così poco interessante e così simile all’inferno che, come si sa, è un vuoto senza alcun perimetro.
Quanto a un giudizio sulle stazioni, quindi, mi fido. Aperta nel 1868 e scampata ad un tentativo di demolizione negli anni ‘60, St.Pancras è dal 2007 la stazione di arrivo dei treni internazionali ad alta velocità che collegano Inghilterra e Francia. Interamente restaurata negli anni Duemila (va detto, non a basso costo), è oggi considerata uno degli edifici vittoriani di maggior prestigio in città e accoglie i visitatori con una volta a vetri spettacolare, al cui interno trovano spazio numerosi negozi e gallerie commerciali. Ciò che colpisce, però, è il tentativo che si è fatto di rendere la stazione un luogo sociale e di
condivisione. Dal mio caffè (che, tra i tanti posti, mi ritrovo a bere proprio lì) ai concerti che vengono organizzati nella stazione (da band locali a Brian May dei Queen), dallo spazio destinato all’arte fino a quella che, in realtà, è l’iniziativa che mi colpisce di più. In mezzo alla galleria ci sono tre pianoforti. Chi vuole arriva, si siede e suona. Così, gratis. Chiunque. Dal principiante all’esperto, dal curioso al turista. Al primo pianoforte un ragazzo studia con impegno un brano di musica classica.
Al secondo, azzurro, una ragazza esplora i tasti ben più timidamente. Qualcuno si ferma ad ascoltarli. Altri, semplicemente, si godono l’eco delle note mentre corrono con la valigia a prendere il treno. Joe mi racconta di un signore che abita lì vicino e che, si dice, tutti i giorni va al pianoforte, suona mezz’ora e poi torna a casa. Io mi fermo all’istante e con la faccia più stupita del mondo fotografo gli improvvisati pianisti. Per poi accorgermi di qualcuno, ben più avvezzo al contesto, che invece sta fotografando me mentre scatto la foto.
Londra - Parigi
In scena
di Tommaso Chimenti
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utta mia la città, un deserto che conosco. Ed ancora: la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te. La casa-città ideale ha un sipario, ma può anche non averlo, delle sedie o poltrone, ma si può stare anche seduti per terra, un palcoscenico rialzato, ma anche senza si può fare benissimo, un tetto, ma è possibile anche all’aria aperta, del buio in sala e della luce sulla scena, ma possono essere anche invertiti. Insomma la città ideale, come la casa ideale, sono come il teatro ideale: ad ognuno il suo. Basta starci comodi. Ma neanche questo è vero. Il teatro, come le città, per fortuna, vive di contraddizioni, di scontri, di polvere, di stelle e non, di barlumi improvvisi e lampi, di silenzi. L’idea indistinta così vicina e così lontana nel tempo, passato e futuro, ce la rende la Berlino della Familie Floz, melting pot di esperienze e professionalità che confluiscono, quest’anno dal 9 al 12 al Teatro Verdi, loro ospiti fissi fiorentini, in Garage d’or con le loro maschere così mute ma talmente esplicite che paiono cambiare d’espressione, mutare sostanza e sentimenti ad ogni scena. Poesia per tutte le età, per toccare ogni coscienza, ogni cinismo, ogni alzata di spalle. C’è il mare, o i suoi flutti e onde a raschiare gli scogli, delle città dell’infanzia di Sergio Endrigo (prima Pola, poi Brindisi e Venezia) ne L’ultimo concerto, teatro-canzone di qualità che il cantattore Nicola Pecci porta, il 10 e 11, al Teatro di Rifredi. Pecci, che qualche anno fa ripercorse a flash back la vita di Luigi Tenco, riesce perfettamente a coniugare il canto con la resa scenica, cosa non da tutti. Nel racconto di Stefano Massini (fresco Premio Ubu) sulla Somalia, ricordando a venti anni dalla brutale uccisione la giornalista Rai Ilaria Alpi, African Requiem, 11 e 12 al Teatro Manzoni di Calenzano, lascia in bocca l’amaro del sangue, le strade senza asfalto di Mogadiscio, le nubi di polvere e fango, reali e metaforici, sollevati attorno alla scomoda vicenda, insabbiata, nascosta, messa a tacere come struzzo sotto la terra. Non città ma cumuli di macerie, come quelle cantate, con la spensieratezza del regime, anch’esso prodigo nel camuffamento della verità, in Risate sotto le bombe, il 17 al Teatro Puccini, con Le Sorelle Marinetti, ugole maschili in en travestì, a ripercorrere la leggerezza dei motivetti per non pensare alla tragedia della guerra alle porte, alla miseria, alla fame, alla morte. O, città per eccellenza, quel limbo, dopo la morte ma non ancora morte, quel passaggio ed anticamera, raccolto in Una pura formalità, dal 28 gennaio al 2 febbraio al Teatro della Pergola, trasposizione teatrale, a cura della coppia Mauri-Sturno, dal film di Tornatore (c’erano anche Depardieu e Rubini); qui una città dell’anima, desolata e scarna e vuota ed inquietante, fa da cornice al trapasso.
by James O’Mara
Londra Parigi oh for a place to sit in the shade of a beautiful tree along the fine expanse of a river walk where clean waters reflect the shimmer of leaves oh what pleasure, what civility
Arno Rising London-Inspired
In the 1950s, London’s river Thames was declared “DEAD!” The river began to die in the early 1800s when a decision was made to dump raw sewage into the water. The introduction of gasworks, which introduced pollutants to the waterways, was another nail in the coffin. In 1878, a Thames River tourist steamboat sank after a collision. More than
by Kate McBride six hundred passengers died as they attempted to swim to shore but were overcome by the pollution in the river. In 1957, the river was declared biologically dead as oxygen levels in the water were too low to support life. The practice of using the river as a garbage dump continued into the 1960s when a decision was finally made to close two sewage outlets. More than ten years later, a single female salmon appeared. A concerted effort was made by the Environment Agency, the England and Thames Rivers Restoration Trust and others, at a slow but steady pace. Among other species, “Ratty,” the water vole character from “Wind In The Willows,” returned. Well over one hundred fish species thrive now. Dolphins are a common site. To honor their monumental effort, the Thames received the Thiess in 2010, one of the world’s most prestigious environmental prizes. Among the grand and well-known rivers that have won since the award began in 1999, are the Chengdu Sha of Southwest China, the Mekong of Southeast Asia and Europe’s Danube. In 2013, the Mara River in Kenya received the award, the first ever in Africa. Measuring the health of a river includes testing for the level of chemical pollutants and analyzing if the number of fish, mammals, birds and other creatures are returning to levels found when the river was clean. Wildlife habitats must be established to allow wildlife to return. Strict regulations for industry are essential to prevent pollutant dumping. Creating more parks along the banks allows the natural riverbank to thrive and mitigates the danger of floods. Why not the Arno as winner of the Thiess River Prize in the not so distant future? “One generation plants the trees; another gets the shade.” Chinese proverb.
A Shady Path, A Place To Rest Paris-Inspired
The creation of a shady path along the river supports the clean-up. The path begins at the source of the Arno on Mount Falterona in the Apennines and ends at the web of tributaries in Pisa leading into the Mediterranean. Along the way, benches allow lovers of nature to rest and observe the river habitat. A three-hundred kilometer path follows the threehundred-forty-six kilometers River Thames. From the Thames National Path people enjoy wildlife, wilderness, cityscapes, water activities and more. The Arno runs two-hundred-forty-one kilometers. Imagine a welcome byway that leads to the sea, passes through villages and cities and provides a welcome space away from the crowds, not unlike
the tree-lined pathways of Paris along the River Seine. With tree planting and bench installations underway, why not include the grand Piazza’s of Florence in the project? For inspiration, look to the Place des Voges, the Tuilleries and the Luxembourg Gardens of Paris. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
City 1
Kyoto
by James O’Mara
La Cartolina di Alberto Severi
M
Arigato
di Maria Cassi
Da Tel Aviv Firenze beach di Sefy Hendler
■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
omento topico della vacanza o della villeggiatura era la scelta delle cartoline, seguìta (spesso in un momento anche abbondantemente successivo) dalla loro compilazione a tavolino (di bar o d’albergo) a base di frasi fatte, scialbe freddure, e aforismi da passeggio, indi dalla spedizione tramite imbucamento, atto quest’ultimo effettuato quasi sempre in extremis, con affanno, l’ultimo giorno di vacanza nell’improvvisa, angosciosa e inspiegabile sparizione di buche delle lettere dall’emisfero in oggetto. Talché si presentava con frequenza il caso che la cartolina arrivasse poi a destinazione molto dopo il ritorno del mittente al luogo di abituale residenza e magari al suo incontro di persona col destinatario, assumendo così l’aspetto di flash-back, o addirittura di cortocircuito spazio-emotivo-temporale. “Saluti da Istambul”: ma chi li manda è già lì con te a Pontassieve, da dieci giorni. Bene: era bello (parlo al passato, ma si tratta di una manciata d’anni, e qua e là l’usanza sopravvive, fra gli ultracinquantenni), era bello e teatrale, soprattutto, il gesto dell’imbucamento: quel senso di leggero batticuore provato nel far scivolare nella fessura, e da lì nell’ignoto, come un messaggio nella bottiglia affidato all’Oceano, il messaggio augurale, il suo portato d’affetti, ancorché convenzionalmente espressi (d’altronde, la visibilità del messaggio, vergato sul retro della veduta della località visitata, e la sua potenziale lettura da parte di una platea indiscriminata, impediva ardimenti troppo intimi e personali), nonché – fatto fondamentale – la testimonianza incontrovertibile della propria statura di Viaggiatore, con tanto di non secondarie implicazioni di status. Poi, è arrivata Internet. La posta elettronica, con allegati. Facebook. Gli i-phone e gli smart-phone. La cartolina è stata sostituita dalla foto inviata tramite skype. Dal videomessaggio elettronico. Al posto dell’imbucatura: il tasto “invio”. Quando, nel 2005, una cara amica si recò per tre settimane in Giappone, per lavoro, non mi mandò cartoline, ma e-mail. Con allegate le foto da lei scattate nelle vie di Kyoto. L’antica capitale, la Firenze giapponese. Il suo centro storico, con le vecchie case di legno e i templi buddisti di rara bellezza. E senza auto posteggiate ai bordi delle strade – tanto meno in doppia fila. A Kyoto, mi scrisse l’amica, per acquistare un’auto bisogna preliminarmente dimostrare di disporre di un posto di parcheggio: vi sono parcheggi interrati condominiali, o grandi parcheggi pubblici a silos, sotto e fuori terra. Se non ce l’hai, semplicemente non puoi acquistare l’automobile. Punto. Fantascientifico. Sì, perché noi, in Italia, ci abbiamo fatto l’occhio, assuefatti e rassegnati: ma è davvero orrendo lo scempio estetico di tutta quella lamiera affastellata entro le prospettive medievali e rinascimentali dei nostri centri storici, la riduzione delle carreggiate a esigui passaggi fra siepi di macchine, lo snaturamento di facciate di chiese e palazzi impallate da furgoni, utilitarie, station-wagon. Non si tratta di realizzare città-vetrina, ma di salvare il Bello, che ci salverà. Non si tratta di espungere la Modermità da centri storici imbalsamati in un Passato da cartolina (toh!), ma di attingere ad una più avanzata Modernità: quella Modernità che a Kyoto, città con Firenze gemellata ma non gemella, coniuga servizi e tutela della Tradizione. Nessuno dice che sia facile: ma se l’hanno fatto a Kyoto... Epperò da noi, figurarsi: ogni pedonalizzazione diventa un’ardua e contrastata conquista, e i permessi “sosta invalidi” proliferano, quasi che Firenze fosse una sterminata corte dei miracoli inseme medievale e motorizzata, e non piuttosto un teatrino di veti contrapposti, privilegi e interessi di fazione, sui quali non sarà agevole, per nessuno, far calare il SIPARIO.
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Istanbul, Cairo, Isfahan
Montevideo
Oasi
La città dove si nascondono i sogni dei bambini
di Giovanni Curatola
di Juan Pittaluga
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e suis prêt d’un bout du monde, dans la Capital la plus austral d’Amérique, à Montevideo, ville de l’humaniste président Mujica. Je suis loin de la sophistiquée ville de Florence. Mais on peu marcher la nuit ici et se perdre dans sa poésie de ville non touristique. Selon
Mercer Human Resources, Montevideo est la ville qui a la meilleur qualité de vie d’Amérique Latine. Si une chose me surprend quand je viens ici, c’est l’abondance d’arbres. C’est la Ville d’Amérique Latine qui le plus d’arbres. Cela paraît ridicule mais cette présences de
ce qu’on appelle ici los Paraisos, Fresnos et Platanes, donne au même temps joie para la lumière tamisée d’odeur. Une ville pleine d’arbres murmures les secrets des enfants qui on joués à l’ombre d’un après-midi d’été. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Zurigo Agorà culturale tra opera e teatro di Gregorio Moppi
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stanbul, Cairo, Isfahan, città straordinarie e non meno cariche di storia della nostra Firenze. Luoghi meta di un incessante turismo, e metropoli con svariati milioni di cittadini (una trentina in tre …), città che mi hanno sempre colpito (diciamo almeno nell’ultimo quarantennio che mi ha visto testimone diretto), perché nei decenni si sono costantemente trasformate, anche caoticamente com’è ovvio che sia, ma senza mai perdere nei centri storici le loro caratteristiche peculiari. Quello che mi pare di poter osservare le abbia accomunate è la cura estrema posta nella valorizzazione degli spazi comuni, in particolare quelli verdi, e nella mobilità di massa (Cairo e Istanbul hanno metropolitane – di superficie e non – che rendono lo spostarsi veramente facile e poco costoso; Isfahan sta costruendo la sua da circa tre anni). E non vale la scusa dei lavori fermati dalle scoperte archeologiche (è sempre una questione di denaro: se ci sono fondi adeguati gli archeologi possono lavorare presto e bene), perché si tratta di città che non sono certo prive di strutture antiche, ma queste vengono integrate e valorizzate, non rimosse. Le rive del Corno d’Oro (e in parte anche del Bosforo) sono state bonificate e vi sono giardini curatissimi e assai frequentati (in primavera la fioritura dei tulipani è celebrata in un festival con otto milioni di bulbi in fiore e anche un annuale congresso di studi che coinvolge botanici, storici, umanisti, artisti … certo con maggiore riscontro che non quello che riscuote la nostra, fantastica e insuperabile per localizzazione, fioritura degli iris …). Parchi che invitano alla passeggiata e alla sosta. Stessa cosa per Isfahan lungo le sponde oggi asciutte (e da otto anni) del fiume Zahande, luogo privilegiato per le famiglie e per i giochi dei bambini. Chilometri di verde ben tenuto dove i persiani possono fare i loro pic-nic, specialità della quale con autoironia si dichiarano “campioni mondiali”. Al Cairo dal 2005 è stato aperto, e in pieno centro, il parco al-Azhar, trenta ettari di verde e acqua voluto (e finanziato con 30 mln di dollari) dall’Agha Khan, che ha così voluto recuperare (anche filologicamente) un’area adibita per anni a discarica indifferenziata. Cosiddetti polmoni verdi, ma non solo, perché questi giardini (parchi, boschi, orti, frutteti, prati …) sono sempre collegati a istituzioni museali di grande respiro e perfettamente integrate nel contesto cittadino. Firenze non è così indietro, certo, ma si potrebbe fare di meglio e di più, anche considerando che i suoi dintorni sono i più belli del mondo. Non ho mai capito – per esempio – perché uno spazio come la caserma Antonio Baldissera (che era spazio pubblico, verde e comunale, ceduto poi gratuitamente all’amministrazione militare che nel 1897 era già in grado di ospitarvi l’8 Reggimento di Cavalleria, appunto di Cavalleria …), non ritorni ad essere fruibile per la città, senza necessariamente doverne alterare le strutture architettoniche (di ecomostri ne abbiamo già …), ormai ampiamente storicizzate. E gli usi potrebbero essere infiniti … Politica è progettare il futuro, non gestire (bene o male) l’ordinaria amministrazione.
Pistoia Un fiume per la qualità della vita di Pietro Jozzelli
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a gallinella lacustre o l’usignolo di fiume potranno nidificare lungo l’Arno insieme ad aironi e gabbiani? I giunchi paludosi e le pannocchie di tifa saranno la scenografia delle passeggiate dei fiorentini vogliosi di riconquistare il loro fiume? A pochi chilometri da qui, in quella Pistoia un po’ addormentata nelle sue meravigliose pietre medievali, ce l’hanno fatta a riappropriarsi del loro torrentaccio: lavori di scavo, messa in sicurezza del letto e delle sponde, lungo le banchine carte esplicative della geografia dei sentieri e della flora che verdeggia intorno all’acqua, dei pesci e degli uccelli che abitano quelle banchine. L’Ombrone, nel tratto di sei chilometri tra Gello (alle pendici della collinare che porta all’Abetone) e il ponte dell’A11, è tornato ad essere il fiume delle passeggiate degli innamorati e delle corse dei runners, di uomini e donne che fanno scorrazzare i cani, di ragazzi alla scoperta del territorio: ai miei tempi, avremmo detto: che giocano agli indiani… Perché Firenze non fa lo stesso con l’Arno? Una pista ciclabile o il taglio dell’erba non bastano da sole a trasformare il fiume in un pezzo di vita; qui le sponde cittadine non sono considerate valichi verso il fiume ma mura che ingabbiano le acque, infide anche quando sembrano pozzanghere. Ci vorrebbe un ritorno all’amor proprio e all’amore della terra che calpestiamo. Il fiume resterà sempre un monito all’arroganza degli uomini (demenziale quella urbanistica) ma è anche gioia di sponde fiorite e di acque bellissime se pulite. Dai, facciamo tutti come Siddharta: sediamoci in silenzio lungo gli argini ed ascoltiamo il suono e le parole dell’acqua fino a quando avremo capito.
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i Zurigo, che è grande poco più di Firenze, fa invidia l’aristocratico trantran della vita musicale. Teatro dell’Opera e Tonhalle, l’auditorium per concerti, si fronteggiano da una parte all’altra del lago. L’Opera troneggia in piazza grande. Pare un tempio. Sulle prime mette soggezione, poi però, presa confidenza, si mostra per quel che è, rassicurante e civile. Esige rispetto, sì, ma senza imporlo con la forza; rispettarla viene naturale pure a chi non la frequenta. Qualsiasi zurighese, infatti, è consapevole che là dentro avviene qualcosa di importante. Non un rito incomprensibile per adepti snob. Lo stesso vale per la Tonhalle, che da fuori mostra l’aspetto anonimo di un centro congressi mentre all’interno esibisce la sontuosa imponenza di stucchi, ori, lampadari e colonne. Opera e Tonhalle palpitano di vita. Non si trascinano stancamente avanti perché un qualche dovere morale prescrive di mantenerle in attività a ogni costo. Sono loro stesse, con quel che
City 2
rappresentano per la storia della città e soprattutto con quel che giornalmente le offrono, a giustificare la propria esistenza. Punto d’onore, per entrambe, è tener le sale aperte il più possibile. Accolgono i bambini a braccia aperte con spettacoli pensati apposta. Agli adulti comunicano per mezzo di riviste curatissime e di siti web dinamici. Il teatro è perfino luogo di incontri professionali, galanti, conviviali. Di sera l’Opera è un trionfo di luci che si riflettono, moltiplicate, sul lago, e anche quando la temperatura scende sotto lo zero le signore in decolleté e tacchi alti (calzati al guardaroba in sostituzione degli stivali con cui arrivano) brindano sui terrazzi. Sono spettatori felici quelli di Zurigo. Considerano il teatro una festa. D’altronde non hanno da pensare che a mettersi in ghingheri e a divertirsi, visto che non sono nemmeno assillati dal trovare parcheggio: da qualsiasi quartiere provengano, sanno di poter sempre contare sull’efficienza dei tram.
by James O'Mara
City 3
Vienna
by James O'Mara
The watchmaker’s dilemma by James Bradburne
I
am a foreigner, and like all foreigners, always dreamed of visiting Florence. And, like all foreigners, I thought that Florence was a single, coherent destination. Now, after over seven years in the city, I have realised that the city is like a delicate watch, full of gears, some large, some smaller. A firsttime visitor is shocked to find that the city’s cultural resources are not managed – or even co-ordinated – by the city itself. This makes visible an inherent paradox of Florentine cultural politics. First of all, the cultural resources that attract the vast majority of visitors to the city – the State museums – are not controlled by the city itself at all, but by the Italian state through its Ministry of Cultural Heritage and locally through the Soprintendenza. Second, the institutions at the disposal of the city are under the legitimate jurisdiction of the Assessorato, (the city department responsible for culture) which has had seven Assessori (department heads, at the level of deputy mayors) in seven years. This is not necessarily a problem, but unfortunately the gears in the Florentine watch rarely mesh smoothly, with the result that the Florentine clock generally shows a single time – the Renaissance. And, like any stopped watch, it only tells the right time twice a day. Other cities share many of the same features as Florence – a rich past, an impressive architectural heritage, a small local population relative to the number of tourists – and the same pressures. However certain cities have managed to create an exceptional quality of life for their citizens, whilst meeting the needs for tourists of all kinds to explore and enjoy the city’s rich cultural offer. First among these cities by all measures is Vienna, consistently ranked among the most liveable cities in the world. A visitor to Vienna finds a city that is coherent and whole, with consistent way-finding signage, accessible information about the city online, public services that function efficiently, as well as a rich and varied cultural offer for every taste. Vienna too ‘suffers’ from the burden of its past as the centre of the Austro-Hungarian Empire, and its cultural resources too are in the hands of different levels of government. Yet the city is dynamic, vibrant, full of initiatives in traditional, modern and contemporary art and music, full of opportunities for families and children, for citizens and visitors alike. What accounts for the difference? A study commissioned by the Fondazione Palazzo Strozzi and undertaken by Boston Consulting Group (BCG) in 2011 highlighted the following best practices in Vienna: 1) long-term commitment by the city’s public and private stakeholders to support the redevelopment and enhancement of the city’s cultural offer; 2) autonomous governance whereby non-political Boards set strategic goals and trusted professional managers of international calibre to implement them without interference; 3) high-quality cultural initiatives to attract repeat visitors ready to pay for quality services and stay for several days; 4) transparent communication – both internal and external – of all cultural initiatives in the city and 5) a communication and marketing strategy to consistently promote both the city’s traditional and contemporary events, effectively reaching local, national and international audiences. What does this mean for Florence? An Assessorato that provides a multiyear planning framework for the city’s cultural events; consistent mediumterm support for key cultural institions – not yearly reductions and year-end uncertainty; international quality management delegated to autonomous managers – not meddling by politicans; international quality events and transparent communication of all the city’s cultural events – not provincial festivals and an incoherent image of the city. If Vienna can do it – why can’t Florence? ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com
Busto Arsizio Un futuro biodinamico di Cristian Giorni
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uove idee e giovani volti, questa la via per il rinnovamento della Città di Firenze e del Bel Paese tutto. Necessario fare appello ad un pensiero puro, che sia di ispirazione al singolo per il collettivo progresso meno industriale e più animico/spirituale. C’è bisogno di un Big Bang agricolo! Di una moderna presa di coscienza che comprenda che la natura è la componente vivente più vicina a Dio e dona vita all’uomo e agli esseri superiori. La Biodinamica offre sicuramente una visione del contesto agricolo innovativa, meno concentrata sul frutto ma più attenta alla terra, interpretandola come organismo vivente da mantenere e rivitalizzare. Con questo modo di percepire l’ambiente, a Busto Arsizio è stata riportata in vita la Cascina Burattana di proprietà del comune che, dopo decenni di incurie, rischiava di soccombere all’ingiurie del tempo, mandando in rovina un esempio di tipicità territoriale risalente ai primi anni del ‘600. Uno scempio che solo un atto di civile e comune condivisione di intenti ha saputo cessare. La fattoria del centro, un luogo che dispensa salubri prodotti in ambienti ristrutturati in bio edilizia, dove c’è spazio per seminari e scuola biodinamica, dove si impara ad accogliere il mondo
agricolo con un occhio olistico ed ispirato, una cooperativa sociale agricola in grado di produrre le risorse necessarie alla sua crescita. Un progetto che dopo quasi un decennio di rimbalzi burocratici, ha trovato finalmente attuazione per restituire alla città un bene pubblico arricchito di una visione nuova del tessuto sociale, cooperante ed attento all’ambiente come bene da restaurare e rivitalizzare. Come la Cascina Burattana nel Varesotto, a Firenze esempio mirabile della modernità del passato e il parco delle Cascine. Nato come tenuta agricola e riserva di caccia della famiglia Medici (‘563), fu il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena a fine settecento, sull’onda riformista del periodo, che ne fece un giardino utile, o parco agricolo. Edificò l’attuale sede della facoltà di agraria, la Palazzina Reale, adibendo a orti e foraggi le aree del parco e dedicando gli edifici annesse a stalle bovine ed allevamenti di fagiani e pavoni. Un’oasi moderna di un modello agricolo dinamico e pubblico, figlio di un riformismo illuminato che rese grande il Granducato. Di quella stessa luce dovrebbero brillare le menti per l’innovazione. Lungimiranti ed innovativi, per restituire ai cittadini un benesse-
re legittimo che passa dalla terra ed arriva sulle nostre tavole, nel rispetto e nella comprensione di quell’equilibrio tra terra, uomo, ed universo, scemato nei secoli. Rendere ancora vive e vitali quelle terre e quegli edifici in uso/ disuso delle amministrazioni, per offrire alla comunità tecniche nuove di coltivazione sostenibili e di prodotti più sani, attività e scuole per il progresso agricolo e sociale. Ormai palese come le attuali pratiche agricole e di mantenimento delle strutture rurali, sia solo volto ad un appagamento finanziario, perdendo di vista il territorio e la sua natura, obbligandolo ad una passiva espressione delle sue potenzialità. Depauperandolo e sfruttandolo fino a renderlo dipendente da un’agricoltura industriale fine a se stessa. il prossimo 20/23 Febbraio a Firenze, non è un caso, si terrà il 32esimo congresso nazionale di agricoltura Biodinamica, nella stessa città che ispirò il modello agricolo Toscano e che fece scuola di modernità civica con il Granducato e la sua politica liberista. Un compito importante quello della Toscana, da sempre alla ricerca consapevole di un’equilibrio tra uomo e natura. Lasciamoci ispirare dal passato, basta saper cogliere i consigli per l’uso.
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Trieste
Londra
Perle del Sale
La rivoluzione degli orti urbani
La mia città che in ogni parte è viva
di Stefano Pissi
di Clara Ballerini
D
N
a quando le città hanno smantellato le loro ultime cerchia di mura e soprattutto, poi, da quando il richiamo di un salario sicuro trasferiva in massa donne e uomini dai poderi verso le prime fabbriche, anche Firenze, la mia città, ha iniziato a ramificarsi sviluppandosi su tutta la pianura circostante. I borghi, i paesi, le città è chiaro che siano concepiti e realizzati dall’uomo per le sue esigenze; la città è riunione e, per questo, forza e protezione. In passato, specialmente, con le mura, ci si escludeva da un ambiente esterno inospitale, quello delle selve, quello naturale, senza comfort, e tutto ciò ha costituito un progresso, indubbiamente! In questo nuovo millennio però, secondo me, stiamo vivendo una situazione di vaso pieno… che basta l’ultima goccia. L’uomo ha continuato a progredire in maniera egoriferita, per il suo benessere, giusto, ma ragionando talvolta come un miope. Si è scordato delle sue ataviche origini di essere naturale .. cioè ha fatto i conti senza l’Oste, dico io, quell’Oste, cioè, che al di sopra di ogni religione, politica o scuola di pensiero, ci riporta dall’alto delle nostre ambizioni in terra, per farci capire che non si possono brutalizzare i percorsi o accelerare i tempi. E immagino per la mia città una sua evoluzione differente. Per esempio, a Londra, è stato pensato il London Food Strategy, un progetto di agricoltura urbana, che prevede la produzione di cibo, una parte almeno, in zone della città rimaste ancora rurali ma comunque in situazione di abbandono, coltivando cioè zone destinate a degradarsi anche socialmente. Sono state create inoltre delle Green Belt: fasce di verde che fanno da cuscinetto alle zone urbane dove si mantiene una memoria di naturalità e di storia attraverso la conservazione del paesaggio. Nella città di Madison, Wisconsin, ci sono invece i Troy Gardens: 12 ettari di zone inurbate, con campi, orti comunitari, e boschi per il rilassamento. Accanto a una casa che protegge un orto che ricorda, abbellisce e sostiene.
euroscienze, matematica e fisica, questa fusione di idee e conoscenze fa di Trieste una città moderna. A Trieste l’idea di affiancare discipline teoriche indipendenti per farne scienza sperimentale e cultura nuova si è declinata in modo concreto: ICTP (International center of theoretical physics), ICGEB (International center of genetic engineering and biotechnology) o SISSA (International school of advanced studies). Notate bene la I di tutti questi acronimi, cui corrispondono istituti di ricerca, vuol dire international. Ecco, vorrei che la mia città diventasse internazionale attraverso un progetto scientifico, un’idea nuova svincolata dal passato. Trieste, da porto di un impero era diventata una città ai margini del mondo e fu il fisico Paolo Budinich, recentemente scomparso, a vedere nella scienza la possibilità di dare un nuovo ruolo alla sua città, di rendere ancora attuale l’emozione che ispirava i versi di Saba (la mia città che in ogni parte è viva), ma soprattutto tramite il suo progetto restituì Trieste ai triestini creando un continuo fra ciò che è stato e il futuro.
La piazza
Lens Gli Uffizzi alle Piagge di Tomaso Montanari
«E
‘Tu chi sei?’, mi dicono, ‘Tutto è inutile sempre’ /, Tutte le pietre della città nemica, / le pietre e il popolo della città nemica» (da Franco Fortini, La città nemica, 1939). Ancora oggi gli abitanti e le pietre di Firenze rispondono così a chi vorrebbe cambiare lo stato delle cose: “Tutto è inutile sempre”. “Firenze è una città volgare” ha scritto Antonio Tabucchi nel 1999. E questa volgarità – per quanto possa sembrare paradossale – origina dalla sua bellezza. Sono le pietre dei suoi monumenti a soffocare ogni possibile futuro: anzi, è la nostra secolare abitudine a vivere di rendita su quei monumenti a trasformarci in sciacalli del passato, incapaci di futuro. “Firenze non è che un museo, strapieno di stranieri”, annotava Stendhal nell’inverno del 1817. Una barriera invisibile separa la Firenze del passato (il salotto, commercialissimo, del centro) dalle possibili incubatrici di futuro, l’altra città, culturalmente (e non solo) abbandonata a se stessa. Eppure basterebbe poco. Basterebbe un’idea. Il Louvre ha appena aperto una sede a Lens, nel nord della Francia, sul sito di una vecchia miniera di carbone: una “folle scommessa”, l’ha definita François Hollande nel dicembre 2012. Ma una scommessa carica di futuro, con una visione che lega il patrimonio artistico non al marketing passivo della rendita turistica, ma al riscatto sociale e civile di un territorio depresso economicamente e culturalmente. Perché non si tratta di una mostra temporanea, ma di un centro di ricerca vivo. Un ponte verso il futuro costruito con l'arte del passato. Sogno che un prossimo sindaco di Firenze, giovane davvero, rompa con la tradizione dello sciacallaggio del passato e commissioni ad un grande architetto contemporaneo un nuovo e grande museo da costruire alle Piagge. Un museo in cui esporre permanentemente una parte delle opere degli Uffizi: quelle dei depositi, ma anche alcune di quelle esposte. In un’epoca in cui il noleggio ad ore in tutto il mondo sembra l’unico destino delle opere d’arte dei musei fiorentini sarebbe rivoluzionario sdoppiare il museo nella stessa città, affidando a questi secondi Uffizi una missione letteralmente civica, cioè di costruzione della città e dei cittadini. Un museo del genere potrebbe essere tutto quello che gli Uffizi non potranno mai essere a causa della loro storia, e della fragile architettura vasariana che li contiene. Potrebbe avere un grande auditorium e veri ristoranti, potrebbe avere una parte interamente dedicata ai bambini, e accogliere concerti. Potrebbe avere, più banalmente, un grande parcheggio, e prevedere l’ingresso gratuito dei fiorentini. Potrebbe essere un museo per i cittadini, per la loro vita quotidiana e per il loro futuro: non una “macchina da soldi” per turisti. Potrebbe. Ma prima bisognerebbe svegliarsi da questo sonno secolare.
(disegno Lucio Diana)
l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Raffaele Palumbo. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi. Anno VI Numero 11 del 1/1/2014. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it
SI RINGRAZIA
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U
n bel modo per cominciare l’anno. Si evoca “La grande magia” al Teatro del Sale per il primo spettacolo dell’anno, giovedì 02 gennaio. Si apre così l’undicesimo anni di vita del Circo-lo che porta come sottotitolo “Firenze città aperta”. Ripartenza che segna il ritorno di Francesco Micheloni, un giovane illusionista, prestigiatore e mentalista, che con i suoi “trucchi” riesce a stupire ed a volte ad incantare il pubblico più diverso e spesso meno avvezzo a questo genere di spettacoli. “La grande magia” non è un tipo di spettacolo usuale per il Teatro del Sale, ma torna a grande richiesta proprio per la sua capacità di far diventare la leggerezza dell’illusione, spettacolo serio. D’altra parte, il Teatro del Sale, dopo aver visto passare migliaia di artisti, fa i conti anche con questa straordinaria eterogeneità degli artisti che hanno composto in questi anni e che compongono ancora l’offerta artistica. Il giorno successivo è la volta del “Giovanni Benvenuti Trio”, in sostanza un grande omaggio artistico a John Coltrane. Il sax tenore di Benvenuti, con Francesco Pierotti al contrabbasso e Andrea Beninati alla batteria. Grande opportunità sabato 04 gennaio per vedere in Italia David Yengibarian. Questo fisarmonicista arriva dall’Armenia, dopo una fortunata tournée che lo ha visto in questi mesi passare da Budapest, Vienna, Edimburgo e Londra. Uno straordinario musicista – con un grande curriculum – che incanta da alcuni anni le platee di mezzo mondo e che in qualche modo rappresenta la vocazione artistica del Teatro del Sale. Un chiave di lettura sul mondo e insieme una opportunità – dicevamo prima – per vedere una e ascoltare qualcosa di straordinario che è sempre più difficile trovare nei circuiti tradizionali. In questo, il Teatro del Sale è un grande osservatorio, che raccoglie continuamente i frutti di un lavoro seminato dal 2003 ad oggi. Come per l’appuntamento di martedì 07 gennaio con i “Rabarbari Trio”. Rivelazione musicale dell’anno, vincitori del Premio “Igor Troumeau”, capaci di spaziare – tra blues e swing – da Billy Joel a Paolo Conte. Di loro Maria Cassi – direttrice artistica del Teatro del Sale – dice: “sono dei ragazzi bravissimi, grande spessore, grande umiltà. Sanno imparare, ascoltare ed hanno capito la vocazione del Teatro del Sale. Iniziano a scriversi le cose da soli e già stanno raggiungendo un grande livello poetico”. Giovedì 09 è volta di “The Main Road Band”. Da Bon Dylan a Simon & Garfunkel, dagli Eagles a James Taylor, fino a Nash & Young, si tratta di un racconto musicale del “Grande sogno americano”. Satyamo Hernandez voce solista, chitarra e percussioni; Luca Burgalassi voce, chitarra, armonica, slide guitar e benjo; Franco Ceccanti voce e chitarre; Alessandro Sassoli voce, chitarre e mandolino. Dalla Main road, alla forte originalità de “Le Cardamomò”, in concerto venerdì 10 gennaio. Un evento concepito tra Italia, Francia ed Europa dell’Est. Protagonisti organetti, violini e trombe. A proposito di frutti raccolti grazie ad anni di ascolto, collaborazioni e duro lavoro, è non senza una certa soddisfazione che per mercoledì 15 gennaio il Teatro del Sale presenta l’anteprima nazionale di “Tandem a ruota libera”, il nuovo cd pubblicato da Dodicilune, di Marco Poggiolesi (chitarre) e Ferdinando Romano (contrabbasso). Poggiolesi, cresciuto al Teatro del Sale e ormai storico collaboratore di Maria Cassi, racconta: “Questo progetto, Tandem, lo abbiamo sognato, pensato e realizzato nell’ormai “lontano” 2010. Ferdinando ed io abbiamo cominciato a suonare insieme perché amiamo il jazz e volevamo suonare i grandi classici, gli standard ma eravamo entrambi incuriositi dal comporre brani originali e avventurarci nell’arrangiamento delle canzoni più famose del rock e del cantautorato. Abbiamo approfondito la ricerca di suono, di composizione, di arrangiamento con maggiore consapevolezza, con più coraggio”. Il 16 gennaio, torna un’altra grande passione del Teatro del Sale, ovvero la canzone. In questo caso si tratta della grande canzone partenopea, a riprova dell’interesse della Direzione artistica per tutti quei progetti capaci di raccontare territori, italiani ed europei, di far sentire il futuro, ma anche la memoria e la tradizione. È il caso di “Profumo di Napoli”, con Manuela Iori al pianoforte, Gianfranco Narracci al canto, chitarra e tamburo a cornice e Fabio Fabbri alla chitarra. Il giorno successivo torna la carovana de “Le canzoni da marciapiede”, tra canzoni e cabaret, pizzi, piume e soprattutto una straordinaria capacità scenica di rimanere sempre in bilico tra poesia e ironia. Dalla canzone, al canzone unita a cabaret, fino al teatro-canzone di Martino Corti e dei suoi “Monologhi Pop”. Sottotitolo: “Le cose non contano nulla”. Anche questo, assolutamente da vedere. Chiude il mese di gennaio, da mercoledì 22 al 31, Maria Cassi. Inevitabile riportare in scena “Attente al Lupo”, l’ultimo testo che dopo le prove in scena della scorsa estate ha fatto il tutto esaurito nelle numerose repliche autunnali. Inevitabile ma non scontato, perché la Cassi dice di sentire il desiderio e l’esigenza di riportare in scena le glorie delle passate stagioni, da “Fiorentini”, fino a “Crepapelle”. Quindi, un mese – quello di gennaio 2014 – iniziato con la magia, è già destinato a finire con la sorpresa. Per sicurezza, noi scriviamo che al Teatro del Sale, durante le ultime dieci serate del mese, in scena ci sarà: “Maria Cassi in...”.