A NTI H OBBES ovvero i limiti del potere supremo e il diritto coattivo dei cittadini contro il sovrano
Una relazione di: Andrea Bernasconi Corso di Servizi Giuridici UniversitĂ degli Studi E-campus Disciplina: Filosofia del Diritto Relatore: Ch.mo Prof. Silvio Bolognini
Paul Johan Anselm Feurbach nasce ad Hainichen, vicino a Jena, nel 1775 e fu capostipite di una famiglia particolarmente prolifica dal punto di vista intellettuale, come ad esempio suo figlio Ludwig, famoso filosofo. Egli studiò prima filosofia e quindi diritto all’università di Jena, e fu successivamente professore di diritto – oltre che nella stessa Jena – a Kiel e a Landshut, fino a quando nel 1805 abbandono l’insegnamento e venne nominato consigliere segreto del dipartimento di giustizia e polizia del regno di Baviera, attività quest’ultima che gli permise di contribuire fattivamente alla riforma sia dell’attività legislativa degli stati tedeschi che alo codice penale bavarese del 1813. Nell’ultima parte della sua vita, dopo essersi reso inviso al governo dell’epoca per le sue posizioni antinapoleoniche, esercitò quindi la funzione di magistrato, dapprima a Bamberg e quindi ad Ansbach. Morì a Francoforte nel 1833, a cinquantotto anni.
Pubblicato nel 1798, l’“Anti-Hobbes” di Paul Anselm Ritter von Feuerbach costituisce una delle opere più rappresentative del paradigma contrattualista, ovvero quella teoria secondo la quale coesistono nella società sia un vero e proprio “pactum societatis” dei sudditi tra loro stessi – finalizzato ad uscire dallo stato di natura, in cui il più forte domina il più debole -, sia un patto diretto tra sudditi e sovrano (detto pactumPaul Feuerbach subjectionis) che da origine e alla sovranità e ne giustifica il potere come espressamente voluto dai sudditi o dal popolo. Il testo analizzato si configura inoltre come una esaustiva revisione filosofica dei principali argomenti che dominarono il dibattito sopra l'origine e il significato dello Stato e, con esso, delle attribuzioni e dei limiti del sovrano, sia che limiti si volessero porre, sia che si concepisse tale mandato come del tutto illimitato ed illimitabile. Queste pagine, ricche di esempi interessanti e spunti di ragionamento che ho personalmente trovato divertenti, contengono una confutazione filosofica, giuridica e politica del dispotismo e della obbedienza servile
che tale forma di governo richiede e necessita, il cui “difensore più acuto e conseguente”, secondo le parole dello stesso Feuerbach, fu Thomas Hobbes (1588-1679), del quale ricordiamo quali pensieri base il famoso “Homo homini lupus”- ovvero il concetto secondo il quale a spingere l’uomo a consociarsi sia soprattutto la paura dell’uomo nei confronti degli altri uomini, e Il Leviatano
quindi una necessità di consorziare una forza maggiore
a difesa propria e dei propri interessi - oltre all’interessante concetto che vede il sovrano come “legibus solutus” – ovvero la facoltà concessa al sovrano di operare al di sopra di qualsiasi legge, e di non dovere rispondere ad alcuna di esse. Thomas Hobbes
Concetto peraltro modernamente ripreso da molte democrazie contemporanee, ove il Presidente della
Repubblica non è processabile se non per alto tradimento nei confronti dello Stato, mediante una procedura speciale detta “impeachment” . Quest’opera giovanile di Feuerbach, che pur si concentrerà in seguito su aspetti più incentrati al diritto penale che non alla filosofia pura, avendo preso parte alla stesura del codice penale Bavarese del 1813, ben
testimonia l’approccio e la formazione dell’autore ispirate da quel criticismo kantiano che andava molto per la maggiore nell’università di Jena dove il Feuerbach insegnò diritto per un lungo periodo di tempo. Tale formazione – tipica espressione dell’ultima fase del giusnaturalismo settecentesco -, non abbandonerà l’autore nemmeno negli anni a venire, facendo dello stesso uno studioso dei fondamenti della pena, operante quindi da un punto di vista più Università di Jena: 400 anni
filosofico che non dogmatico o esegetico, un giurista con una mentalità aperta e non soltanto un tecnico come
molti
altri
pensatori
precedenti
e
contemporanei. L’opera in esame contiene undici diversi capitoli, ma nonostante ciò, si possono facilmente individuare due momenti principali che vengono utilizzati dall’autore per veicolare e giustificare il proprio pensiero. Il primo (capitoli da I a V) è introduttivo e strumentale: prepara il terreno teorico e concettuale per lo svolgimento ulteriore dell'argomento centrale, ovvero una analisi circa “i limiti del potere supremo e il diritto coattivo dei cittadini contro il sovrano” per usare le stesse parole che il
Feuerbach utilizza per descrivere la propria opera nel sottotitolo della stessa. Questi capitoli, tra gli altri aspetti, contengono un utile riassunto delle linee argomentative del filosofo inglese cui è anti-dedicato il testo, come pure una breve menzione della premessa hobbesiana sulla quale Feuerbach discorre, cioè la pratica impossibilità, da parte del sovrano, di commettere illeciti contro il suo popolo; in aggiunta è anche contenuto un serrato confronto di idee che svela le principali differenze del suo pensiero rispetto a quello di Hobbes e di Kant, i quali per molti altri aspetti, come ad esempio sul senso dallo stesso assegnato alla società civile ed allo Stato, risultano concordare con l'autore. Esaminando la fonte dei diritti soggettivi (come recita la terminologia feuerbachiana), spiccano le affinità e le differenze tra il nostro autore e Kant. Il giusnaturalismo di Feuerbach è di impronta kantiana, perché la ragion pratica ha una funzione Immanuel Kant
giuridica: il Diritto è una “sanzione della ragione” che
garantisce ai cittadini la libertà esterna ed è indipendente dal campo della morale;
tale “sanzione” è caratterizzata dalla adesione interiore al dovere. Ne deriva che l'uso della libertà di un essere razionale non deve contraddire all'uso della libertà di ogni altro essere razionale. Ma Kant concepisce lo Stato come un fine in sé, custode e garante della idea del Diritto, mentre Feuerbach concepisce lo Stato come un mezzo per uno scopo al di fuori di sé: garantire la libertà ai consociati, rimanendo in questo più vicino ad Hobbes che vede comunque in una necessità dei sudditi e del popolo la ragione originaria per la quale consociarsi. Ne consegue che mentre Kant non può ammettere un diritto di resistenza o di reazione contro una violazione del contratto sociale derivante da un atto di uno dei poteri dello Stato, perché ci si troverebbe davanti ad una lesione il contratto sociale di Rousseau dell'idea del Diritto, Feuerbach, al contrario, ammette un diritto di
coazione negativa dei sudditi nei confronti del sovrano anche se la volontà di questo è espressa con un atto formale proveniente da uno dei poteri statuali, poiché il potere del sovrano secondo l’autore deriva da una volontà originaria dei sudditi
stessi. Questa parte poi – nella quale rivaleggiano la ragione, da un lato, e il rispetto dell'imperativo categorico da parte del soggetto obbligato, dall'altro – non cessa di avere importanza nel seguito, posto che da queste premesse non solo discendono e derivano corollari utili per distinguere costantemente tra Diritto e morale, ma anche per la portata che l'uno e l'altro autore assegnano al diritto civico di coazione (intesa come l'applicazione di forze fisiche contro un essere razionale sensibile) rivolta contro il reggente. Lanciandosi su piste diverse circa il contenuto della sua tesi, sul finire di questa prima parte, Feuerbach ammette la necessità di dare piena fiducia al sovrano, la cui funzione – la scelta dei mezzi razionali e giusti per il conseguimento del fine sociale, che è la volontà generale – deve necessariamente restare unita a limitazioni al potere del sovrano stesso, limitazioni che saranno sempre inserite nel contratto che scaturisce dal patto di soggezione. Un esempio di questo è citato dall’autore quando descrive come perfino l’ordine sovrano di fare qualcosa di totalmente stupido, possa invece avere un senso, quando questo possa servire per dare testimonianza all’esterno di quanto sia sentita la fedeltà al sovrano da parte
dei sudditi, tenendo sempre ben chiaro nella mente il limite rappresentato dal necessario raggiungimento del bene comune dello Stato. Tutte le attribuzioni del reggente, pertanto, saranno circoscritte al detto contratto, e qualunque sconfinamento dal suo rispetto dà facoltà al popolo di esercitare coazione contro chi ha automaticamente perso, per aver infranto obbligazioni essenziali, la qualità e la qualifica di sovrano: l'obbligazione di conformare la propria condotta ai termini del contratto trova nel diritto di coazione l'altra faccia della stessa moneta, una sorta di sanzione che scatta nel momento in cui non si rispetti una norma, e che norma, e che sanzione! Tuttavia, conclude Feuerbach, posta l’esistenza del diritto di coazione, neppure tale diritto può ammettere un esercizio indiscriminato, poiché in tal caso sarebbe il suddito a venire meno al contratto sociale. Non è valida né giustificata l'insurrezione popolare (come viene riassunto nei capitoli IV e V) se questa è il risultato di un mero errore del reggente nello scegliere i mezzi per il raggiungimento della volontà generale, una sorta di tutela dovuta alla buona fede del sovrano stesso, che magari nel fare qualcosa che ritiene estremamente giusto in quel momento, non si accorge di stare invece sbagliando; oppure se si constata una riduzione
generalizzata della felicità dei sudditi dato che, avverte l'autore, “non è il sentimento (nel senso dell'essere guidati dal piacere e dal dolore) bensì la ragione che deve decidere circa il Diritto e la giustizia”. In quello che possiamo definire come secondo momento illustrativo del saggio (capitoli da VI a XI), Feuerbach si addentra con proprietà nella sua tesi. Sotto la premessa che tra il suddito e il sovrano esiste un contratto bilaterale, dal quale derivano per entrambe le parti diritti e obbligazioni irrinunciabili, l'autore cerca di dimostrare che la persona privata del sovrano sta esposta alla coazione se, sotto l'apparenza di azioni pubbliche o proprie della sua gestione, egli attenta contro la libertà giuridica dei sudditi. Per dimostrare la verità delle proprie asserzioni, Feuerbach perfeziona, per prima cosa, la sua linea argomentativa, e nel capitolo più ampio dell'opera esamina la debolezza dei suoi avversari di pensiero. Nella prima parte della sua dimostrazione e secondo quanto abbozzato in precedenza, Feuerbach fa proprio il dogma contrattualista, a partire dal quale si strutturano le relazioni tra suddito e sovrano. In quanto al contratto, dal momento che è possibile parlare propriamente di obbligazioni, risulta imprescindibile che esista un diritto di coazione
correlato a quelle. Negare quanto detto supporrebbe, secondo Feuerbach, un predominio della volontà privata sulla ragione – ci troveremmo davanti ad un ladrone dotato di privilegi, non davanti ad un sovrano – e, in ultima istanza, ne nascerebbe un affronto alla stessa dignità umana. Non è perciò logicamente ammissibile che il popolo aspiri a conseguire la Niccolò Machiavelli
volontà generale e ammetta, nello stesso tempo, una obbedienza incondizionata al reggente, dalla quale deriverebbe che la volontà privata di questi può includere senza inconvenienti la decisione di distruggere lo Stato: sarebbe, come sentenzia Feuerbach, chiedere simultaneamente l'esistenza e l'inesistenza dello Stato stesso. A questo punto l'autore prende le distanze, e lo fa notare espressamente, non solo da Hobbes, ma anche da Machiavelli e da Kant, autori tutti che non ammettono alcun diritto di coazione del popolo contro il governante; e si mette a trattare con ampiezza anche dei doveri che gravano sui sudditi. Al dovere di sottomettersi alla volontà generale, si aggiunge quello di creare tutte le istituzioni mediante le quali lo Stato possa esistere e conservarsi.
Il capitolo VI si chiude con due idee degne di menzione: da un lato, la distinzione tra la persona privata e quella pubblica del sovrano, sopra la quale Feuerbach ritornerà nel capitolo IX e, dall'altro, l'attribuzione della fonte dell'obbedienza civile ad una legge etica. La seconda parte della dimostrazione consiste in un esame critico dei due principali ragionamenti dei suoi avversari di pensiero. Prima di chiedersi se i sudditi possano formulare giudizi aventi valore giuridico circa come lo Stato viene amministrato, vale a dire circa la scelta e l'esecuzione dei mezzi per l'obiettivo sociale, Feuerbach stabilisce la differenza tra la intromissione giuridica propriamente tale – sulla quale effettivamente il popolo non ha, né deve avere, alcuna ingerenza – e la difesa dei diritti civili che si attiva, come detto, quando il governante eccede le sue contrattualmente delimitate attribuzioni, anticipando un tema che diverrà sempre più importante nel corso dei secoli, ovvero quello della difesa di quei diritti che in seguito verranno considerati “civili” e quindi tendenzialmente inalienabili sia da parte del sovrano che dei sudditi stessi. E’ proprio di questi nostri tempi il dibattito circa l’importanza della tutela di tali diritti, seppure quelli in esame non fossero nemmeno considerati o
concepiti ai tempi dell’autore. Se la gestione da parte del sovrano implica la distruzione dello Stato, od una profonda corruzione dell’architettura dello stesso, sia mediante leggi sia mediante altre disposizioni arbitrarie, l'insurrezione del popolo cessa di essere una intromissione e acquista, in cambio, il senso di una disubbidienza a favore di quella libertà giuridica fine ultimo dello Stato stesso, e motivo fondamentale per garantire il quale lo Stato si è costituito. Proseguendo, Feuerbach esamina i principali aspetti della teoria di Friedrich Von Gentz
Friedrich von Gentz (il quale aveva criticato la dottrina del Diritto pubblico di Kant, difendendo i privilegi ereditari e le prerogative della classe nobiliare, ma accettando in pieno la negazione kantiana del diritto di coazione), oltre ad occuparsi di alcune obiezioni, rasentanti una rappresentazione volutamente errata della realtà, che vorrebbero l'anarchia come risultato finale ed inevitabile di ogni insurrezione. Oltre al segnalare che
alla
coazione
trionfante
può
seguire,
effettivamente, l'anarchia – che, a suo giudizio, sarebbe essenzialmente transitoria perché la natura umana tende all'ordine e alla sicurezza sociale, come peraltro la storia ha
insegnato non solo all’autore stesso, ma in seguito anche a tutti noi – Feuerbach ammette che, in ogni modo, questa è infinitamente più compatibile con la libertà e i diritti civili rispetto ad uno Stato tirannico. “Preferisco – sentenzia Feuerbach – una libertà turbolenta ad una schiavitù placida”. L'innegabile ripercussione che ha nel Diritto punitivo qualsiasi seria disquisizione filosofica e, in particolare, la costruzione di Feuerbach, si mostra nella parte finale del capitolo VII. In effetti, il Diritto penale subentra, secondo l'autore, nientemeno che come uno strumento ausiliario al debole potere che nella coazione contro il sovrano hanno i sudditi. Questa tesi è sufficiente per addentrarsi in due questioni cardinali della Filosofia giuridico-penale, vale a dire il concetto di pena e il fondamento del diritto a comminarla. Feuerbach tratta questi temi in dettaglio. Manifestazione del primo ne è l'ampia esposizione circa le ragioni che muovono gli individui ad agire in modo criminoso – la catena “brama-assenza di possesso-bisogno” – a partire dalla quale ottiene come risultato la sua nota teoria della pena come coercizione psicologica (psychologischer Zwang). A differenza di Kant, Feuerbach elabora una concezione della pena di tipo
general-preventivo: alla stessa, cioè, viene affidata la funzione di trattenere, attraverso la minaccia, prima della commissione del reato, e la successiva inflessibile inflizione dopo, la generalità dei consociati. Feuerbach, in tal modo, collega lo scopo della pena direttamente allo scopo dello Stato, cioè la difesa della libertà individuale: egli, infatti, afferma che lo scopo dello Stato è quello di garantire e di assicurare a tutti i cittadini la possibilità di esercitare i propri diritti, al sicuro dalle offese, e non crede affatto che lo scopo della pena sia quello di correggere il delinquente, perché si tratterebbe di un castigo, che non compete, secondo Feuerbach, ai poteri statuali. Tale convinzione è a mio personale giudizio estremamente esatta, specie se riportata ai giorni nostri, in cui la funzione di recupero della sanzione ha ridotto il sistema carcerario ad un mero tornello dotato di porte girevoli, in cui i rei entrano da colpevoli e generalmente escono – per poi rientrare nuovamente – con specializzazioni criminose migliorate ed acuite. A questo punto, però, sorge il preciso compito di individuare uno strumento attraverso il quale le offese possano essere impedite; e questo mezzo di prevenzione delle offese Feuerbach lo individua nella predisposizione di puntuali ostacoli di natura psicologica (a suo avviso,
infatti, gli ostacoli di natura fisica non sarebbero praticabili). Ora, il più efficace tra gli ostacoli di ordine psicologico è, per Feuerbach, la pena civile (o giuridica) che, ovviamente, è una pena diversa da quella morale (kantiana): per la pena morale, infatti, il fondamento (naturale) della inflizione del male risiede nell’infrazione della legge del dovere (ovvero nell’immoralità dell’intenzione dell’autore); la pena giuridica, viceversa, deve avere come punto di riferimento la sola azione esterna dell’ uomo (e la conformità di questa alla legge giuridico-statuale). Da questo assunto scaturiranno le solide basi per la formulazione della teoria penale di Feuerbach, che segue pressappoco questo schema: il delitto è un mezzo che serve a procurare piacere a chi lo commette; allo scopo, perciò, di evitare che vengano commessi fatti criminosi nella società, occorre che alla rappresentazione del piacere venga contrapposta una analoga rappresentazione di un dolore, di intensità superiore al piacere derivante dalla commissione del delitto (cd. controspinta alla spinta criminosa). In tal modo, si tende ad operare, nei confronti dei consociati, una sorta di coazione psicologica, in modo da prevenire, in generale, la commissione dei reati.
Si tratta di una concezione relativa della pena che assume le forme proprie della prevenzione generale negativa – infondere timore dissuasorio nei consociati – il che renderebbe le credenziali liberali di Feuerbach, almeno circa questo aspetto, più deboli di quanto di solito gli si attribuisca. Occorre però tener presente che questa concezione, sempre in complemento con la legalità della pena (“nulla poena sine lege”, come già anticipato anche da Cesare Beccaria), trova il suo oggetto nella criminalità Cesare Beccaria
più grave che colpisce l'individuo e, quindi lo Stato, non in fenomeni micro-criminali e in immoralità; con questo passaggio Feuerbach esplica la sua opposizione al delirio moralizzante che pure prevalse in molti dei progetti legislativi nei quali egli pure intervenne come redattore o consulente. Il Diritto penale, in quanto strumento ausiliario per il contenimento della eventuale insensatezza del sovrano, origina l'interrogativo della titolarità del suo esercizio, questione di massima importanza in materia di certezza giuridica. Chi deve assumersi e a chi spetti l’esercizio di tale azione di contenimento, sia il popolo, il sovrano, od un terzo imparziale è oggetto della domanda che Feuerbach si pone nel
capitolo VIII, nel quale risponde anche alla possibile accusa di contraddizioni nel suo ragionamento. L’azione spetta ad ognuno dei protagonisti del contratto sociale se presi come nel loro stato di natura, o ancora meglio ad un giudice terzo o ad un arbitro individuato di comune accordo tra le parti, al quale quindi è stato conferito il potere di disporre delle singole prerogative delle parti stesse. Il far soggiacere il potere assoluto rappresentato dal sovrano ad un giudizio terzo, non richiede per forza la superiorità gerarchica del terzo rispetto al sovrano, cosa che vanificherebbe totalmente la figura del sovrano così come filosoficamente inteso, poiché tale arbitro dovrà decidere circa i limiti di quel potere supremo e assoluto, e non circa il potere stesso. Nella parte finale del saggio, vengono riportati alcuni brevi esempi che ci aiutano a meglio capire ed applicare le casistiche elaborate dall’autore, quando cioè la coazione possa essere lecita nel dettaglio, e perché. Ad esempio, la coazione contro un sovrano che violi il diritto di proprietà di un suddito al fine di accrescere la propria disponibilità, è posta in essere solo ed esclusivamente mediante una applicazione di interessi tipici del diritto privato, che non presentano alcun interesse per il bene dello Stato, e di fronte alla quale è giusto e doveroso opporsi anche in maniera violenta.
L’autore evidenzia anche degli esempi in cui la proprietà è solo coincidente con lo stato e con il sovrano, mentre i cittadini godono esclusivamente di un diritto a gestirne i frutti, e quindi non possono eccepire alcunché in caso di modificazioni di questi loro diritti. Secondo Feuerbach, questa concezione della proprietà è sbagliata ed impossibile da gestire, e la demolisce con numerosi esempi provenienti dai diversi angoli del mondo e pieghe della storia, in cui descrive gli sfaceli causati da questo tipo di approccio. “Perché ribellarsi e biasimare Nerone per aver incendiato la sua Roma, se questa stessa era sua e poteva disporne come meglio credeva?”. In estrema conclusione dell’opera poi, l’autore riepiloga ed esplica oggettivamente le modalità di applicazione del diritto di coazione, sancendo la differenza tra coazione positiva (consistente nell’agire indirettamente affinché la nostra libertà sia restaurata e/o conservata) e negativa (consistente nel difendere con la forza la propria libertà da un assalto illecito non ancora avvenuto), e classificando quattro situazioni in cui è possibile e giusto pretendere di avvalersi dell’una piuttosto che dell’altra. Contro il sovrano che offenda i suoi sudditi mediante atto pubblico, è assolutamente illecito opporre la coazione, sia essa positiva o negativa, poiché trattasi di una legge pubblica, e come tale
esclusiva prerogativa del sovrano, che può promulgare e abrogare le norme che più ritiene giuste sulla base della propria opinione, e sulle quali non è concessa alcuna discussione al suddito. Se invece l’atto pubblico del sovrano dovesse violare il patto di soggezione, il suddito sarebbe autorizzato a porre in essere una coazione negativa, poiché come spiegato in precedenza il venir meno alle proprie obbligazioni contrattuali Jean Jacques Rousseau
fa decadere il sovrano dal suo status, ed è quindi possibile ribellarsi al giogo che lo stesso – a quel punto – starebbe mantenendo illegittimamente. Se
il sovrano dovesse violare la libertà dei sudditi con una azione assolutamente privata (come quella descritta poc’anzi circa la proprietà privata), il suddito sarebbe autorizzato ad utilizzare entrambe le tipologie di coazione, in quanto il sovrano stesso si starebbe comportando come un qualunque suddito nell’esercizio dei suoi interessi privati. In ultima istanza poi, riprendendo nuovamente il concetto di sanzione penale psicologica, il suddito ha il diritto di minacciare la coazione al fine di ribadire il proprio diritto alla libertà e come avvertimento al sovrano affinché non violi il patto di soggezione. Il contratto sociale di Rousseau, la teoria della
divisione tripartitica dei poteri dello Stato di Montesquieu, e il qui analizzato diritto alla coazione contro il sovrano, sono alcune delle principali basi di pensiero su cui si basano gli stati democratici moderni come noi li conosciamo, ove non esistono più sudditi silenti o vassalli ma cittadini, ed ove il Popolo assurge al ruolo di sovrano delegando la Charles Louis de Montesquieu
propria volontà al sistema rappresentativo, con tutti i benefici e gli svantaggi che tale sistema può portare in termini di reale partecipazione alla
sovranità ed effettiva rappresentanza del popolo. Quanto accade oggi, quella libertà aumentata di cui oggi noi fruiamo, la dobbiamo quindi anche all’opera ed al lavoro di Feuerbach, il cui pensiero risulta più che mai attuale oggi in Italia, ove un sistema tripartito retto da un bicameralismo perfetto inizia a mostrare segni di vetustà, al contrario di quanto accade con i principii fondanti su cui questo schema di governo si basa.