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Anno 5 - n. 9 Dicembre/Febbraio 2012
Manuela Morabito Papà la manda sola
Viaggio nelle carceri
La vera galera è non avere spazio
Azzurro prossimo
Tutto sulle Apps Ecco le maglie della Nazionale che Prandelli guiderà agli Europei Quelle che servono, quelle che sono inutili ma bellissime da vedere: il mondo della telefonia è cambiato, Comici Associati oggi lo stesso apparecchio chiama, Tre uomini di cabaret indica i giorni fertili e trova l’auto perduta nel parcheggio. e una nuova idea di spettacolo
Cook it raw
Un gruppo di chef, un paese che non conoscono, un compito affascinante: trovare sul posto quello che serve per accostare, creare, abbinare e presentare, dopo aver lasciato tutto rigorosamente crudo.
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SOMMARIO n°
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38 Pavia: La rinascita culturale Da Montmartre all’Oltrepo
9 | DICEMBRE 2011/FEBBRAIO 2012
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40 Piacenza: Vincere l’inquinamento Smog on the rocks
42 Milano: Guida ai giardini insoliti Verde meneghino
44 Moda & Tendenze: L’arte Montblanc Una macchia bianca sul mondo
48 Giovani pellicole Cinema: 29° Torino Film Festival
6 Cover story: Manuela Morabito Il cuore grande della ragazza
50 Spettacolo: Comici Associati Insieme per ridere (e non solo)
Immersi nell’Azzurro
10 Attualità: Mars Science Laboratory
52 Motori: Motor Show 2011
Rosso relativo
L’auto in fuga
12 Attualità: il mondo delle Apps Semplice come un click
48
14 Speciale: High Line Park Il parco che non c’era
Nudo e crudo
60 FOOD/2: Spaccio agricolo Ancona Maiale a chi?
Cartoline dall’Italia
Dove il sole si vede a scacchi
64 Speciale Le città di domani Gli occhi sul futuro
20 Speciale Scuole 24 Collegio San Francesco (Lodi)
56 FOOD/1: Cook it raw!
62 FOOD/3: La sacca del gusto
16 L’inchiesta: Viaggio nelle carceri
Ecco noi, per esempio
54 Sport: Le nuove maglie della Nazionale
26
Quando saranno grandi
26 Speciale Saldi Ok, il prezzo è scontato
32 Revest Jeans Nella patria dello sconto
34 LabIII Lucy in the sky
36 Lodi: Infinity Live Musica dal silenzio
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L'EDITORIALE
L'anno che verrà Con questo numero, eccezionalmente in circolazione fino a tutto il mese di febbraio, si chiudono i primi cinque anni di &Co. Magazine. Un lustro che ci è servito per crescere, affinarci, capire cosa offrire e cosa evitare in ogni numero a chi ha deciso di scegliere proprio noi, nell’immenso panorama editoriale italiano. Non stiamo cercando un modo diverso per autocelebrarci, e nemmeno una strada per cedere ai ricordi più facili, ma soltanto voltare un istante lo sguardo all’indietro per riuscire a guardare in avanti. Torneremo puntuali con nuove idee, dalla grafica ai contenuti, dall’espansione alla presenza sui territori su cui ci siamo allargati in questo primo lustro di vita. E allora concedeteci solo un istante per ringraziare chi in questi anni è passato di qui, e in un modo o nell’altro ha lasciato il segno, chi ha scelto altre strade e chi invece continua ancora, ogni mese, a buttare passione e forze in questo progetto chiamato &Co. Magazine, sessantasei pagine nate quasi per scherzo e finite per essere un appuntamento fisso per migliaia di persone che qui trovano notizie, informazione e curiosità, tutto scelto e trattato a modo nostro. Ma per quelli come noi sporcare la carta è una malattia da cui non si guarisce, che procura dolori e mal di pancia a mai finire, ma che ogni mese – per chissà quale magia – finisce per far dimenticare ogni cosa, nell’istante in cui si sfoglia il numero appena arrivato dalla tipografia, e insieme a lui torna la voglia di pensare al prossimo. Ma non sfuggiamo neanche noi, alla voglia di augurare a chi ci segue un sereno 2012, nella speranza che siano iniziati dodici mesi capaci almeno ogni tanto di portare qualche buona notizia nelle case degli italiani. La nostra promessa dei buoni propositi per l’anno che comincia è proprio questa: rinnovare l’impegno che in fondo vuole anche dire fare la nostra parte, per piccola che sia, per tentare di rendere questo paese un po’ meno difficile, e regalare a chi ci legge attimi che portino via la mente dai problemi che ogni giorno i telegiornali ci riversano sulle spalle. Da cinque anni a questa parte ci piace pensare ai nostri lettori come ad un gruppo di amici, che ogni mese si ritrovano e parlano, dimenticano il resto e alla fine sorridono. Fra amici si fa così, perché gli amici, quelli veri, devono esserci, specie nei momenti in cui tutto si fa più difficile e i miracoli bisogna farseli da soli. Per un altro anno insieme, disseminato di tante piccole felicità. Perchè che almeno un po’ di quella ci sia, sempre.
EDITORE Adverum Srl Via R. Brichetti, 40 Tel. (+39) 0382 309826 fax (+39) 0382 308672 www.adverum.net info@adverum.net DIRITTI: tutti I diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati DIRETTORE RESPONSABILE Germano Longo direttore@andcomagazine.it VICEDIRETTORE Andrea Pestoni SEGRETERIA DI REDAZIONE Elisabetta Moretti elisabetta@andcomagazine.it COLLABORATORI Alessia Benaglio Daniela Capone Simona Rapparelli Giacomo Stevani Rossana Trespidi Serafino Malospirito Irina Turcanu Tommaso Montagna MARKETING E COMUNICAZIONE Monica Palla CONCESSIONARIA ESCLUSIVA DI PUBBLICITA’ per Cremona, Lodi, Piacenza e Milano GRAFICHE PULSAR SRL
Germano Longo | Dicembre 2011 - Febbraio 2012 | 5
Manuela Morabito
IL CUORE GRANDE DELLA RAGAZZA Solare, testarda, tosta: l’attrice che Pupi Avati vuole in ogni suo film apre le porte del suo cuore, dove c’è posto per i sogni, ma anche per realtà che non sempre fanno bene, ma aiutano a crescere di Germano Longo
Q
uando cresci a pane e cinema può sembrare tutto facile, in discesa: una strada non solo scontata, ma spianata dal principio, specie se tuo padre è uno dei più celebri e apprezzati operatori di macchina del cinema italiano, con oltre 130 film all’attivo. Eppure non è così, almeno nel caso di Manuela Morabito, attrice romana che oggi può vantare una carriera in cui i titoli si contano a decine, ma che all’inizio papà (e mamma), quando si sono sentiti dire che la loro piccola voleva fare l’attrice, hanno avuto un sussulto di preoccupazione. Solo chi conosce il cinema, sa quante insidie nasconda ad ogni angolo, e a quante delusioni, amarezze e solitudini bisogna essere pronti, quando si cerca una carriera dietro alla macchina da presa. Ma Manuela non è tipa da rinunciare facilmente ai propri sogni, nella vita come sul lavoro, e quel giorno avverte la preoccupazione dei suoi, ma pian
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Si dice che nel mondo del cinema sia difficile coltivare amicizie vere: quando esci per svagarti lo fai con colleghi o preferisci circondarti di gente che non c’entra nulla? “E’ un ambiente difficile, ma credo come qualsiasi posto dove ci sia competitività e voglia di arrivare. Per assurdo, mentre si gira un film si creano spesso intimità e amicizie che sembrano destinate a durare, poi ognuno va per la sua strada e finisce tutto lì, almeno nella maggioranza dei casi. Ma voglio anche tentare di sfatare la credenza che questo sia un mondo abitato soltanto da cinici: ci sono tante belle persone, pulite e dotate di grande talento. Ecco, gli artisti sono interessanti perché hanno sempre qualcosa di bello da raccontare, ma con questo non voglio dire che preferisco frequentare solo colleghi, anzi”.
piano, mostrando intenzioni, talento e carattere, finisce per trascinarli dalla sua, ricevendo perfino qualche indicazione giusta per iniziare. Ci dicevi che è andata proprio così, giusto? Conoscere il mondo del cinema aveva convinto tuo padre di sperare altro, per sua figlia. “Sì, esatto. Ha fatto di tutto per convincermi a rinunciare. Lo capisco, frequentare l’ambiente per tanti anni indurisce i pensieri, perché ne vedi un po’ di tutti i colori. Poi però è stato proprio lui ad accompagnarmi dal mio primo agente, uno di cui si fidava e al quale ha chiesto ogni tipo di rassicurazioni perché facesse attenzione a passarmi solo proposte serie”. Una delle prime cose importati che hai fatto è stato “I ragazzi del muretto”, telefilm in onda negli anni Novanta diventato di culto per un’intera generazione e trampolino di lancio per numerosi attori. Che ricordi hai di quel periodo? “Belli. Erano anni decisamente più facili per i giovani attori, era semplice fare provini, trovare qualche particina e insomma iniziare una carriera, anche se per assurdo di cinema e fiction in quel periodo se ne faceva decisamente meno di adesso. I ragazzi del muretto poi, è rimasto nella memoria di tanti perché telefilm così, in Italia, non se ne sono più fatti, ed è un vero peccato”.
Il tuo curriculum racconta che hai recitato con Risi, Fragasso, Maselli, Neri Parenti e Grimaldi, ma c’è un regista con cui hai instaurato un rapporto davvero speciale: Pupi Avati. Raccontaci come è nato il vostro sodalizio, che ormai va avanti ininterrottamente da sette film. “Sette film con Pupi e uno con sua figlia Mariatonia, al debutto. Che dire, gli sarò grata a vita per le occasioni che mi ha dato, e anche perché è stato lui a risvegliare in me una voglia di cinema che stavo un po’ perdendo. Erano anni in cui mi stavo riciclando come conduttrice tivù, e la cosa mi piaceva pure, ma purtroppo il progetto in cui avevo risposto speranze e forze stava naufragando miseramente. In quei giorni incontro Pupi, iniziamo a parlare di cinema e sento che dentro qualcosa inizia a riprendere forza. Mi inserisce nel cast di “La seconda notte di nozze” e da lì è iniziata la seconda parte della mia carriera”. Quali sono i ruoli che preferisci, brillanti e leggeri o introspettivi e tormentati? “Brillanti, rispondo senza esitare un istante. Nell’ultimo film di Pupi, “Il cuore grande delle ragazze”, interpreto una donna romana molto volgare ma molto spassosa. Però adesso che ci penso mi piacerebbe anche interpretare ruoli border line come una pazza, sarebbe una bella sfida”. C’è un film che avresti voluto interpretare? “Non uno, ma decine di commedie che ho amato e amo ancora tantissimo. Ad esempio “Harry ti presento Sally” e “Il mio grosso grasso matrimonio greco”, mentre se parliamo di film italiani penso ai film di Monica Vitti, senza dimenticare Gabriele Muccino e Ferzan Ozpetek, due registi che trovo molto bravi”.
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COVER STORY: Manuela Morabito
E c’è un collega, anche d’oltreoceano, che ammiri particolarmente e di cui non ti perdi mai un film? “Abbiamo una bella generazione di attori, sceneggiatori e registi italiani, tutti molto bravi e preparati. Ma quando guardo un film americano mi rendo conto della straripante bravura di quegli artisti: sono abituati a studiare tanto, e si vede, si percepisce. Qui da noi, invece, spesso si improvvisa, e purtroppo si vede anche questo. Comunque trovo straordinari Jody Foster, Sally Field, George Clooney e Sharon Stone”. A gennaio ti vedremo nelle sale in “Posti in piedi in paradiso”, al fianco di Carlo Verdone, altro regista che sembra avere la mano fatata con le carriere delle sue attrici. “Sono sincera, la mia è una partecipazione, interpreto l’avvocato di Simonetta Romanoff, nel film ex moglie di Pierfrancesco Favino. Però posso dire che Avati e Verdone sanno gestire il set, ed è questo il dettaglio che ti fa capire se il regista c’è o meno. Verdone per di più è anche un attore, ti consiglia e indirizza, Avati fa attenzione ad altri dettagli, ti lascia improvvisare dicendoti sei credibile o non lo sei, è severo e dolcissimo al tempo stesso”. Cambiamo discorso, vuoi? C’è in rete una tua vecchia intervista in cui dici che le donne sono più sozze degli uomini, quando parlano di sesso… “Ricordo e confermo. Vedi, quando si è giovanissimi, i maschi si lasciano andare in confidenze piccanti, poi di colpo molti smettono, diventano sobri. Per le donne vale il contrario, ci insegnano ad essere delicate e poco peccaminose, ma crescendo si cambia: ho sentito decine di amiche dettagliare in modo imbarazzante gli incontri con i loro amanti”. In un’altra intervista ti sei invece definita un po’ cinica, perché la vita porta ad esserlo: quali sono le esperienze che ti hanno cambiato? “Crescendo si impara a scendere a patti con i propri sogni, capendo che non c’è solo bianco o nero, ma varie tonalità di grigio, che non è mai bello, ma a volte necessario. Il cinismo mi è nato dopo un matrimonio finito, da amicizie che credevo vere e si
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sono rivelate uno spreco d’energie, da una lezione di vita che ho dovuto imparare, mi piacesse o meno: si può contare solo su se stessi”. L’ultima domanda: ti va di spiegarci singlepaper.com? “Davvero me lo chiedete? Grazie… Singlepaper.com nasce nel periodo in cui mi stavo separando e cercavo casa, così mi si è acceso un pensiero: perché le persone non si possono ricollocare sul mercato, esattamente come gli appartamenti? Ci sono donne e uomini che faticano, perché fra lavoro, figli e impegni non hanno tempo a sufficienza per pensare di incontrare gente nuova. Così insieme ad alcuni amici ho pensato a questo sito, in cui è possibile registrarsi e indicare i luoghi che si frequentano, ovviamente quelli più affollati come palestre o supermercati, per sfruttare quei momenti per conoscere qualcuno. L’idea funziona, sappiamo che si sono formate alcune coppie. Devo provarci anche io. Va a finire che devo provarci anche io…”
La stoffa di Manuela Inizia la carriera negli anni Novanta con I ragazzi del muretto, Classe di ferro e Aquile, ma qualche tempo torna al cinema, il suo antico amore. E’ nel cast de Il muro di gomma, diretta da Marco Risi e in quello de Le comiche, al fianco della coppia Pozzetto-Villaggio. Entra nel film debutto di Aldo, Giovanni e Giacomo, Tre uomini e una gamba, in Milano Palermo – il ritorno (regia di Claudio Fragasso) e in Caos calmo di Antonello Grimaldi, con Nanni Moretti. Ma è con Pupi Avati che instaura un sodalizio artistico che continua ancora oggi: dal 2005 la vuole in sette pellicole (Ma quando arrivano le ragazze?, La seconda notte di nozze, La cena per farli conoscere, Il papà di Giovanna, Il figlio più piccolo, Una sconfinata giovinezza ed il recente Il cuore grande delle ragazze, al fianco di Micaela Ramazzotti e Cesare Cremonini). Prende parte anche a fiction di grande successo: Il Maresciallo Rocca, Butta la luna, La stagione dei delitti, La Narcotici e Al di là del Lago. A breve la vedremo in Posti in piedi in paradiso di Carlo Verdone.
Sinfonia pavese “Incanto in Musica”: quarta edizione per la stagione lirica in scena al Teatro Don Bosco di Pavia, a partire dal 22 gennaio 2012. Ne parla Malva Bogliotti, Direttore Artistico. Perché “Incanto in Musica” e come nasce la stagione? “Incanto in Musica” riassume gli interessi dell’iniziativa: il canto lirico e la musica. La stagione è stata creata per rispondere ad un grande vuoto di programmazione nella vita culturale della nostra città. Fino al 2008, anno della prima edizione, cessata la stagione lirica al Fraschini, il maggior teatro pavese, il pubblico non aveva più la possibilità di assistere a spettacoli operistici. Ho così pensato di produrre una piccola stagione lirica, con il preciso scopo di creare un evento musicale stabile in aggiunta a quelle già esistenti. In soli tre anni “Incanto in Musica” ha prodotto 12 opere liriche e 5 concerti.
Cosa si intende esattamente per produzione artistica? Significa semplicemente che non vengono comprati allestimenti già pronti, ma creati ex-novo nel nostro teatro. Ho maturato un’esperienza che mi consente di occuparmi di tutte le fasi di realizzazione di una rappresentazione. Ma ciò che mi rende più orgogliosa è che la nostra è una produzione artistica interamente pavese. Quali le principali novità di questo anno? A parte i titoli in cartellone , due sono le principali novità : l’aggiunta dell’ensemble strumentale che fa sì che ora le nostre opere siano complete di allestimento scenico, costumi, coro e piccola orchestra ed il servizio di accompagnamento a casa al termine dello spettacolo per chi abita in zone periferiche lontane dal Teatro Don Bosco.
E volendo tracciare un bilancio di questi primi quattro anni? Al di là delle preoccupazioni economiche? Sarebbe assolutamente positivo. “InCanto in Musica” , partita come una visionaria avventura , si sta rivelando un appuntamento atteso ed amato dai cittadini pavesi, ma anche dalle Istituzioni: Comune di Pavia, Fondazione Comunitaria della Provincia di Pavia ed Asm che ci sostengono avendo capito che “InCanto in Musica” è un prodotto artigianale di qualità che fonda le sue radici in una delle eccellenze della cultura italiana: il melodramma. E che attraverso un’operazione culturale è stata creata una realtà che offre una seria opportunità lavorativa che ha portato non solo alla riapertura di un Teatro dimenticato ma è divenuta cultura /impresa con notevole beneficio per chi vi lavora e ottimo ritorno di immagine per chi la sostiene.
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ATTUALITÁ: Mars Science Laboratory
ROSSO RELATIVO Una nuova missione della Nasa è partita di recente verso il prossimo pianeta su cui metterà piede l’uomo, portando costosissime apparecchiature in grado di dare le risposte che il mondo attende da millenni.
E’
il più ambizioso dei progetti mai varati dalla Nasa, il celebre ente spaziale americano, una missione che qualcuno – ironicamente, in America – ha già definito il viaggio turistico più costoso della storia. Si chiama Mars Science Laboratory, nome in codice Curiosity, ed è la nuova spedizione verso Marte, partita qualche settimana fa da Cape Canaveral, in Florida, e destinata a depositare sulla superfice del pianeta rosso una serie di sofisticate apparecchiature in grado di stabilire tanto la presenza passata di vita, quanto di valutare la possibilità di ospitarne in un futuro
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prossimo. Il viaggio dei due milioni e mezzo di dollari che rappresentano l’investimento per il MSL durerà otto mesi, con atterraggio previsto nell’agosto del 2012 nel cratere Gale, un avvallamento di circa 150 chilometri di diametro non distante dall’equatore di Marte, individuato come base della missione. E sono proprio le fasi dell’atterraggio ad aver rallentato il lancio del vettore Atlas V 541, in quanto il cuore di MSL è rappresentato da un rover piuttosto delicato e di dimensioni tre volte maggiori di quelli che l’hanno preceduto, che ha richiesto uno sforzo notevole da parte dei proget-
tisti della Nasa per rendere il meno duro possibile l’impatto sul suolo su Marte. Innumerevoli sono stati i test effettuati per calibrare i razzi che permetteranno la discesa, ma tutto con l’incognita finale dell’imprevisto sempre possibile, sfuggito ai calcoli delle probabilità. Dei 900 kg di peso complessivo del Curiosity, ben 65 sono rappresentati da sofisticate apparecchiature scientifiche in grado di far impallidire Spirit e Opportunity, i due rover lanciati dalla Nasa su Marte nel 2004 di cui solo nel marzo del 2010 si sono persi i contatti, malgrado la
COMPAGNI DI VIAGGIO In queste foto, alcune delle apparecchiature attualmente in viaggio verso Marte. Qui sopra un’immagine del cratere Gale scattata dal satellite. Sotto e a fianco i test effettuati sul rover a cui spetterà il compito di attraversare la superficie del pianeta rosso.
durata fosse prevista in novanta giorni appena. Curiosity è in grado di individuare ed evitare gli ostacoli senza bisogno di alcun intervento da terra, si muove a velocità ridotta (90 metri all’ora) ed è previsto che nei due anni di missioni copra almeno la distanza di 6 km complessivi. Della strumentazione, finora diffusa solo parzialmente per evidenti motivi di segretezza, si conoscono le MastCam, telecamere stereoscopiche in 3D per riprese in alta definizione dotate di zoom meccanico per riprese ad oltre un km. La Mars Hand Lens Imager è invece una camera destinata a riprese microscopiche di suolo, polveri e rocce, mentre il Mars Descent Imager, trasmetterà a Terra le delicate
fasi dell’atterraggio, più alcune squisitezze tecnologiche, prodotte con la collaborazione di aziende di tutto il mondo, che sembrano uscite direttamente da film di fantascienza Ne fanno parte la ChemCam, capace di polverizzare piccole parti di roccia per analizzarle e l’Alpha-particle X-ray spectometrer, in grado di rivelare la composizione chimica dei campioni analizzati. Un po’ come lo Sample Analysis at Mars, che analizza composti organici e gas, ed il Radiation Assessment Detector, strumento di fondamentale importanza, che ha il compito di valutare la possibilità del pianeta rosso di ospitare gli astronauti. Sfruttando l’antica abitudine del paracadute, ovviamente adattato ai tempi e creato per resistere a velocità supersoniche, con 16 metri di diametro e 80 cavi di sospensione, per il rover Curiosity è stato previsto il ritorno sulla terra. E in fondo meglio così, visto che finora bisognava fare i conti con un piccolo e istintivo moto di dispiacere, sentendo al telegiornale che le apparecchiature si sarebbero addormentate rimanendo lì, guardando passare marziani, sogni e incubi del mondo intero.
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ATTUALITà: Il mondo delle Apps
Semplice come un click Nell’era del virtuale, le applicazioni degli smartphone facilitano la vita, divertono e sono utili per avere in tasca un ufficio davvero infallibile di Daniela Capone
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E’
un universo parallelo infinito, quello che si nasconde dietro la semplice definizione di App: le applicazioni per telefoni cellulari di ultima generazione, i cosiddetti smartphone. Samsung Galaxy, iPhone e Blackberry combattono una guerra fatta apposta per attirare giovani, ma anche professionisti e perché no, utenti casuali, tutti attirati dall’idea di semplificarsi l’esistenza grazie ad applicazioni che ormai sconfinano in ogni settore, da quelle che calcolano il ciclo femminile (con indicazione dei giorni fertili) all’infallibile “dove ho messo la macchina”, destinato a chi da sempre vaga nei parcheggi in cerca della propria. In Italia, secondo dati attuali, circolano circa 15 milioni di cellulari, e di questi 10 milioni sono uti-
lizzati per navigare su internet, mentre ben 450 mila utenti usano il cellulare per fare acquisti online. E per finire con le cifre, lo scorso mese l’Android Market ha superato i 10 miliardi di App scaricate, a dimostrazione di quella che gli esperti chiamano la app economy, ovvero un mercato sconfinato e redditizio, testimoniato da cifre da capogiro: AppStore, negozio online riservato ad iPhone e iPad, vanta 200 mila applicazioni, 100 mila per Adroid, 250 mila per Google e 10 mila per Blackberry. Non più semplici apparecchi per telefonare, gli smartphone funzionano come agenda elettronica, portafoglio virtuale, navigatore, consolle per videogiochi e collegamenti con le news, ma uno dei
MIGLIAIA DI ICONE Ogni applicazione è rappresentata da un’icona, piccoli tasti virtuali che spalancano le porte della fantasia. Sotto, una carrellata dei più diffusi smartphone.
maggiori benefici sembra arrivare proprio in termini di comunicazione grazie ad applicazioni che si possono scaricare in pochi secondi. Nell’era dei social network, è quasi impossibile non installare i due siti per eccellenza: Facebook e Twitter. Ma si fanno strada anche Whats App, applicazione che a fronte di pochi centesimi (per l’acquisto), consente di chattare e inviare di sms tramite internet, quindi gratis, e Viber, che si basa sullo stesso principio ma per le telefonate. Molto usata è anche Around Me, applicazione utilissima per trovare informazioni riguardo al luogo in cui ci si trova, che siano bar, ristoranti, cinema, negozi, bancomat o quant’altro possa essere utile all’improvviso, in un posto che non si conosce. Imperdibile, per gli amanti della musica, Shazam o SoundHound, due App che si basano su un principio banalissimo: spesso capita di ascoltare per radio una canzone di cui non si conosce il titolo. Bene, basta attivarle per avere in pochi secondi titolo, artista e album da cui è tratto il brano. E in poco tempo, gli smartphone hanno mandato in pensione i semplici navigatori satellitari. Oggi, con pochi euro di spesa, si hanno a disposizione programmi aggiornati di continuo di ogni paese del mondo. E questo per tacere sulle App che servono a poco ma sono divertenti, come quelle che truccano da Babbo Natale il soggetto di una foto, o usano come salvaschermo un caminetto con tanto di fuoco (in inverno) o una calda spiaggia caraibica (d’estate). E poi ancora tante altre per parlare, chattare, controllare le spese mensili e le calorie ingurgitate, tradurre in tutte le lingue testi e/o parole, orari e programmazioni di cinema e treni, meteo, guide turistiche e persino applicazioni che permettono di ritrovare il telefonino in caso di furto o smarrimento. Serve altro? Forse sì, e sicuramente per qualsiasi esigenza, anche le più strane, esiste un’applicazione creata da qualcuno che preso dalla stessa smania, ha risolto il problema. Provare per credere.
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ATTUALITà: High Line Park
IL PARCO CHE NON C'ERA UNA VECCHIA FERROVIA DEGLI ANNI TRENTA DIVENTA UN GIARDINO SOSPESO CHE ATTIRA ARTISTI, CULTURA E VITA NOTTURNA. A PROPOSITO: INTORNO C’È NEW YORK, E QUESTO SPIEGA IL RESTO
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uello che il mondo invidia agli americani non è tanto la gioiosa attitudine all’esagerazione, quanto piuttosto la straordinaria capacità di riadattare il proprio passato con le esigenze del futuro. Piccola e doverosa premessa per raccontare la storia curiosa della “High Line” di New York, ferrovia cittadina soprelevata iniziata nel lontano 1847 per togliere dalle strade della grande mela i rischi dei treni merci, che allora sembravano aver preso gusto a scontrarsi con il numero crescente di
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automobili. L’abitudine a risolvere in modo drastico la situazione fu appunto la High Line: una ferrovia alta dieci metri dal solo, che tolse alla 10th avenue la nomea di “death avenue”, la strada della morte. Correva l’anno 1929, quello della grande depressione, per capirci. Ma con il tempo e il progresso, il tratto ferroviario è andato perdendo sempre più importanza, visto che i treni non riuscivano a star dietro al trasporto su ruote offerto dai Tir, più veloce, preciso ed efficace. Così, seguendo una parabola discenden-
te, nel 1980 la ferrovia sopraelevata cessa definitivamente la propria attività, lasciando il dubbio su cosa farne: abbattere in diretta tivù e dimenticare, come spesso in America sanno fare, oppure pensare a qualcosa di diverso? E’ a quel punto che viene creato un comitato spontaneo, la “Friends of the High Line”, che raccoglie 10mila firme e da allora si batte per salvare il tratto compreso tra Gansevoort e la 30th Street lanciando proposte, progetti e idee a ritmo incessante. Ma alla fine, quella che è riuscita a mettere d’accordo tutti ha preso ispirazione dalla “Promenade Plantée” di Parigi, quattro chilometri e mezzo di parco sopraelevato creati là dove un tempo c’era un viadotto ferroviario abbandonato. New York si mette al lavoro, e servono dieci anni di progetti e simulazioni, ma
soprattutto serve dove scovare i 150 milioni di dollari necessari alla gara internazionale “Design the High Line”, per arrivare all’estate di due anni fa, quando 210 specie fra piante e fiori, con centinaia di panchine e sdraio, occupano il primo tratto dell’ex ferrovia, dal Meatpacking District a Chelsea. Dodici mesi appena, e lo scorso anno si tolgono le recinzioni anche alla seconda tranche, compresa fra la 20th e la 30th Street, mentre sono iniziati i lavori per l’ultimo tratto, che darà alla “High Line Park” la lunghezza totale di 2,4 km, con allegato il titolo di parco sospeso più lungo del mondo. Ma la notizia, volendo, non è nemmeno questa, perché il sogno americano torna a farsi vedere proprio adesso, scoprendo che l’“High Line Park” è riuscito ad attirare due milioni di visitatori ogni anno che, a loro volta, spiegano il brulicare di iniziative ed eventi, con corsi e lezioni per i bambini delle scuole al mattino, gente che passeggia e si rilassa al pomeriggio ed happy hour al tramonto, mentre a ritmo incessante intorno nascono musei, alberghi, locali, gallerie d’arte e negozi, trasformando la zona in una delle più cool della penisola di Manhattan. Con la frenesia della metropoli
IL GIARDINO SOSPESO Centinaia di fiori, piante, panchine e sdraio hanno preso il posto dei treni che un tempo attraversavano la città lungo il percorso fra il Meatpacking District e Chelsea.
più celebre del mondo da lasciare dieci metri più in basso, guardando lo scorrere dell’Hudson, la cima dell’Empire State Building e la fiaccola di Miss Liberty, la Statua della Libertà, simbolo della città che non dorme mai. Perché sarebbe davvero un peccato stare con gli occhi chiusi.
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L’INCHIESTA: Viaggio nelle carceri
DOVE IL CIELO SI VEDE A SCACCHI Abbiamo passato qualche ora a chiacchierare con alcuni carcerati, tutti rassegnati all’idea di dover pagare il conto alla giustizia, ma meno a subire la condanna che nessun Tribunale infliggerà mai: non avere spazio per vivere come persone, comunque di Simona Rapparelli
E
ntrare in un carcere non da detenuto, ma da giornalista, è come mettere piede in un’isola deserta alla quale si accede dopo aver passato un vero e proprio check point. Di solito ci si arriva da una strada poco curata strappata dai campi incolti con una striscia di asfalto: di fronte c’è un fabbricato grande e massiccio, pesante, praticamente uguale in ogni città d’Italia. Per entrare bisogna passare l’ingresso, quindi (se si
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arriva per sbaglio con l’orario delle visite dall’esterno) ci si deve fare largo tra una lunga fila di persone con al seguito brandelli di famiglia dei detenuti (sorelle, madri, bimbi piccoli) e borse giganti che traboccano di viveri e biancheria. Dopo i rituali dieci minuti di attesa, se esiste un ordine di servizio relativo alla persona che deve entrare, il permesso è accordato e l’ospite temporaneo può accedere in precise zone del carcere. E’ dal
momento dell’ingresso che la sensazione di isola deserta si appiccica addosso: il tempo si perde, si dilata, in certi casi sparisce, e due ore sembrano una manciata di minuti. Se poi si inizia anche a parlarci, con i detenuti, allora si aprono squarci di una realtà che a tratti non si riesce neanche ad immaginare. “Qualcuno ogni tanto ci chiama ospiti della casa circondariale, ma io preferisco definirmi carcerato - rivela Luca, trent’anni, re-
cluso nel carcere di Torre del Gallo, alla periferia di Pavia - perché mi sembra più idoneo al contesto in cui siamo immersi ogni giorno. Siamo prigionieri di un posto, in carcere, a contatto diretto con le guardie, che oggi si chiamano agenti di polizia penitenziaria e dovrebbero farci da ‘riabilitatori’, ma non è così, almeno, per me questa è la situazione. Se uno ci deve passare un paio d’anni la galera è sopportabile, ma se invece bisogna starci per tanto tempo, magari dopo esserci entrato senza avere né arte né parte, allora diventa difficile tutto più difficile. Anche se una cosa la devo dire: gli agenti sono nella nostra stessa situazione: se il sovraffollamento non ci fosse, anche loro lavorerebbero in un clima più sereno, invece così siamo tutti isterici”. “E’ il sistema del carcere ad essere sbagliato - aggiunge Alessio, detenuto da pochi mesi sempre a Pavia e in attesa del trasferimento nella struttura modello di Bollate - alla radio l’altro giorno dicevano che i maiali devono avere almeno sei metri quadrati a capo per permettere ad un allevamento di proseguire con l’attività: noi detenuti sei metri a testa
non li abbiamo, le celle sono piccole e ci stiamo dentro in troppi, di metri quadri forse ne abbiamo un paio a testa. Poi, quando una persona esce da un carcere e si domanda cos’ha imparato, cosa deve rispondersi?”. Il sovraffollamento delle carceri resta un problema maledettamente complesso, in cui i primi ad andarci di mezzo sono ovviamente i detenuti che vivono in uno spazio davvero risicato, in cui la maggior parte delle volte è impossibile organizzarsi per fare qualcosa di diverso. Lombardia e Campania sono le due regioni con il maggior numero di detenuti: la prima ne conta 9.312, a fronte di una capienza regolare di 5.652. La seconda 7.779 quando per legge potrebbero starcene al massimo 5.734. Un sovraffollamento che rischia di peggiorare con la diminuzione dei fondi prevista dal governo. “La situazione non è rosea”, ha ammesso a metà dicembre in un’intervista pubblicata on-line da Il Fatto Quotididiano, il Provveditore all’amministrazione penitenziaria di Regione Lombardia Luigi Pagano, che poi ha aggiunto: “Non a caso il governo ha dichiarato lo stato di emer-
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L’INCHIESTA: Viaggio nelle carceri
DAL MONDO DEI RINCHIUSI Alcune immagini di mopderne galere: celle chiuse da sbarre in cui pagare i propri conti con la società. Ma restano da risolvere i problemi di sovraffollamento che spesso si trasformano in aspri conflitti fra i detenuti.
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genza. C’è prima una fase burocratica, dopo comincerà quella pratica, e credo che per almeno due o tre anni non vedremo nulla. La parte burocratica vuol dire soprattutto rimettere a posto le strutture e crearne di nuove: a Pavia, Voghera e Verona ci sono padiglioni che dovrebbero essere funzionali a fine anno”. C’è comunque da immaginare che l’ala nuova di molti penitenziari venga presto riempita nuovamente a fronte di arrivi quotidiani quasi continui, che mettono a dura prova i nervi degli agenti di Polizia Penitenziaria e dei detenuti, sempre più soffocati in strutture strapiene. “Sai cos’è la vera galera? Quando non vai d’accordo con il tuo compagno di cella” - sottolinea Attilio, che di primavere sulle spalle ne ha più di settanta e ha passato in carcere almeno quarant’anni della sua esistenza - se con il tuo concellino non ti prendi allora è tutto più difficile perché si inizia a litigare e in un posto di due metri per due la situazione può diventare un inferno. Io per fortuna qui in galera faccio il barbiere e quindi lavoro per buona parte della giornata. Se dovessi stare in cella tante ore diventerei matto”. In tanto amaro però qualche nota positiva c’è. Quelli che non mancano d’inventiva in questo caso sono le vittime, ovvero i detenuti stessi, che in spazi sempre più esigui non si perdono d’animo e puntano sulla fantasia: “Io in carcere ho imparato a cucinare - rivela Claudio, ragazzone sulla trentina fermo a Pavia da qualche
anno - mi sono inventato un forno fatto con la stagnola e un fornello da campo e ci faccio delle torte che sono più buone di quelle della pasticceria. Cucino anche gli arrosti che mi portano da fuori i miei parenti, così in cella invitiamo a volte anche altri detenuti”. E non è l’unico: in ogni carcere d’Italia c’è chi scrive, quello che segue corsi di chitarra, chi fa da mangiare per gli altri, chi dipinge le pareti e aggiusta le prese di corrente, quello che fa palestra riempiendo di sassi e sabbia le bottiglie di plastica per renderle simili ai pesi, chi impara ad usare un PC e chi, usufruendo dell’articolo 21, lavora di giorno all’esterno e torna in carcere la sera. Poi è necessario ricordare l’opera instancabile di educatori, agenti di rete (figura fondamentale per il raccordo tra struttura di detenzione e territorio di appartenenza e che i tagli stanno facendo tristemente sparire) e volontari, che si industriano per promuovere una serie di azioni che sollevino il morale a tutti: molte associazioni si occupano di teatro organizzando spettacoli in particolari occasioni,
altre studiano percorsi di approfondimento ed incontri a tema per riflettere e confrontarsi, altre ancora si occupano di reperire libri per le biblioteche carcerarie e per momenti di lettura ad alta voce. Una goccia di speranza in una situazione che per molti non è più sopportabile: meritano almeno una menzione quei detenuti che nei giorni di dicembre hanno deciso Anni
Suicidi
Totale morti
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011*
61 69 52 56 52 57 50 45 46 72 66 61
165 177 160 157 156 172 134 123 142 177 184 176
Totale
687
1.923
di farla finita. Parliamo di vite interrotte di nascosto, da overdose di antidolorifici (Michele Misculin, 33 anni, muore la notte del 2 dicembre scorso nel carcere Coroneo di Trieste), oppure impiccandosi con un lembo di stoffa trovato chissà dove (Monica Bellafiore, 42 anni, si suicida nel carcere Buoncammino di Cagliari il 4 dicembre 2011) o ancora sniffando gas dal fornellino da campeggio in dotazione (Said Wadih, 34enne marocchino, rinvenuto cadavere nella sua cella del carcere La Dozza di Bologna il 4 dicembre 2011). Fa scuro, il momento in carcere è terminato. Si esce varcando il muro del “check point” e prelevando il cellulare che si lascia fuori, in apposite cassette sistemate prima del metal detector. Il tempo è volato. Nella pancia del grande fabbricato qualche detenuti protesta, altri cercano di dipingere, altri ancora preparano la cena e leggono un libro. Alcuni agenti, dopo una giornata estenuante, escono e vanno casa, cercando di pensare ad altro, magari ad un carcere in cui a sentirsi in galera non siano anche quelli che hanno solo la condanna di lavorarci.
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Ecco noi, per esempio
Sullo stile dei grandi college americanI, anche le scuole italiane hanno istituito l’Open Day, la giornata in cui mostrare ai potenziali alunni cosa fanno, come vivono e cosa saranno in grado di fare, uscendo da lÏ di Andrea Pestoni
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l secolo scorso è “solo” una decina di anni fa. E una decina di anni fa, per prendere informazioni sulle “superiori” da far frequentare ai figli, si alzava la cornetta del telefono, si chiedevano delucidazioni o meglio ancora si prendeva un appuntamento con la preside. In soli dieci anni è cambiato un secolo, in tutti i sensi. E con lui, sono cambiate le modalità per conoscere l’offerta formativa delle scuole, a cominciare dagli asili per finire all’università. Oggi la parola “magica” (come spesso accade presa in prestito dall’inglese) è Open Day. Con questo termine gli istituti scolastici si sono modernizzati e aprono le porte a famiglie e studenti. In più, nel corso degli anni, l’open day è diventato un vero e proprio rito, che distingue ogni scuola. Non si tratta di una semplice presentazione, ma una consolidata e pianificata strategia di marketing scolastico. Il lavoro che porta all’organizzazione di un Open Day, infatti, è lungo e laborioso e spesso arriva al culmine
dei progetti didattici realizzati durante il percorso scolastico. Gli alunni delle diverse classi, supportati dalle insegnanti, realizzano delle progettualità didattiche che terminano con un saggio, una rassegna, una manifestazione e una mostra. Spesso queste iniziative sono organizzate, seppur parzialmente, anche qualche mese prima, proprio in occasione degli Open Day. Perché se l’obiettivo principale (e anche il significato etimologico) del giorno di apertura è proprio quello di spalancare le porte e mostrarsi,
è poi necessario che l’istituto scolastico prepari anche una calorosa e famigliare accoglienza per alunni e genitori. Così, l’Open Day diventa un susseguirsi di eventi e manifestazioni che promuovono
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Imparare ma soprattutto crescere Educazione, insegnamento e nuove tecnologie: sempre di più le scuole si stanno attrezzando per offrire ai propri allievi una preparazione completa
il piano di offerta formativa della scuola. Come accade da decenni in Inghilterra, ora anche in Italia l’Open Day è diventato il giorno più importante dell’anno scolastico, ancor di più del primo giorno di scuola. Anche se da qualche anno a questa parte l’apertura dei cancelli scolastici non è l’unico modo per pubblicizzare l’offerta formativa ed i servizi che fornisce un istituto. Nella pubblicizzazione delle scuole e nella scelta futura dell’istituto da frequentare sta ormai diventando sempre più “di moda” (e soprattutto remunerativo) utilizzare internet, con particolare riferimento ai siti ed all’uso massiccio dei social network. Quasi tutte le scuole, infatti, hanno un loro portale nel web, all’interno del quale non solo si riportano tutte le notizie obbligatorie per legge (come i curriculum ed i trattamenti economici dei
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dirigenti scolastici), ma illustrano il piano formativo della scuola e spesso ospitano anche uno spazio gestito dagli stessi alunni. Ogni scuola, poi, realizza un giornalino interno sullo stile dei magazine dei college americani, che viene quasi sempre messo on line sul sito della scuola. Ma come si diceva, un’altra nuova frontiera del marketing scolastico è ovviamente rappresentato dai social network. Ogni istituto scolastico può vantare un profilo o una “pagina fan” dove gli alunni (in questo caso soltanto loro e non gli insegnanti, se non in casi molto rari), parlano della loro scuola e si scambiano idee e suggerimenti. I siti contengono spesso anche delle vere e proprie gallerie fotografiche che mostrano l’edificio scolastico e le aule, mentre ultimamente, vengono anche realizzati degli spot televisivi trasmessi sempre
sul web. Ma è proprio anche grazie ad internet che gli istituti scolastici pubblicizzano il proprio Open Day: il target al quale si rivolgono è d’altronde prettamente adolescenziale e la rete è diventata da qualche anno il principale mezzo di comunicazione utilizzato dai ragazzi. L’offerta formativa degli istituti scolastici è diretta non solo alle città di riferimento ma a tutto il territorio circostante: accade a Pavia con il territorio pavese, a Voghera con l’Oltrepo, a Vigevano con la Lomellina, a Lodi e l’intera zona del Lodigiano. Ma non è raro che gli studenti di un territorio si spostino a studiare nell’altro, per inseguire istituti scolastici specializzati. Per questo motivo, anche in tema di marketing scolastico, capita spesso di vedere in giro per le città manifesti pubblicitari di scuole di altre zone. Lo strumento fondamentale per convincere i potenziali alunni ad iscriversi ad una determinata scuola rimane comunque il Pof, il Piano di Offerta Formativa. E’ proprio attraverso questo strumento che uno studente può preventivamente pianificare il proprio percorso didattico e gettare le basi per scegliere successivamente l’università da frequentare, per poi approdare nel mondo del lavoro, dove la domanda delle aziende e l’offerta degli istituti scolastici non sempre coincidono. In alcuni istituti superiori professionali, invece, la sinergia fra industria e scuola è perfetta e diventa l’arma segreta per poter trovare un lavoro, specie in questo periodo di crisi occupazionale. La scuola, oltre a preparare l’alunno dal punto di vista umano e culturale, sta tornando ad essere il fulcro degli italiani di domani, con il delicato compito di creare le fondamenta per la vita e la carriere dei nostri ragazzi.
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Collegio San Francesco
Quando saranno GRANDI Capiranno cosa vuol dire aver imparato la vita dai padri Barnabiti, che da secoli credono nella missione di insegnare, educare e soprattutto far crescere generazioni sane, preparate e corrette.
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ulla può avere un futuro, se non inizia nel modo più giusto. E’ questo il principio, applicabile ad ogni cosa della vita, che ispira da sempre i padri Barnabiti, congregazione religiosa che dal 1605 ha scelto di impegnarsi nella scuola, strumento indispensabile per formare i cittadini del futuro. La loro è una storia centenaria che nel tempo ha concentrato ogni sforzo nell’idea di dare la giusta preparazione a bambini e ragazzi, attrezzandoli al meglio per i momenti in cui la vita inizierà a lanciare le sue sfide. Oggi, i padri Barnabiti sono presenti in una ventina di paesi diversi, con scuole proprie o semplicemente prestando l’opera educatrice in altre scuole, e la loro presenza a Lodi risale proprio al 1605 con la creazione
del Collegio di San Giovanni alle Vigne, un tempo situato dove oggi sorge il teatro “Alle Vigne”. L’attuale Collegio San Francesco (www.sanfrancesco.lodi.it), che attualmente conta circa cinquecento allievi seguiti da personale anche laico,
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ha scelto di ampliare la propria offerta coprendo quanto più possibile l’età scolare, e non solo: si parte dal nido, passando per la scuola d’infanzia, la primaria ed una secondaria di primo grado, per poi arrivare fino a licei (scientifico e classico). Di non meno importanza la presenza di un Convitto che ha aperto la
1905
il collegio
1894
gli alunni
possibilità di frequenza anche a ragazzi che non risiedono del lodigiano. La particolarità del metodo didattico dei padri Barnabiti è di non imporre nulla, piuttosto di lasciare che ogni nozione sia assorbita nell’animo dei ragazzi, senza forzature. E ancor di più oggi, periodo fra i più bui nella storia recente dell’umanità, la formazione delle giovani generazioni, seguendo ideali di ispirazione cristiana, diventa fondamentale. L’ideale prosecuzione dei vari gradi scolastici offerti dal Collegio San Francesco, crea un filo conduttore che si plasma sulla crescita di ogni singolo allievo, una sorta di visita guidata alla vita, con la certezza di avere sempre dalla propria insegnanti che non vogliono solo insegnare, ma far crescere, un
giorno dopo l’altro, fino a formare uomini e donne pronti per affrontare il mondo intero. E’ quello che padri Barnabiti definiscono l’asse educativo, ovvero un percorso che si dipana lungo le varie fasi evolutive senza tirarsi indietro di fronte a problemi, risvolti psicologici, socialità, affetti, dialogo, rispetto, convivenza ed etica, parole oggi drammaticamente diventate fuori moda. Ma anche un percorso didattico che resti quantomai attento ad un mondo che va veloce, e sempre di più chiede di conoscere e utilizzare mezzi di comunicazione e lingue. Insomma, tutto ciò che serve per garantire una crescita serena di corpo, cuore, spirito e coscienza, al termine della quale creare persone preparate ma anche buoni cristiani. Progetti ambiziosi, messi nero su bianco il 21 novembre 2007, quando docenti, allievi e genitori si impegnano a firmare il Piano Educativo di Corresponsabilità, documento in cui la scuola si impegna a garantire un piano formativo che non trascuri benessere e successo di ogni studente, la sua valorizzazione e realizzazione umana e culturale. Instaurare un clima sereno fatto di dialogo e discus-
sione, valorizzare il talento ma offrire anche occasioni di recupero a chi invece è svantaggiato, promuovere il dialogo con famiglie e studenti. Dal canto loro, alle famiglie è richiesto di condividere il regolamento d’istituto, garantire un’assidua frequenza dei ragazzi alle lezioni, seguirli e pretendere da loro che rispettino l’ambiente scolastico, favorire la solidarietà e collaborazione fra i compagni. L’Asilo Nido, aperto a bambini dai tre mesi ai tre anni, comprende un supporto psicopedagogico, mentre la Scuola dell’Infanzia divide le attività didattiche per età, garantendo religione, inglese, psicomotricità e nuoto (dai quattro anni). La Scuola Primaria si fonda sulla figura di un insegnate tutor coadiuvato da altri specializzati in lingue, musica, religione, informatica e sport. La Scuola Secondaria di I grado si spinge sull’insegnamento delle lingue e sull’educazione ai linguaggi multimediali, laboratori (teatro, danza, musica, arte, ecc), attività sportive e vacanze studio all’estero. Per finire con i Licei, (Classico, ScientificoScienze applicate e Linguistico) che oltre ai laboratori e alle vacanze all’estero, offrono la possibilità di frequentare il quarto anno in un paese diverso dall’Italia.
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Macy’s Parade
OK, IL PREZZO È SCONTATO Immagini, suoni e allegria dalla parata newyorkese che da 85 anni inaugura la stagione dei saldi e quella dello shopping natalizio, presi a prestito per fare da sfondo ad uno speciale che ha come protagonista la svendita
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ai come in difficili come questi, dove a farla da padrone sono più che altro le cattive notizie economiche, l’arrivo dei saldi è uno degli strumenti fondamentali per risvegliare il torpore in cui versa il commercio. La stagione delle svendite, in Italia, ha origini che è ormai quasi possibile considerare antiche: era infatti il 1980, quando la legge n. 80 ha aperto per la prima volta la possi-
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bilità per i negozianti al dettaglio di vendere a prezzi scontati capi d’abbigliamento della stagione in via di chiusura. Ma oggi, sempre grazie alla congiuntura economica sfavorevole, la corsa allo sconto accetta sempre più deroghe, nel tentativo di dare una mano ai bilanci. Così gli sconti spuntano anche e soprattutto durante le feste, per dare coraggio al portafoglio degli indecisi.
Ma i saldi sono un’idea solo italiana? Per carità: paese che vai, crisi che trovi e sconto in cui ti imbatti. Anzi, per qualcuno i saldi sono da sempre una festa, un turbinare di eventi e facce note noleggiate per dare il via ai pazzi giorni dello sconto. Un esempio, forse uno dei più celebri, è quello che ogni anno, o meglio due volte all’anno, organizzano i grandi magazzini Harrods, santuario londinese dello shopping, un tempo di pro-
FIATO ALLE TROMBE Centinaia di cheerleaders, bande musicali e palloni che rappresentavano gli eroi dei bambini: la parata di Macy’s è da 85 una festa per New York City. Nella pagina a fianco, in apertura, Kermit la rana degli amatissimi Muppets.
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Macy’s Parade
prietà della famiglia di Mohamed Al Fayed, padre di quel Dodi che morì al fianco di Lady Diana a Parigi. Davanti alle scintillanti vetrine affacciate su Brompton Road, nell’elegante quartiere di Knightsbridge, non solo si radunano migliaia di persone armate di carta di credito, ma l’evento è ripreso da tutti i telegiornali grazie anche alla presenza di una star, ogni anno diversa, a
LA FESTA DELLO SCONTO Con questa immensa festa che coinvolge migliaia di figuranti ed è totalmente offerta dai grandi magazzini americani, in America si apre ufficialmente il periodo dello shopping natalizio e dei saldi.
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cui spetta il compito di tagliare il nastro e aprire le porte, prima dell’arrivo delle orde di fashion victim. L’ultima stella, in ordine di apparizione, è stata Gemma Arterton, attrice inglese ma più che altro bellezza da tachicardia, di quelle che non ha certo bisogno di aspettare i saldi. Caso ancora diverso per i megamagazzini Macy’s, catena di grande distribuzione americana fondata nel lontano 1924, che a New York, ogni anno, celebra con una propria parata il Thanksgivin Day, il celebratissimo Giorno del Ringraziamento che trascina le famiglie americane di fronte al tacchino ripieno. Ma che nella Grande Mela serve anche per dare avvio allo shopping natalizio e alla stagione degli sconti. Piccola e doverosa premessa che in realtà di piccolo non ha niente: Macy’s è forse uno dei più grandi store del mondo e la sede newyorkese, perlomeno la principale, occupa per intero i dieci piani di un palazzo fra la 151 West e 34Th Street, nel cuore più pulsante e celebre della città che non dorme mai. E la tradizionale parata mostrata nelle
e Macy’s Parade ial c e Sp ALDI foto che accompagnano que- ed entrati ormai nell’iconografia ufficiale S ste pagine, insieme ai fuochi del 4 luglio, il Giorno dell’Indipendenza, sono tradizionalmente offerti da Macy’s
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degli appuntamenti da non perdere almeno una volta nella vita. Quest’anno, per l’85esima edizione, il sole ha fatto la sua parte, regalando una giornata di quasi primavera ai tre milioni e mezzo di persone che fin dalle prime ore del mattino si sono sistemate lungo i tre km di un percorso che dopo aver attraversato Times Square, la piazza dominata da immensi neon, terminava esattamente davanti alle vetrine di Macy’s. E poco dopo, una cinquantina di enormi palloni che rappresentavano ognuno eroi dei fumetti, 27 galleggiabili, 800 clown e 1.600 coloratissime cheerleaders, le majorette americane, hanno preso il via, mentre gli altoparlanti salutavano la presenza di star come Mary J. Blidge, Avril Lavigne e Cee Lo Green. Uno dopo l’altro, sottoforma di palloni, si sono alternati Snoopy, i Puffi, Spongebob, Spiderman, Shreck, Kung Fu Panda, Kermit la rana dei Muppets, i personaggi
di Toy Story, Hello Kitty e tanti altri, per la gioia dei più e meno piccoli. Perché i saldi sono davvero una festa, ovunque nel mondo.
SORRISI E PALLONI Qui sopra un enorme Puffo blu e la gattina Hello Kitty sfiorano la testa del pubblico: è stato calcolato che quest’anno la parata di Macy’s sia stata seguita da oltre tre milioni di persone.
L’uomo che sussurra al tempo All’interno della Lubishar, orologi e pendole antiche ritrovano gli splendori di quando erano nuovi, tornando a segnare lo scorrere delle ore.
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ell’era dell’usa e getta, Pierluigi Biselli appartiene ad una categoria di artigiani che è ormai in via di estinzione: lui è il “dottore” e i suoi pazienti sono gli orologi che riporta in vita grazie alla passione lo accompagna tutti i giorni. Riparare orologi da polso di tutte le marche e antiche pendole, è una tradizione di famiglia che risale agli inizi del Novecento, quando il nonno faceva l’orologiaio a Castelsangiovanni. Pierluigi è sempre stato affascinato dal mondo degli orologi e seguendo il nonno prima, e poi il papà, ha imparato fin da bambino ad aggiustare quegli ingranaggi che permettono ad un affascinante strumento di misurazione del tempo di svolgere le sue funzioni. Un lavoro che per i profani può sembrare semplice, ma per addentrarsi nella mecca-
nica di un orologio, e capirne ogni piccolo segreto, non basta studiare i libri: serve tanta pratica e dedizione, sono necessari molti anni di esperienza per fare una “diagnosi” precisa del problema e soprattutto risolverlo. Molti clienti di Pierluigi sono collezionisti che arrivano da Milano e da tutto il nord Italia, che si rivolgono a lui perché riesca nell’impresa di “rianimare” veri pezzi da museo rimasti fermi per decenni in qualche cassetto, o pendole antichissime, come è successo qualche anno fa, quando un collezionista di Milano ha chiesto l’intervento di Pierluigi
per sistemare il suo orologio a pendolo del Cinquecento. Il laboratorio è attrezzato con le più moderne apparecchiature che grazie alla competenza di Biselli, consentono qualsiasi tipo di intervento, perché alla Lubishar è possibile sostituire le pile, cambiare un vetro o un cinturino, ma è soprattutto sulla meccanica, che Pierluigi è in grado di intervenire. Grazie alla sua professionalità, Pierluigi vanta molti clienti affezionati, fra cui molti personaggi dello spettacolo e della musica, di professionisti e collezionisti di tutta la provincia di Pavia. Tra le sue eccellenze, Voghera può vantare sicuramente la sua “clinica dell’orologio” dove l’artigiano, coadiuvato da sua moglie Patrizia, da anni è ormai il punto di riferimento per privati e note gioiellerie che necessitano riparazioni di orologi costosi. In più, chi è in cerca di un articolo davvero unico, ricordi che ogni anno Pierluigi crea una ventina di orologi meccanici con materiali provenienti da Basilea, per avere al polso un articolo da far invidia a chi lo vede.
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Revest Jeans
Nella patria dello SCONTO
Cinque cartellini di colore diverso indicano altrettante fasce di sconto: è questa la particolare formula inventata in un multibrand store dove i marchi non mancano, e il risparmio anche.
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utti sanno che i jeans nascono come indumenti da lavoro, e c’è chi intorno ai jeans il lavoro se l’è creato. E’ il caso di Giuliano Birindelli, per oltre vent’anni rappresentante di commercio lodigiano di marchi che hanno segnato le epoche, come Lee e Wrangler. Ma quando l’aria intorno a lui è iniziata a cambiare, forse addirittura in anticipo rispetto alla crisi attuale, Birindelli ha preso armi e bagagli, e senza esitare un attimo ha scelto la strada meno sicura, saltare la barricata e iniziare un’altra avventura, non meno affascinante, ma sempre e comunque lastricata di stoffa jeans. Nel 2009, dopo mesi di lavoro, apre in via del Codognino 4, a Cornegliano Laudense, Reves Jeans, multibrand store in cui Birindelli, affinato dal mestiere e
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dalle conoscenze maturate nel settore, riesce in un’impresa quasi impossibile: ottenere da grandi marchi come Gas, Silvia Heac, Trez, Only, Jack & Johns, Levis e Rifle, condizioni particolari, più l’accesso diretto a giacenze, stock e magazzini. Ma per contro, le innumerevoli facilitazioni pretendono l’acquisto di merce delle collezioni più recenti. Il risultato si trasforma immediatamente in una formula di vendita del tutto particolare, che segue per intero il ciclo vitale di un capo, che inizia dalla novità per finire addirittura oltre l’offerta scontata tipica dell’outlet, per arrivare all’ultimissimo prezzo, ridotto all’osso. Un’idea che vista in un’altra ottica rappresenta anche l’onestà di dichiarare un capo nuovo, distinguendolo da collezioni che con il passare dei mesi
dosi a cinque etichette di colore diverso, che corrispondono ad altrettante fasce di prezzo. Il blu intenso, accompagnato dalla dicitura New Collection, indica i nuovi arrivi di stagione, o per meglio dire i capi destinati a rientrare nelle offerte dei saldi. Azzurro chiaro, invece, per le Old Season che significano sconti variabili fra il 30 ed il 50%, e verde per le Commercial Sample, ovvero le collezioni usate, in vendita al 50%, che appena qualche tempo dopo cambiano il cartellino in rosso, approdando all’Outlet Price che indica sconti molto decisi, fra il 50 ed il 70%. Per poi finire il ciclo con il colore giallo,
si fanno sempre più distanti, ma senza che questo incida mai sulla qualità. In qualsiasi caso, a guadagnarci dal 2009 ad oggi è stato sempre il cliente, perfettamente conscio di acquistare un capo d’abbigliamento che faceva parte di uno stock della stagione precedente, o se invece aveva per le mani l’ultimissima novità, vista sui giornali di moda. E per facilitare la scelta e l’individuazione di ogni capo, è nata anche la trovata di segnalarli affidan-
i cosiddetti Last Call, in pratica l’ultima occasione per acquistare un capo prima che questo sia definitivamente eliminato dalla vendita, con uno sconto che parte e spesso supera il 70%. Particolarmente consigliata è l’iscrizione alla newsletter (attivabile attraverso il sito www.revestjeans.it), che a getto continuo segnala proposte, offerte e soprattutto sconti particolarmente vantaggiosi. Una confidenza? Spesso e volentieri, al sabato e alla domenica ai normali sconti viene aggiunto un ulteriore 30%: altro che saldi.
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Lucy in the sky Un piccolo armadio di stile che diventa un negozio di abbigliamento molto particolare, dove la moda c’entra per forza, ma il protagonista è ogni cliente. Merito di Lucy, personal fashion che ha vissuto quanto basta per capire al volo chi ha davanti
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orta Venezia, a Milano, è una zona disseminata di artisti, botteghe artigiane, laboratori, studi di design e architettura. Insomma, forse non più la Milano da bere, ma quella che ancora si muove e si spinge oltre le apparenze ed i cliché più abusati. Il civico 3 di via Alessandro Tadino, a pochi passi dai Bastioni, è l’indirizzo del LabIII, 25 mq appena di un negozio di abbigliamento molto particolare. Lucia Vailati, per tutti Lucy, la proprietaria, ha passato una vita fra la moda, lavorando per marchi come Max Mara, Aspesi, Armani e Mariella Burani. Ma la vita l’ha portata a girare il mondo,
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scegliendo poi di vivere per qualche anno a Ibiza, isola delle Baleari solo all’apparenza dedita al turismo, ma in realtà punto d’incontro per creatività internazionali che fra i 111mila residenti nasconde 195 etnie diverse capaci di vivere mescolandosi e scambiandosi emozioni, tradizioni ed esperienze. Ecco, il LabIII, in pochi metri quadri, ha dentro tutto questo, con l’aggiunta del gusto molto particolare della proprietaria, che ha rifiutato dal 2007, all’inizio della sua avventura, l’idea di vendere i soli campionari o le collezioni che si susseguono a ritmo incessante inseguendo le stagioni, per dedicarsi ad una scelta diversa, più difficile ma
proprio per questo ricca di soddisfazioni.I suoi capi sono pezzi unici arrivano da boutique e negozi di Londra, Amsterdam e Barcellona, trovati di persona o scovati in rete, che spesso anticipano addirittura quello che in Italia deve ancora arrivare. Proprio per questo motivo, per Lucy chi entra nel suo negozio non è solo una cliente, ma una donna che lei accompagna alla ricerca del proprio stile, magari fino a quel momento tenuto a bada per mancanza di coraggio. Perché l’appiattimento imposto dalle grandi catene di abbigliamento, per comodità fatto rientrare sotto l’infallibile marchio del made in Italy, nasconde in realtà la codifica precisa della moda: tutti vestiti allo stesso modo e con gli stessi colori, inseguendo la tendenza più attuale, e per di più senza preoccuparsi di indossare in modo più o meno accettabile il capo del momento. Perché il look è e dev’essere il riflesso della personalità di chi lo indossa, la parte visibile del proprio carattere, la vetrina di ogni anima, con la consapevolezza che non tutto si adatta a tutti, per fortuna. Ecco il motivo per cui spesso, chi entra al LabIII per cercare un capo preciso esce dopo aver comprato altro, consigliato dal gusto ormai affinato di Lucy, che in questa parte della sua vita preferisce definirsi personal fashion e mettere tutta la propria esperienza a disposizione di chi attraversa i 25 mq del suo negozio. In realtà non ci sono limiti e limitazioni per nessuno: al LabIII si trovano capi per tutte le taglie, dalla 40 alla 50, adatti tanto alla signora di mezza età alla ricerca del capo unico quanto alla ventenne che vuole concedersi l’accessorio particolare, magari per impreziosire un look fatto di jeans e scarpe basse. E non si seguono le stagioni, il cappotto giusto c’è anche d’estate, così come la camicetta leggera non manca mai d’inverno. Insomma, una sorta di piccolo armadio di una stylist aperto a chi vuole qualcosa di diverso, immerso nella capitale italiana di una moda che sempre più spesso è rigida e omologante, destinato ad una clientela di nicchia, dove chi entra – magari per caso non riesce più ad evitarlo: per vedere cos’ha trovato Lucy in giro per il mondo.
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LODI: Infinity Live
MUSICA DAL SILENZIO Un locale aperto di recente, dove ogni sera è un’occasione per ospitare musicisti di ogni tipo, da quelli alle prime armi ai professionisti che sempre più spesso lo scelgono come unica tappa italiana dei loro tour italiani.
C’
era chi lamentava che alle notti di Lodi e dintorni, mancassero occasioni per sentire buona musica, mangiare qualcosa e poter passare una serata fra amici, di quelle dove ti rilassi e torni a casa di buon umore. Marco e Sara, da parte loro, coltivavano da tempo l’idea di fare qualcosa insieme, di unire forze e amicizia per farle diventare un progetto. Lei voleva andarsene in Spagna e aprire un piccolo locale, lui spingeva per restare in zona e scommettere proprio sui posti dove vivono da sempre. Infinity Live è la dimostrazione che alla fine, per una volta, nell’eterna lotta fra uomo e donna, a vincere è stata l’idea di lui. Il loro locale, circa 260 mq in via Da Vinci 18, a Pieve Fissiraga, apre nel maggio scorso e da allora inizia ad inanellare serate piene zeppe di musica capace di accontentare le voglie di una zona che per loro se ne stava troppo in silenzio. Ancora più recente è la collaborazione con Tanzan Music, etichetta discografica con sede a Milano ma centro operativo a Ospedaletto Lodigiano, che spazia fra rock, blues e pop, mettendo una grande attenzione all’autorialità. Motivo sufficiente perché Infinity Live di Lodi sia
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diventata l’unica tappa italiana di Mitch Malloy, artista americano con un passato nei Van Halen, la cui musica hard rock è finita ai primi posti della hit 20 e nel programma di Jay Leno, uno dei salotti televisivi più seguiti d’America, dove va solo la gente che conta. Una sera da tutto esaurito che il prossimo mese di febbraio, Marco e Sara sperano di ripetere con gli House of Lord, hard rock band di Los Angeles nata da un’idea di Gene Sim-
(nachos, patatine e altre cosine così) e con una carta dei cocktails che ne comprende ben 102, con cui festeggiare addii al celibato/nubilato e feste di compleanno. Fra i programmi futuri, l’organizzazione di serate jam session, aperte ai musicisti che possono usare il palco e improvvisare con altri. Tutto, insomma, perché sia sempre più musica. Alla faccia del silenzio.
mons, il linguacciuto bassista dei Kiss. Ma non c’è solo metallo pesante, nelle notti dell’Infinity Live, anzi, se il giovedì il grande palco (con luci, impianto audio e fonico) è riservato ai gruppi emergenti, che hanno l’occasione di esibirsi di fronte ad un vero pubblico, ogni venerdì vanno in scena le cover band, mentre il sabato diventa il regno dei tributi: U2, Ligabue e Vasco Rossi, solo per citare alcuni fra quelli che hanno attirato più gente, eseguiti alla perfezione da musicisti che ricreano dal vivo le atmosfere live
dei loro artisti preferiti. E la domenica, per finire il week end come si deve, il sempre valido karaoke, forma di spettacolo nata negli Ottanta in Giappone che ha contagiato tutto il mondo. Gli appassionati, malgrado si possa pensare che il periodo d’oro sia terminato, sono ancora tantissimi, e molti nel tempo hanno imparato ad esibirsi sulle basi musicali con tali capacità da chiedersi se cantano per mestiere o per passione. Ma l’Infinity Live non è solo questo, è anche un locale dotato di stuzzicheria
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PAVIA: La rinascita culturale
DA MONTMARTRE ALL’OLTREPO La vivacità di una città si misura dagli eventi che si organizzano, capaci di attirare visitatori e turisti. Con un occhio al futuro. di Andrea Pestoni
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P
avia Vive! Era iniziato tutto con uno slogan. Oggi, dopo mesi di duro lavoro, quello slogan è diventato un marchio distintivo. Un brand, come si dice in gergo, che distingue Pavia dall’offerta turistica generale, fatta spesso di promesse mirabolanti e bellezze enormemente risaltate. Pavia, città universitaria e capoluogo,
ha invece saputo valorizzare quanto di bello può offrire, dai monumenti alle iniziative, che negli ultimi anni si sono moltiplicate. Lo sa bene Gian Marco Centinaio, vice sindaco e assessore al turismo, cultura, promozione della città e marketing territoriale, che da quando è stato nominato a palazzo Mezzabarba ha iniziato da subito a lavorare per il rilancio culturale della città. Pavia Vive è infatti la rinascita di una città che non solo vuole attirare un numero sempre maggiore di turisti, ma che vuole anche consentire ai pavesi, che Pavia la vivono quotidianamente, di viverla nel migliore dei modi, anche e soprattutto nel tempo libero. Il cuore di questa
rinascita culturale, anche dal punto di vista architettonico, è senza dubbio il castello visconteo, con i suoi musei civici che stanno attualmente ospitando la mostra dal titolo La Civica Scuola di Pittura di Pavia. Maestri e allievi. Si tratta per lo più di dipinti conservati finora nei depositi dei musei ed anche di quadri acquisiti di recente tramite legati testamentari, oltre ad alcune opere provenienti da collezioni private cittadine. Pochi giorni fa, invece, le Scuderie del castello Visconteo hanno fatto segnare un vero e proprio record di presenze per una mostra che ha richiamato nel capoluogo pavese visitatori provenienti da tutta Italia. Nella conferenza stampa di chiusura della mostra Degas, Lautrec, Zandò: Les folies de Montmartre, il vice sindaco Gian Marco Centinaio ha affermato: “A chiusura di questa mostra vorrei, per prima cosa, ringraziare Alef nella persona del Presidente, Pietro Allegretti, e tutti i suoi collaboratori per aver permesso a Pavia di ospitare queste opere che hanno riscosso un
grandissimo successo attirando nella nostra città numerosissimi turisti, a conferma di come turismo e cultura rappresentino un binomio inscindibile e una risorsa su cui dobbiamo continuare a lavorare anche se con le immancabili ristrettezze economiche legate alla crisi che stiamo vivendo. Pavia deve puntare sulla cultura e in particolare sull’arte di livello internazionale per rilanciarsi e continuare a puntare a farsi conoscere anche e soprattutto al di fuori dei confini nazionali”. Nonostante i continui tagli dei trasferimenti statali, puntare sulla cultura diventa essenziale per il rilancio turistico e economico di una città. Proprio per questo motivo nel corso del 2011 sono state poste le basi per creare degli eventi che anche nei prossimi anni saranno inseriti nel calendario delle manifestazioni cittadine. Intanto nel corso dell’anno, gli eventi culturali che sono stati organizzati dal comune di Pavia hanno anche permesso di utilizzare e valorizzare gran parte della strutture cittadine. Oltre ai prestigiosi spazi del castello Visconteo sono stati infatti valorizzati i collegi cittadini, le sale polivalenti, gli spazi artistici, i musei e le aule universitarie. Oltre naturalmente al teatro Fraschini ed agli scorci più belli della città, che anche quest’anno hanno trovato il momento più esaltante in occasione del Festival dei Saperi. Un momento in cui tutti i cittadini pavesi hanno pensato: Pavia Vive.
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PIACENZA: Vincere l’inquinamento
SMOG ON THE ROCKS
DAI GHIACCIAI ALPINI LA SPERANZA DI UN FUTURO MIGLIORE E MENO INQUINATO. DUE RICERCATORI STANNO EFFETTUANDO TEST APPROFONDITI SU BATTERI MANGIA-SMOG di Irina Turcanu
F
ortunati coloro che non vivono a Ahwaz, Iran, la città più inquinata della terra. Fortunati anche gli italiani con non vivono a Torino, il centro del Belpaese che detiene il triste primato autoctono. Fortunati, perché studi americani condotti dall’Ohio State University hanno messo in evidenza alcuni dei danni che lo smog provoca, tra i quali una diminuzione della memoria e un aumento dei sintomi depressivi. Gli studi italiani sui gas di scarico sottolineano, invece, quanto l’inquinamento urbano sia pericoloso per il patrimonio genetico. La chiamano, con linguaggio scientifico, metilazione del DNA, ossia l’aggiunta di particolari gruppi chimici a regioni specifiche dell’acido desossiribonucleico. Detto altrimenti, una messa a soqquadro della mappa che racchiude le informazioni genetiche di ogni individuo che, pure per i meno avvezzi di approfondimenti in materia, lasciano intuire scenari poco entusiasmanti. Ma forse c’è una speranza. Di certo una domanda dalle tinte verdeggianti, colore tipico del sentimento ultimo a morire, è oggi concessa, soprattutto grazie ai recenti studi condotti da due ricercatori della Facoltà di Microbiologia di Piacenza.
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Il nemico dell’aria Il debutto della parola “smog”, nel 1905, fa capire da quanti anni l’uomo combatte contro una delle sue più cattive conseguenze del progresso. Estremamente nocivo per la salute dell’uomo, cancerogeno in modo comprovato, lo smog si concentra soprattutto nelle grandi città, ed è in grado di nuocere non solo alle persone, ma anche agli edifici. Con la graduale scom-
Francesco Cappa e Pier Sandro Cocconcelli sono i nomi dei due scienziati che hanno progettato gli studi nei ghiacciai appennini raggiungendo alcuni risultati molto interessanti. Da notare che, a differenza dei ghiacciai dell’Antartico e della Groenlandia, quelli alpini sono stati presi in esame poche volte, ma grazie alla curiosità e all’amore per la montagna dei due ricercatori piacentini, ora si sa qualcosa qualcosa in più sull’argomento. Anzi, esistono finalmente le premesse per chiedersi se esistano davvero batteri
parsa del carbone come fonte di riscaldamento per le abitazioni, lo smog è oggi in buona parte attribuito ai gas di scarico delle automobili. Gli esperti catalogano gli effetti dell’inquinamento in smog invernale ed estivo, il primo simile a nebbia e caligine, il secondo – detto anche “smog di Los Angeles”, per il triste primato della città californiana – si presenta invece come foschia giallastra.
anti-smog, in particolare nelle Alpi. Nello specifico, “l’area scelta per l’attività di ricerca, dove poter prendere abbastanza facilmente campioni di ghiaccio senza affrontare costosi problemi di logistica, è stato il ghiacciaio del Madaccio, nel massiccio montuoso dell’Ortles-Cevedale, vicino al Passo dello Stelvio”, sottolinea Cappa, che racconta delle tre uscite sul campo realizzate per prelevare campioni di ghiaccio nell’autunno 2009, 2010 e 2011. Una volta ottenuti i campioni e raggiunti i laboratori dell’università, i
ricercatori hanno avuto modo di notare l’esistenza di microrganismi capaci di degradare gli agenti inquinanti. Microrganismi in grado di resistere e agire a temperature estremamente basse: ecco l’essenza delle indagini. “Abbiamo svolto le ricerche in una zona sciistica, per cui soggetta alla contaminazione con il petrolio e, negli anni ’60, con altri tipi di agenti altamente inquinanti”, aggiunge Cappa. Le carote di ghiacciaio del Madaccio sono state prelevate a valle dell’area dello sci estivo del Passo dello Stelvio, grazie a sonde per il carotaggio appositamente costruite da una ditta piacentina, e sono state trasportate in stato di completo congelamento fino ai laboratori della facoltà di Agraria, per essere analizzate. “I risultati che si stanno ottenendo sono sorprendenti - conclude Cocconcelli - l’acqua che si ottiene dalla fusione delle carote di ghiaccio, prelevate a 3.150 metri di quota, contiene una ricca comunità batterica caratterizzata da una elevata biodiversità”. E se gli studi sono ancora troppo giovani per consentire ai ricercatori di azzardare ipotesi di ampia portata, permettono, però, di gettare le basi per fantasticare – in attesa di dati comprovanti – su un possibile batterio in grado di degradare lo smog, a ogni temperatura.
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MILANO: Guida ai giardini insoliti
Da quello dedicato a Indro Montanelli ad altri, ben più antichi, un tempo appartenuti a nobili famiglie e poi donati al Comune. Una piccola scampagnata in città, alla ricerca di piante secolari e curiosità
VERDE MENEGHINO di Tommaso Montagna
A
nche una metropoli come Milano, gigante internazionale della moda, ha un cuore. Ed è verde, decorato dai giardini storici che si estendono a ridosso di Porta Venezia. Il percorso, che conduce nella natura più profonda e a volte sconosciuta del capoluogo meneghino, ha inizio con il Giardino Perego (in una toponomastica via dei Giardini), con un’estensione pari a 4.200 metri quadrati. Realizzato nel 1778, successivamente restaurato nel 1941 e progettato dall’architetto Luigi Canonica, lo spazio, in origine di proprietà della famiglia Perego di Cremnago, si estendeva fino a coprire gli antichi orti del soppresso Monastero di Sant’Erasmo. In seguito, su idea dell’architetto medesimo, divenne un suggestivo giardino all’inglese. Ma è con lo sviluppo demografico di Milano, a partire dal 1925, che il giardino Perego cominciò ad essere sacrificato. Riporta l’anno 1940 un accordo stilato tra il
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Comune e la famiglia Perego per la vendita di parte del giardino, da destinare a sede stradale e parco pubblico. Le statue originarie, tranne una, rimasero in proprietà della famiglia e furono spostate. Tra i monumenti di maggior pregio, si trova proprio la statua di Vertunno (opera del ‘700), oggi
in posizione non lontana dall’area giochi. Il sentiero, percorribile anche in bicicletta, è reso ombroso da aceri e platani secolari di notevoli dimensioni. Uscendo dai giardini Perego e proseguendo in via Senato, verso Porta Venezia, si entra nel Giardino di Villa Belgiojoso (ex Giardino della Villa Co-
munale): uno dei primi esemplari di spazio verde all’inglese realizzato a Milano. I suoi 19mila metri quadrati di verde sono destinati, in via esclusiva, ai bambini e agli adulti che li accompagnano. Realizzato nel 1793 su commissione del conte Lodovico Barbiano di Belgioioso, per volontà di Maria Teresa d’Austria che voleva dotare Milano di un grande giardino, al pari di Vienna, il parco include alcuni edifici di notevole importanza: accanto a quella che, durante il periodo napoleonico, fu la Villa Reale, si trova il Museo dell’Ottocento, costruito nel 1921, ora ribattezzato Galleria d’Arte Moderna ed è visitabile anche attraverso un percorso botanico, organiz-
IN RICORDO DEL MAESTRO A Indro Montanelli, uno dei padri del giornalismo italiano, Milano ha reso omaggio nella sua più celebre immagine: seduto, mentre scrive sulla sua Olivetti portatile, compagna di tanti servizi indimenticabili.
zato dalle Guardie Ecologiche Volontarie, con guida e descrizioni delle essenze. Continuando in direzione dei Bastioni di Porta Venezia, appena dopo via Palestro, si entra nel primo parco cittadino costruito ad uso pubblico, intitolato, a partire dal 2002, a Indro Montanelli, uno dei padri del giornalismo italiano. Progettati e poi realizzati con impianto alla francese alla fine del ‘700 (secondo i principi illuministici di razionalizzazione dello spazio) e rivistati un secolo dopo, i Giardini Montanelli, particolarmente attrezzati per le visite sia di adulti che di bambini, si estendono per 172 mila metri quadrati su un’area compresa tra Corso Venezia, i Bastioni di Porta Venezia, via Manin e via Palestro. Un’area che in passato apparteneva ai Monasteri di San Dionigi e delle Carcanine, soppressi sotto il dominio asburgico della città. All’interno del parco sono presenti tre aree gioco e uno
spazio con giostre e trenino per i più piccoli. Passeggiando, a piedi o in bicicletta, o correndo, per le stradine, ci si può imbattere in una flora di pregio: passare sotto una monumentale metasequoia, un filare di ippocastani, un cipresso calvo sulle rive del laghetto (le cui dimensioni furono ampliate a fine Ottocento) ed un platano centenario, piantato vicino alla statua del giornalista toscano, averso l’ingresso da piazza Cavour. Anche dal punto di vista architettonico, il parco non delude: sono presenti, tra gli altri edifici, Palazzo Dugnani, realizzato nel ‘600, il Museo Civico di Storia Naturale progettato nel 1892, il Planetario Ulrico Hoepli e il Padiglione del Caffè, realizzato dall’architetto Giuseppe Balzaretti (detto “il Balzaretto”, che rivisitò in stile paesaggistico il parco) e divenuto in seguito sede di una scuola materna, dal 1920. Come nel caso dei Giardini di Villa Belgiojoso, anche nel parco Montanelli sono attive visite guidate per le scuole, a cura dell’Associazione Didattica Museale.
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MODA & TENDENZE: L’arte Montblanc
Una macchia bianca sul mondo DALLA BOTTEGA DI TRE SOCI CHE REALIZZAVANO PENNE, AD UN IMPERO CHE OGGI ABBRACCIA TUTTO IL PIANETA. LA STORIA DI UN MARCHIO, DELL’AMORE PER IL PROSSIMO E PER IL GUSTO DEL BELLO.
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utto inizia nel 1908 ad Amburgo, Germania. Claus-Johannes Voss, imprenditore, Alfred Nehemias, banchiere, e August Eberstein, ingegnere, registrano la loro società: la Simplo Filler Pen Company, azienda specializzata nella creazione di strumenti di scrittura. Un anno dopo esce la Rouge et Noir, la loro prima penna: l’efficace meccanismo di carica dell’americana Moor è racchiuso in un corpo nero lucido che culmina su una punta rossa in cima al cappuccio. Nel 1911, mentre a Parigi e in America infuriano le polemiche per la novità dei pantaloni da donna, la penna dei tre soci si arricchisce di un nuovo modello: sulla cima, al posto del rosso, compare una macchiolina bianca che loro un amico suggerisce di battezzare Montblanc, per via di una certa somiglianza con la montagna sospesa fra Italia e Francia. Due anni dopo, la macchia bianca assume l’immagine arrivata fino a noi: una stella a sei punte che a qualcuno ricorda la cima innevata del monte, mentre altri preferiscono vederci una stella alpina. Ma la cosa più importante resta: da quel momento, il logo della maison non cambierà più. Nel 1924 la produzione Montblanc, ormai avviata in grande stile, inizia a dividersi per fasce di prezzo, con il massi-
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I MAESTRI DEI DETTAGLI La straordinaria tradizione del marchio svizzero si esalta nel lavoro degli artigiani, che rispettano ancora oggi i processi creati agli inizi del Novecento dai tre soci fondatori. Nata come industria dedita agli strumenti di scrittura, Montblanc ha esteso il proprio raggio d’azione a pelletteria, orologeria e alta gioielleria.
mo rappresentato dai modelli Meierstück (capolavoro), che includono la cifra 4810, ovvero l’altezza in metri del Monte Bianco. Ma la vera svolta arriva negli Ottanta, quando grazie ad un management attento e deciso, Montblanc inizia una diversificazione del core business aziendale, aprendosi a pelletteria, orologeria e gioielleria, tutto d’altissimo livello. L’impero è ufficialmente nato, e bastano poche cifre per capire quanto lo sforzo di guardare più in là dei propri occhi sia stato vincente: nel 2008, Montblanc raggiunge i 625 milioni di euro di fatturato, seconda solo a Cartier, altro marchio di proprietà del gruppo Richemont. L’altissima qualità della pelletteria ed i cronografi si impongono subito all’attenzione degli amanti del lusso e dei grandi collezionisti, specie per quanto riguarda i
modelli dedicati ai grandi personaggi del passato come il Montblanc Nicolas Rieussec Chronograph, l’uomo che nel 1821 inventò il cronografo moderno. In fondo lo stesso discorso di abbinare nomi celebri alle penne stilografiche, mercato di cui si mormora che Montblanc detenga ormai l’80% del mercato. Realizzate in materiali
diversi che arrivano anche alle pietre preziose e su diverse linee che ne distinguono il tipo di lavorazione, roller, penne a sfera e stilografiche marchiate con la stella bianca a sei punte rappresentano da tempo immemore uno dei must del lusso, accessorio indispensabile da taschino per gli uomini, e da borsetta per donna. Fra le collezioni più esclusive resiste la Bohème, che
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MODA & TENDENZE: L’arte Montblanc
oscilla fra oro, platino e diamanti, mentre da qualche anno si impongono le edizioni limitate, dedicate a grandi personaggi, come gli scrittori come Agatha Christie, Kafka, Hemingway, Oscar Wilde, Dostoevsky, Edgar Allan Poe e George Bernard Shaw, ma anche Grace Kelly, John Lennon, Alfred Hitchcock e Ingrid Bergman. Per finire con una nota recente: la Privée Création dell’Artisan Atelier di Amburgo, penna in oro bianco con 161 rubini e 128 diamanti, utilizzata dal Principe Alberto di Monaco e Charlene Wittstock per firmare i documenti del loro matrimonio. Discorso diverso per l’ingresso nel mondo dell’alta gioielleria, consacrato dalla creazione di un taglio di diamante che riproduce la celebre stella a sei punte. E oggi come allora, ogni prodotto Montblanc na-
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sce negli stabilimenti di Le Locle, piccolo centro immerso sulle montagne svizzere, seguendo gli stessi procedimenti artigianali dei tre soci di tanto tempo prima. Nel 2007, la maison acquisisce anche la manifattura Minerva di Villeret, dove dal 1858 si fabbricano orologi. Ma il raffinato marketing dell’azienda si affida da sempre ad un fortissimo impegno nei confronti della cultura e dell’arte in genere. Negli anni Novanta, nel pieno di un boom economico che oggi sembra distante anni luce, Montblanc riesce nell’impresa di coniugare cultura e fatturati ideando Writers Edition e Patron of the Art Edition, due linee in edizione limitata di strumenti di scrittura, che idealmente accompagnano la nascita del Montblanc de la Culture, Arts Patronage Awards, un premio dedicato a quelli che
un tempo erano i mecenati delle arti, oggi sempre più rari. A questi, si aggiungono The power to write, iniziativa nata per combattere l’analfabetismo, la sponsorizzazione dell’orchestra Philarmonia of the Nation, formata da giovani musicisti di ogni angolo del mondo, e Signature for good, collezione dedicata all’Unicef a cui Montblanc versa una significativa percentuale per ogni pezzo venduto..
Benvenuto lusso! Via Garibaldi 52, Belgioso: è questo l’indirizzo dove trasformare in realtà ogni desiderio, dalle polo alle scarpe, dalle borse alle camicie.
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razie a Luxury Box, il nuovo concept store del “lusso su misura”, anche nel Pavese ci si può finalmente “riempire gli occhi di bellezza”, seguendo la felice citazione di una cliente. Ha compiuto un anno da poco, questo negozio il cui motto è proprio “lusso è trattarsi bene concedendosi il meglio”. Una filosofia seguita dai due proprietari (una giovane coppia milanese) che hanno voluto dare vita ad un nuovo concetto di vendita partendo però dalle punte di diamante della tradizione italiana come artigianalità, alta qualità dei materiali e stile inconfondibile. Nasce così Luxury Box, il concept store del “lusso su misura” dove tutto è creato su richiesta del cliente da selezionati e specializzati artigiani italiani: marchigiani per le scarpe,
biellesi per i filati pregiati, piacentini per la rilegatoria. Insomma le più affermate eccellenze italiane tutte racchiuse in un piccolo showroom (aperto accanto al castello di Belgioioso) e soprannominato “ lo scrigno dei desideri”, proprio perché lusso e desiderio sono i due concetti cardine sui quali ruotano le creazioni esclusive di Luxury Box. Lo show room è stato concepito come un salotto di casa: una stanza calda ed accogliente, con la volta del soffitto a mattoncini e chandelier alle pareti. Un luogo dove si ascoltano i clienti per dare vita ai loro desideri, sorseggiando the e mangiando cremini al sale, discutendo di dettagli di stile, di scelte di materiali e colori. Luxury Box si rivolge a voi consumatori di nuova generazione, consapevoli
dei propri gusti e dell’individualità di ognuno. Un consumatore evoluto, con senso critico, che vuole circondarsi di prodotti esclusivi, non standardizzati, di sofisticata fattura e materiali ricercati. Il concept store comprende differenti aree merceologiche per le quali sono state create varie sezioni: Il filo intorno a te: polo e camicie su misura, capi in cashmere, vigogna o altri materiali pregiati, anche su disegno. Tacco, suola, punta: seguendo l’antica tradizione di filo e lesina si realizzano scarpe su misura per uomo e donna cucite a mano scegliendo modelli, pellami e abbinamenti di colore. Gioco in borsa: partendo da alcuni modelli base, si può creare la
propria borsa combinando colori, pellami e dettagli. Il tuo gioiello diventa realtà: un orafo, forgiando un materiale classico come l’oro con tecniche ricercate ed inusuali, e grazie all’utilizzo di pietre originali, riesce a creare gioielli senza tempo e da tramandare. Contattate Luxury Box e prendete il vostro esclusivo appuntamento per essere ricevuti nel salotto del lusso su misura, oppure scoprite su www.luxurybox.vpsite.it quanto ancora è possibile creare per Voi! Luxury Box è a Belgioioso (PV), in Via Garibaldi, 52. Tel. 0382.1900598 (luxurybox_rc@yahoo.it).
CINEMA: Torino Film Festival
GIOVANI PELLICOLE
OSPITI, NOMI E TANTO CINEMA. ANCHE NELL’EDIZIONE NUMERO 29, IL FESTIVAL ITALIANO PIÙ DI NICCHIA CHE ESISTA NON RINUNCIA AD OFFRIRE FILM D’AUTORE E SPUNTI DI RIFLESSIONE
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rad Pitt non c’era, probabilmente averlo sarebbe costato quanto due o tre edizioni di un festival che da 29 anni a questa parte ambisce ad un substrato più d’elite, concedendo poco al divismo e tanto ai contenuti, prendendo insomma il largo dal red carpet ad ogni costo di Venezia e Cannes per avvicinarsi sempre più a manifestazioni di nicchie e talenti come il Sundance di Robert Redford, Berlino e Rotterdam. C’era invece Laura Morante, splendida madrina, e poi ospiti disseminati qua e là, apparsi durante le proiezioni e spariti da Torino dopo qualche intervista appena. Alla fine, dopo nove giorni di proiezioni e centinaia di film disseminati su 11 sale diverse, fra quelli in concorso e non, ha
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vinto Either way, di Hafsteinn Gunnar Sigurdsson, la storia di un’amicizia sotto i cieli d’Irlanda fra due uomini che parlano, si confrontano e si scontrano, ma riescono comunque a trovare un dialogo. Piccolo esempio di quel che si diceva all’inizio: largo ai giovani, e bando alle pailettes.
POCO SFARZO, TANTA SOSTANZA L’anteprima del film di Brad Pitt (a sinistra) e la presenza di grandi attori (Toni Servillo, qui sopra), hanno dato lustro alla 29esima edizione del Torino Film Festival. Nella pagina a destra, una carrellata di fotogrammi di alcuni film proiettati: dall’alto Il giorno in più, con Fabio Volo, Midnight in Paris (Woody Allen), 50/50, 17 Filles e Win Win mosse vincenti.
Ma quest’anno, sotto la guida di Gianni Amelio, il Torino Film Festival ha aperto le porte anche al cinema da godere per il gusto sottile di essere in sala e gustarsi lo spettacolo. Così si spiega, appunto, l’anteprima assoluta di Moneyball (L’arte di vincere, in Italia), ultima fatica di mister Brad Pitt che racconta una storia sportiva e di cui sentiremo parlare quando sarà ora di altri premi, così come spazio a Woody Allen e al suo Midnight in Paris, bella e riuscita storia di uno scrittore che nelle notti parigine ritrova uno dopo l’altro gli eroi della sua formazione letteraria. Una scelta strategica ben precisa e dichiarata che non significa facili concessioni al populismo, ma semplicemente aprirsi al cinema visto nel suo complesso. Il premio per gli organizzatori, in questi casi è rappresentato dalle cifre: 191mila euro di incassi, con un incremento del 6% rispetto all’anno precedente, e un aumento dei giornalisti accreditati del 25% circa, a dimostrazione che io TFF cresce, più di quanto la città della Mole stessa cerchi di ammetterlo. Fra le cose belle da vedere Win Win mosse vincenti, di Thomas McCarty. Interpretato
da Paul Giamatti, il film racconta la vicenda di un avvocato spiantato che finisce per prendere a cuore il talento di un ragazzino ribelle. Spiazzante, ironico e scomodo invece 50/50 di Jonathan Levine: un giovane di 27 anni scopre di avere un cancro e il 50% delle possibilità di farcela. L’America più vera viene fuori in A little closer, di Matthew Petock, dove una madre single e due figli adolescenti indagano ognuno a modo proprio i turbamenti di cuore e corpo, sullo sfondo rurale della Virginia. Farà invece parlare 17 filles, opera delle sorelle Delphine e Muriel Coulin: 17 ragazze di un piccolo centro della Bretagna restano incinte nello stesso periodo e quasi finiscono per isolarsi dal resto del mondo, che fa loro solo da contorno. Tutti da gustare Intro, di Brandon Cahoon, un road movie lungo le strade della California di un folk singer solitario, e George Harrison: living in the material world, un omaggio al Beatle più introverso firmato da Martin Scorsese, cucito con interviste e filmati inediti. E gli italiani? Si poteva fare di più, questa sembra l’opinione comune. Perché se da una parte I più grandi di tutti, di Paolo Virzì, tende a cedere sui luoghi comuni, dall’altra Il giorno in più di Massimo Venier, è pennellato addosso all’attonita espressione di Fabio Volo (suo il libro da cui è tratto) e alla bravura di Isabella Ragonese, che fa del suo meglio per impreziosire una trama sospesa fra Serendipity e altre commediole americane facili facili. Caso a parte Il corpo del Duce, di Fabrizio Laurenti, un documentario che ricostruisce il culto verso Mussolini e le vicissitudini della sua salma dopo piazzale Loreto. | Dicembre 2011 - Febbraio 2012 | 49
SPEttacolo: Comici Associati
INSIEME PER RIDERE
(e non solo) Tre cabarettisti, l’evoluzione del loro repertorio e un’idea che li avvicina: creare un movimento che si occupi del teatro comico civile. Per sorridere e riattivare aree del cervello offuscate dal marketing.
Il cabaret sta cambiando. Da semplice momento in cui sbellicarsi dalle risate per un tormentone che si ripete a ritmo incessante, alla più difficile definizione di teatro comico civile, una forma di spettacolo che senza rinunciare al sorriso manda messaggi e in qualche modo fa la propria parte per rendere migliore la società. E’ questo il principio che ispira Comici Associati, movimento – più che agenzia di spettacolo – che ha messo insieme tre
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cabarettisti d’annata come Claudio Batta, Diego Parassole e Luca Klobas. Gente abituata alla ribalta televisiva, senatori della corazzata di Zelig che da una vita lavorano sodo con la sola idea di far ridere chi li guarda. Poi le cose cambiano, tutti e tre superano la boa dei quarant’anni e si trovano al fianco dei figli, una famiglia e delle responsabilità, proprio mentre il pianeta che anche loro abitano si fa sempre più difficile. Forse per quello, il loro
repertorio personale pian piano cambia pelle, diventando la naturale evoluzione dei rispettivi cavalli di battaglia: Pistolazzi per Diego Parassole, l’operaio in tuta blu che se la prende con i soprusi, Ratko, l’albanese arrogante per Luca Klobas e Capocenere, il parcheggiatore di Claudio Batta alle prese con improbabili parole crociate. Tre modi di scatenare la risata attingendo a piene mani dalle notizie che riempiono i telegiornali. Un
giorno, insomma, i tre si ritrovano ognuno per sé a portare in scena tematiche difficili, spettacoli che fanno ridere ma subito dopo lasciano l’amaro in bocca, perché la realtà spesso sfugge via leggera, fin quando qualcuno non te la fa vedere in modo diverso. Parassole sceglie il tema dell’ecologia e del consumo portando in scena Che Bio ce la mandi buona e I consumisti mangiano i bambini, due spettacoli che svelano dettagli tenute rigorosamente nascosti dal potere dell’informazione, sui cibi come sulle strategie di marketing che convincono a comprare sempre di più, per finire agli enormi interessi che muovono multinazionali spietate, a cui poco importano i destini del mondo. Claudio Batta, dal canto suo, porta in giro Agrodolce, spettacolo che al contrario si concentra sulle abitudini alimentari degli italiani ma senza tralasciare lo spinoso tema delle sofisticazioni e i trucchi della ristorazione. Per finire a Luca Klobas, che invece sceglie ancora il tasto dell’immigrazione con Visti da Est, visione multietnica della società italiana, piena di vizi e ormai con poche virtù da poter vantare. Discorsi seri, anzi serissimi, malgrado il buonumore non manchi mai, che le agenzie di spettacolo spesso faticano a capire, così tanto da convincere i tre a mettere in piedi Comici Associati, la prima autogestione della risata di cui si abbia notizia. “Nessuna pretesa di imitare o scimmiottare geni assoluti del genere come Gaber, Jannacci, Fo e Grillo – commentano i tre quasi in coro – quanto piuttosto l’esigenza di crescere professionalmente, scegliendo la strada di chi il pubblico lo coccola con le risate, ma a tratti non rinuncia ad assestare sonori schiaffoni che lasciano a bocca aperta, sentendo di quali angherie è vittima ogni abitante di questo mondo”. Messaggi di meschinità consumistica a cui ci hanno abituato, come l’esilarante storia del rasoio maschile passato con gli anni dal monolama al bi, per poi approdare al trilama, in cui la prima lo estrae, la seconda lo distrae e la terza lo taglia a tradimento. Far ridere quindi, ma senza rinunciare neanche per un istante a far pensare: esattamente quello che in tanti non vogliono più si faccia.
Dedicato a chi non ha niente La prima apparizione pubblica di Comici Associati è a scopo benefico. Con la complicità di Rita Pelusio e insieme a Riccardo Piferi, autore di tutti e tre, Parassole, Batta e Klobas – insieme a Leonardo Manera e Rita Pelusio - hanno scelto di girare alcuni spot per Mani Tese, onlus presente in 14 paesi che dal 1964 ha scelto di occuparsi del sud del mondo, portando avanti programmi che rendano i paesi sottosviluppati in grado di garantirsi quanto necessario per vivere. Nei mini spot virali a tema natalizio (visibili su www.youtube.come/ maniteseong), non si chiedono offerte di alcun tipo, l’obiettivo è ancora una volta far riflettere e invitare chi guarda a regali solidali. Meglio di ogni cosa lo spiega il claim: quest’anno, invece di regalare qualcosa a chi ha già tutto, scegli di fare un regalo a chi non ha niente. Fa bene al cuore.
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MOTORI: Motor Show di Bologna
L’AUTO IN FUGA
IN QUELLA CHE SARÀ RICORDATA COME L’EDIZIONE DELLA CRISI, SI SALVANO I CAPISALDI DI UN EVENTO CHE SI RIPETE DA 36 ANNI, MA È ORMAI LONTANO DAI FASTI DI UN TEMPO: 48 LE ANTEPRIME, E NON TUTTE COSÌ EMOZIONANTI di Germano Longo
N
on è bastata neanche Nina Senicar, sfolgorante madrina dell’edizione numero 36 - che segue una tradizione di bonazze da calendario chiamate a far da portafortuna - per rialzare le sorti del Motor Show, appuntamento bolognese che tradizionalmente chiude l’anno automobilistico. E meno male che lo chiude, vien da dire, visto che l’Italia archivia questi dodici mesi con un secco 10,8% in meno negli acquisti che lascia poco spazio alla fantasia, e ben poche speranze in realtà lasciava
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anche all’edizione 2011 dell’appuntamento bolognese. Un evento su cui gravava anche l’omaggio del governo Monti, che proprio negli stessi giorni stava varando una manovra che come sempre ha l’auto al centro del mirino. Il risultato? Padiglioni con grande abbondanza di spazi vuoti e la netta sensazione che si faceva molto prima a capire chi non c’era. Come, ad esempio, il gruppo Bmw-Mini e i francesi di Citroën-Peugeot, seguiti da Opel, Chevrolet e Toyota. Assenze pesanti, che messe insieme significano
LA FIERA DELLE NOVITA’ Qui sopra la nuova Panda e la Punto 2012, due novità Fiat. Qui sotto la Lancia Flavia, scoperta su base Chrysler. In basso Nina Senicar, la madrina, e più a sinistra la VW Up!, city car tedesca.
una bella fetta del mercato automobilistico ma che tuttavia non hanno tolto agli organizzatori il piacere di dichiarare 48 anteprime, fra nazionali e mondiali, contando tutto il contabile, dalle super alle city car. E il tutto, come sempre, con l’aggiunta del solito contorno di standiste, ospiti, aree per test drive e gare su gare, culminate nel consueto Memorial Bottega. Insomma, un po’ pochino, per un evento che solo qualche anno fa chiudeva i botteghini per troppa affluenza di pubblico ed oggi invece paga lo scotto di una crisi che stringe alla gola il mondo dell’auto. Così, cercando di farsi bastare quel che c’era, attesa moderata per il debutto italiano della nuova Renault Twingo, piccolina tornata all’aria simpatica che aveva fatto la fortuna della primissima generazione, disponibile in un’ampia gamma di colori sgargianti, fatti apposta per colpire i più giovani. Un po’ come il principio
che ha attirato gli sguardi allo stand Volkswagen, dove primeggiava la piccola e sfiziossima Up!, concentrato di tecnologia tedesca in scala da cittadina pura. Prima volta anche per la Skoda MissionL, concept di berlina ormai pronta per arrivare nei concessionari. Quindi il Gruppo Fiat, che a Bologna ha portato novità fresche e altre meno, come la nuova Panda, probabilmente chiamata ancora una volta ad aggiustare i bilanci del gruppo torinese ormai con doppio passaporto americano. E a proposito di America, ennesima passerella per Delta, Thema e Voyager, più anteprima della nuova Flavia, scoperta di grandi ambizioni con forme, anima e tecnologia Chrysler. Allo stand Audi anteprima europea per la A1 Sportback, più vetrina nazionale per le nuove Q7, S6 Avant ed S8. Novità anche in casa Ford (B-Max, Evos e Focus elettrica), Hyundai (i40 berlina, i30), Honda (Civic),
Kia (Picanto, Rio, Soul facelift e Sportage). Tutto qui? No, ci mancherebbe: a far vera notizia è stato il debutto assoluto della Blowcar, la prima auto al mondo gonfiabile. Attenzione, non si tratta di uno scherzo, anzi, del serissimo progetto di un architetto che ha pensato ad una vettura usando tecnologie in uso nell’industria aerospaziale, con cuscini d’aria al posto della carrozzeria tradizionale. Arriverà sul mercato alla fine del 2012, in quattro diverse versioni, e c’è già chi l’aspetta con ansia: chissà se sgonfiando l’auto si riuscirà ad evitare il fisco? FRA MISS E SORRISI In basso a sinistra un attonito Enrico Brignano, colto di sorpresa mentre tenta di capire i segreti di un’auto elettrica. Sotto una delle tante modelle che da sempre fanno da contorno alla kermesse bolognese. In alto la nuova MissionL, riuscita berlina a marchio Skoda.
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SPORT: Le nuove maglie della Nazionale
IMMERSI NELL’AZZURRO PRESENTATA IN ANTEPRIMA LA NUOVA MAGLIA DELL’ITALIA DEL CALCIO, UNA TRADIZIONE INIZIATA OLTRE 100 ANNI FA,LEGATA A REGOLE PRECISE. di Germano Longo
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on quest’ultimo tassello, è ufficialmente iniziato il cammino della Nazionale Italiana di Calcio verso gli Europei 2012, ospitati da Polonia e Ucraina. Quello che ancora mancava, senza scendere nel merito di risultati e scelte tecniche del CT Cesare Prandelli, era un dettaglio di valenza storica: scoprire la maglia che gli Azzurri vestiranno nel corso della massima competizione europea, proprio nell’anno in cui la divisa della Nazionale soffia sulle cento candeline, che si sommano alle 150 dell’Unità d’Italia.
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La nuova tenuta, presentata in anteprima al centro sportivo La Borghesiana di Roma, dove i vertici della Puma, azienda che produce il kit home ufficiale della Nazionale Italiana, accompagnati da quelli della FIGC e con l’aggiunta di Prandelli, Buffon e Chiellini, hanno illustrato in dettaglio la tenuta, comprese le tecnologie che sempre più interessano l’abbigliamento degli atleti. Si inizia dal look, oggi dettaglio fondamentale e definito “future-classic” poiché studiato attingendo dalla gloriosa tradizione azzurra ma senza dimenticare che il compito primo di ogni divisa sportiva, tolte le pure questioni cromatiche, è di assicurare il massimo comfort a chi la indossa. Tecnicamente si tratta di maglie in tessuti leggerissimi e traspiranti, con in evidenza sul taschino termosaldato lo scudo che racchiude il tricolore, l’emblema della Federazione italiana e le quattro stelle che come gli sportivi sanno, simboleggiano le quattro vittorie azzurre ai mondiali. Tricolore anche sul colletto “alla coreana”, con allacciatura a contrasto tonale senza bottoni, sui pantaloncini bianchi in materiale traspirante e per finire sui calzettoni azzurro Italia, con inserti tono su tono e risvolto tricolore. La nuova tenuta ha debuttato con gli Azzurri all’Olimpico di Roma nel corso dell’amichevole contro l’Uruguay.
VESTITI PER VINCERE Qui sotto Cesare Prandelli, CT della Nazionale, il capitano Gigi Buffon e Andrea Pirlo posano con la nuova tenuta che li accompagnerà verso gli Europei del 2012. In basso Prandelli e Buffon insieme ai vertici della Puma, nell’altra pagina la divisa indossata da Chiellini.
In principio fu il bianco, poi nero e infine Azzurro C’è un’antichissima e solida tradizione, che si perpetua da 100 anni esatti, legata alla maglia Azzurra, così chiamata proprio perché nel tempo la tenuta ha cambiato materiali, mode e lunghezze, passando da scolli a “V” a girocolli, ma la tinta è rimasta intatta, adottata ufficialmente il 6 gennaio 1911 a Milano contro l’Ungheria perché tonalità cara
ai Savoia e per questo chiamata in fretta e furia a sostituire il bianco che invece era il colore della squadra ospite. Da allora sono stati oltre settecento incontri tinti di Azzurro, con pochi tradimenti: in Francia nel 1938, ad esempio, quando i nostri adottarono un funereo nero pece (voluto da Mussolini in persona) che invece portò grandi
fortune ai ragazzi di Vittorio Pozzo. Pur rifiutando con forza le sponsorizzazioni, è negli anni Settanta che maglia della Nazionale cede agli sponsor tecnici che di volta in volta si alternano per disegnarne una nuova. Per finire, record assoluto per Fabio Cannavaro, capitano della notte dell’ultima vittoria, a Berlino nel 2006, che ha indossato l’azzurro per 136 volte.
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FOOD/1: Cook it raw
NUDO E CRUDO Quattordici chef di fama mondiale radunati in Giappone per la quarta edizione di un evento di cui si sa poco, dove liberare fantasia e immaginazione, a patto che tutto sia rigorosamente crudo
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utto inizia nel 2009 in Danimarca, come idea collaterale ad un summit mondiale sull’ambiente. Complici Andrea Porcelli di Nordic Gourmet Tour, Andrea Petrini, gran patron di Slow Food e Carla Capalbo, giornalista e scrittrice, che si siedono ad un tavolo e poco dopo fanno nascere Cook it raw, letteralmente “cuocilo crudo”. Un’antitesi apparente fra due tecniche diverse di fare cucina, nata dal tentativo di riscoprire usanze e tradizioni di un
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tempo, più vicine alla natura e rigorosamente ad impatto zero. La prima edizione nasce così, con 11 chef di fama mondiale riuniti in Danimarca e sguinzagliati nei boschi alla ricerca di funghi, foglie, bacche e selvaggina. L’esperimento piace, se ne parla in tutto il mondo e l’anno successivo Cook it raw sbarca in Italia, nella zona del Collio, in provincia di Gorizia. Tre giorni intensi di passeggiate fra boschi, vigne e orti, di pesca nei laghi, ma anche di in-
contri, dialoghi, scambi di esperienze e collaborazioni impensabili fra stelle della gastronomia mondiale, che in genere non dialogano mai troppo fra loro, gelosi del proprio lavoro, circondati da giornalisti ed esperti del settore. Tutti protesi verso la cena finale, con 50 persone a tavola, in cui tradurre nei piatti la cerimonia di purificazione di un cibo rigorosamente crudo, o meglio cotto in altri modi. Nell’ambiente non si parla d’altro, al punto che Cook it raw edizione 2010
si sdoppia, replicando l’appuntamento con i grandi della cucina in Lapponia, nell’estremo nord del mondo. Altri giorni per perdersi nei boschi a caccia di funghi, licheni e renne, ma questa volta con una piccola complicazione in più: la richiesta di lavorare in piccoli gruppi. Il risultato? Un esempio per tutti, il risotto mantecato al formaggio fresco di renna su un letto di pesci di lago crudi e condito con mirtilli, fiori, erbe, schiuma d’aglio e carboni aromatici. Una vera folgorazione, per chi l’ha assaggiato come per chi invece si è inventato accostamenti che malgrado il mestiere, non sognava nemmeno fossero possibili. E si arriva all’ultima edizione, la più recente, quella che pochi giorni fa ha trasferito quattordici cuochi fra i più celebri del mondo in Giappone, dove le tecniche
di cucina senza cottura sono un’arte millenaria. Nello scenario della Prefettura di Ishikawa, sulla costa ovest del paese, gente come Albert Adrià, chef del 41° di Barcellona e fratello del celebre Ferran, chef del ristorante El Bulli di Roses, in Spagna, Costa Brava, l’inventore della gastronomia molecolare in cui il contrasto di sapori, colori e temperature sorprende ogni volta occhi e palato. Ancora René Redzepi del Noma di Copenaghen, David Chang della catena Momofuku, che comprende tre ristoranti nell’East Village di New York, Dan Patterson del Coi di San Francisco, Claude Bois dell’Hibiscus di Londra, lo svedese Magnus Nilsson, chef e proprietario del Fäviken Magasinet, locale con soli 12 posti a sedere, Alex Atala del D.o.m. di San Paolo, in Brasile, Yoshihiro Narisawa del Le Creations
PIATTI? NO, VERE OPERE D’ARTE Alcuni dei più grandi chef del mondo a lazione di cucina giapponese: l’evento, nato nel 2009, porta ogni anno i migliori professionisti dei fornelli in giro per il pianeta, per scoprire alimenti ed accostamenti nuovi. Qui sopra, uno dei piatti presentati dopo giorni intensi fra mercati e antichi cuochi giapponesi.
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FOOD/1: Cook it raw di Tokyo, Mauro Colagreco del Mirazur di Mentone, ancora l’australiano Ben Shewry, il francese Alexandre Gauthier e Takahiko Kondo e Tokuyoshi Yoji dell’Osteria Francescana di Modena. Compito del gruppo, creare un piatto a testa per la serata finale, chiamata Shoku-do (la via del cibo), usando tecniche, prodotti e sapori tipici della Prefettura di Ishikawa, con ogni chef abbinato ad un artigiano locale che ha creato per ogni esigenza un diverso piatto da portata che ne rispettasse l’anima. Giorni a disposizione per perdersi nel mercato del pesce di Nanao e fra le erbe della foresta di Satoyama, che come risultato finale hanno dato piatti memorabili come la tartare di calamari su ghiaccio di Alex Atala, i petali di crisantemi e gamberi di Ben Shewry ed il Sake-Sake, il gelato a base del celebre liquore giapponese..
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DALLE CUCINE AI BOSCHI Gli chef alla ricerca di pianete e licheni con cui abbellire i loro piatti. Nel programma di Cook it Raw c’è sempre l’obbligo di scegliere di persona quelli che saranno i componenti del piatto.
La famiglia, prima di tutto I piatti di un tempo rivistati secondo le più attuali tendenze della ristorazione: Cascina Marconi è tutto questo, comprese carni di prima scelta, una splendida location e un’atmosfera che sa di famiglia
E’
un’idea recente, il ristorante Cascina Marconi, aperto da poco più di un mese ed inserito nel caratteristico contesto termale di Rivanazzano e Salice. In realtà, la passione del titolare per la cucina ha radici lontane: lo chef Antonio, dopo la scuola alberghiera, ha lavorato per diversi anni presso il ben noto Villa d’Este di Cernobbio, uno degli alberghi più noti d’Italia, dove ha fatto propri ricette e segreti legati alla gastronomia d’alto livello che ancora oggi costituiscono la base dei piatti che propone ai suoi clienti, in cui il risultato è una straordinaria cucina tradizionale rivisitata in chiave moderna. E’ stata proprio l’esperienza ormai ventennale nel settore della ristorazione a convincere Antonio e suo fratello Enrico a cimentarsi in un’avventura chiamata Cascina Marconi, locale accogliente e luminoso
che in un solo colpo racchiude una splendida posizione, un ampio parcheggio ed una gestione familiare che ne fanno il luogo ideale dove trascorrere qualche ora con la famiglia, gli amici ma anche la location adatta per una cena aziendale o un meeting di lavoro. Nel menù non mancano i salumi della Valle Staffora, gli antipasti preparati con gli ingredienti di stagione - come il flan di zucca o il tortino di radicchio serviti come insegna la “nouvelle cuisine” - i primi piatti rigorosamente fatti in casa come gli agnolotti o i particolari risotti presentati in una cialda di parmigiano croccante e infine, per gli amanti della carne, tenerissimi filetti in crosta di speck all’aceto balsamico e fiorentine cucinate nel forno a legna, finendo il tutto con un’ampia carrellata di bolliti dedicata a
quanti amano i sapori di una volta. Per finire in bellezza con un carrello di golosissimi dolci che sono davvero una tentazione a cui è impossibile resistere. Alla Cascina Marconi nulla è lasciato al caso: la genuinità assoluta degli ingredienti utilizzati per creare i piatti, la scelta della qualità delle carni, che sono il vero punto di forza del ristorante ma che non sarebbero nulla se non fossero accompagnati da un servizio impeccabile, che inizia con la presentazione dei piatti ed una selezione di vini nazionali che ne fanno un locale da non perdere.
FOOD/2: Spaccio agricolo Ancona
MAIALE a chi? C’è un’azienda lodigiana dove nei due giorni e mezzo di apertura settimanale si forma una coda di gente entusiasta: si vendono prosciutti e carni di suini rigorosamente cresciuti in zona, senza alcuna aggiunta di prodotti chimici
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a strada è immersa nel verde, di quella tonalità fatta apposta per le cartoline. Poi di colpo, fra campi pettinati e un ordine antico a governare le cose, spunta una piccola azienda dove tutto sembra essersi fermato ai tempi in cui il cibo era una tradizione di genuinità, che nulla aveva da dividere con la chimica che oggi la fa da padrone. Si chiama Spaccio Agricolo Ancona (www.spaccioagricoloancona.it), è circondato da ventidue ettari di terreno coltivato a mais e orzo, e in mezzo trova posto un piccolo punto vendita di un’azienda a conduzione familiare che piano piano, senza clamori
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ma grazie ad un passaparola che è sempre un metodo infallibile, sta diventando uno di quei posti che sanno mettere la gente in macchina e macinare chilometri per raggiungere Corte Palasio, a pochi passi da Lodi, pur di aver la certezza di mettere in tavola qualcosa di sano, naturale, che non ha alcun tipo di controindicazioni. Lì, la famiglia Zanaboni, il padre Angelo e i suoi due figli Davide e Roberto, in ordine di apparizione al mondo, due anni fa inaugurano la loro idea: uno spaccio alimentare in cui vendere carni e insaccati del loro allevamento di maiali. Tutto nasce qualche anno prima, nel 2003, quando i “vecchi” di famiglia, i tre fratelli Zanaboni, fin dagli anni Cinquanta allevatori di frisone da latte, decidono di dividere i loro destini. Angelo, insieme a suoi due figli, costruisce tre capannoni e decide di spostare l’attività familiare verso i maiali. Degli ibridi da ingrasso rigorosamente lodigiani, cresciuti con ogni riguardo e rispetto, che ben presto all’interno dell’Azienda Ancona superano la quota del migliaio di capi. Qualche anno di rodaggio, poi la svolta: lo spaccio, inaugurato alla presenza del Sindaco e della cittadinanza, ben contenta di poter contare su un posto dove la chimica non sanno neanche cosa sia. “I nostri insaccati non contengono altro che carne suina, con la sola aggiunta di un po’ di salnitro per questioni di conservazione - aggiunge Roberto, il “piccolo” di famiglia, un diploma di perito agrario nel cassetto e tanta passione che trasuda da ogni parola - e devo dire che il nostro messaggio sta passando: lo spaccio è aperto solo due giorni e mezzo alla settimana, ma serviamo non meno di cinquecento clienti ogni volta, affettando fra i 13 ed i 14 kg di prosciutto cotto. Un risultato che onestamente, anche nelle migliori speranze, non ci aspettavamo”. Due le strade che prendono i loro maiali: quelli che raggiungono i 170 kg di peso finiscono alla grande distribuzione, i capi che invece si aggirano sui 200 kg sono lavorati direttamente dai Zanaboni e utilizzati per il loro spaccio. Partono verso il macello Bertoletti di Graffignana e tornano indietro divisi in mezzene, per iniziare la lavorazione vera e propria. “Sono disossati secondo me-
azienda di salumi, lo riassumo in poche parole: non c’è paragone. E non lo dico perché sto parlando dell’azienda della mia famiglia, ma perché è un riconoscimento che ci arriva dai clienti, che quando provano i nostri prodotti non sanno più tornare indietro, al prosciutto imbustato, per capirci. Il nostro obiettivo è passare dagli attuali 200 maiali macellati ogni anno a 300, rinunciando alla grande distribuzione”. todi antichissimi e la carne divisa per creare l’impasto per gli insaccati da una parte, che richiedono sette giorni di asciugatura in una cella, e prosciutti e carne dall’altra – continua Roberto – il risultato sono lombate, braciole, lonze, coppe, stinco, cotechini, puntine e cosciotti che sono l’ideale per arrosti straordinari. Quello che non temiamo è il paragone con qualsiasi grande e rinomata
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FOOD/3: La sacca del gusto
CARTOLINE dall’Italia Una bottega di Lodi in cui specialità e piccole ricercatezze della sconfinata gastronomia italiana si alternano, seguendo il ritmo naturale delle stagioni ed il profondo rispetto verso le tradizioni che rischiano di sparire
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ià il nome è particolare, ma spiega molto su una bottega dove nulla è lasciato al caso, a cominciare dai sacchetti – volutamente semplici – che si ottengono in cambio quando si compra qualcosa. Il principio non fa una piega: nell’era in cui i pacchi dono sono spesso più belli di ciò che contengono, a Lodi, in viale Milano 95, vale l’esatto contrario. Perché quello che ogni sacchetto racchiude passa l’attento controllo di Silvia e suo marito Carlo, che prima provano personalmente ogni primizia e prodotto, e solo dopo accettano di metterlo in vendita. Si parla di cibo, ovviamente, ma nulla a che vedere con quello che è figlio dei processi industriali, anzi, ne resta rigorosamente il più lontano possibile. Che in fondo è forse l’unico modo per salvare dall’estinzione tradizioni artigianali in cui l’Italia un tempo era maestra, minacciate dai grandi circuiti che vendono cibo tutto uguale, attento all’immagine e al colore almeno quanto è privo di gusto. Il 18 gennaio 2010, quando La sacca del gusto apre i battenti, quella che sembra una scelta casuale si trasforma in una regola precisa, che non ammette esitazioni: spazio soltanto alle eccellenze di formaggi, salumi, olii, vini, paste e passate, tutto di
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produzione italiana, anche se questo vuol dire partire di persona per verificare ogni piccola azienda, e tornare indietro con una certezza assoluta da offrire alla clientela: qualità. Nulla lì è un caso, nulla è fuori stagione, impossibile trovare le fragole a dicembre e il formaggio di capra nei mesi in cui gli animali pensano ai loro piccoli e anche i produttori li lasciano in pace. E per contro spazio alle piccole aziende, spesso nient’altro che minuscoli produttori che usano solo latte crudo e non pastorizzato, e per questo possono garantire poche
IL TOUR DEI GUSTI Scaffali interi pieni di specialità regionali in cui perdersi. E’ questa La sacca del gusto, bottega dove il concetto di cibo sale di pregio e diventa una qualità indiscussa.
tome d’alpeggio, pochissimi formaggi di malghe, oppure numeri ristretti di panettoni alla birra e barricati, a cui serve tempo e pazienza per diventare dolci indimenticabili. Non basta, perché un occhio di riguardo, La sacca del gusto ha scelto fin dall’inizio di darla anche a chi è più sfortunato e ha bisogno di una mano. L’intera produzione di salumi e formaggi di San Patrignano, ad esempio, la celebre comunità di recupero per tossicodipendenti che cerca
in questo modo di insegnare un mestiere a chi aveva deciso di prendere a calci la vita. O ancora una cooperativa che si occupa di minori e produce vino e miele, ma soprattutto speranze. Poi una miriade di aziende, sparse per l’intero stivale, per coprire il meglio che c’è, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, toccando presidi Slow Food ma anche piccole aziende dove la certificazione di genuinità la danno i pascoli, le stalle e il ritmo delle stagioni, uguale e immu-
tabile da sempre. Dal pecorino della Val d’Orcia a quello delle colline pistoiesi, dal Ramato di Capra al Fatulì, rarissimo formaggio fatto con latte di capre bionde dell’Adamello, affumicato con bacche e rami di ginepro, da una particolare riserva di Grana Padano ai classici della gastronomia lodigiana come il Pannerone ed il mascarpone. Poi vini tenuti lontani dai processi chimici, olio extravergine di oliva, salse e passate di pomodori cresciuti senza null’altro che non sia terra buona e sole, riso lasciato riposare un anno e pasta di semola di grano duro. E questo spiega perché spesso i clienti diventano amici, chiedono, accettano consigli e si lasciano guidare attraverso gusti che magari non conoscono ancora. Per loro, e non solo, a ciclo continuo la bottega di Silvia e Carlo organizza degustazioni e presentazioni di prodotti nuovi, in cui è facile imparare il modo migliore per cucinare cibi quasi introvabili, in modi ormai altrettanto rari. Chi ha capito e ha saputo leggere fra le righe, a La sacca del gusto ci torna spesso. Prova, parla, discute e se ne torna a casa, con un sacchetto di carta pieno di sapori che spesso non sono nient’altro che ricordi.
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SPEciale: Le città del domani
Gli occhi sul futuro Il 23 agosto 2011 su Il Resto del Carlino, è comparso un articolo dal titolo “Gli ‘occhi’ sul Papa sono realtà: l’operazione sicurezza per Ancona è partita. Montate le telecamere che dovranno garantire il normale andamento del grande evento religioso, il 25° Congresso Eucaristico Nazionale, ma che soprattutto serviranno una volta calato il sipario per rendere la città più sicura. L’intero circuito di telecamere sarà collegato a tutte le centrali operative di Polizia, Carabinieri e Polizia Municipale. Si tratta di un sistema altamente sofisticato che garantirà qualità delle immagini ed una risoluzione molto più nitida rispetto ai vecchi apparati”. Il sistema di videosorveglianza di cui si parla, rappresenta lo stato dell’arte della VisioPower, società di ricerca e sviluppo industriale che propone ed implementa concetti e
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La VisioPower ha creato un sistema integrato che permette di controllare il territorio e al tempo stesso garantire risparmio energetico e multimedialità prodotti innovativi, progetta e commercializza soluzioni di illuminazione e di trasmissione di dati intelligenti, nonché centrali di produzione di energia da fonti rinnovabili. Sempre attenta alla ricerca ed al rinnovamento, VisioPower segue una strategia di sviluppo utilizzando il livello più avanzato della tecnologia disponibile. Insieme ad università, centri di ricerca e società con cui collabora e sviluppa nuovi prodotti, VisioPower fornisce il supporto necessario all’analisi ed alla realizzazione di nuovi impianti di illuminazione e monitoraggio del territorio, nonché centrali energetiche da fonti rin-
novabili, dallo studio di fattibilità alla scelta della tecnologia più adatta, al progetto definitivo, dall’installazione alla fornitura. Con un personale altamente qualificato, il gruppo è una realtà con basi tecnologiche e scientifiche unica in Italia: ingegneri, architetti, geometri specializzati in logistica ed in efficienza energetica e responsabili finanziari sono in grado di seguire con cura e professionalità tutti i passi legati allo sviluppo di un progetto complesso. In fondo, mai come in questo momento le città possono trasformarsi nel motore dell’innovazione: per questo occorre
renderle luogo di risparmio energetico, di elevata sicurezza, di rispetto e controllo del territorio e dell’ambiente, necessario per un avere quadro sul proprio sviluppo, economico e politico, per rispondere ad una serie crescente di sfide e minacce, per la pianificazione ed il coordinamento dei servizi e infine per fornire una buona qualità di vita ai cittadini. Rispondere in modo adeguato a queste sfide significa adottare nuove tecnologie che trasformino i sistemi rendendoli più efficienti ed efficaci, in una parola “intelligenti”. VisioPower ha trasformato tutte le priorità nella propria mission attraverso le soluzioni che nascono dall’idea di dare un va-
lore produttivo e commerciale ai risultati dell’attività di ricerca ed alle competenze sviluppate nel corso di un ventennio nei settori delle telecomunicazioni, della sicurezza e dell’illuminazione. Con un sistema integrato si possono monitorare a 360° tutte le aree urbane e non solo: piazze, monumenti, porti, darsene, aree urbane e strade. Inoltre, per prevenire ed evitare disastri ambientali, quali frane, smottamenti o incendi boschivi. In tutto il mondo, il risparmio energetico (Energy Saving) è diventato un obiettivo fondamentale: per questo occorre ridurre i consumi attraverso un utilizzo più corretto e razionale dell’energia stessa. Tutto
ciò può essere ottenuto realizzando nuovi impianti (fotovoltaici, eolici) e migliorando gli impianti già esistenti (illuminazione pubblica). Infine, nell’ottica del futuro sviluppo di progetti di “città intelligenti”, vanno menzionati i servizi multimediali al cittadino che consentono la diffusione di informazioni in modo interattivo e delocalizzato ottimizzandoli con un adeguato sistema di comunicazione. La soluzione integrata proposta dalla VisioPower (illuminazione pubblica, videosorveglianza, controllo del territorio e dell’ambiente, fonti rinnovabili, multimedialità e connettività) rappresenta la strada possibile per arrivare alle smart cities.
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Con le mani in pasta Un antico pastificio, dove il tempo sembra non essere passato: i prodotti seguono tradizioni antichissime, mettendo grande cura nella scelta degli ingredienti La Pasta Fresca Savignoni nasce a Voghera nel lontano 1954 e da allora è il punto di riferimento di coloro che prediligono i prodotti genuini, preparati secondo antiche ricette e senza uso di coloranti e conservanti. Negli anni 80, nonostante il periodo di incertezza economica che viveva l’Italia, la famiglia Savignoni decide di fare un importante investimento, cambiando sede e acquistando nuovi macchinari che avrebbero consentito una maggiore produzione di prodotti freschi, per soddisfare la crescente richiesta dei clienti. La consapevolezza che i prodotti rimanevano invariati e la fiducia dimostrata giorno dopo giorno dalla clientela, hanno portato al successo che ancora oggi continua ad accompagnare la famiglia Savignoni. Dai
loro primi passi sono trascorsi quasi 70 anni, ma la filosofia dell’azienda resta sempre la stessa: offrire un prodotto ricco di sapori, sano e genuino che può essere riassunto in una sola parola: tradizione. Proprio come ai tempi in cui l’attività era gestita dai nonni e poi dal papà Ernesto, ancora oggi Alessandro cura con particolare attenzione la scelta delle materie prime, seguendo con scrupolo le normative igieniche durante le fasi di produzione e regalando quel connubio di antica genuinità che i clienti ritrovano ogni giorno sulle loro tavole. Proprio a conferma di questo, nel 2009, il Comune di Voghera ha conferito la De.Co. (Denominazione Comunale) ai prodotti dell’azienda Savignoni. Da quasi due anni, Alessandro ha trasferito la sede dell’at-
tività nel centro storico della città, a pochi passi da Piazza Duomo e quindi facilmente raggiungibile sia a piedi che in auto: il nuovo laboratorio, offre una nuova serie di prodotti che incontrano il gusto anche dei palati più esigenti ma sempre nel rispetto della tradizione. Chi ancora non conosce Pasta Fresca Savignoni si lasci tentare, il premio è ritrovare intatti i sapori di una volta.