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VITTORIA CRISOSTOMI
Articolo
Tracce di riformismo tra politiche pubbliche e disegno di piano
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Vittoria Crisostomi1
1 Università RomaTre Email: vittoria.crisostomi@gmail.com
Inviato: 5 ottobre 2020 | Accettato: 5 novembre 2020 | Pubblicato: 19 novembre 2020
Abstract
Il pensiero riformista attento a forma e coesione della città, al governo di redistribuzione e rendita, è descritto traversando nel tempo il Piano di Pavia, di Reggio Emilia di Roma. In quei venti anni la disciplina, per sollecitazioni di migliore adeguatezza, si articolava in molti rivoli e nuove forme di pianificazione, in cui il pensiero riformista si è disperso. Come rieditare, riconfigurare, adeguare quei principi di utilità pubblica dell’urbanistica riformista, quando oggi è tutto totalmente cambiato. I modi nuovi del riformismo ormai vanno ricercati nell’evidenziare le città come motori dello sviluppo. L’accrescersi del ruolo fondante delle città è stato ridefinito e assunto unitariamente come problema dalle politiche UE alla fine degli anni ’90, individuando l’esigenza di coniugare il benessere degli abitanti, senza disparità, e le politiche per lo sviluppo in un sistema evolvente, di cui vanno comprese le regole e misurate le prestazioni. Le politiche urbane oggi devono condividere un progetto di valori sul funzionamento della città, stabilendone le regole di costruzione: definire uno statuto urbano aderente alle forme primarie del territorio, all’ equilibrio ecologico, alle prestazioni necessarie per la qualità insediativa, alla scorrevolezza dei cicli quotidiani. Indirizzare verso forme di sviluppo selettive con profili raggiungibili, di opere adeguate ai bisogni e di progetti adeguati alle opere, di organizzazione aumentata da nuove tecnologie, di scambio leale tra pubblico e privato, di nuove regole per valutare la rendita. Il piano, sostenibile e riformista in una accezione aggiornata, è un telaio di occasioni affidabili tradotte in progetti a misura della dimensione imprenditoriale, a misura dei bisogni reali presenti, a misura delle prestazioni ricercate.
Parole chiave: politiche urbane, progetto urbano, sviluppo urbano
Come citare questo articolo
Talia M. (2020, a cura di), Le nuove comunità urbane e il valore strategico della conoscenza, Atti della Conferenza internazionale Urbanpromo XVII Edizione Progetti per il Paese, Planum Publisher, RomaMilano | ISBN 9788899237264.
© 2020 Planum Publisher
1. La parabola del piano riformista
Verso fine degli anni ’70, raccogliendo le precedenti istanze di riforma della legge urbanistica, si affermò nelle leggi e nei piani urbanistici un pensiero concretamente attento al controllo di redistribuzione e peso della rendita, alla forma e coesione della città, che perseguiva il benessere generalizzato a tutta la popolazione. Tale processo fu accreditato con una denominazione ex-post di “riformismo” contrapposto a quello dei “conservatori “o “massimalisti” in un dibattito intervenuto nei primi degli anni novanta. Va preso atto che in quei venti anni intercorsi, e fino a oggi, sotto la parola “riformismo” si sono avvicendate priorità diverse e modi di fare i piani diversi. L’idea di riformismo si è modificata nel tempo, secondo nuove evenienze,
secondo significativi effetti di modifiche legislative non direttamente afferenti all’urbanistica, secondo nuovi modi di affermarsi della rendita. Attualmente rimane molto difficile rintracciarne i connotati, in una esplosione di esperimenti di pianificazione e di sovrapposizioni legislative, e rimane un’aspirazione generica a una città più equa ed a una qualità insediativa migliore per cittadini e funzioni urbane. Attraverso la rilettura di tre piani emblematici di quell’approccio, Pavia, Reggio Emilia e Roma, è possibile ricostruire i presupposti, l’evoluzione e il repertorio finale degli elementi del piano riformista, fino alla sua evaporazione in mille messaggi non compiuti. Quando negli anni ’60, dopo la ricostruzione, si comincia ad applicare davvero la legge urbanistica, la concezione razionalista dei piani guida la progettazione, o cercando di razionalizzare l’espansione senza discuterne le ragioni (Firenze, Roma), o cercando di selezionare nella crescita le forze meno speculative e riorientare il regime immobiliare (ancora Firenze, piani emiliani, Bergamo) o accompagnando senza scegliere le tendenze in corso (Napoli, Genova, Venezia, Milano). Negli anni settanta, con le prime innovazioni legislative verso la riforma, si assiste ad una evoluzione dei tre gruppi di piani, di cui il secondo, tentando di incidere ulteriormente sul regime immobiliare, cerca di dare forma attraverso il piano anche alle politiche urbane. La maturazione e l’uscita dal piano razionalista verso il piano riformista possono essere segnate dal piano di Ravenna (Vittorini 1973) al piano di Pavia (Astengo, Campos Venuti, 1976) al piano di Livorno (Insolera 1977). Emerge in forma compiuta nel Piano di Pavia, (Campos Venuti, Oliva, 1978) il contrasto durissimo alla speculazione con la cancellazione immediata di 26000 stanze di lusso a ovest, la prima revisione del piano attraverso il piano dei servizi in adeguamento al di. ’68, all’interno della quale in realtà furono introdotte sensibili modifiche alla disciplina vigente1. Il paradigma del nuovo piano che antepone il miglioramento dell’esistente alla crescita, usa insieme zonizzazione normativa e strategia e sarà denominato il piano delle cinque salvaguardie. Questi sono i principi da difendere: priorità assoluta per la salvaguardia pubblicistica che ha tolto terreni alla rendita per raggiungere le dotazioni di servizi anche in aree centrali; segue la salvaguardia sociale di contenimento dell’espulsione dei ceti popolari dai loro luoghi di insediamento originario con le convenzioni e il controllo dei canoni; la salvaguardia del tessuto produttivo vincolando le destinazioni dell’industria tradizionale, ostacolando la terziarizzazione del centro storico, controllo ferreo sulle aree agricole; la salvaguardia ambientale con l’estensione del parco del Ticino al parco della Vernavola in città e una nuova disciplina del verde; la salvaguardia programmatica chiave di volta per l’attuazione del piano. Questa è costituita dalla scelta di commisurare le previsioni alle effettive potenzialità pubbliche e private, preoccupandosi della realizzabilità delle previsioni e distribuendo nel tempo le iniziative secondo un disegno complessivo. Si abbandonano i piani particolareggiati su tutto l’aggregato urbano, con larghe possibilità di intervento diretto ma generalizzando il regime convenzionale per tutte le licenze edilizie con commisurati impegni e oneri. Negli anni ’90 la linea di pensiero riformista trova ulteriori modi di espressione con il piano di Reggio Emilia (Parametro,1993) in cui si affermano due principi fondamentali per gli anni a venire. Il piano “ecologicamente consapevole “che recepisce i messaggi sulla sostenibilità in corso di definizione (rapporto Bruntland per le nazioni unite- 1987), e il piano che sull’onda dello scopo ecologico non esita a misurarsi con il regime immobiliare. Denuncia tutte le difficoltà della pianificazione ecologica di scala urbana, mai sperimentata e prima attenta solo all’extraurbano. Evidenzia la difficoltà del confronto tra le caratteristiche sistemiche dei processi dell’ambiente e della natura con la rozzezza dello strumento urbanistico a misurarsi con essi, poi svolge ampie analisi urbanistico – ambientali. La precondizione del piano è il pieno utilizzo del potenziale ecologico locale ai fini del riordino e dell’accrescimento della città. Esattamente l’approccio ecologico porta, per esempio, alla lettura dei livelli di impermeabilizzazione della città e delle reti di
1 Sulle normative del centro storico e delle zone agricole; modifiche alle previsioni residenziali con una ulteriore riduzione di 12000 stanze passate a destinazione pubblicistica, 3000 con abbattimento degli indici, 6000 con la soppressione della norma sui trasferimenti industriali; cancellati 430 ha di previsioni industriali. Prima significativa tappa per la pianificazione alternativa della città.
urbanizzazione e definisce una rappresentazione specifica delle proposte per il sistema ambientale, di riordino urbanistico ecologico. Tale tema viene associato con il governo del regime immobiliare e si assiste alle prime prove di perequazione intrattenute con i proprietari dei terreni. Questi a fronte di una concentrazione dell’edificato, con trasferimento delle volumetrie, liberano e rendono permeabile una significativa percentuale di terreno riservato a verde privato che, messo a sistema con gli spazi verdi procurati in altri modi, forma un’organizzazione riconoscibile nella tavola d’assetto comunale. Nell’attuazione dei piani la realtà mise a nudo pregi e difetti. (Crisostomi, 2011) L’evoluzione normativa fine ‘70 domina il nuovo modo di articolare il piano, tuttavia il meccanismo legenda – norme non serve quasi più a orientare la nuova forma della città, quanto piuttosto a richiamare un largo apparato di regole, procedure condizioni ed a far risaltare soprattutto la salvaguardia del “pubblico” vs il privato. Lo strumento risulta irrigidito per soddisfare tutti i sistemi di garanzie avviati. Inoltre, preoccupato di controllare grandi operazioni e grandi soggetti, complica le attività della piccola proprietà edilizia, che da sola non ha la taglia per reggere le condizioni durissime, rimane di fatto destinata all’immobilismo o a essere riassorbita da soggetti più forti. Si attiva così alla soglia degli anni ’80, una radicale opposizione al modello razionalcomprensivo di redazione degli strumenti urbanistici. Si afferma il modello del rifiuto del piano riformista di tradizione e delle sue imitazioni deteriori, criticato per la scarsa efficacia e la scarsa operatività. Così le trasformazioni saranno veicolate nella strumentazione urbanistica attraverso la nomenclatura di strumenti attuativi innovativi. Si avvierà il nuovo corso della pianificazione deregolamentata e la ricerca di una nuova forma del piano. Anche sul versante del piano ecologicamente consapevole lo sforzo trova il limite di integrare due paradigmi senza modificare le chiavi di lettura, tecnicizzando le letture ecologiche e organizzando nel piano gli argomenti ecologici urbanisticamente trattabili: i cunei verdi, l’erosione dei bordi agricoli, il verde di città, l’impermeabilizzazione ed un Regolamento Urbanistico Ecologico (RUE) da applicare. Nel tempo anche la spinta culturale della pianificazione ecologica è stata deviata verso gli aspetti normativi della disciplina. Si sono affermati strumenti giustificativi e valutativi non sistemici, dalla falsa razionalità oggettiva, che consentivano rappresentazioni elementari e semplificate di problemi complessi, cui sarebbero potute corrispondere soluzioni altrettanto elementari. Andrebbe indagata l’utilità ed efficacia di tali sistemi semplificatori e normativi, che non entrano nei processi e riducono le azioni di difesa e tutela in elementari nessi stimolo – risposta. Insomma lo statuto dei piani riformisti si allarga ad altri campi e si disperde in un vasto abaco di possibili costrutti (Arezzo 1987, Pistoia 1986, Firenze 1985/7, Siena 1990, Piacenza 1990, Torino 1991/3, Livorno 1996, Brescia 1995/8, Prato 1993/6) in cui si consolida la sequenza logica e di elaborati che parte dalle analisi mirate e prosegue con schemi strategici, indicazioni d’area vasta, struttura del piano e della città rivisitata, azzonamento- legenda- norme, con o senza regolamento urbanistico, schede progetto / esempio / norma / abachi.(Crisostomi, 2011) Intanto la disciplina, per sollecitazioni multiple di migliore adeguatezza, si apre alla ricerca della flessibilità, della interdisciplinarietà, della complessità, delle possibili forme – piano espandendosi nella natura normativa e nelle aree disciplinari adiacenti, in operazioni di regolazione o di riduzione della complessità, con esiti spesso inefficaci e una platea autoreferenziale. In questo clima confuso il patrimonio dell’urbanistica riformista si applica al piano di Roma che, guidato dal suo padre nobile, Campos Venuti, conferma l’eredità culturale della lotta alla rendita. (Fantin, Sbetti, 2012) Ma questo principio, dopo l’indiscutibile esigenza della pianificazione ecologica, dopo il collaudo del meccanismo della perequazione, dopo la verifica della improponibilità degli espropri, dopo una articolata politica per gli standard, dopo la accettazione inevitabile della necessaria negoziazione con i privati, porta a conformare un piano che, pur avendo utilizzato tutta la tastiera rinnovata del piano riformista, manda molteplici messaggi in un costrutto piuttosto complicato. A questo va aggiunta la difficoltà dell’epoca nei rapporti della politica e degli equilibri di maggioranza, della ostilità della Regione, della diffidenza dei Municipi, del dibattito in corso sulle legge di riforma nazionale, del contemporaneo e incompiuto
schieramento dell’INU per lo sdoppiamento in due livelli del piano.2 Il semplice messaggio di lotta alla rendita e dello spirito (almeno un po’…) autoritativo del piano, erano ormai diluiti in una formula piuttosto complessa in cui, a una narrazione inattaccabile di piano riformista, corrispondeva una difficoltà di fondo di gestire il piano su più livelli contemporaneamente (Palermo, 2020). Il PRG di Roma, con la successiva nefasta unificazione dei dipartimenti urbanistica ed edilizia, si disperderà tra più leggi diverse, sempre più complicate, sovrastato da leggi regionali di rigenerazione urbana, aprendo le porte alla burocratizzazione della disciplina.
2. Tracce di riformismo nelle politiche pubbliche
Eppure le aspirazioni alla qualità insediativa, ad uno sviluppo equilibrato e ad alto valore aggiunto, ad una città con una vita quotidiana fluente per cittadini e imprese sono tuttora presenti, a fronte di disciplina progetti e strumenti quanto mai lontani da queste apparentemente semplici istanze. Come rieditare, riconfigurare, adeguare quei principi di utilità pubblica dell’urbanistica riformista, quando oggi è tutto totalmente cambiato, con quale filo ritrovarli. Sotto il mantenimento della forma delle città (e dei piani) in realtà, in questi ultimi venti anni, è cambiato tutto (Ricci, 2017): il modo di lavorare, il modo di produrre, le caratteristiche degli scarti, le relazioni tra classi sociali, i bisogni di servizi, le possibili nuove forme di welfare, il modo di intrattenere relazioni, il modo di chiedere e praticare la mobilità. I pilastri di questo necessario nuovo modo di rappresentare i problemi nella storia delle politiche per le città sono già scritti dalla fine degli anni ’90. (Calafati, 2014) Infatti il contrasto tra l’accrescersi del ruolo fondante delle città e del loro successo con gli squilibri e disparità urbane, era stato ridefinito e assunto unitariamente come problema anche dalle politiche europee, con tentativi e aperture anche in Italia, miseramente abbandonati intorno al 2014, in cui veniva individuata l’esigenza di coniugare il benessere degli abitanti e le politiche per lo sviluppo in un sistema evolvente, di cui vanno comprese le regole e misurate le prestazioni. Secondo quell’approccio si perseguono le politiche che dovranno regolare la ricerca del profitto e dello sviluppo economico anche senza crescita fisica, ed esaltare gli asset funzionali e le attività di base delle città con cui entrano nella competizione internazionale. Dovranno anche regolare il contenimento degli effetti selettivi dello sviluppo e delle disparità, che alimenterà la ricerca di forme redistributive ed equitative della ricchezza. I due aspetti si avvitano tra loro producendo una generalizzata istanza di benessere e di qualità insediativa cui dare risposta. Per entrambi i temi, disparità e competizione, l’urbanistica, nella forma della città, dovrà ricomporre profitti e lavoro, qualità ambientale, coesione sociale. Insomma è il momento in cui si passa dalla concezione di piano che tenta di veicolare politiche, alla dichiarata ricerca di politiche finalizzate al miglioramento della salute, del benessere e della qualità della vita. Il campo pratico entro cui trovare i modi nuovi del riformismo ormai va ricercato nell’evidenziare le città come motori dello sviluppo, la cui maggiore efficienza è legata a una condizione di benessere generalizzato, e si misura in termini di prestazioni e non più di dotazioni. Interessi, profitto, comportamenti, gruppi sociali, bisogni, sono fortemente sovrapposti e integrati, in una realtà multiforme e sicuramente contraddittoria, richiedono politiche differenziate e trattamenti progettuali specifici, seppur mantenendo insieme l’intera città come unico sistema complesso di competitività, sostenibilità, prossimità ai bisogni. Ma allora la soluzione non risiede solo negli strumenti disciplinari o nelle tecnologie. È evidente che bisogna esercitare un cambio di visione sulla natura della città e non solo sugli strumenti, un cambio di conduzione delle azioni e non solo di revisione dell’apparato normativo. I paradigmi di un’urbanistica rifondata tornano comprensibili e vicini alla realtà se poggiati su una ridefinizione e reinterpretazione dei problemi di sempre, su un uso corretto integrato e innovativo di quello che c’è.
2 Contesto e avvenimenti, oltre alla vasta letteratura sull’argomento, sono magistralmente descritti, in forma assolutamente trasparente, nel libro a cura di Fantin,M. Sbetti, F. “Campos Venuti. Amministrare urbanistica oggi” INU Ed 2012.
Pensando a un esercizio concreto bisogna sperimentare una città uguale all’esistente, ma “altro da sé”, non solo quella smart permeata di nuove tecnologie organizzative, non ancora quella aumentata da congegnare integralmente in una visione di futuro, (Carta, 2019) ma qualche primo germe concreto di pratiche, alla portata immediata degli strumenti disponibili, per una città rifondata su progetti commisurati. Visione e realismo, in assenza di una teoria completa che nessuno scriverà mai, si possono comporre appoggiandosi ai flebilissimi e dispersi vettori di possibile innovazione già in corso nella città, sul nuovo modo di essere città dentro alle vecchie forme, sul modo specifico di valorizzare la sua essenza e quello che c’è dietro alla sua forma. Ogni intervento “sostenibile” nella città vuol dire che sta in equilibro con le forme del territorio, con quello che produce, con chi la abita, con chi la usa e come evolve, che costruisce il benessere dalla ridefinizione delle prestazioni necessarie.
Figura 1. Il tentativo di comprendere e descrivere un processo che tiene insieme la morfologia primaria, la stratificazione dei tessuti, le emergenze ordinatrici del paesaggio costruito. Fonte: Tesi di laurea “Riqualificazione urbana e architettonica dell’area dell’ex Fiera di Roma” Luca Bambina e Lorenzo Carrubba
3. Un possibile abaco riformista
Ecco un possibile elenco di problemi vecchi da guardare, e quindi risolvere, con occhi nuovi, ecco un inventario di un possibile uso migliore di quello che c’è, ecco un possibile abaco riformista, secondo tre dimensioni prevalenti: dimensione ambientale, dimensione insediativa, dimensione economica. Da isole non edificate a sistemi continui. Il problema del verde inospitale è in realtà quello degli spazi aperti non percepiti, e va affrontato attraverso la lettura della forma primaria del suolo della città, attribuendo senso a tutti gli spazi liberi. Le aree libere tra il costruito, aree verdi cedute nelle convenzioni urbanistiche mai attrezzate e abbandonate, aree in attesa di destini negli interstizi tra quartieri, relitti di corsi d’acqua intermittenti, aree inedificabili per caratteri intrinseci, vanno reinseriti nel sistema continuo della natura e delle sue regole, che ha ospitato l’edificato e
ne è spesso occultata. (fig. 1) Serve la riconnessione di una configurazione unitaria che si infiltra nell’edificato, in cui le parti assumono un senso attuale. Serve un uso pertinente degli affioramenti di un sistema continuo, una valorizzazione delle porosità verdi rese visibili e accessibili ai cittadini appena escono di casa, esattamente come il marciapiede. (fig. 2) Serve muoversi in un disegno delle reti verdi e della mobilità dolce, ricostruendo ove possibile la continuità ecologica, ora fondamentale nel post CV19. La città che c’è già va inserita in un nuovo paesaggio comprensibile, che tiene insieme il paesaggio originario ricondotto nella vita di tutti i giorni, la città esistente e le trasformazioni necessarie. I progetti devono assecondare le ragioni della natura e della morfologia dei luoghi, entro cui ricomporre e consentire i cicli di vita presenti, consapevoli dei limiti. C’è un determinismo evidente, chiarissimo, dei limiti delle trasformazioni possibili per chi sa leggere le regole dei luoghi e metterle in corrispondenza con i bisogni degli uomini.
Figura 2. Il tentativo di collocare le azioni di piano identificando un possibile sistema continuo e riordinando gli affioramenti, con possibilità di correggere eventuali localizzazioni sbagliate. Fonte: Tesi di laurea “Riqualificazione urbana e architettonica dell’area dell’ex Fiera di Roma” Luca Bambina e Lorenzo Carrubba
Da aggiunte successive a riarticolazione del sistema insediativo. La crescita urbana con le semplici regole dell’occupazione del suolo secondo aggiunte successive è un metodo generalista e rigido, in realtà sempre più fuori dal ciclo di vita della città (Stanghellini, 2017). Concretamente significa che il ciclo di vita dei cittadini e dei bisogni va accompagnato con forme di revisione tecnologica dell’edilizia, densificazione per l’ottimizzazione delle attrezzature pubbliche, cura per i luoghi
identitari. Vanno trovate forme di integrazione tra quartieri isolati della città costruita, utilizzando le porosità della densità bassa, che non usa la città a fondo, secondo i margini offerti dalla natura. È necessario ammorbidire l’offerta edilizia per le nuove forme demografiche e nuovi tipi di famiglie come singoli, anziani, studenti e giovani coppie (Gallent, 2019). Altrettanto per le nuove forme produttive, spesso profilabili come infiltrazioni di nuove funzioni con poco consumo di spazio. È necessario ammorbidire la produzione delle opere pubbliche, governandone dimensioni impatti e ricadute positive proporzionati al problema. Da progettazioni di grandi opere nuove a progettazioni rispondenti strettamente ai bisogni, con progetti commisurati ad essi nelle tecniche, nei costi e nei modi di manutenzione. Da traffico irrigidito nella costruzione del modello ingegneristico di rete per una città fordista assai improbabile, bisogna plasmare la mobilità come servizio alle persone e pensare le relazioni come funzioni della città creatrici di valore. Da offerta di servizi di trasporto standard a offerta di accessibilità ai benefici urbani da parte dei sistemi locali. Non bisogna collegare nodi della rete ma luoghi delle persone. Comporta cura delle connessioni e ordine delle reti, attenzione alla fluidità dell’intero ciclo del viaggio tra locale ed urbano, risposta adeguata alla funzione di utilità dell’utente. Dalla rendita assoluta all’ottimizzazione dei fattori di mercato. Il sistema delle imprese tradizionali della produzione edilizia seriale ha accumulato abbastanza invenduto per cominciare a considerare un cambiamento di sistema. Ovviamente la tattica è proseguita nel massimizzare la rendita differenziale con minimo livello di rischi e di oneri, con demolizioni e ricostruzioni in aree centralissime, gabellando per rigenerazione semplici operazioni di sostituzione edilizia. Con le politiche riformiste potrebbe essere ritenuto remunerativo il passaggio da amministratori della rendita esistente e del suo rigido mantenimento organizzato e sistematico, ad inventori e percettori di rendita marginale aggiuntiva basata sul miglioramento della qualità insediativa. Esternalità aggiuntive possono essere catturate non solo dalla revisione e completamento dello stock edilizio, ma anche impegnandosi in quote di manutenzione gestione e miglioramento dello spazio pubblico circostante. È stato dimostrato che il rientro di queste esternalità può innalzare il valore del venduto almeno del 5%. In tal caso è evidente che anche l’operatore pubblico dovrà ammorbidire lo stile imperativo verso un profilo proattivo e negoziale di accompagnamento del processo. (SIEV, 2019) Bisogna prendere atto che la crescita viene danneggiata dalle disuguaglianze. I servizi di welfare dovranno prendere cura del profilo sociale locale da parte dei cittadini, ammorbidire le risposte offrendo modi di abitare locali più articolati, rimaneggiare l’esistente in spazi pubblici di quartiere che assecondano la vita di tutti i giorni. Dal well.being locale allo sviluppo infrastrutturato. Non possiamo dimenticare che la città per offrire qualità della vita della popolazione insediata e un efficiente funzionamento, deve avere precise prospettive di crescita e sviluppo nei settori che ne possono costituire la base economica. Questi devono essere accompagnati dai progetti di trasformazioni strutturali per l’adeguamento e il suo nuovo profilo. Ma allora la guida nella scelta delle più importanti trasformazioni, dovrà essere quella di selezionare tra i progetti, ampiamente esistenti, i pochi utili allo sviluppo delle attività trainanti, in una città in grado di tenere in equilibrio molti fattori insieme, tra cui il profitto. La rivisitazione dei progetti non riguarda solo i miglioramenti per i cittadini ma anche una attenzione all’efficienza dei cicli produttivi. Non basta una localizzazione ma serve un pacchetto infrastrutturale integrato, composto di accessibilità fisica e immateriale, qualità ambientale, dotazioni di servizi e rappresentatività di immagine. Il ragionamento riformista sulla città ha un centro e due processi tra loro connessi: quello della qualità insediativa di quartieri integrati e dello scorrere della vita quotidiana, e quello dei progetti urbani per il nuovo sviluppo della città. Sono due reti di relazioni di interessi di aspirazioni di comportamenti che si sostengono reciprocamente e si connettono in alcuni luoghi speciali. Dal piano pubblicista allo «scambio leale». Agli attori che intervengono nel processo di trasformazione della città va proposta una riconfigurazione che, senza rinunciare al profitto, riesca ad esaltare i profili più attraenti e innovativi del proprio settore. Gli
operatori immobiliari devono sviluppare le loro prospettive di guadagno, esplicitando e dando valore economico anche alle rendite di esternalità che provengono loro da una città riqualificata ed efficiente e da un sistema pubblico della infrastrutturazione efficace. I fornitori di servizi a rete e del trasporto devono pensare a nuove e più resilienti forme di esercizio. È evidente che vada costruito un patto, rifondando il rapporto pubblico privato su basi nuove e, non dimentichiamolo, su una condivisione o almeno su una corretta consapevolezza da parte della popolazione. La chiarezza di opzioni sulla città può rendere disponibili imprese e servizi a condividere un percorso, con l’operatore pubblico, sul cui sfondo sono chiare le convenienze. Le attività devono essere attratte da uno «scambio leale» (Curti, 2006), di vantaggi economici e dei benefici pubblici. La fluidità della vita quotidiana offre vantaggi sociali, ma anche efficienza e un milieu favorevole per la conclusione di progetti per lo sviluppo imprenditoriale. Quindi alla base di tutto c’è e deve esserci uno «scambio leale» per cui le imprese mettono sul tavolo le convenienze vere, senza infingimenti di pubblicismo spesso a copertura di equilibri sperequati. Si trova apertamente un nuovo equilibrio rispetto al progetto, che tenga conto anche dei vantaggi privati derivanti da avere intorno una città fluente ed efficiente, rinata con i criteri della città riformista. Un progetto quindi che non assuma perimetri e dettagli del piano particolareggiato ma che tenga dentro le azioni necessarie e sufficienti per le quali il miglioramento del profitto sia motivato anche dal miglioramento dell’efficienza: un progetto di territorio. (Palermo, 2017) E a questo dovrà corrispondere un business plan veritiero, finanziario ed economico, che tenga conto dei valori aggiunti di una città efficiente. Non sfugge che l’operatore pubblico dovrà affermare con forza la sua immagine di soggetto programmatore e regolatore dei reciproci interessi, deve avere chiarissimo chi vuole, cosa vuole, quali leve usare per trovare un equilibrio, quali benefici collettivi sono sostenibili e possono riversare utilità aggiuntive sul progetto privato, deve saper trattare i singoli progetti avendo a mente un percorso e una strategia complessiva di soggetti e oggetti che si muovono nella città.(Urban§It, 2019) L’esempio della differenza tra progetti a guida politica proattiva dell’Amministrazione, come Citylife, e progetti a guida economica delle Aziende, come a stazione Tiburtina, è un paradigma chiarissimo.
4. Tracce di riformismo nel disegno di piano
Assistiamo così a un completo ribaltamento del paradigma riformista degli anni ’70 che usava la tecnica di piano per curvare le politiche, verso una politica unitaria ma differenziata, che tra le altre forme deve usare quella del piano. Un sistema in evoluzione, un processo economico e sociale, se messo in moto, non si può fermare con la rappresentazione unica del piano, che al massimo, se ben fatto, potrà raccontare la forma e le relazioni che avrà la città dopo un certo periodo di tempo. Utile, proposto e condiviso come modello da raggiungere, indispensabile strumento di confronto, ma certo non in condizioni di guidare un processo per un lungo periodo di tempo. Non basta congegnare un piano: esso deve diventare il simulacro delle politiche urbane per lo sviluppo complessivo della città e realizzarsi attraverso progetti di territorio in coerenza con le possibilità concrete del momento, e con forme di controllo e feedback sulla tenuta del programma in coerenza con la realizzazione delle opere. Altrimenti si inchioda un modello organizzativo alla realizzazione, quasi in vera forma, dei singoli progetti di opere pubbliche e private, in nome di una ipotetica fattibilità concreta: due contenuti progettuali diversissimi compressi in un unico atto. Inoltre un’agenda articolata secondo un piano concepito come telaio di occasioni affidabili, che rimane stabile solo finché condiviso e coerente, non si può realizzare ingabbiato in un apparato regolativo di norme o in perimetri. Questa grande distanza tra la visione strutturale dei programmi e le azioni che li realizzano è fatta di variazioni delle convenienze dei soggetti, di bilanci altalenanti degli enti pubblici, di istanze variabili della popolazione insediata e delle sue diverse forme di rappresentanza, di nuovi interventi inattesi modificativi degli assetti, che bisogna colmare. Va quindi tenuta costantemente aperta la possibilità di
rimodulazione e aggiornamento del programma, senza perderne l’impianto strutturale e l’orizzonte condiviso di sviluppo. Si modifica radicalmente la concezione degli strumenti operativi dell’urbanistica che, per garantire il successo di programmi misti, devono disgregare il disegno finale come una sequenza di schemi aperti, scomponendo e ricomponendo continuamente equilibri tra azioni e fattibilità, adeguati progetti di territorio sotto una stabile idea guida. Il piano, attualizzato, si realizza per occasioni, ragionevolmente sollecitate, in cui i benefici urbani si incontrano con un mercato che ha registrato tra i fattori di rendita le esternalità di una città organizzata ed efficiente. Non hanno perimetro; sul territorio si disegna il precipitato fisico dei problemi e dei vantaggi che si sono assunti come traguardo. In esso si realizza quello che serve come serve, organizzato in un progetto: a misura della dimensione imprenditoriale, a misura dei bisogni reali presenti, a misura delle prestazioni ricercate, a misura di una migliore vita di prossimità, a misura del governo delle ricadute generali e locali, con l’operatore pubblico a misura di una guida strategica nel tempo Ma essere sempre revisionabili pone i programmi fuori dalla tradizionale collocazione gerarchica degli strumenti e dei soggetti demandati a validarli, la cui forma di accompagnamento non può certo essere la variante urbanistica. Insomma il disegno di piano sulle tracce del riformismo richiede pratiche di governo del territorio nelle forme che si presentano al momento fattibili, in azioni a volte destrutturate in tattiche e occasioni momentanee «trasformando la città da spazio attentamente (e rigidamente) progettato, ad ambito euristico nel quale attivare nuove forme di appartenenza e in cui sperimentare le politiche urbane concertate dai soggetti e attori delle trasformazioni insediative» (Talia, 2015).
5. Alla ricerca di pratiche concrete
Si dimostra che, a fronte di questa ricerca di metodo, non si siano persi gli elementi fondanti del piano comunale e che tali argomenti siano già oggetto da tempo di pratiche concrete. Si segnala la revisione del piano di Londra, dopo il ripristino della Greater London Authority, del 2004 -08 e 2011, in cui il tema della rete del verde è una componente essenziale del piano e delle politiche per la città, avviate nel 1997 dai laburisti e proseguite nel 2010 dai conservatori. (Nucci, 2017) Il tema guida della pianificazione delle aree verdi è costruito sul principio rinnovato che le aree libere residuali, abbandonate, non curate, debbano essere i connotati essenziali della città riqualificata e siano la chiave per la organizzazione a sistema del verde e della mobilità locale, a guida dell’organizzazione dello spazio pubblico e delle occasioni di negoziato con i privati. Con questo metodo progettuale, su una lettura delle forme primarie, una formulazione delle precondizioni e raccomandazioni iniziali, si articolano i piani dei 32 boroughs di Londra. Ad esempio nel caso di Lewisham Core Strategy Deptford New Cross, (HKR architects 2007), sono stati enunciati i criteri con cui vanno organizzate le reti locali e le connessioni alla città definendo l’uso e i caratteri dei percorsi e dei luoghi identitari, avvicinando le parti meno servite all’accesso al fiume. Lungo la rete locale riqualificata e connessa, sono richiamate le ubicazioni per le possibili trasformazioni, utili per definire le trattative pubblico private. Sulla stessa scia pragmatica la revisione del piano del 2016 introduce le opportunity areas (38) e le intensification areas (7). Le opportunity areas sono una riserva di aree intercluse o abbandonate con una capacità significativa di insediamento di nuovi alloggi o funzioni urbane (stimate mediamente sui 5000 addetti o 2500 nuovi alloggi), connessi all’accesso ai mezzi di trasporto. Le intensification areas sono aree già costruite con una buona accessibilità, che possono sostenere una riqualificazione con densità più alte. La cosa interessante è la precisazione dei requisiti di integrazione delle proposte nella città, consistenti nell’ottimizzare il rapporto tra densità e infrastrutture sociali, raggiungere il numero di addetti o di abitanti indicati, contenere il mix di funzioni meglio legate alle esistenti, intensificare l’accessibilità inclusiva al trasporto pubblico, integrare e rigenerare le aree circostanti. Si tratta esattamente di tutti quei valori affermati come prestazioni necessarie della città, derivanti da politiche urbane riformiste. Ed anche la forma del piano, fatte le debite differenze,
presenta un quadro di indirizzi sulle occasioni possibili selezionate e rinvia, con i requisiti necessari già concordati e stabiliti, alle capacità attuative locali dei boroughs ed a singoli negoziati. Le tracce di riformismo vanno ricomposte in una forma indispensabile per rifondare la coesione della città su una sostanza valoriale: i valori non sono astratti, ma guidano le azioni e hanno ricadute economiche e sociali concrete. È indispensabile una ripresa effettiva di prospettiva e di riconfigurazione condivisa del profilo della città che, partendo dal rispetto della forma urbana primaria e dall’identificazione della sua vita reale, ne delinea i tratti programmatici e del futuro.
Riferimenti bibliografici
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