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Editoriale
Nel giugno del 2006 si svolse presso l’Accademia dei Lincei un importante convegno durante il quale, per la prima volta dalla caduta del Muro di Berlino e dopo 15 anni di privatizzazioni selvagge, si sollevò il problema della dismissione dei beni pubblici di carattere strategico. Ovvero di quelle aziende necessarie a che il Sistema Paese potesse sempre e comunque sopravvivere a sé stesso (si pensi al periodo del COVID quando si andava in torre e in sala radar sempre e comunque a garantire la continuità delle operazioni).
Da quel convegno, e dalla successiva commissione Rodotà creata per riformare le parti di Diritto relative alle alienazioni Statuali, venne fuori un disegno di legge che creava tassonomicamente i cosiddetti beni ad appartenenza pubblica necessaria, o beni pubblici sovrani.
Queste tipologie di beni pubblici, presenti ancora e più adesso, rispondono a interessi generali fondamentali la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Si tratta di interessi quali ad esempio la sicurezza, l’ordine pubblico, la libera circolazione… per essi è prevista una disciplina rafforzata. Venne scritto che questi beni dovevano essere caratterizzati da forme di inalienabilità sostanziale.
In pratica si diceva che in caso di seri problemi alla società italiana alcune aziende sarebbero state chiamate a salvaguardare libertà di movimento, diritto alla sussistenza, tutela dei diritti civili, etc.
Alla fine non se ne fece niente e il disegno di legge fu affossato.
Questo permise negli anni seguenti la vendita di pezzi pregiati di altrettante pregiate aziende italiane, seguendo la falsariga delle privatizzazioni liberiste, vendendo ciò che meglio funzionava ai privati. Il rischio imprenditoriale azzerato dallo stesso Stato che vendeva.
Anche ENAV anni addietro è entrata nel risiko delle grandi privatizzazioni così che adesso il provider italiano dei servizi della navigazione aerea, unico caso la mondo, quota in borsa corrispondendo i dovuti dividendi a chi ha investito sulle attività ATC.
Da qui è notizia recente del possibile e ulteriore passo di lato dello Stato, che intenderebbe vendere un ulteriore 20% del provider per trovare, nella sommatoria che si verrebbe a creare con altre aziende a partecipazione pubblica, circa 6 miliardi entro il 2025.
Da questa cessione lo Stato potrebbe incassare circa 400 milioni. Forse però l’idea di ravvedere nell’introito di breve periodo un giusto contrappeso alla voce sempre più minuta dello Stato nelle attività strategiche del sistema Paese non è priva di rischio. Perché nel lungo periodo altre nazioni stanno investendo nelle loro aziende, tutelandole dalle spinte dei mercati, sapendo per certo che la differenza fondamentale con quei mondi che cercano di farsi spazio a spallate la può fare solo il possedere un determinato know how accumulato per decenni. E sul quale occorre ancor più investire adesso.
Noi invece ce lo vendiamo.