AUTORIZZAZIONE ALLA CONSULTAZIONE DELLA TESI DI LAUREA
Il sottoscritto Andrea Bernasconi, numero di matricola 002015424, nato a Como il 12.01.1977, autore della tesi dal titolo “Eutanasia” DICHIARA DI NON AUTORIZZARE La consultazione della tesi stessa, fatto divieto di riprodurre, parzialmente o integralmente il contenuto. DICHIARA INOLTRE DI AUTORIZZARE Per quanto necessita l’Università Telematica e-‐Campus, ai sensi della legge n.196/2003, al trattamento, comunicazione, diffusione e pubblicazione in Italia e all’estero dei propri dati personali per le finalità ed entro i limiti illustrati dalla legge. Data 11.01.16 Andrea Bernasconi
INDICE: AUTORIZZAZIONE ALLA CONSULTAZIONE DELLA TESI DI LAUREA
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INDICE:
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INTRODUZIONE
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LA NOZIONE DI EUTANASIA E IL “FINE VITA” COME ENTITÀ LEGISLATIVA
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INQUADRAMENTO STORICO L’EUTANASIA IN ITALIA: UN CONFRONTO ACCESO IL PROBLEMA LEGISLATIVO DEL “FINE VITA” I DIVERSI APPROCCI ALL’EUTANASIA
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IL DIRITTO INDIVIDUALE E IL CONSENSO INFORMATO
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LE CIRCOSTANZE SCRIMINANTI E IL BENE DELLA VITA I DIRITTI DISPONIBILI LIMITI IN RELAZIONE ALLA DISPONIBILITÀ DELL’INTEGRITÀ FISICA E DELLA VITA REQUISITI DI VALIDITÀ DEL CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO. SOGGETTI LEGITTIMATI A PRESTARE IL CONSENSO REQUISITI DI CAPACITA DEL CONSENZIENTE LA MANIFESTAZIONE DI VOLONTÀ CONSENSO PUTATIVO, L’ECCESSO DEL CONSENSO, IL CONSENSO PRESUNTO
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L’ESECUZIONE DELL’ATTO EUTANASICO: SCENARI E ASPETTI LEGISLATIVI
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L’OMICIDIO DEL CONSENZIENTE NELLA MATERIA PENALE. 47 IL BENE DELLA VITA COME OGGETTO DELLA TUTELA PENALE 49 IL SOGGETTO DEL REATO: RUOLO ATTIVO E PASSIVO 50 OMICIDIO E LESIONI 51 CONSENSO RILEVANTE ED IRRILEVANTE 51 IL CONSENSO E I SUOI PRESUPPOSTI 53 PERSONA IL CUI CONSENSO SIA STATO DAL COLPEVOLE ESTORTO CON VIOLENZA, MINACCIA, SUGGESTIONE, OVVERO CARPITO CON INGANNO. 56 STATO DI PERICOLO E AZIONE LESIVA NECESSITATA 61 CONDIZIONI AGGRAVANTI E ATTENUANTI 62 SANZIONI E DIRITTO PROCESSUALE 64 TRE SIGNIFICATIVI ESEMPI DALLA CASISITICA 64 OMICIDIO DEL CONSENZIENTE IN PERSONA DEL NIPOTE 65 OMICIDIO DEL CONSENZIENTE IN PERSONA DELLA MADRE 66 OMICIDIO DEL CONSENZIENTE IN PERSONA DELL’AMICO 67 CONDANNA IN PRIMO GRADO PER OMICIDIO PREMEDITATO 68 AIUTO AL SUICIDIO
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ANTICHE ORIGINI L’IDENTITÀ GIURIDICA DELL’AIUTANTE AL SUICIDIO IL REGIME SANZIONATORIO
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COLLEGAMENTI CON L’EUTANASIA.
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IL FINE VITA COME DIRITTO
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PRINCIPI GIURIDICI LA RESPONSABILITÀ DEL RIFIUTO DELLE CURE ACCANIMENTO TERAPEUTICO: CRITERI DI VALUTAZIONE L’ESPERIENZA OLANDESE LA LEGGE N°137 DEL 10 APRILE 2001 (NL) RAPPORTO TRA MEDICO OLANDESE, PAZIENTE ED EUTANASIA
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CONCLUSIONI:
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BIBLIOGRAFIA:
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RINGRAZIAMENTI:
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INTRODUZIONE Eutanasia, in greco antico, significa letteralmente buona morte (eu-‐qanatos). Oggi con questo termine si definisce generalmente l’intervento medico finalizzato ad abbreviare l’agonia di un malato terminale. Una legislazione italiana specifica sull'eutanasia ancora non esiste, come legge vera e propria, come in altre nazioni europee. Esiste, invece, la legge 578 del 1993 sull'accertamento della morte cerebrale, che regola le procedure da seguire nei casi in cui un paziente si trovi in rianimazione in condizioni critiche. Il tema è in ogni caso fra i più dibattuti e articolati nel nostro Paese, non solo per le implicazioni etiche e sociali del tema, ma anche per le strutture e le dinamiche operative che va ad investire. Pensiamo ad esempio alla definizione di eutanasia passiva e eutanasia attiva. Si parla di eutanasia passiva quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato; di eutanasia attiva quando il medico causa, direttamente, la morte del malato; di eutanasia attiva volontaria quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato. Nella casistica si tende a far rientrare anche il cosiddetto suicidio assistito, ovvero l’atto autonomo di porre termine alla propria vita compiuto da un malato terminale in presenza di -‐ e con mezzi forniti da -‐ un medico. Le ragioni principali per cui non si riesce a mettere ordine in questo campo sono di varia natura: innanzitutto motivi morali a cui si aggiungono motivi religiosi e questo spiega le difficoltà che frenano il legislatore dall’intervenire nel disciplinare la materia. Per inquadrare il problema in chiave giuridica è opportuna, prima di tutto, una ricognizione della disciplina vigente, a partire da quando indicato dal codice penale Rocco, ed in particolare ciò che attiene all’“omicidio del
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consenziente”. Il presente studio andrà quindi alla disamina, oltre che dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato, anche dei caratteri che il consenso deve avere per essere “giuridicamente efficace”. Terminato lo studio del reato si passerà ad approfondire le diverse forme in cui può esplicarsi il fenomeno dell’eutanasia. Con riguardo all’eutanasia attiva, se c’e il consenso della persona o se esso puo presumersi, il soggetto agente è attualmente punito ai sensi dell’art. 579 c.p., mentre se il malato si trova in stato comatoso o incapace di intendere e di volere, l’agente e punito per omicidio doloso (ai sensi dell’art. 575 c.p.) . Per quanto riguarda l’eutanasia passiva, si procederà a individuare quanto previsto nel caso di eutanasia passiva consensuale e non consensuale. Sempre ricordando che la stessa terminologia è parte integrante di un dibattito di ampio respirio che si colloca fra più intensi dell’intero scenario sociale, oltre che del panorama etico-‐morale e religioso, al quale però non sembra corrispondere un’altrettanta attenzione e tempestività di decisione a livello politico.
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LA NOZIONE DI EUTANASIA E IL “FINE VITA” COME ENTITÀ LEGISLATIVA
INQUADRAMENTO STORICO Nella Grecia antica il suicidio riscuoteva un’alta considerazione: si supponeva infatti che ognuno fosse libero di disporre come meglio credesse della propria vita. L’assistenza al suicidio nel mondo classico non fu proibita fino all’avvento al potere del cristianesimo. Il termine Eutanasia è stato usato ad esempio dallo scrittore latino Svetonio per indicare il tipo di morte che Cesare Augusto si augurava. Anticamente, quindi, il termine, utilizzato in una accezione positiva, indicava qualcosa non solo di ammissibile ma, in determinati casi, di desiderabile. Su queste basi si colloca anche il concetto di “uccisione pietosa”, sorto nel Medioevo e poi affermatosi nel Rinascimento. Tommaso Moro lo sviluppò nelle pagine della sua celebre opera “Utopia1”, pubblicata nel 1516. In queste pagine viene descritta come praticata dagli abitanti dell’immaginaria isola di Utopia, l’eutanasia volontaria di malati inguaribili e straziati da continue e atroci sofferenze. Essi la attuavano rifiutando cibo oppure mediante sonniferi e tale comportamento veniva qualificato come atto di saggezza, anzi, eticamente lodevole. Da citare anche come il filosofo inglese Bacone nel XVII secolo abbia sollecitato il termine di Eutanasia nel significato di “Pietatis causa2”, in questa logica l’ufficio del medico non è soltanto quello di ristabilire la salute, ma anche quello di mitigare i dolori e le sofferenze causate dalla malattia; Al medico è affidato il compito non solo di sconfiggere le malattie e portare alla guarigione; ma anche quello, 1
Thomas More :“Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”, 1516 2 Bacone: “la dignità del sapere divino e umano”
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perdutasi ogni speranza di guarigione, di mitigare le sofferenze e rendere la morte più facile e serena. E’ da notare l’attualità del tema, che anche ai giorni nostri contrappone posizioni anche radicalmente diverse. Da oltre Quattro secoli la medicina discute (e pratica) di buona morte, come parte integrante del rapporto che lega il medico al paziente; non è compito di qualsiasi altra persona far si che la morte possa essere buona ma spetta esclusivamente al medico. Il medico deve prepararsi a questo compito che va assolto nella condizione specifica di una malattia inguaribile, dove non vi è piu speranza di recupero della salute, accompagnata da dolore e sofferenze. Una delle condizioni necessarie è quindi che la morte costituisca un beneficio per il paziente, concezione molto interessante anche dal punto di vista legislativo. Agli inizi del Novecento alcuni pionieri riproposero il tema all’opinione pubblica: la durata della vita andava allungandosi, ma non sempre a una maggior durata si accompagnava la possibilità di godere, per più tempo, di una qualità di vita dignitosa. Negli anni ’30 nacquero nel mondo anglosassone le prime associazioni pro-‐eutanasiche, che nel dopoguerra si svilupparono fortemente ed oggi le associazioni di tutto il mondo sono riunite nella World Federation of Right to Die Societies (Federazione Mondiale delle Società per il Diritto di Morire). Sempre negli anni Trenta del XX secolo abbiamo però assistito anche a delle vere e propria aberrazioni del concetto di “Eutanasia”, con la cosiddetta Eutanasia eugenetica che consiste in una morte precoce, causata e volontaria, riservata agli individui malformati o con turbe psichiche, messa in atto seguendo un programma di miglioramento della razza; un’altra ipotesi orribile è l’Eutanasia economica che consiste nella eliminazione di individui che costituiscono un peso per la società (handicappati, anziani, malati terminali). Essa si configura come
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tentativo di ridurre i costi dell’assistenza sanitaria, eliminando individui bisognosi di cure costose, ma con poche o nessuna possibilità di recupero della salute. In questi casi il beneficio cercato non eè quello del malato ma quello della razza e della società. Si tratta esclusivamente di pratiche poste in essere durante il periodo nazista, quando si cercò di trasferire l’originaria volute positività del termine a un programma di omicidi su larga scala e di genocidio, col risultato di creare un alone sinistro sul termine. Il programma eutanasico nazista si basava sulle idee razziste esposte da Hitler, che iniziarono a diffondersi velocemente quando il partito nazional-‐socialista salì al potere, e si tentava di convincere la gente della necessità di liberare la società dal peso di vite senza un valore concretamente misurabile . Nel 1939 Hitler comincio a prendere misure effettive, creando la Commissione per lo studio scientifico delle malattie ereditarie e congenite (i medici dovevano riferire i casi di bambini nati con deformita gravi). Hitler incaricava il suo medico personale Karl Brandt, di contattare medici di privata fede nazista disposti a partecipare all’operazione di sterminio che fu chiamata “operazione T4”. I medici premevano affinché fosse loro riconosciuto almeno un’autorizzazione scritta che li salvaguardasse da conseguenze penali, l’autorizzazione venne redatta nell’ottobre del 1939 ma retrodatata al primo settembre, primo giomo di guerra. Da qui comincio il cosiddetto programma di eutanasia che da solo fece settantamila vittime tra cui cinquemila bambini. In una prima fase della realizzazione di questo programma vennero considerati come candidati per eutanasia tutti gli individui gravemente malati, portatori di handicap, o colpiti da turbe psichiche. Successivamente il ventaglio dei candidati prese a ampliarsi, includendo zingari, oppositori, dissidenti, non ariani, ebrei. Visto che l’eutanasia era considerata affare di
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stato, le decisioni erano prese all’insaputa delle vittime e dei loro familiari. I vari spostamenti avevano la funzione di far perdere le tracce dei malati e facilitarne la scomparsa silenziosa nel nulla. L’aspetto piu importante della vicenda è rappresentata dal fatto che l’individuo subiva l’eutanasia anche quando avesse possiblita di guarigione, anche se non avesse espresso la volontà di morire o avesse chiesto aiuto al personale sanitario; il medico decideva sulla vita o sulla morte in base a direttive statali, il fatto piu sconcertante eè che tutto cio veniva deciso senza valutazioni cliniche di alcun genere. I medici dichiaravano la morte per complicanze di malattie, per infezioni o epidemie dalle quali erano stati contagiati in ospedale di dubbia esistenza. Il primo centro di “Eutanasia” fu creato alia fine del 1939, a Brandeburgo nella Prussia, in locali gia adibiti a prigione. Ulteriori centri, cinque per esattezza, fiirono creati in varie regioni della Germania. Nella fase iniziale dell’operazione sedicentemente eutanasica, le vittime designate venivano eliminate con un colpo di pistola alia nuca; con l’inserimento progressivo di veri e propri “medici” nei meccanismi di soppressione furono introdotti dagli esperti del T4 metodi piu perfezionati. In tal modo, al cruento colpo di pistola fu sostituita l’asfissia mediante l’ossido di carbonio. In ogni centro della morte veniva realizzato un piccolo ambiente perfettamente isolato che fungeva da locale igienico per doccia, ma non era acqua quella che usciva dalle tubazioni. Dopo il “trattamento” i cadaveri venivano bruciati in un piccolo fomo crematorio adiacente. La storia ha voltato pagina ma alcuni sembrano non essersene accorti e continuano ad identificare la parola eutanasia con il significato di eutanasia eugenetica praticata nel periodo nazista. Una tale interpretazione del concetto di eutanasia costituisce al giomo d’oggi una pietra miliare nell’ambito del dibattito bioetico contemporaneo. Continua a
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costituire l’esempio pratico di abusi per coloro che si oppongono alia legalizzazione dell’eutanasia. Altresi dal concetto di eutanasia pietosa anche I’“eutanasia criminale” cioe l’uccisione di persone socialmente pericolose e “/’eutanasia sperimentale” che significa uccisione indolore di determinati soggetti al fine di sperimentazione per il progresso dellla scienza e "l’eutanasia solidaristica” che significa l’uccisione indolore di esseri umani allo scopo di salvare le vite altrui (concetto splendidamente ripreso in “Extreme measures”, splendido film di Michael Apted, magistralmente interpretato da Gene Hackman e Hugh Grant). Tornando a tempi più recenti, nel 1974 alcuni umanisti, tra cui scienziati, filosofi e premi Nobel, lanciarono il manifesto A Plea for Beneficent Euthanasia, che riscosse molti consensi. La principale attività di queste associazioni consiste nel sensibilizzare l’opinione pubblica e, soprattutto, governi e parlamenti, sulla necessità di raggiungere stadi più progrediti nel riconoscimento dei diritti del malato terminale. Il consenso informato è oramai entrato a far parte del vocabolario medico: con esso è stato riconosciuto il diritto del paziente ad esprimere la propria opinione sulle cure che dovrà ricevere. Ora il confronto di opinioni, e le relative implicazioni legislative e normative, si sono sostanzialmente spostate, oltre che sulla richiesta della legalizzazione, sulla liceità e sul valore legale della sottoscrizione, da parte di chiunque, di un “testamento biologico” (altrimenti definite “direttive anticipate”) . L’attuale scenario internazionale è, in estrema sintesi, il seguente: AUSTRALIA: in alcuni Stati le direttive anticipate hanno valore legale. I Territori del Nord avevano nel 1996 legalizzato l’eutanasia attiva volontaria, provvedimento annullato due anni dopo dal parlamento federale. BELGIO: il 25 ottobre 2001 il Senato ha approvato, con 44 voti favorevoli contro 23, un
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progetto di legge volto a disciplinare l’eutanasia. Il 16 maggio 2002 anche la Camera ha dato il suo consenso, con 86 voti favorevoli, 51 contrari e 10 astensioni. CANADA: negli Stati di Manitoba e Ontario le direttive anticipate hanno valore legale. In Quebec una legge autorizza il suicidio assistito. CINA: una legge del 1998 autorizza gli ospedali a praticare l’eutanasia ai malati terminali. DANIMARCA: le direttive anticipate hanno valore legale. I parenti del malato possono autorizzare l’interruzione delle cure. FRANCIA. Dal marzo 2015 la legge consente, se richiesta dal paziente, una «sedazione profonda e continua» ottenuta con medicinali che possono accorciare la vita. GERMANIA: il suicidio assistito non è reato, purché il malato sia cosciente delle proprie azioni. LUSSEMBURGO: l’eutanasia è stata legalizzata nel marzo 2009. PAESI BASSI: forse il caso più famoso. Dal 1994 l’eutanasia è stata depenalizzata: rimaneva un reato, tuttavia era possibile non procedere penalmente nei confronti del medico che dimostrava di aver agito su richiesta del paziente. Il 28 novembre 2000 il Parlamento ha approvato (primo Stato al mondo) la legalizzazione vera e propria dell’eutanasia. A partire dal 1° aprile 2002 la legge è entrata effettivamente in vigore. SVIZZERA: ammesso il suicidio assistito, con limiti che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha messo in discussione, ma che è accessibile anche a stranieri. Il medico deve limitarsi a fornire i farmaci al malato. STATI UNITI: la normativa varia da Stato a Stato. Le direttive anticipate hanno generalmente valore legale. Nell’Oregon, nel Vermont e nello stato di Washington il
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suicidio assistito è legale. SVEZIA: l’eutanasia è depenalizzata. Una importante intensificazione del dibattito internazionale sul tema dell’eutanasia è venuto recentemente con la presentazione del film drammatico “Amour3”, prodotto in Francia nel 2012 e diretto del regista austriaco Michael Haneke. L’opera ha vinto l’Oscar come migliore film straniero nel 2013. Inoltre, presentato in concorso alla 65° edizione del festival di Cannes havinto la Palma d’Oro. La trama e lo sviluppo del film sono significativi anche dal punto di vista delle implicazioni di ordine morale, etico e legislativo: Georges e Anne sono una coppia di ottantenni insegnanti di musica che passano il tempo volentieri a leggere e ad assistere a concerti. La loro vita da pensionati viene condotta in serenità, con alcuni incontri con vecchi allievi o con la loro unica figlia Eve, anche lei musicista, che vive in Scandinavia. Un ictus improvvisamente colpisce Anne e fa collassare la loro vita. Paralizzata e umiliata dall'infarto cerebrale, Anne dipende ormai interamente dal marito, che affronta con coraggio la sua disabilità e le difficoltà che ne scaturiscono. Grazie all'aiuto di un'infermiera, che accudisce Anne tre volte a settimana, Georges non smette di amarla e di occuparsi di lei, sopportando le conseguenze affettive ed esistenziali della malattia. Malattia che degenera consumando giorno dopo giorno il corpo di Anne e la sua dignità. Infine Georges praticherà l'eutanasia nei confronti della moglie, soffocandola con un cuscino. Di lì a poco Georges, dopo aver dato un'estetica migliore alle condizioni post mortem della donna, si ritirerà in un assoluto blocco di sofferenza e meditazione, che presto lo porterà ad impazzire e ad andarsene di casa seguendo l'allucinazione di Anne. La 3
Michael Haneke: “Amour”, 2012
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magistrale interpretazione dei due attori principali (Jean Louis Trintignan ed Emmanuele Riva) contribuiscono a segnare ed evidenziare il dramma individuale ma anche collettivo che si cela sul tema del “termine vita” e sui modi che possono condurre a decidere per l’eutanasia,. In particolare l’opera sottolinea il conflitto sempre latente che si cela nell’eutanasia e del quale anche ogni legislatore deve tenere conto nel definire e normare modalità e pratiche dell’intervento.
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L’EUTANASIA IN ITALIA: UN CONFRONTO ACCESO In Italia l’eutanasia attiva non è normata dai codici del nostro Paese: ragion per cui essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice penale). Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene sono previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) e vanno comunque dai sei ai quindici anni. Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580. Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce. A livello medico l’intervento di “staccare la spina” è possibile da parte esclusivamente di personale sanitario responsabile del paziente, quando si verifica la presenza contemporanea di: stato di incoscienza, assenza di riflessi del tronco, silenzio elettrico cerebrale. Solo allora l'anestesista rianimatore di guardia o il responsabile del reparto devono chiedere la costituzione di un collegio medico costituito da tre specialisti, un rianimatore, un medico legale e un neurofisiologo, che procede all'osservazione del paziente secondo un protocollo stabilito dalla legge. I tempi di osservazione dipendono dall'età: 24 ore entro il primo anno di età, 12 ore da uno a cinque anni, e 6 ore oltre i 5 anni. Dopodiché il collegio medico, in piena autonomia, in assenza di cambiamenti nella prognosi, accerta la morte cerebrale. Da quel momento si procede o al prelievo degli organi, se ci sono le condizioni e l'autorizzazione dei parenti. O si sospendono le cure. E si dichiara la morte del paziente. E’ chiaro che in Italia il dibattito è da sempre ancora più acceso e vibrante, in particolare per il forte coinvolgimento della Chiesa Cattolica alla vita pubblica e politica. Secondo la Chiesa Cattolica la vita è stata donata da Dio e solo lui può disporne: ragion per cui l’eutanasia è un omicidio. È al massimo ammessa la fine
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delle terapie qualora venissero ritenute sproporzionate (c.d.: “Accanimento terapeutico”). Una posizione del genere si pone esclusivamente dal punto di vista del medico, e mai dal punto di vista del paziente sofferente. In passato, anzi, talvolta questa sofferenza era ritenuta un modo di “partecipare” alla passione di Gesù e, ancora oggi, in Itala diverse strutture sanitarie sono restie alla somministrazione di farmaci antidolore ai malati terminali. Però non tutte le chiese cristiane la pensano così: diverse chiese protestanti hanno assunto posizioni più liberali e alcune chiese minori riconoscono apertamente il diritto dell’individuo di disporre della propria vita. Per i Valdesi, ad esempio, l’eutanasia «è un diritto che va riconosciuto». Così come succede anche all’estero, il tema dell’eutanasia attira l’attenzione dell’opinione pubblica quando i media portano, con fin troppa dovizia di particolari, alcuni casi in primo piano. Nella primavera del 2000 tre sono stati i casi particolarmente dibattuti sulle pagine dei giornali italiani. Il 23 maggio un giovane di Viareggio ha aiutato il suo amico a farla finita, con una dose di insulina. Negli stessi giorni un uomo di Monza veniva condannato a sei anni e mezzo per avere, due anni prima, staccato i fili che pompavano aria ai polmoni della moglie. Il 24 aprile 2002 il marito è stato però assolto in appello dall’accusa di omicidio volontario premeditato. I giudici hanno infatti stabilito che l’ingegnere Forzatti, staccando la spina del respiratore al quale era attaccato il corpo della moglie, non la uccise in quanto, a loro avviso, la donna era già morta. Nel maggio 2001, gli ultimi giorni di Emilio Vesce, storico militante radicale, infiammarono la campagna elettorale per via delle dichiarazioni del figlio contro il nutrimento artificiale, «non più attuato come terapia ma come accanimento terapeutico». Nel settembre 2006 è scoppiato il caso di Piergiorgio Welby, affetto da
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distrofia muscolare e oramai incapace di muoversi, che ha chiesto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di poter ottenere l’eutanasia. Il Presidente ha subito invitato le Camere a discutere del problema, ma è rimasto inascoltato. Il successivo 21 dicembre Welby è morto, scatenando una forte ondata di commozione in tutto il Paese. Nel luglio 2007 è morto Giovanni Nuvoli, che aveva a sua volta chiesto che gli fosse staccato il respiratore: per impedire che un medico rispettasse le sue volontà erano stati inviati i carabinieri. Nuvoli è stato così costretto, per porre fine alle sofferenze, a non assumere più né cibo né bevande, “lasciandosi morire” di fame e di sete. Il caso di Eluana Englaro, completamente immobile e priva di coscienza dal 1992, ha tenuto banco per molti anni. Il padre, stanco di vederla tenuta in vita da un cannello nasogastrico (e contro la stessa volontà della figlia, seppur non sia mai emersa una documentazione a supporto di questa asserzione), ha intrapreso diverse iniziative legali per sospendere le cure, senza alcun successo per molti anni. Nell’ottobre 2007, la Corte di Cassazione, nel rinviare la questione alla Corte d’Appello di Milano, ha stabilito che l’interruzione delle cure può essere ammessa, quando il paziente si trova in uno stato vegetativo irreversibile e se, in vita, aveva manifestato la propria contrarietà a tali cure. La Corte d’Appello, nel luglio 2008, ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere i trattamenti di idratazione e alimentazione forzata: contro il provvedimento è stato presentato un ricorso da parte del procuratore generale di Milano, ricorso poi bocciato dalla Corte di Cassazione. Eluana si è spenta nel febbraio 2009 in una clinica di Udine. Nel novembre 2010, il noto regista Mario Monicelli, affetto da malattia terminale, decise di lanciarsi dal quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato. Esattamente un anno dopo è stato infine l’ex
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parlamentare Lucio Magri a scegliere il suicidio assistito in Svizzera. Nel 2013 a far notizia è il caso di Piera Franchina, a sua volta recatasi in Svizzera. In ottobre è ancora un regista, Carlo Lizzani, a togliersi la vita lanciandosi dal terzo piano: aveva detto che avrebbe voluto l’eutanasia insieme alla moglie, come Romeo e Giulietta. Questi casi, se sono strazianti dal punto di vista di chi ne è coinvolto direttamente, finiscono quanto meno per dimostrare come la legislazione sia inadeguata ai tempi. Il primo parlamentare a presentare una legge per disciplinare l’interruzione delle terapie ai malati terminali in Italia è stato nel 1984 Loris Fortuna, già estensore della legge sul divorzio. Il 13 luglio 2000 lo stesso Ministro per la Sanità Veronesi ha affermato che «l’eutanasia non è un tabù», e che una soluzione al problema deve essere trovata in tempi brevi. Nel frattempo anche il Consiglio Comunale di Torino aveva votato una risoluzione pro-‐eutanasia. Il concetto di legalizzazione (rendere legale un atto) si scontra spesso con quello di depenalizzazione (rendere non punibile un atto). Il Comitato Nazionale di Bioetica, costituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha il compito di produrre dei pareri volti ad aggiornare la legislazione italiana. Nel 1989 è nata la Consulta di Bioetica, che si propone di discutere sui temi della vita e della morte.. Dal 2001 in avanti sono sorte diverse realtà che si prefiggono di promuovere la presentazione di progetti di legge in materia di eutanasia e la sua depenalizzazione, fra le più attive l’Associazione Luca Coscioni.
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IL PROBLEMA LEGISLATIVO DEL “FINE VITA” Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una specifica ipotesi di reato per i casi riconducibili al concetto di eutanasia. Affermando che l’eutanasia comporta l’uccisione di un essere umano, i fatti eutanasici rientrano tra i reati contro la persona che sono oggetto del titolo XII del codice penale vigente, in particolare, del capo I di questo titolo, che tutela l’interesse dello Stato alla salvaguardia della vita e dell’incolumità personale. Nella sua forma generale (uccisione pietosa) l’eutanasia deve essere considerata come un vero e proprio omicidio volontario; il movente di pietà e le condizioni oggettive di sofferenza non sono prese in considerazione come attenuanti, se non ex art.62 c.p. che si riferisce in generale a motivi di particolare valore morale e sociale4. Vi è da aggiungere che, in generale, nelle uccisioni pietose esiste l’aggravante della premeditazione e dei rapporti di parentela, e che pertanto la pena per questo delitto può essere veramente severa. Qualora invece concorra il consenso valido della vittima si configura un’ipotesi particolare di reato che trova collocazione nell’articolo 579 del codice penale. L’introduzione di questo articolo e stato giustificato dalla necessità di trattare diversamente l’omicidio comune e l’omicidio del consenziente. Per il nostro legislatore (legislatore del 1930) questa tendenza, presente nella prassi giudiziaria, non andava intesa nel senso che l’uccisione pietosa o eutanasica su richiesta fossero ormai considerate come fatti che, per insieme di circostanze oggettive e motivazioni soggettive, non costituivano reato. Trattava semplicemente, per il nostro legislatore, del risultato della riluttanza dei giudici ad applicare le pene previste per 4
L'espressione "motivi di particolare valore morale e sociale" rimanda a quei motivi apprezzabili sotto il profilo etico o sociale. S ricordi però che la giurisprudenza ha escluso che l'attenuante possa applicarsi ai casi in cui sia presente la causa d'onore, la necessità di sopperire ai bisogni familiari, il movente della gelosia, il motivo politico animato da finalità eversive o terroristiche, la ritorsione o la vendetta.
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l’omicidio comune che apparivano sproporzionate rispetto ai fatti che spesso avevano una profonda risonanza emotiva presso l’opinione pubblica generando sentimenti di umana comprensione. Fu per questo motivo che il legislatore introdusse nel nostro codice penale l’art. 579. Ciò che caratterizza questo reato e che lo distingue dall’omicidio comune è il consenso della vittima alla sua uccisione. A ben guardare, attualmente nel nostro paese solo pochi casi di eutanasia rientrano nella disposizione di cui all’art. 579 c.p., perché per l’applicazione della norma e richiesta la presenza di alcuni requisiti necessari quali: la maggiore età di chi presta il consenso e la sua non infermità di mente (condizione che normalmente si riscontra nei soggetti che sono malati terminali o incurabili), cosi la maggior parte dei casi è punita con la sanzione di omicidio comune (ex art. 575 c.p). I giudici, nell’emettere la sentenza, dovranno tenere in considerazione tutti questi elementi ed in parecchi casi la decisione risulterà alquanto difficile perché non esiste una regolamentazione specifica della materia. In conclusione appare evidente la necessità di introdurre una normativa specifica a disciplina della fattispecie in oggetto, ora lasciata a soluzioni interpretative della giurisprudenza Fino ad oggi nel nostro paese, l’unica discussione parlamentare su una legge sui temi del fine vita ha riguardato la possibilità di avere un testo di legge sul testamento biologico. Il dibattito è andato avanti nel corso degli anni con numerose fasi di stallo e pochi momenti in cui si era davvero vicini alla conclusione. Le difficoltà che rendono tortuosa la strada per avere una legge sul fine vita sono diverse perché sono tanti i quesiti in gioco da risolvere:
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1. Come tutelare i diritti del paziente e allo stesso tempo quelli del medico, dando spazio ad eventuali obiezioni di coscienza; 2. Come definire e trattare gli stati vegetativi; 3. Come definire le terapie e quindi dove porre il limite delle cure sproporzionate; 4. Come e se registrare la dichiarazione (davanti a un notaio? Su carta libera da portare con sé? Istituendo un registro comunale?); 5. Come risolvere le controversie legate all’interpretazione del documento (davanti a un giudice? Oppure possono pensarci i comitati etici delle strutture sanitarie, che però sono deputati a fare ben altre cose e a dirimere altre questioni?). Come è stato già detto, alcune storie non italiane anche recenti, hanno fatto molto discutere sui temi del fine vita, in particolare quella di Terry Schiavo. Terry Schiavo era una ragazza americana della Florida che, nel 1990, all’età di 26 anni, aveva avuto un arresto cardiaco. I medici intervenuti erano riusciti a salvarla, ma l’insufficienza di ossigeno, provocata dall’arresto cardiaco, le aveva danneggiato il cervello: era viva, respirava ancora, ma era immobilizzata e incapace di comunicare e nutrirsi da sola. Dopo anni di speranza di recupero da parte del marito e dei familiari, era ormai diventato chiaro che lo stato di Terry era irreversibile. Diventato tutore legale della moglie, il marito aveva chiesto l’interruzione dei trattamenti che tenevano in vita la compagna, ottenendo l’approvazione dal tribunale. I genitori Schiavo, opponendosi alla decisione del marito, avevano dato vita a una campagna pubblica, ripresa dai media internazionali, per bloccare la decisione dei giudici e chiedendo di sostituirsi al marito come tutori della figlia. Dopo più di dieci anni di battaglie in tribunale, su ordine
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del giudice della Florida, il 18 marzo 2005 viene infine rimosso il tubo per l’alimentazione artificiale, portando alla morte di Terry Schiavo dopo 13 giorni. Sempre citando casi internazionali che hanno alimentato anche il dibattito in Italia è utile ricordare quello di Brittany Maynard, con la sua decisione di morire a soli 29 anni nel 2014. Un anno prima, Brittany aveva scoperto di essere malata di glioblastoma, un tumore al cervello molto aggressivo per cui non esistono terapie per la guarigione, ma solo trattamenti in grado di prolungare la sopravvivenza al massimo fino a tre anni. Decisa a non affrontare un calvario di sofferenze per lei stessa e per la sua famiglia, decide di appellarsi al Death with Dignity Act dell’Oregon ove decide di trasferirsi dalla natia California, per quello che sarà il suo ultimo viaggio. Decide di comunicare pubblicamente la sua decisione di affidarsi all’eutanasia attraverso un video su Youtube, che viene visualizzato in breve da 9 milioni di utenti. Il primo novembre Brittany muore nella sua nuova casa in Oregon, circondata dall’affetto dei suoi cari. Nel panorama italiano, soprattutto due storie hanno sollevato la discussione pubblica sul fine vita in Italia: quelle di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro. Piergiorgio Welby, ammalato di distrofia muscolare, a causa della progressione della malattia, nel corso degli anni era stato costretto all’immobilità e dal 1997 alla respirazione mediante ventilatore meccanico, unico dispositivo medico a tenerlo in vita. A partire da quell’anno, Welby si batté in tribunale per vedere riconosciuto il suo diritto a richiedere l’interruzione della ventilazione forzata (dopo sedazione) da parte di un medico, senza farlo incorrere in sanzioni penali per omicidio. L’anestesista Mario Riccio, nel dicembre 2006, dà seguito alla richiesta di Welby per garantirgli “una morte opportuna”, come dichiara lo stesso Riccio in un libro autobiografico. Il 22 luglio 2007 il
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Giudice di udienza preliminare Zaira Secchi proscioglie il medico anestesista dall’accusa di omicidio del consenziente, ordinando il non luogo a procedere perché il fatto non costituiva reato ai sensi dell’articolo 51 del codice penale sull’adempimento di un dovere. Eluana Englaro, di Lecco, nel 1992 a 21 anni ha un incidente in auto che le provoca un trauma craniocerebrale a cui segue uno stato comatoso. In mancanza di miglioramenti cognitivi e col passare degli anni, su un corpo sano, giovane e robusto come quello di Eluana, il coma si trasforma in stato vegetativo persistente. A partire dal 1999, il padre Beppino, diventato tutore della figlia e sulla base di conversazioni avute con Eluana prima dell’incidente, inizia la sua battaglia in tribunale per rivendicare il diritto a poter cessare l’alimentazione forzata così da darle una fine dignitosa, così come Eluana aveva richiesto, su base ipotetica, prima di avere l’incidente. Dopo numerose decisioni dei giudici che dichiarano inammissibile la richiesta di Beppino Englaro, la conclusione arriva con la sentenza del 9 luglio 2008, con cui la Corte d’Appello di Milano autorizza la rimozione del sondino per la nutrizione artificiale, che avviene progressivamente a partire dal 6 febbraio 2009 nella clinica privata La quiete di Udine. Eluana muore tre giorni dopo. Le ultime fasi della vita di Englaro, sotto i riflettori dei media per le accese discussioni tra politica e esponenti del mondo religioso si sono intrecciate con il cammino delle proposte di legge sul testamento biologico, ancora arenato e in attesa di una decisione politica, che tarda ad arrivare. La prima proposta di legge sul testamento biologico in Italia risale al febbraio 1999, a cui segue un successivo testo presentato nel 2000. Siamo sotto la XIII Legislatura con i due governi D’Alema. Le prime proposte si affacciano nel panorama politico italiano, ma i testi non verranno mai discussi in parlamento. Durante la XIV
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Legislatura (la più lunga per la storia della Repubblica italiana e che durerà fino al 2006 sotti i governi Berlusconi II e III), vengono presentati un progetto alla Camera e quattro disegni al Senato. Comincia a prospettarsi la possibilità di arrivare a un testo di legge sul fine vita, anche in conseguenza di una prima copertura mediatica sull’argomento, sia per il sopraggiungere delle notizie sulla vicenda americana di Terry Schiavo e in seguito alle prime battaglie giudiziarie italiane, rese pubbliche dai media, di Piergiorgio Welby e Beppino Englaro. Il 19 luglio 2005 la Commissione Igiene e Sanità del Senato approva un disegno di 16 articoli. Il testo arriva dopo un’estesa convergenza tra senatori di destra e senatori di sinistra, tra laici e cattolici. Nel testo di legge sul “testamento di vita”, così come viene chiamato, il documento è vincolante per il medico, dev’essere registrato da un notaio e compare la figura del fiduciario o amministratore di sostegno. Il disegno non arriva, però, per motivi di opportunità politica, in discussione plenaria al Senato. Si arriva alla XV Legislatura (2006-‐2008, governo Prodi II). Il 5 luglio 2006 la Commissione Igiene e Sanità del Senato, presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino fa partire anche un estensivo giro di audizioni con esperti di diversi ambiti (medicina, bioetica, giurisprudenza) e associazioni di pazienti e di categoria. Il senatore Marino richiede un’indagine, tramite sondaggio, all’istituto Eurispes sull’opinione dei cittadini italiani in merito all’argomento. Il 74,7% si rivela all’epoca favorevole all’introduzione del testamento biologico. I lavori vanno avanti con fatica, soprattutto per cause di natura politica generale, cioè la tenuta difficoltosa della maggioranza di governo, fino a quando il 6 febbraio cade appunto il governo, vengono sciolte le Camere e naufraga l’ipotesi di una legge sul testamento biologico. Con l’avvento della XVI Legislatura (2008-‐2013), sotto il terzo governo con presidente
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del Consiglio Berlusconi riinizia la discussione, sulla base di dieci disegni presentati a cui se ne aggiungono tre a cavallo dell’epilogo della storia di Eluana Englaro. Si arriva a un testo unico approvato dal Senato, in cui il testamento biologico diventa più un’indicazione che un documento di chiare volontà e la nutrizione artificiale viene espressamente esclusa dalle pratiche di cura che possono essere indicate all’interno delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Nel luglio 2011 l’Assemblea della Camera conclude l’esame del provvedimento ritrasmettendolo al Senato. L’esame in seconda lettura presso il Senato, avviato nel settembre 2011, non è mai giunto a conclusione, Cade il governo Berlusconi III, Mario Monti lo sostituisce alla guida della presidenza del Consiglio e il testo di legge sul testamento biologico, considerato materia troppo scottante in un clima di estrema incertezza politica, viene messo da parte. Nel dicembre 2012 cade anche il governo Monti, si sciolgono le camere e col nuovo governo Letta, insediatosi dopo le elezioni del febbraio 2013, si riinizia da capo con il valzer delle proposte di legge. Ma nell’attuale Legislatura, sia sotto Letta sia sotto Renzi, che nella campagna per le primarie Del Partito Democratico si era dimostrato assolutamente favorevole a una legge sul testamento biologico, le proposte giacciono ancora silenti e prive di discussione.
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I DIVERSI APPROCCI ALL’EUTANASIA A livello strettamene legislativo per eutanasia si intende porre fine alla vita di un paziente malato, consenziente e che ne ha fatto richiesta, per cui non ci sono speranze di guarigione o di vita degnamente vissuta secondo il personale intendimento e previo parere di sanitari competenti. Classicamente si distinguono poi, come già ricordato, due forme di azioni eutanasiche: l’eutanasia passiva e quella attiva. Nel primo caso, la morte del paziente avviene per sospensione di un trattamento necessario per mantenerlo in vita (per esempio nella rimozione di un ventilatore meccanico). Nell’eutanasia attiva invece è la somministrazione di una sostanza letale a porre fine alla vita. Abbiamo già più volte ricordato che nell’ordinamento italiano al momento eutanasia e suicidio assistito sono atti entrambi punibili con il carcere fino a 15 anni, secondo
gli
articoli
575,
579,
580
e
593
del
codice
penale.
Nel suicidio assistito, l’atto vero e proprio che pone fine alla vita (per esempio per ingestione di farmaci) viene compiuto dallo stesso paziente, ma con l’aiuto e il supporto di altre persone – familiari o personale medico e sanitario – nelle attività di preparazione all’atto Il suicidio assistito è attualmente permesso in diversi Paesi Europei e nel mondo. La dichiarazione anticipata di volontà sui trattamenti sanitari viene più comunemente indicata come testamento biologico, da una traduzione sommaria dell’inglese living will e si concretizza in un documento nel quale indicare a quali terapie ricorrere e soprattutto quali trattamenti rifiutare, in caso di grave incidente o malattia terminale, quando cioè si è incapaci di comunicare espressamente e direttamente il proprio volere. Il testamento biologico rappresenta, quindi, uno strumento, sia per i medici che per la famiglia, di supporto alle decisioni terapeutiche
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per il paziente, in preciso accordo con la sua volontà. Negli effetti è l’estensione del diritto al consenso informato, per cui si può dichiarare anticipatamente di voler rifiutare determinati trattamenti terapeutici, perché considerati sproporzionati o comunque non in linea con le proprie idee di dignità, salute e vita. Molti paesi nel mondo hanno introdotto la pratica del testamento biologico sia attraverso una legge specifica sia mediante sentenze. Negli Stati Uniti le sentenze dei giudici, per esempio, hanno creato il precedente per arrivare all’approvazione, in California, del Natural Death Act del 1976, divenuto l’esempio a cui guardare per leggi simili in altri stati (Illinois, Louisiana, Tennessee, Texas e Virginia). A livello federale, nel 1991 è stato poi introdotto il Patient Self Determination Act, sempre sul diritto per il paziente di formulare dichiarazioni anticipate di volontà. Anche in Germania il testamento biologico non è parte di una norma specifica, anche se dal 2003 è nella pratica dopo essere stato introdotto dalla giurisprudenza. Ugualmente nel Regno Unito, prima dell’entrata in vigore nel 2007 del Mental Capacity Act, il testamento biologico era comunque utilizzato perché riconosciuto da numerose sentenze. La lunga discussione di modifica della Legge sul fine vita in Francia (la legge n. 2005-‐370 del 2005) è giunta da poco alla sua conclusione con una soluzione che non accontenta tutti, ma che comunque segna una svolta. Messa da parte la possibilità di legalizzare eutanasia e suicidio assistito, la legge approvata ad ampissima maggioranza dall’Assemblea francese rende finalmente vincolanti per il medico le scelte espresse nelle direttive anticipate del paziente, cioè nel cosiddetto testamento biologico. E in Italia? Nonostante proposte, suggerimenti, progetti, non è stato ancora raggiunto nessun risultato. Questa mancanza di una via di uscita risulta avvalorata dal fatto che ad oggi
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per il diritto penale italiano ogni istante della vita umana è dotato di un valore che non può essere sottoposto a misurazioni. “La vita umana porta il suo valore in se stessa e non e accessibile ad alcuna misurazione”. 5 L’uccisione per pietà non può che restare, vi sia o non vi sia consenso, un fatto antigiuridico, perché contrario all’ordinamento giuridico e perché non sussumibile sotto i connotati di alcuna scriminante. La strada che il legislatore dovrebbe seguire, potrebbe essere quella di introdurre una circostanza attenuante, ovvero predisporre una vera e propria fattispecie di eutanasia, o elencare tassativamente le ipotesi in cui il medico possa essere esonerato da responsabilità. Di conseguenza, nella sua forma cosiddetta attiva, che è poi quella cui più propriamente si riferisce il termine, l’eutanasia pietosa ricade nella regolamentazione di norme generali; di fattispecie, cioè, dettate indipendentemente dalle peculiarità del fenomeno in esame e in ragione, piuttosto, di esigenze di tutela ritagliate su fenomenologie criminologiche sensibilmente diverse. Pertanto, se c’è il consenso della vittima in ipotesi di eutanasia attiva, il soggetto agente e punito ai sensi dell’art.579 c.p.. Se non c’è il consenso perché il malato è in coma o comunque in stato di incapacità di intendere e di volere l’agente è punito per omicidio doloso (art.575 c.p.). Per quanto riguarda l’eutanasia passiva, il soggetto può essere considerato responsabile della morte ai sensi dell’art. 40 c.p. solo ove sussista un dovere giuridico di impedire l’evento morte, in altre parole occorre chiedersi se abbia o non abbia omesso di praticare le cure che era tenuto a praticare. Vi è quindi da chiedersi: la soluzione del problema e da ricercare sul terreno della omissione? E punibile penalmente l’omissione contraria ai propri doveri? 5
MARINUCCI, La colpa dell’inosservanza di leggi; Milano, 1965, 271.
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Nell’infliggere la pena si dovrà tener conto del comportamento del medico, verificando se quest’ultimo sia o non sia obbligato a tenere in vita il paziente. Il paziente adeguatamente informato, pretende o acconsente, in piena coscienza, delle azioni mediche che hanno conseguenze mortali. In questo caso non sorge nessun dubbio: il medico deve considerarsi esonerato dall’obbligo di proseguire la cura. II principio “voluntas aegroti suprema lex”6 riconducibile all’art. 32 Cost, trova qui la sua massima espressione, il medico sarà tenuto a rispettare la volontà del paziente, che desidera morire serenamente. Se il medico lascia morire il paziente, perché quest’ultimo non desidera altro, allora l’eutanasia passiva si manifesta non solo conforme al diritto, ma altresì conforme ad un dovere. Un altro caso potrebbe verificarsi quando il paziente, cosciente ed informato delle sue condizioni, non voglia assolutamente interrompere la cura ma desideri a tutti i costi proseguire nel trattamento. Se il medico sospende la cura si verifica un’omissione penalmente rilevante e quindi una responsabilità a titolo di omicidio nonostante la malattia o la morte imminente. La dottrina recente critica aspramente questa definizione sostenendo che l’omissione e l’interruzione della terapia nell’ipotesi di malattia irreversibile sarebbero prive di rilevanza penale. L’inutilità delle cure farebbe infatti venir meno l’obbligo del medico. Il dovere del medico sarebbe solo quello di curare allo scopo di guarire, mentre nel caso preso in considerazione non si otterrebbe alcun vantaggio, se non un sicuro deperimento fisico e psichico, o, in casi peggiori un inopportuno accanimento giustificato solo da motivazioni economiche in favore della struttura. 6
BEAUCHAMP e CHILDRESS: “Principi di etica biomedica”
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“L’omissione non è delittuosa quando il dovere giuridico di curare trova un proprio limite logico e umano nella stessa inutilità della cura”7. Rimane comunque chiaro che nel nostro ordinamento il medico non può mai, contro la decisione del paziente, interrompere una cura di cui precedentemente si sia fatto carico. La decisione del paziente resta perciò un momento ineliminabile, una vera e propria conditio sine qua non di correttezza del comportamento medico. Dobbiamo tenere in considerazione ipotesi in cui il paziente non sia in grado di decidere, perché si trova per esempio in stato comatoso, l’interruzione di cura o la disattivazione di strumenti vitali non è consentita ed è perciò configurabile un fatto penalmente rilevante. A tale proposito occorre richiamare una famosa e già citata proposta di legge8 dei deputati Fortuna e altri, presentata il 19 dicembre 1984 ”sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia passiva” che si occupò del ruolo molto delicato dei medici. La proposta e stata motivata dall’esigenza di tutelare i medici dal rischio di sanzioni allorché abbiano rinunciato a prendere misure artificiali per prolungare il processo di morte a malati la cui agonia è già cominciata e la cui vita non può essere salvata alio stato attuale della scienza medica, o quando siano intervenuti con provvedimenti miranti innanzi tutto a calmare le sofferenze di tali malati, ma suscettibili di avere un effetto secondario sul processo di morte. La dottrina prevalente ritiene punibile la sola eutanasia passiva non consensuale. 7
BARNI, DELL’OSSO, MARTINI, Aspetti medico-‐legali e riflessi deontologici del diritto a morire\ in Riv. Med. Leg., 1981, 39-‐55. 8 L.n.2405, IX Legislatura.
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La liceità dell’eutanasia passiva consensuale trova fondamento nel riconoscimento che, essendo svolta nell’interesse del paziente, l’attività terapeutica può essere da questo rifiutata, nel rispetto del già citato principio costituzionale ex art. 32 secondo comma Costituzione .
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IL DIRITTO INDIVIDUALE E IL CONSENSO INFORMATO
LE CIRCOSTANZE SCRIMINANTI E IL BENE DELLA VITA Il nostro codice ha codificato l’antico principio “Volenti non fit iniuria” con la locuzione: “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamene disporne”. Il principio si colloca fra le cosiddette “scriminanti”, cioè quelle circostanze in presenza delle quali un fatto, solitamente considerato reato e quindi perseguito dall’ordinamento, è autorizzato o consentito dalla legge stessa e pertanto perde il suo carattere antigiuridico: non si pone più quindi in contrasto con l’ordinamento. Il fatto scriminato è lecito9 sia sotto il profilo penale che extrapenale, cioè per l’intero ordinamento giuridico, stante l’unitarietà dello stesso; perciò non giuridicamente sanzionabile e non impedibile10. In pratica le scriminanti rappresentano dei limiti alla tutela del bene giuridico: in loro presenza il bene non è più tutelato dalla norma; vi sarà un’offesa in senso materiale, ma non in senso giuridico. Pertanto, le scriminanti originariamente venivano definite elementi negativi del fatto in quanto devono mancare perché il reato sussista. Esse operano oggettivamente, per il fatto della loro stessa esistenza, infatti, il primo comma art.59 c.p., come introdotto dalla legge n. 19/90: “Le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche sa da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”. Le scriminanti realizzano, in 9
MANTOVANI, Diritto penale, parte generate; Cedam, 1996, 249. “Il fondamento tecnico dogmatico consiste nell’assenza di tipicita del fatto scriminato. Le scriminanti infatti costituiscono, sotto il profilo formale-‐descrittivo, elementi oggettivi negativi della fattispecie criminosa (che debbono cioe mancare perche il reato sussista)”. MANTOVANI, Diritto penale, parte generate; Cedam, 1996, 250.
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via generale, un bilanciamento di interessi contrapposti. Due sono i modelli cui la dottrina fa riferimento per spiegare il fondamento sostanziale delle cause di giustificazione: il modello monistico e il modello pluralistico. Secondo il primo tutte le scriminanti andrebbero ricondotte ad uno stesso principio, individuabile di volta in volta, nel criterio del mezzo adeguato per il raggiungimento di uno scopo approvato dall’ordinamento giuridico, o della prevalenza del vantaggio sul danno, o del bilanciamento tra beni in conflitto, o del giusto temperamento tra interesse e controinteresse. Secondo il modello pluralistico, dominante in dottrina, il fondamento politico-‐sostanziale della liceità del fatto è da individuare e ricondurre a principi diversi: quelli dell’interesse mancante, dell’interesse prevalente o dell’interesse equivalente11. Secondo Mantovani, “tutte le scriminanti postulano un conflitto di interessi, il cui bilanciamento si risolve con la prevalenza dell’interesse, attuabile mediante l’adempimento del dovere o l’esercizio del diritto o ingiustamente aggredito dalla legittima difesa o di valore superiore nello stato di necessita, o in base alla equivalenza degli interessi di pari valore in quest’ultima scriminante”, mentre per la scriminante del consenso dell’avente diritto, con la rinuncia del titolare alla conservazione del proprio bene, viene meno lo stesso interesse da tutelare. Con il consenso dell’avente diritto, tuttavia, non sorge una contrapposizione di interessi in quanto si ha una rinuncia da parte del titolare alia conservazione del proprio bene. Tale esimente pone dunque il problema di individuare se, ed in che misura, l’ordinamento consenta all’individuo di disporre dei propri beni compresi quelli 11
Cff FIANDACA, MUSCO, Diritto penale parte generale; Zanichelli, Bologna, 194 e F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale; Cedam, 1996, 250.
strettamente personali quali la vita e l’integrità fisica. Condizioni necessarie affinché il consenso esplichi l’effetto di escludere l’illiceita penale del fatto sono: 1) la disponibilita del bene da parte del suo titolare. 2) la validita del consenso. 3) Il consenso deve provenire da colui che è titolare dell’interesse leso, ossia dalla persona che subisce l’offesa che costituisce l’essenza del reato. Con riguardo al consenso dell’avente diritto la questione più rilevante si pone in relazione alla individuazione dei beni rispetto ai quali l’ordinamento permette al consenso di esplicare il suo effetto scriminante. Tali sono, come si è detto, i beni e i diritti di cui il soggetto titolare può validamente disporre.
I DIRITTI DISPONIBILI La distinzione tra beni disponibili e indisponibili, non è sempre agevole, dovendosi essa desumere, in rapporto alle singole categorie di beni, dall’intero ordinamento e dalla sua natura penalistica12. L’efficacia del consenso scriminante ai sensi dell’art.50 c.p. eè circoscritta ai diritti dei quali il consenziente può validamente disporre. Secondo un’opinione diffusa in dottrina, sono indisponibili gli interessi rispetto ai quali lo Stato rivendica un’utilità sociale immediata, disponibili quelli che non presentano tale caratteristica. Appartengono, cosi, alla prima categoria, i diritti che fanno capo allo Stato od alla collettività, o quelli individuali rispetto ai quali lo Stato rivendica comunque un interesse diretto; alla seconda categoria appartengono quelli che lo Stato riconosce per garantirne ai singoli il libero godimento 13 14. Questa affermazione non è pero condivisa da tutti nonostante sia corretta e alquanto precisa; è stato osservato che vi sono interessi pubblici, che sono ciò nondimeno disponibili, e nei confronti dei quali può di conseguenza rilevare il consenso dell’avente diritto disciplinato dall’art.50 c.p.. Il legislatore non fornisce un criterio guida all’interprete, una linea di demarcazione tra l’una e l’altra categoria, e ciò si spiega con il fatto che vi sia un elevato numero e un’estrema varietà di beni giuridici penalmente rilevanti e la possibilitaà che all’interno della stessa categoria di interessi protetti coesistano sacche di disponibilità e indisponibilità. Spetterà quindi 12
F. MANTOVANI, in op. tit., 261. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale; Milano, 1980, 426. 14 ANTOLISEI, in op. cit, 246 13
all’interprete svolgere questo delicato compito con l’aiuto degli strumenti della logica giuridica e dei principi generali dell’Ordinamento. Si dovrà, inoltre, tenere presente il fatto che il concetto di disponibilità e indisponibilità varia nel tempo, un bene indisponibile in un determinate periodo storico può diventare disponibile in altri momenti: quindi l’interprete dovraà tenere in considerazione: 1) gli strumenti della logica giuridica. 2) i principi generali dell’ordinamento. 3) la consuetudine. Indisponibili per principio sono da considerare i diritti che fanno capo direttamente allo Stato (contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia), quelli riferiti ad una collettività non personificata (delitti contro l’ordine pubblico, l’incolumita pubblica, la fede pubblica, il buon costume, l’economia pubblica, la religione, la pieta dei defunti ed infine la famiglia, data la sua risonanza sociale e i doveri inscindibilmente connessi). Cosi il consenso non rende lecito la violazione degli obblighi di assistenza famigliare15 in quanto tutelando il nucleo famigliare lo Stato tende, infatti, a proteggere interessi della collettività. Assolutamente indisponibile e il bene della vita, e ciò lo si ricava dalla stessa disciplina del codice penale ex art.579 e art.580 che punisce l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio e dall’art.575 che sanziona l’omicidio volontario. La vita è sacra e deve essere in ogni modo preservata: questo e un principio che sta alla base di tutte le religioni monoteistiche (cristianesimo, ebraismo, islam, buddismo) 15
CASS. PEN., 5 luglio 1939, in Giust. Penale; 1936, II, 1089.
ed è uno di quei principi salvaguardati in tutti i codici del mondo civile. Ogni essere umano è il depositario del dono della vita, dono che non gli deriva da un atto autonomo del soggetto stesso ma che gli deriva da altri: da un atto biologico, dicono freddamente gli studiosi della materia, da un atto di amore terreno dicono gli umanisti, da un volere soprannaturale per mezzo di un atto d’amore terreno dicono i testi delle grandi religioni monoteistiche. Uno dei diritti fondamentali dell’uomo è il diritto alla vita. Come tutti i diritti (diritto alla paternità o maternità, diritto alla libertà), anche il diritto alla vita è inalienabile. Ne consegue che il principio di indisponibilità della vita non consente liceità alcuna alla eutanasia attiva o al suicidio assistito. Il consenso è inefficace nei confronti di reati di abbandono dei minori o incapaci e di omissione di soccorso, essendo in questi casi in gioco, oltre che l’interesse del singolo, l’interesse pubblico concernente la sicurezza della persona fisica. Per quanto riguarda i diritti personalissimi, si considerano disponibili i diritti all’inviolabilità dei segreti privati e la libertà di domicilio, parzialmente disponibili i diritti all’integrità fisica alla liberta sessuale, all’onore, alla dignità. Un’autorevole dottrina ha giustamente sostenuto che nei confronti dei beni dell’onore e della libertà morale la questione di disponibilità o indisponibilità del bene deve essere risolta con il seguente criterio: il consenso si riterrà efficace quando ha per oggetto limitazioni circoscritte e secondarie di quei beni; sarà invalido allorché ne determini la distruzione oppure menomazioni cosi gravi da diminuire in modo notevole la funzione sociale dell’individuo. L’individuo non può validamente acconsentire ad una totale alienazione o
degradazione di se stesso, infatti, è inoperante il consenso in rapporto a delitti di riduzione in schiavitù e di plagio (art.600 c.p.), oppure il consenso a sequestro di persona senza limiti di durata161718. L’efficacia del consenso presuppone che l’oggetto della tutela sia disponibile nella sua totalità, se più sono gli interessi protetti da una norma penale, il consenso è inoperante anche quando uno di essi non sia disponibile.
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ANTOLISEI, in op. cit., 247 DELOGU, Consenso dell’avente diritto e sequestri di persona in Riv. It. Dir. Pen. 18 ANTOLISEI, in op. cit., 293. 17
LIMITI IN RELAZIONE ALLA DISPONIBILITÀ DELL’INTEGRITÀ FISICA E DELLA VITA L’art.5 c.c. cosi recita: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica e quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico al buon costume.” Secondo l’Antolisei, da tale disposizione si desume che nel diritto odierno l’uomo non è illimitatamente dominus membrorum suorum. L’integrità fisica è considerata essenziale affinché l’individuo possa adempiere ai suoi doveri verso la famiglia e la società. Si ricordi che, in relazione alla tutela dell’individuo, il nostro ordinamento ha accolto una concezione personalistica dei beni personali secondo la quale l’uomo è considerato un bene in se, un valore non strumentalizzabile, contrapposta alla concezione utilitaristica, secondo la quale l’uomo e il mezzo per il raggiungimento di finalità che trascendano la sua persona. Pertanto la vita e l’integrità fisica sono tutelate quali valori in se stessi, in senso assoluto. In conseguenza sono proibite le alterazioni del corpo che diminuiscano in modo notevole il valore sociale dell’uomo, impedendogli o rendendogli difficile fare quanto gli impone l’ordinamento dello Stato, e la disponibilità è circoscritta a quegli atti che non producono una menomazione permanente dell’integrità fisica o che non sono altrimenti contrari alla legge (ad esempio art.642 c.p.), all’ordine pubblico o al buon costume. In base a tale principio è ammissibile la donazione di sangue, mentre e vietato il trapianto di cornea da persona vivente, in quanto tale prelievo pregiudicherebbe irrimediabilmente la funzione vista.
La legge 458/1967 consente comunque il trapianto del rene in quanto l’altro rene è sufficiente ad assicurare la funzione di depurazione del sangue. Dal punto di vista civilistico, gli atti di disposizione del proprio corpo hanno natura negoziale, tuttavia in caso di inadempimento, non sono soggetti ad esecuzione forzata in forma specifica19. Quanto al rapporto esistente tra l’art.50 c.p. e l’art.5 c.c., in relazione alla ratio patrimoniale di tale ultima disposizione e alla difficolta di un suo raccordo con la natura non negoziale del consenso scriminante, il Giunta afferma che: “Il disposto dell’art.5 c.c. può rilevare in materia penale solo nei limiti della sua non incompatibilità logica con i caratteri e le finalità dell’intervento penalistico. Cosi non si potrà ritenere che i limiti posti dall’art.5 c.c. alla libera disposizione del proprio corpo invalidino il consenso scriminante solo quando l’atto di disposizione ha natura patrimoniale ed è compiuto a favore di terzi. Per converso lo spirito di questo articolo può e deve essere rispettato in materia penale laddove circoscrive l’art.50 c.p. ai soli casi in cui la diminuzione permanente dell’integrità fisica si riconnette ad atti di disposizione che, concretandosi in una rinuncia al bene dell’integrità, lo espongano aH’altrui azione offensiva e pericolosa”20 21. Sulla base di questi rilievi risulta dunque confermata la mancanza di appigli legislativi in grado di suffragare l’asserita illiceità del suicidio. In combinato disposto con gli art.579 e 580 c.p., l’art.5 c.c., non solo non smentisce ma anzi conferma che il vincolo alla disponibilità della vita e dell’integrità fisica opera solo nei confronti delle aggressioni manus alius , non anche nelle ipotesi di 19
F.GAZZONI, Manuale di diritto private] Napoli, 1996, 169. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, i termini di una relazione problematica; Siena, 1994, 87. 21 GIUNTA, Illiceita e colpevolezza nella responsabilita colposa\ Padova, 1993, 314. 20
autoaggressione, che si pongono in uno spazio di azione non regolato dal diritto e dunque consentito. Da quanto detto fino a questo punto si può desumere quale sia la protezione assoluta che il diritto assume rispetto al bene vita e all’integrità fisica. Il consenso, dunque, non scrimina ma funge da attenuante . Non esclude la punibilità a causa dell’indisponibilità del bene vita nel nostro ordinamento, ma funge da elemento differenziatore ai fini della determinazione della pena rispetto alle ipotesi di omicidio doloso.
REQUISITI DI VALIDITÀ DEL CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO. II nostro ordinamento all’.art.50 c.p. sancisce il principio per cui non c’è reato se taluno compie un’azione col consenso validamente dato dall’avente diritto. II consenso prestato deve presentare dei connotati essenziali; il consenso è essenzialmente volontà e come tale comporta l’accettazione del fatto lesivo. Affinché il consenso dell’avente diritto sia valido ed efficace occorre che esso sia immune da vizi attinenti al processo formativo della volontà del soggetto dichiarante, cioè da violenza morale, dolo e errore, e che abbia ad oggetto un bene di cui il titolare possa liberamente disporre. Perciò non è valido il consenso prestato quando alla base vi sia una minaccia ingiusta esercitata allo scopo di costringere il soggetto passivo a subire un’azione lesiva. Non è valido il consenso quando sia determinato dall’altrui inganno che deve consistere nell’impiego di mezzi fraudolenti sostanzialmente assimilabili ad artifici o a raggiri, espedienti utilizzati per sorprendere 1’altrui buona fede. Ciò che conta è che l’inganno provochi una falsa rappresentazione della realtà. Oltre alla già citata immunità dei vizi della volontà e necessario che il consenso: 1) provenga dalla persona legittimata ad esercitarlo 2) che questa possieda la relativa capacità di esprimerlo, quindi essenzialmente la naturale capacità di intendere e volere 3) ed infine che esso sia attuale, cioè perduri in capo al titolare del diritto al momento della sua prestazione sino al compimento della condotta materiale.
SOGGETTI LEGITTIMATI A PRESTARE IL CONSENSO
L’art.50 c.p. da per presupposta l’esistenza di due distinti individui, il soggetto attivo, o agente, e il soggetto passivo. Il soggetto passivo indica la persona che del diritto può validamente disporre, il titolare dell’interesse protetto dalla norma penale incriminatrice, che sarebbe violata ove il consenso non fosse prestato. Il soggetto passivo non si deve confondere con gli altri danneggiati, titolari invece di un interesse diverso da quello tutelato dalla norma penale. Il soggetto passivo può essere sia una persona fisica che una persona giuridica, che eserciterà il diritto per mezzo di un rappresentante legale. Vi e stato chi, partendo dal presupposto della natura personalissima degli interessi protetti dal diritto penale, ha negato la possibilità della sostituzione del rappresentante al titolare dell’interesse offeso, ma la maggior parte della dottrina non concorda con questa opinione; essa ritiene, infatti, che il rappresentante legale possa prestare consenso in luogo del titolare dell’interesse protetto, nei limiti stabiliti dalla legge e dal mandato ricevuto; questo discorso vale anche per la rappresentanza volontaria. Quando vi sono più soggetti passivi è inoltre necessario che il consenso venga espresso da tutti.
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REQUISITI DI CAPACITA DEL CONSENZIENTE
Il soggetto legittimato a prestare il consenso deve avere la capacita di agire agli effetti penali, in altre parole deve essere capace di intendere e volere. La dottrina si è chiesta se la capacita di intendere e di volere debba essere verificata in astratto o in concreto. Esistono due filoni contrapposti. II primo, favorevole alla valutazione in concreto (in pratica in relazione all’età, al sesso, alle condizioni della persona, ecc.)22, il secondo in astratto (vale a dire secondo modelli presuntivi di capacita o incapacità). La maggioranza della dottrina è propensa a valutare secondo un modello concreto e quindi la validità o invalidità del consenso è subordinata all’accertamento in concreto della capacità di intendere e di volere. In situazioni in cui il soggetto passivo si trovi in stato di ubriachezza, sotto l’azione di sostanze stupefacenti o in condizione di infermità di mente, occorrerà quindi verificare in concreto se il soggetto, a causa di queste condizioni in cui si trova, sia davvero incapace di intendere e volere. Ci si chiede poi a che età sia possibile assicurare la prestazione di un consenso valido; l’assenza di una disciplina che chiarifichi il punto ha portato alla costituzione di tesi molto differenti. Una prima tesi rigida, ancorata alla qualificazione del consenso dell’avente diritto come negozio giuridico, afferma che è valido soltanto il consenso da chi abbia raggiunto la maggior età23. A questa si affianca una seconda tesi secondo cui e richiesta la maggiore età in caso di consenso alla lesione di un bene patrimoniale. C’è poi chi ha affermato che il consenso debba essere considerato valido quando è prestato da un ragazzo che ha raggiunto gli anni 14 mentre al di sotto di questa età 22
C.PEDRAZZI, Consenso dell’avente diritto, in Enc. Dir., IX Dig. It.; Milano, 1961, 150. ALTAVILLA, Consenso dell’avente diritto, in Noviss. Dig. It.; Milano, 1961, 150.
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deve presumersi 1’incapacità assoluta. Infine c’è chi rifiuta di rifarsi ad un limite di età per un consenso valido, attribuendo al giudice il potere di decidere in concreto, caso per caso, ove sussista o meno la capacita di intendere e volere24. In certe situazioni il nostro legislatore ci ha aiutato, stabilendo all’interno del codice in vari articoli il limite di età; per fare alcuni esempi possiamo prendere in considerazione l’omicidio del consenziente, dove e richiesta l’età di diciotto anni oppure per la corruzione dei minorenni dove si esige l’età di sedici anni. In mancanza di una disciplina espressa, sembra più consona l’opinione di chi ritiene necessaria e sufficiente una capacità naturale; il giudice dovrà accertare volta per volta se il soggetto possiede la maturità e lucidità necessaria a comprendere l’importanza del bene in gioco e a valutare l’opportunità del sacrificio25.
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ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Pt. Generale; Decima ed., Milano, 1985, 252. MANTOVANI, in op. cit, 233.
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LA MANIFESTAZIONE DI VOLONTÀ
Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere non necessario alcun requisito di forma per la validità del consenso. Il consenso quindi può essere sia espresso che tacito. All’opinione tradizionale, cui aderisce l’Antolisei26, che richiede una qualche forma di manifestazione di volontà si contrappone la posizione di chi non esige invece che il consenso sia manifestato a terzi, ma ritiene necessaria la volontà a consentire l’offesa27. La manifestazione di volontà non richiede necessariamente una forma esplicita in quanto la giurisprudenza ha attribuito efficacia anche al consenso presunto nei casi in cui per le particolari condizioni della vittima, si potesse ritenere che, se fosse stato cosciente, lo avrebbe prestato. Ciò e quanto sostenuto da una sentenza della Corte di Assise di Roma (25 febbraio 1984) già citata nel capitolo precedente. In sede di prova dell’esistenza del consenso sembra comunque necessario che esso appaia riconoscibile. “La prova del consenso dovrà necessariamente fare leva sul comportamento tenuto dall’avente diritto innanzi il compimento del fatto il che però evidentemente non implica che tale comportamento dovesse già allora, nel momento in cui si attuava, rendere manifesta l’intima accettazione del fatto lesivo. È sufficiente che questa si possa assodare a posteriori nel momento in cui la prova viene espletata” 28 29 . Il consenso deve essere presente nel momento in cui si compie l’azione, l’eventuale 26
ANTOLISEI, in op. cit., 252. PEDRAZZI, in op. cit., 149. 28 GRISPIGNI, Il consenso dell'offeso; Roma, 1924, 101. 29 PEDRAZZI, in op. cit., 150. 27
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ratifica posteriore non è in grado di togliere il carattere antigiuridico all’azione. Il consenso non ha natura di negozio giuridico né di diritto privato né di diritto pubblico30, la dottrina dominante lo ritiene un semplice atto giuridico, vale a dire un permesso con il quale si attribuisce all’agente un potere di agire, che crea un vincolo obbligatorio a carico dell’avente diritto e non trasferisce alcun diritto in capo all’agente. Il consenso può essere sempre revocato, tranne il caso in cui l’attività non possa essere interrotta se non ad avvenuto esaurimento; può essere sottoposto a condizione sospensiva o risolutiva, può verificarsi il caso in cui vi sia la apposizione di un termine o di un modo. Come già specificato poco sopra il consenso e invalido se la volontà è viziata da violenza, errore o dolo, in caso di simulazione prevale la volontà reale. Per concludere voglio aggiungere un’ultima ipotesi di consenso invalido: l’ipotesi in cui venga prestato per causa turpe, contraria al buon costume e all’ordine pubblico come già stabilito ex art.5 c.c.. 30
DELOGU, Teoria generale del consenso dell ’avente diritto', Milano, 1936,165.
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CONSENSO PUTATIVO, L’ECCESSO DEL CONSENSO, IL CONSENSO PRESUNTO
Si ha consenso putativo quando colui che agisce ritiene esistente il consenso della persona titolare del diritto. In questo caso, il fatto non è lecito ma chi agisce lo fa senza dolo, per cui non è punibile in base all’art.59 c.p. terzo comma. Il consenso è pertanto causa di esclusione della colpevolezza. Non sarebbe giusto che il soggetto venisse punito per un reato più grave di quello voluto, ovvero a titolo di omicidio doloso. In verità non tutti gli studiosi concordano sul punto, e pertanto sono state sollevate parecchie polemiche. Stella
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e Boscarelli rifiutano la possibilità di applicare
analogicamente l’art.59 c.p., negando la possibilità di sostenere che chi credeva erroneamente esistente il consenso della vittima non abbia avuto la coscienza di offendere l’interesse tutelato dalla norma generale. La dottrina tedesca 32 critica questa affermazione ritenendo che sarebbe assurdo punire a titolo di dolo un fatto più grave di quello per il quale si può muovere un rimprovero all’autore. La dottrina tedesca può dirsi unanime nell’escludere, mediante il principio di colpevolezza, la punibilità del reato generale (più grave) realizzato e nel riaffermare la punibilità per il reato speciale (meno grave) voluto. L’erronea supposizione del consenso della vittima esclude il dolo dell’omicidio comune, la cui mancanza è fondamentale affinché si verifichi il reato di cui all’art.575 c.p.. L’erronea supposizione del consenso è errore che cade sul fatto costitutivo di un determinato reato che è stato oggettivamente realizzato. Il reato diverso su cui è 31
STELLA, Errore sugli elementi specializzanti della fattispecie criminosa; Riv. It., 1964, 100-‐109. BAUMANN, Zur Teilbarkeit des unrechtsbewusstseins; in Iuristenzeitung, 1961, 564.
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caduto l’errore per il quale è stabilita la punibilità, è il reato voluto, cioè l’omicidio del consenziente. Concludendo vorrei citare le parole dell’Antolisei33 il quale dopo aver affermato che il consenso è un presupposto del delitto ipotizzato ex art.579 c.p. osserva che: “se il consenso non esiste, ma l’agente è ragionevolmente indotto dalle circostanze a credere che vi sia, e cioè che il soggetto acconsenta alla propria uccisione, l’art.579 c.p. sarà applicabile, poiché alla supposizione erronea della presenza di un elemento che degrada un reato in altro diverso della stessa indole non è ne logico ne equo fare un trattamento diverso da quello stabilito dall’ultimo comma dell’art.59 c.p. per le cosiddette circostanze di esclusione della pena.” Si ha invece consenso presunto quando colui che agisce sa che non vi e il consenso, ma compie egualmente l’azione perché essa appare vantaggiosa per l’avente diritto. Sul consenso presunto sono state prospettate due teorie in dottrina: la teoria oggettiva (dominante) e la teoria soggettiva. Uno dei fautori della teoria oggettiva è il Pagliaro 34 che con le sue parole circoscrive il significato di consenso presunto: “Il consenso presunto sussiste solo quando l’agente compie il fatto nell’interesse dell’avente diritto, cioè in tutti i casi di negotiorum gestio”. Per esempio nel caso di chi copia la lettera di un amico per provvedere ad un’esigenza improcrastinabile. Secondo un’altra teoria sostenuta dal Bettiol35 la scriminante deve ritenersi sussistente quando l’avente diritto non abbia potuto manifestare il proprio consenso, ma si può presumere, ricostruendo il suo pensiero e le sue intenzioni, che lo avrebbe certamente 33
ANTOLISEI, In op. cit., 53 PAGLIARO, Principi generali; in Enc. Dir., Milano, 1968, 89. 35 BETTIOL, Diritto penale\ Padova, 1986, 57. 34
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prestato se avesse potuto conoscere lo stato di fatto e pronunciarsi in merito ad esso. La giurisprudenza mostra un atteggiamento più restrittivo in quanto ritiene che scrimini il convincimento putativo di un consenso già in atto e non il convincimento, soltanto ipotetico ed eventuale, che il consenso sarebbe stato prestato se richiesto36. Posto il fatto che vi è un po’ di confusione sarebbe opportuno ipotizzare una causa di giustificazione ad hoc che elimini radicalmente l’illiceità. Ad ogni modo, punto fermo è che il consenso presunto e in grado di escludere il dolo inteso come volontà dell’evento giuridico, sia nei casi in cui l’agente intenda giovare all’avente diritto che nei casi in cui ne presuma il consenso. In sede di prova risulterà però più facile dimostrare la buona fede dell’agente quando la sua condotta e altruisticamente ispirata. Occorre pero aggiungere che nonostante il consenso presunto escluda il dolo, vi sarà pero possibilità di un rimprovero per colpa, a seguito di un errore inescusabile. La condotta del soggetto attivo potrebbe eccedere dai termini concreti del consenso, quindi in questo caso la condotta sarebbe egualmente punibile a titolo di dolo quando questo eccesso fosse voluto e responsabile. Si possono verificare casi in cui l’eccesso è colposo e allora sarà punibile a titolo di colpa; ciò lo si può ricavare dai principi generali del diritto penale, nonostante l’art.55 c.p. non contempli fra i suoi casi l’art.50 c.p.. Concludendo, la norma in esame fa dunque richiamo, come limite al proprio ambito percettivo, alla sussistenza di un potere dispositivo del titolare del diritto, escludendo quindi la sua applicabilità quando si disponga della vita umana. Tuttavia, nella fattispecie di omicidio, l’elemento in questione è preso in considerazione dal 36
CASS. PEN., 11 novembre 1970, in Giust. Penale, 1971, 820.
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legislatore quale requisito costitutivo e specializzante del reato di omicidio del consenziente, ipotesi meno grave dell’omicidio comune. Tale situazione normativamente descritta si riproduce esattamente nei casi di eutanasia propriamente detta, cioè qualora si verifichi l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza su sua richiesta.
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L’ESECUZIONE DELL’ATTO EUTANASICO: SCENARI E ASPETTI LEGISLATIVI
L’OMICIDIO DEL CONSENZIENTE NELLA MATERIA PENALE. Nel codice penale Rocco, il concetto di “omicidio del consenziente” rappresenta una novità, in quanto il codice Zanardelli del 1889 non considerava il consenso del soggetto passivo; era consuetudine per i giudici applicare il reato di omicidio volontario aggiungendo l’eventuale concorso di circostanze attenuanti generiche. Questa ipotesi di reato punisce, con pena meno severa rispetto all’omicidio doloso, chi causa la morte col consenso della persona offesa. L’art.579 stabilisce: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate dall’art.61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto e commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto 2) contro una persona inferma di mente, o che si trovi in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia, o suggestione, ovvero carpito con inganno.” E’ importante ricordare come la Suprema Corte 37 ha voluto precisare meglio la 37
sentenza 22.02.1990, n. 2501, ha puntualizzato che "la speciale configurazione data all’omicidio del consenziente e la sua sussunzione in autonoma e tipica ipotesi di reato, nella quale sono previste pene edittali minori rispetto al comune omicidio volontario, sono fondamentalmente derivate dalla considerazione che, sebbene ivi figuri legislativamente consacrata l’indisponibilità del bene della vita pure da parte del titolare del relativo diritto, tuttavia alla configurazione della fattispecie partecipa proprio il consenso della persona offesa che, negli altri casi, scrimina la condotta dell’autore(art. 50 c.p.). Ciò trova conferma nella configurazione del terzo comma dell’art. 579 c.p., nel quale si ripristina la ravvisabilità delle disposizioni relative all’omicidio(artt. 575-‐577 c.p.), ogni qualvolta la manifestazione di volontà del consenziente debba ritenersi viziata in conseguenza di presunzione legale o di accertamenti di fatto."
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specifica e ampiamente dibattuta materia. Molti commentatori, infatti, avevano espresso giudizi favorevoli in merito all’articolo prima citato, identificandolo come strumento in grado di apportare un elemento decisivo in un dibattito che fin dal Secolo XIX aveva visto numerose e importanti prese di posizione in favore dell’eutanasia. Nel nostro Codice l’omicidio del consenziente rientra tra i delitti contro la persona e più precisamente tra quelli contro la vita e l’incolumità individuale; quindi non si tratta di una “forma attenuata” di omicidio volontario comune, ma è un titolo di reato specifico, vale a dire un’ipotesi delittuosa autonoma per le peculiari connotazioni materiali e psicologiche della condotta del soggetto passivo. Centrale appare inoltre il tema della manifestazione di volontà della vittima, conosciuta dall’agente perché a lui diretta e che si concreta nel consenso all’uccisione; è infatti questa condizione che distingue tale delitto dall’omicidio doloso: ne risulta differenziato nell’oggetto del dolo e attenuato quanto alia gravità del comportamento.
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IL BENE DELLA VITA COME OGGETTO DELLA TUTELA PENALE L’interesse dello Stato alla sicurezza della persona fisica appare chiaramente come l’oggetto specifico della tutela penale. La norma parte dal presupposto della indisponibilità del bene vita la cui soppressione va sanzionata penalmente. La legge sancisce che l’individuo non ha la libera disponibilità del bene della vita, neppure della propria, e pertanto il consenso della vittima non può sanare il reato di omicidio. Appare chiaro come la legge sia orientata a tutelare un bene giuridico importante per lo Stato e la collettività, vale a a dire il bene della vita 38; Esistono però fattori imprescindibili da considerare nello scenario del reato: 1) la presenza di un grado di dolo ridotto 2) la minor pericolosità del delinquente. In pratica il Codice del 1930 ha considerato le istanze di quella parte della dottrina che proponeva l’inserimento di una specifica disposizione che mitigasse le pene per colui il quale avesse cagionato la morte col consenso dell’ucciso e avesse al tempo stesso recepito il principio di indisponibilità del bene. Possiamo così sintetizzare il concetto su cui si è basato il legislatore: la vittima, acconsentendo alla propria uccisione, ha perso l’interesse per la vita, ma non per questo il bene cessa di avere rilevanza a livello penale. 38
GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematical In Riv. It., 1997, 25.
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IL SOGGETTO DEL REATO: RUOLO ATTIVO E PASSIVO Secondo il nostro Codice l’omicidio del consenziente rientra nel novero dei “reati comuni” e come tale può essere commesso da “chiunque” sia soggetto destinatario di doveri e obblighi penalmente rilevanti. Non è richiesta dal legislatore né la presenza né l’assenza di particolari requisiti in capo all’agente. Nel tracciare i cardini della “capacità penale”. Gallo39 ricorda come chiunque possa avere tale capacità penale, vale a dire l’attitudine a porre in essere comportamenti rilevanti, senza distinzione di età, sesso o condizioni soggettive. II soggetto attivo del reato è colui che pone in essere il comportamento costituente reato. Anche il soggetto passivo può essere “chiunque”, senza distinzioni o pregiudiziali di sesso o età, in quanto capace di consentire; è la persona titolare del bene tutelato dalla norma penale incriminatrice e leso dal reato.40 Necessario è ricordare come il consenziente è causa del proprio danno e quindi non ha la qualità giuridica di danneggiato del fatto delittuoso. Il soggetto passivo può essere una persona fisica o una pluralità di persone; Altrettanto interessante è ricordare che non possono essere considerati soggetti passivi del delitto quelle persone la cui incolumità personale è tutelata per un prevalente interesse riguardante gli interessi collettivi dello Stato o di una comunità religiosa, come il Capo di Stato, il Papa ecc.. Parte della dottrina41 sostiene che il soggetto passivo possa consentire ad essere ucciso con un determinato mezzo o in un determinato modo: se 39
GALLO, Capacita penale; in Noviss. Dig. It.; Torino, 1958, 880. FROSALI, Soggetto passivo del reato; in Noviss. Dig. It.; Torino, 1970,816. 41 VANNINI, Il delitto di omicidio’, Milano, 1935, 127. 40
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l’agente non segue le istruzioni impartite risponde del reato di omicidio comune. OMICIDIO E LESIONI
Secondo l’art.579 c.p. è delitto cagionare la morte di una persona col consenso di lui. Questo scenario ha indubbiamente una natura dolosa. La condotta dell’agente deve essere rivolta ad uccidere e non ad un fatto diverso. II consenso, pertanto, deve avere ad oggetto l’uccisione del soggetto passivo. Nel caso però il consenso sia prestato per consentire una lesione personale e il terzo invece commetta un omicidio, risponderà di omicidio volontario. Egualmente risponderà di omicidio preterintenzionale se la morte viene causata involontariamente da chi commette la lesione personale consentita.42 CONSENSO RILEVANTE ED IRRILEVANTE
Nel valutare il delitto è fondamentale che il soggetto ucciso abbia prestato, con la necessaria capacità, il consenso. Nel caso in cui questo consenso manchi o sia giuridicamente irrilevante, per punire l’autore del reato si prenderà in considerazione l’art.575 c.p. e le aggravanti stabilite dall’art.61 c.p. Con la parola consenso si intende la manifestazione di volontà diretta ad altra persona, che deve essere consapevole43. Esistono però delle regole generali che rendono il consenso considerabile a livello giuridico: deve essere espresso da persona maggiore di età, capace di intendere e volere e non deve essere estorto con violenza, minaccia, suggestione o carpito con 42
PALATANO, Omicidio; in Enc. Diritto, 1979, 970. INTRONA, Omicidio del consenziente ed analisi psichiatrico-‐forense della validita del consenso; in Riv. It. Med. Leg., 1987, 20.
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inganno. La mancanza di questi fattori determina l’assoluta invalidità del consenso. Inoltre il consenso deve sussistere nel momento in cui il colpevole commette il fatto, l’eventuale ratifica successiva è priva di effetto retroattivo. Lo precisa chiaramente la Cassazione : “II delitto in questione presuppone che il consenso sia serio esplicito e non equivoco e perduri fino al momento in cui il colpevole commette il fatto”44. L’eventuale revoca tempestiva esclude la possibilità di applicare l’articolo in esame. Supponiamo per esempio che il consenziente, dopo essere stato colpito dall'agente non muoia e che manifesti subito il suo desiderio di vivere ancora o addirittura chieda soccorso. Se l’agente continuerà nell’intento di reato fino alla morte dell’ex consenziente, risponderà di omicidio comune in quanto il consenso è venuto meno e non si è mantenuto per tutta la durata dell’azione . Da evidenziare inoltre che esistono casi nei quali il consenso è irrilevante. Se prestato da una certa categoria di soggetti il consenso non può essere valido, in particolare ci si riferisce a quelle persone, la cui incolumità personale è tutelata per fini riguardanti l’entità dello Stato; scenari nei quali viene preso in considerazione non solo l’interesse relativo alla vita del singolo, ma anche un interesse superiore assolutamente indisponibile. 44
CASS PEN 27.6.1991
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IL CONSENSO E I SUOI PRESUPPOSTI Per configurare un più mite titolo delittuoso è necessario che il consenso risponda a tre condizioni base: sia genuino, cosciente e libero; vale a dire deve essere l’espressione di una convinta determinazione di volontà, esente da qualsiasi vizio, non coartata, indipendente da qualsiasi condizionamento che intacchi il carattere di autonoma presa di posizione della vittima sulla sua soppressione ad opera di altro. Non è rilevante il modo con il quale viene espresso il consenso (scritto, parola, gesto) ma che altresì non esista alcun tipo di remora o dubbio sul carattere di serietà della richiesta, vale a dire la fondata sicurezza che il richiedente desidera essere soppresso. Si aggiunge poi la questione del consenso tacito: la dottrina è propensa a prendere in considerazione tale ipotesi45, che può essere rilevata dal comportamento determinato e chiaro del richiedente. Vi è inoltre da rilevare che il consenso può essere sottoposto a termine, a condizione e a modalità. In tal senso è utile valutare alcune ipotesi di consenso invalido, per altro descritte dall’art.579 c.p.: 1- minore di anni 18. Il legislatore imponendo un limite di età cosi elevato ha supposto l'esigenza di tutelare la maggior fragilità dei soggetti giovani, immaturi per prendere una decisione cosi radicale e densa di implicazioni anche etiche; l’atto presuppone alla base una capacità di riflessione e valutazione che è (per la legge) 45
Corte d’Assise, 25 febbraio 1984, in Giur. It., 1984,48: “nonostante le risultanze di una perizia che, sulla base di indagini strettamente clinico-‐ psichiatriche, abbia concluso che la vittima di un omicidio era affetta da insufjicienza mentale di grado grave e tale da non poter esprimere il consenso alia propria uccisione, il giudice pud in base ad altri elementi ed in particolare a pregressi rapporti di natura affettiva ed educativa, fra la vittima e I’autore del reato, ritenere sussistente un implicito consenso al fatto criminoso”.
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impraticabile prima della maggiore età. Questo significa che il giudice, quando si tratti di personalità compresa fra i quattordici e i diciotto anni, viene di fatto esonerato dal compito di individuare l’effettiva capacita di intendere e volere, perché è lo stesso legislatore che ha posto una barriera precisa. 2- Persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità; si tratta ovviamente di una delle condizioni più interessanti ai fini del nostro studio, viste le implicazioni che ha sul concetto parallelo di eutanasia e sul dibattito che ne deriva; l’infermità può essere aggravata dall’assunzione di farmaci, o per l’abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti. Secondo la legge la persona inferma di mente è incapace di intendere e volere, e tale vizio di mente scaturisce o da una malattia o da uno stato patologico che turba la psiche del cervello. Da rilevare che, sempre secondo la legge, la malattia non necessariamente deve essere di natura psichica, essa può anche manifestarsi con una infermità fisica46 47.Inoltre il legislatore non indica di che entità o grado debba essere valutata l’infermità di mente. Parte della dottrina propende per una infermità parziale ai sensi dell’art.89 c.p., un altro filone ritiene che sarebbe sufficiente a viziare il consenso una qualsiasi infermità, senza gradi o misure48. E’ chiaro che basandosi su tale applicazione diventerebbe assai arduo riferirsi ad un cosiddetto “consenso valido” rendendo di fatto quasi inapplicabile qualsivoglia procedura di eutanasia, considerabile come un’attenuante per la pena. Secondo i principi generali (art.88 e 89 c.p.) l’infermita sulla imputabilità può essere totale, parziale o irrilevante; ma il fatto che l’art.579 c.p. non indichi il grado di 46
ANTOLISEI, Manaule di Diritto Penale, parte speciale, XII Ed. integrata ed aggiomata da L.Conti; Milano, 1996, 62. 47 PEDRAZZI, L ’omicidio del consenziente nel Diritto Penale contemporaneo; Lucema, 1949, 20. 48 ALBEGGIANI, Profili problematici del consenso dell ’avente diritto; Milano, 1995, 13.
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infermità richiesto non autorizza a ritenere che anche un’infermità lievissima escluda la capacità del consenso. Le esperienze in diverse nazioni europee, mostrano come la maggior parte dei casi di eutanasia proviene da malati in fase terminale, con processi psichici altamente alterati sia da farmaci che dalla malattia. Uno stato che genera sofferenze e, spesso anche alterazioni metaboliche, di deperimento organico. Però fino a quando non si determina uno stato di seria alterazione della coscienza, risulta evidente (in particolare per il personale medico e paramedico) che siano attive le funzioni psichiche superiori, ovvero quelle indispensabili per chiedere di porre fine alla propria vita. 49 Questo sentimento si annulla invece nello stato di grave compromissione di coscienza. Inoltre è necessario ricordare che nella validità del consenso nel delitto ex art.579 c.p. è richiesta la capacita di disporre dei propri beni, l’infermità totale deve rendere incapace il soggetto di disporre. La capacita si presume, mentre l’incapacità si deve dimostrare50. Da quanto sopra esposto si può trarre questa riflessione a livello giuridico: il paziente, da tempo malato e a cui si somministrino dei farmaci con un affievolimento dello stato di coscienza, non può essere classificato a priori come incapace di intendere e di volere. Si dovrebbero restringere le cause di franca patologia mentale quali: schizofrenia, melanconia e paranoia. Si potrebbe comunque superare anche questo ostacolo ammettendo il probabile verificarsi di un periodo di “remissione” nel quale è possibile ravvisare un consenso lucido, tale da potersi affermare che la scelta compiuta dalla vittima sia comunque consapevole, ragionevole e soprattutto rispecchiante la sua 49
PANNAIN, L’omicidio del consenziente e la questione eutanasia; Napoli, 1988, 160. PANNAIN, in op. cit., 165.
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realtà. In campo medico esiste la consapevolezza diffusa di quei momenti in cui nell’infermo si constatano momenti di lucidità. Ecco perché il Menesini51 afferma che: “Il consenso è validamente prestato anche in un momento di lucido intervallo”. Per quanto riguarda la Deficienza psichica, la norma fa espresso riferimento non a qualsiasi problema bensì a quella che derivi da una concreta infermità; risulta chiara l’assenza di una possibile definizione diversa rispetto alia infermità di mente. Tutte e due le possibilità rendono invalido il consenso quando compromettono specificatamente la capacità del soggetto passivo a decidere della propria vita. E’ compito del giudice accertare il carattere patologico della deficienza psichica e rilevarne l’inesistenza del consenso. Per quanto concerne l’abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti il codice parifica l’azione degli stupefacenti all’ubriachezza. Per essere in grado di definire la capacità di intendere e volere bisogna non solo far riferimento alla quantità di alcool o di droga eventualmente assunti in rapporto al peso, età e sesso, ma anche a bevande alcoliche e droghe non normalmente utilizzate a scopo alimentare o per dipendenza viziosa. PERSONA IL CUI CONSENSO SIA STATO DAL COLPEVOLE ESTORTO CON VIOLENZA, MINACCIA, SUGGESTIONE, OVVERO CARPITO CON INGANNO.
La prospettazione ad una persona di un male ingiusto e futuro, di grandi e continuate sofferenze, dell’inutilità dell’esistenza nel suo complesso fino a portare ad uno stato di grave prostrazione, sono altrettanti motivi che rientrano nei temi in oggetto, anche al di là del tono (minaccioso, pietistico, etc.) utilizzato da chi spinge verso una 51
MENESINI, L’omicidio del consenziente dalpunto di vista medico-‐ legale\ in La Corte d’Assise, 1939, 25.
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determinata decisione. La violenza può essere infatti fisica o psicologica, nel primo caso si strapperà un consenso mediante l’impiego di energia fisica, nel secondo caso lo si otterrà facendo pressioni insistenti sulla psiche. La violenza o la minaccia possono essere usate per recare danno direttamente al soggetto, vale a dire per ledere o porre in pericolo un suo interesse legittimo.52 Sembra comunque difficile poter ravvisare una violenza o una minaccia volte ad ottenere da un soggetto il consenso per ucciderlo. Sicuramente più delicate sono invece le questioni che si debbono considerare in riferimento al significato di “suggestione”, cui il legislatore attribuisce la facoltà di invalidare il consenso. La suggestione si può caratterizzare per una vasta serie di modi di esplicazione.ad esempio: l’insinuazione, la coazione esplicita o implicita, ed ha un solo fine, quello di porre in essere una condotta positiva finalizzata a provocare nel soggetto passivo l’intenzione di morire, al punto di rendere inoperante una volontà contraria. Tra i due soggetti si costruisce e sviluppa un legame psichico particolare, un rapporto di inquietante comunanza; da una parte vi è una maggior efficienza volitiva ed intellettiva, dall’altra una maggior passività e suggestionabilità. L’impegno del giudice chiamato a rilevare la possibile suggestione del soggetto passivo è molto complesso; la forza di induzione dell’agente dovrà essere valutata nell’ambito del rapporto, tenendo in considerazione il grado di suggestione della vittima. Chiaramente le difficoltà maggiori sono finalizzate ad individuare validi criteri che consentano di inquadrare una condotta priva di autonomia, dovuta solo all’opera del colpevole. 52
ANTOLISEI, in op. cit, 63
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Quasi sempre è necessario un accertamento peritale, con il compito di verificare come la suggestione abbia inciso sul consenso. La suggestione si può evidenziare osservando il contrasto con le direttive della personalità del soggetto passivo. Menesini ha cercato di delimitare la parola suggestione utilizzata dal legislatore in questo articolo, prendendo spunto dalla relazione ministeriale sul progetto del Codice penale. Egli afferma che: “la suggestione non è quella ipnotica, la quale togliendo coscienza e volontà alla vittima ne rende inesistente il consenso, bensì la insistente e lenta opera di persuasione che fiacca la volontà della vittima e fa questa succube del colpevole”. Rimane da analizzare infine il caso di erronea supposizione del consenso, molto importante nel considerare proprio l’eutanasia e le sue implicazioni penali: è anzi considerabile il “caso eclatante” sull’argomento in oggetto, in quanto si verifica nel recepire le richieste di morte, le espressioni di un malato grave e lo si sopprima nella convinzione che ciò esaudisca i suoi desideri. Affrontiamo il delicato e fondamentale tema da tre punti di vista, quelli di Pannain, Antolisei e Palatano,53 54 , autori che hanno una visione fra loro contrastante. Pannain afferma che: “se l’agente ritiene per errore esistente il consenso, che invece non esiste, egli risponde di omicidio del consenziente in virtù dell’art.47 c.p. perché l’errore cade su un elemento essenziale del fatto”. Antolisei55, viceversa, dice: “se il consenso non sussiste, ma l’agente è ragionevolmente indotto dalle circostanze a credere che vi 53
Cff. Relazioni Ministeriale sul progetto del Codice, pt. Ill, 374, e MENESINI, L’omicidio del consenziente dal punto di vista medico-‐ legale; 1939, 25. 54 Cff. PANNAIN, L ’omicidio del consenziente e la questione eutanasia, Napoli, 1998, 170, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, ed. integrata e aggiomata da L.Conti, Milano, 1996, 63 e PALATANO, Omicidio, in Enc. Dir., 1976, 970. 55 ANTOLISEI, in op. cit., 63
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sia, e cioè a ritenere che il soggetto consenta alla propria uccisione, l’art.579 c.p. sarà applicabile, perché alla erronea supposizione della presenza di un elemento che degrada un reato in un altro minore della stessa indole, non è ne logico ne equo fare un trattamento diverso da quello stabilito nell’ultimo comma dell’art.59 c.p. per le cosiddette circostanze di esclusione della pena”. La conclusione dell’Antolisei, ritiene Palatano, non può essere condivisibile poiché non è pensabile ricondurre ed equiparare questa fattispecie a quella prevista dall’art.50 c.p., se non sotto il profilo strutturale della manifestazione di volontà. L’aggressione riguarda un bene indisponibile e il consenso rileva come elemento tipico del fatto, poiché non siamo in presenza di una circostanza che escluda la pena, bensì di un vero e proprio elemento del fatto, sicché l’art.59 c.p. non può essere applicato. Palatano 56 57 , tomando a considerare l’ipotesi in cui un uomo uccida nell’erroneo convincimento di agire con il consenso della vittima, fa notare come manchi uno degli elementi caratterizzanti la fattispecie delittuosa dell’art.579 c.p.: il consenso dell’offeso e di conseguenza l’art.579 non può trovare applicazione. La norma di cui all’art.47 c.p. aggiunge la possibilità per il colpevole di rispondere di un reato diverso, che per Palatano non può essere che l’art.575 c.p. Nemmeno può trovare applicazione l’art.47 I comma c.p. che dispone: “Per errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente; nondimeno, se si tratta di un errore determinate da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è prevenuto dalla legge come delitto colposo”. La considerazione pone come essenziale il fatto che il soggetto agisce intenzionalmente e con la 56
PALATANO, in op. cit., 970. PALATANO, in op. cit., 970
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consapevolezza di uccidere una persona, nel suo animo è pienamente cosciente che con il suo gesto, sacrificherà una vita umana. Dal punto di vista penale sarà sempre il giudice che dovrà decidere in che misura adeguare la pena tenendo conto della condizione psicologica nella quale il soggetto si e trovato ad agire, ma soprattutto analizzando i motivi che l’hanno indotto ad uccidere, nonché la ragionevolezza in concreto di come si è svolata l’intera vicenda. Una tesi che appare accolta da Stella58, il quale infatti afferma: “Dell’umanità empirica del reo, del suo mondo individuale, dei moventi e degli scopi dell’azione si deve sicuramente tenere conto, attesa oltretutto l’espressa disposizione dell’art.183 c.p.”. La centralità dell’art.579 c.p., fino ad oggi ha soddisfatto le istanze di quella parte della dottrina che ha sempre sottolineato l’esigenza di vedere punito per un reato meno grave, colui che viene mosso da un movente di pietà e quindi un movente meno riprovevole rispetto al movente omicida realizzato contro la volontà della vittima. È utile aggiungere poi che non è necessario che l’agente sia la stessa persona che ha ottenuto il consenso dal soggetto passivo. Il consenso può essere stato prestato ad un terzo, che ne ha a sua volta informato l’esecutore con la conseguenza, pero, che entrambi risponderanno in concorso del delitto de quo. 58
STELLA, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche; in Riv. It. Med. Leg., 1984, 1007.
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STATO DI PERICOLO E AZIONE LESIVA NECESSITATA Il cosiddetto “stato di necessità” è previsto dall’art.54 c.p. per il quale: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, ne altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.” E’ necessario a tal proposito ricordare che nel caso di omicidio necessitato il consenso diviene irrilevante. Lo stato di necessità si compone di due elementi: 1- situazione di pericolo 2- azione lesiva necessitata. La situazione di pericolo si sostanzia nel pericolo attuale di un danno grave alla persona, attualità che non vuol dire solo imminenza del danno bensì anche probabilità che si verifichi59 60. L’oggetto del pericolo è un danno grave alla persona, l’agente non deve aver causato il pericolo e l’azione lesiva di chi reagisce al pericolo deve essere costretta, assolutamente necessaria per salvarsi e proporzionale al pericolo. Quindi, in presenza di stato di necessità, il consenso perde il suo valore ed esime da ogni pena l’agente . Due casi significativi, uno di consenso irrilevante e l’altro rilevante, offrono spunti per capire meglio gli specifici scenari. Nel primo abbiamo un alpinista che, per salvarsi, taglia la corda che lo lega al compagno sospeso nel vuoto e che rischi di trascinarlo con sé. Mentre invece diventa rilevante il consenso, e si annulla lo stato di necessità, nel 59
ACCHERI, Note per la storia dello stato di necessita,; in Studi Senesi, 1975, 7. AZZALI, Stato di necessita; inNoviss. Dig. It., XVI, Torino, 1971.
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caso in cui ci si trovi di fronte ad una gestante che per salvare il feto, consenta ad essere uccisa. In questo caso non siamo in presenza degli elementi necessari per questo tipo di discriminante; infatti non è possibile considerare il feto una persona e non vi è nessun pericolo attuale di danno grave alla persona, ragion per cui il medico che acconsenta ad uccidere la madre risponderà di omicidio del consenziente, perché non si può sacrificare una vita certa ad una vita incerta. In riferimento a questa eutanasia, il medico non potrà andare impunito.
CONDIZIONI AGGRAVANTI E ATTENUANTI Le condizioni che caratterizzano lo stato psicologico alla base del fatto commesso sono irrilevanti sul titolo delittuoso, ma hanno la possibilità di rilevare come circostanze, purché non sia escluso per legge. Il motivo per cui il consenso fu prestato e quello per il quale fu commesso omicidio non influiscono sulla fattispecie considerata. L’art.579 c.p. indica esplicitamente la non applicazione delle aggravanti di cui all’art.61 c.p. e degli art.576 e 577 c.p., perché previste solo per omicidio comune e la lesione personale; non esclude però la possibilità di dar luogo alle aggravanti degli art. 111 e 112 c.p. (concorso di persone nel reato) e alle attenuanti previste dall’art.62 e 62 bis c.p. Nell’ipotesi in cui vi sia un consenso invalido, e quindi, il delitto sia quello di omicidio comune, sono applicabili le aggravanti di cui agli art.576 e 577 c.p. oltre ovviamente a quelle generiche di cui all’art.61 c.p. Un caso specifico particolarmente interessante è il cosiddetto “Motivo pietoso”: tutti coloro che uccidono per compassione possono giovarsi dell’attenuante di cui all’art.62
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c.p., ma non potranno in nessun caso andare impuniti. Come è facile rilevare questo argomento riguarda da vicino il problema dell’eutanasia, l’atto compiuto da medici o altri avente come fine quello di accelerare o di causare la morte di una persona. Questo atto si propone di porre termine a una situazione tanto di sofferenza fisica quanto psichica che il malato, o coloro ai quali viene riconosciuto il diritto di rappresentarne gli interessi, ritengano non più tollerabile e privo della possibilità che un atto medico possa anche temporaneamente, offrire sollievo. L’impunità della eutanasia è sempre stata esclusa; cosi recitava la relazione ministeriale del codice penale:61 “io non credo possa accedersi ai voti di coloro, che vorrebbero riconoscere la legittimità della morte cagionata per stroncare un’agonia, ancorché atroce e certamente mortale, non potendo al fallace giudizio degli uomini essere attribuita la facoltà di distruggere, con la vita, l’ultima speranza che permane, fintanto che vi sia un debole segno di esistenza”. Da questo punto di vista il motivo di pieta può solo attenuare l’omicidio, ma non scrimina sotto il profilo dell’antigiuridicità dell’azione. A livello di analisi e giudizio, gli eventuali motivi di pietà sono da accertarsi sempre con la massima circospezione e da valutarsi con meticolosità, in ogni caso possono essere apprezzati all’effetto dell’applicazione dell’attenuante di cui all’art.62 I comma c.p.. Vi sono poi casi nei quali è evidente che l’azione è stata sollecitata da motivi di particolare valore morale sociale, che trovano particolare considerazione ed approvazione nella coscienza morale comune, altamente apprezzabili dal punto di vista etico e sociale. Sono casi eclatanti che rafforzano nell’opinione pubblica l’idea che sarebbe ingiusto punire un soggetto che ha agito per pietà e non per egoismo; ampie 61
Relazione Ministeriale sul progetto del codice penale, pt. II, 374.
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fasce di popolazione anche in Italia approvano questa condizione come nella coscienza morale comune. L’art.62 bis c.p. potrà essere anch’esso tenuto in considerazione; stabilisce infatti che: “il giudice potrà considerare altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione di pena. Questa attenuante generica e diretta a consentire una riduzione del minimo edittale della pena, quando questo minimo si rilevi sproporzionato rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del reo. Viceversa e stato ritenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza che l’art.62 comma 5 c.p. non sia applicabile all’omicidio del consenziente, dal momento che, il concorso della vittima alla produzione dell’evento, data la natura del consenso, è elemento costitutivo del reato . SANZIONI E DIRITTO PROCESSUALE Dal punto di vista processuale, il reato è perseguibile d’ufficio e punibile con la reclusione da sei a quindici anni, e anche nelle ipotesi di tentativo ed è di competenza della Corte d’Assise. TRE SIGNIFICATIVI ESEMPI DALLA CASISITICA
Nel considerare alcuni casi riguardanti l’argomento di questo nostro studio, possiamo notare che in molti casi il giudice ha preferito ricorrere alla sentenza per omicidio comune piuttosto che concludere con una sentenza per omicidio del consenziente.
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OMICIDIO DEL CONSENZIENTE IN PERSONA DEL NIPOTE 62
Corte di Assise di Roma, 25 Febbraio 198463: II due settembre del 1981 venne portato in questura dalla squadra mobile di Roma Luciano Papini, responsabile di tentato omicidio del nipote diciottenne e di detenzione illegale di un’arma da fuoco. Nel mentre il nipote veniva trasferito all’ospedale, con una certa urgenza, in coma. Poco dopo, si venne a conoscenza che il nipote era affetto da ormai cinque anni da idrocefalo congenito ed era stato affidato allo zio. Nonostante i sacrifici e le cure fatte, il ragazzo purtroppo continuava a peggiorare, era soggetto a crisi violente che lo rendevano pericoloso per l’incolumità sua e degli altri; ne determinava una difficoltà di deambulazione e grossi ritardi e scompensi nell’attività intellettiva. L’imputato si era procurato casualmente la pistola una settimana prima del fatto e se ne era impossessato con il fine di uccidere il nipote, togliendogli ogni tipo di sofferenza. Qualche giorno dopo il nipote decedeva in ospedale per il colpo inflitto alla testa. Il P.M. ordinava il rinvio a giudizio dell’imputato davanti alia Corte d’Assise ritenendo che non potendo il nipote esprimere un valido consenso, non avrebbe potuto trovare applicazione l’art.579 del c.p. e quindi formulava l’ipotesi di omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione. I difensori invece chiesero alia Corte di poter applicare l’art.579 del c.p.” 62
Vedi Cass., 24-‐04-‐1953, in Giust. Pen., 1953, II, 1002. 63 Corte d’Assise di Roma, 25 Febbraio 1984, in Giur. it., 1984,48.
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La Corte ritenne in conclusione che Luciano Papini dovesse essere dichiarato colpevole ai sensi dell’art.579 comma 1 e 2 c.p. La decisione della Corte fu emessa in base a questo principio: “Nonostante la perizia clinico-‐psichiatrica abbia concluso che la vittima era affetta da insufficienza mentale di grado grave e tale da non poter esprimere il consenso alia propria uccisione, il giudice può, sulla base di altri elementi ed in particolare di pregressi rapporti di natura affettiva ed educativa fra la vittima e l’autore del reato, ritenere un implicito consenso al fatto criminoso”. OMICIDIO DEL CONSENZIENTE IN PERSONA DELLA MADRE
Corte di Assise di Triste, 2 Maggio 198864: In un pomeriggio dell’11 luglio 1987 la signora Longo Adriana, dopo ripetute richieste della madre decide di ucciderla con una calza di nylon stretta intorno al collo e subito dopo tenta di suicidarsi tagliandosi le vene. La signora, poco dopo, veniva posta in stato di arresto con l’accusa di omicidio volontario aggravato; e interrogata dichiara al P.M. di avere ucciso la madre in quanto troppo sofferente e desiderosa di suicidarsi. Successivamente sentita dal Giudice Istruttore dichiarava di avere abbandonato l’idea suicidaria e afferma che il gesto da lei compiuto era solo finalizzato a porre fine alle sofferenze della madre. La madre era stata operata nel 1985 per un tumore maligno all’anca destra, ma dopo l’operazione le cellule maligne si erano nuovamente riformate e cagionavano intensi dolori, soprattutto nelle ore notturne. A tutto ciò si aggiungeva la cecità dall’occhio destro e l’incontinenza. Sulla base delle testimonianze ricevute si evidenziò come le invocazioni di morte 64
Corte di Assise di Triste, 2 Maggio 1988, in Giur. it., 1998, 33. 66
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giungessero proprio nei momenti di lucidità della vittima nonostante la perizia medico-‐ legale si concluse con la diagnosi di demenza senile tipo Alzheimer; infatti la donna ricordava in quei momenti episodi passati e presenti. La sentenza emessa dalla Corte condannò l’imputata per il reato di cui all’art.579 c.p. poiché: “non integra gli estremi del reato di omicidio comune aggravato bensì del reato di omicidio del consenziente, l’uccisione della propria madre colpita da affezione morbosa inguaribile anche se non giunta allo stato terminale, quando risulti accertato che la infermità non ha determinate nella vittima una deficienza psichica tale da renderne invalido il consenso”. OMICIDIO DEL CONSENZIENTE IN PERSONA DELL’AMICO
Corte di Assise di Lucca, 15 Marzo 200165: Guido Dell’Innocenti ha aiutato un amico, Stefano Del Carlo, a morire, iniettandogli una dose letale di insulina e lo ha quindi lasciato morire in un prato come lo stesso desiderava. Dopo tre giomi ha avvertito i carabinieri, li ha portati nel luogo in cui si trovava il cadavere di Stefano e ha raccontato tutto. Il Procuratore di Lucca ha aperto il fascicolo sulla vicenda e ha formalmente indagato il ragazzo per omicidio del consenziente. Guido e Stefano erano legatissimi, erano compagni di scuola e da qualche anno entrambi ricercatori della facoltà di Filosofia. A Guido, Stefano aveva rivelato di avere un cuore ipetrofico e impossibile da guarire senza il trapianto; ciò gli impediva di fare molte cose e cosi ha chiesto al suo amico di porre fine alla sua vita. Il processo e 65
Corte di Assise di Lucca, 15 Marzo 2001, in Giur. it., 2001. 67
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avvenuto con rito abbreviato e Guido è stato condannato a quattro anni, due mesi e venti giorni di reclusione. CONDANNA IN PRIMO GRADO PER OMICIDIO PREMEDITATO
Corte di Assise di Monza 199866: Ezio Forzatti, un ingegnere monzese ha provocato la morte della moglie Elena Moroni, un’insegnante elementare, staccandogli il respiratore che la teneva in vita mentre era ricoverata in coma nel reparto di rianimazione dell’ospedale S.Gerardo di Monza. L’ing. Forzatti è entrato nel reparto chiedendo al medico di turno di poter visitare la moglie, a seguito di resistenza aveva estratto una beretta calibro 7,75 regolarmente posseduta ma sprovvista di proiettili e l’aveva puntata al medico facendosi aprire la porta. Subito dopo si dirige verso il letto della moglie e le stacca il respiratore. La moglie poco dopo muore. Il marito fu trattenuto in carcere per un paio di giomi e rimesso in libertà per l’attesa del processo. Il signor Forzatti fu condannato a sei anni e sei mesi di carcere per omicidio volontario premeditato. Il giudice con questa condanna non ha applicato l’art.579 e non ha tenuto in considerazione nemmeno il seguente fatto: Ezio Forzatti e sua moglie proprio perché legati da un amore profondo si erano promessi di aiutarsi nel caso a uno dei due fosse capitata la tragedia estrema di diventare un morto vivente, corpo ormai senza coscienza, senza più vita umana, tenuto in vita vegetativa attraverso macchine, staccando la spina di Elena, Ezio non ha fatto che onorare la promessa fatta alla moglie. 66
Corte di Assise di Monza, in Giur. it., 1998.
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AIUTO AL SUICIDIO
ANTICHE ORIGINI II concetto di suicidio è presente nella società e nella mitologia fin dai tempi più antichi 67 68
, anche se la Grecia mostra un atteggiamento di fastidio nei confronti dei suicidi; il
cadavere, infatti, veniva privato della mano destra e questa veniva sepolta altrove, mentre il corpo veniva tumulato fuori dalle mura della polis; per i greci uccidersi ed aiutare i suicidi è paragonabile all’assassinio dei parenti. Dalla Grecia la concezione di suicidio venne tramandata ai romani; il suicidio entra nel diritto romano e viene represso . Era distinto però nelle sue varie cause: non sopportabilità del dolore da malattia, da lutto, da pazzia e ad ognuna di queste vi erano corrispondenti pene (ignomia, pena capitale). Nel diritto intermedio, al criterio incriminatore del danno per lo Stato, derivante dalla morte di un suddito, venne ad aggiungersi il criterio del peccato verso Dio. Nei secoli successivi i giuristi seguirono le tracce del diritto romano, distinguendo tra le varie cause del suicidio, ma la legislazione non teneva conto di tali distinzioni e puniva il suicidio, qualunque ne fosse il motivo, con la sospensione del cadavere alla forca e con la privazione della sepoltura ecclesiastica. La Bibbia nel Vecchio Testamento, non commina condanna al suicidio: ben quattro suicidi, infatti, vengono riportati (Saul, Sansone, Abmeloch e Achitofel); il Nuovo Testamento, invece, riporta il suicidio di Giuda Escariota. Solo dopo il quarto secolo d.c. la chiesa condannerà il suicidio. S.Agostino e altri vescovi cristiani stigmatizzano il suicidio come 67
PORTIGLIATTI BARBOS, Il suicidio e il tentato suicidio nelle loro radici psicologiche, psicosomatiche e sociali; in Manuale Medico a cura di CHIODI; Milano, 1976, 116. 68 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa totius theologiae, III; XLVIII, art.6,3 e AGOSTINO, De civitate dei] 1, 20.
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crimine in se in quanto contrario al divieto di non uccidere, anzi chi si uccide è un duplice assassino, in quanto uccisore di se stesso e negatore del dono di Dio, vale a dire la vita. Il suicidio viene escluso dal novero dei delitti ad opera di Leopoldo di Toscana nel 1786. Il Beccaria e il Filangieri69 ne giustificano l’esclusione in base alla ragione, utilitaristica, della pratica impossibilità di una efficace repressione. All’interno del nostro diritto penale il suicidio o il tentato suicidio sono esenti da pena, pertanto, se taluno perde la voglia di vivere e decide di porre fine alla propria esistenza, tenta di uccidersi ma non vi riesce e si procura lesioni gravi, lo Stato non lo punisce; lo Stato non tutela la sua vita oltre e contro la sua volontà. Consideriamo ora la definizione della parola suicidio. Nella lingua greca non esiste una vera e propria definizione di suicidio, nella lingua latina vengono adoperati vari termini e circonlocuzioni: suicidarsi = “sibi mortem consiscere”, oppure “se interimere” od ancora se “ipsum vita privare” (Cicerone); nel Medioevo si faceva riferimento all’omicidio di “sui homicida”. scrivendo uno degli articoli per la grande Enciclopedie, nel 1737 l’abate Desfontaines, uso il termine “suicide” come significato di uccisore di se. II termine piacque ed entro nell’uso corrente. La definizione dell’Abate delimita bene l’accadere degli eventi suicidari in rapporto alla persona, eliminandone ogni riferimento ambiguo relativo sia all’omicidio che alla eventuale accidentalità della morte.
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BECCARIA: Dei delitti e delle pene a cura di G. Bonghi; Ed. HTML, Milano, 1996, cap. XXXII.
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L’IDENTITÀ GIURIDICA DELL’AIUTANTE AL SUICIDIO Lo specifico articolo 580 del nostro Codice penale punisce “chiunque determini altri al suicidio o rafforzi l’altrui proposito di suicidio ovvero ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione”. Si tratta chiaramente di un caso anomalo, in cui viene punita la compartecipazione ad un fatto, mentre l’autore del fatto stesso è esente da pena70. Storicamente non si tratta però di una novità, perché già nel codice del 1889 vi era l’art.370, assai simile, in quanto prevedeva il fatto di “chiunque determini altri al suicidio o gli presti aiuto”, e lo puniva, a condizione che il suicidio fosse avvenuto, con la reclusione da 3 a 9 anni. Lo specifico oggetto della tutela penale è l’interesse dello Stato relativo alla sicurezza della persona fisica e più in particolare al bene vita in quanto si intende salvaguardare la vita contro i fatti di partecipazione all’altrui suicidio. Per quanto riguarda il concetto di “offesa”, essa consiste sostanzialmente nella distruzione o messa in pericolo del bene; come già detto il suicidio non è reato e non costituisce neppure un fatto altrimenti vietato espressamente dal diritto71 72. Questo 70
Rel. Ministeriale sul progetto del codice penale, 111, 376-‐377: “l’art.580 c.p. prevede il delitto di partecipazione all’altrui suicidio, il quale costituisce titolo a se di reato, di cui e elemento caratteristico che l’uccisione sia materialmente eseguita dalla vittima. Il delitto di partecipazione al suicidio non rappresenta una forma di concorso, sebbene un titolo special e autonomo di reato, la materialita del quale si esaurisce con il compimento degli atti di agevolazione o istigazione, per quanto ne sia subordinata la punibilita a determinate condizioni”. 71 Rel. Ministeriale sul progetto del codice penale, 111, 375-‐376: “Il principio che l’individuo non possa liberamente disporre della propria vita, intesa in modo assoluto e rigoroso, indusse taluno ad affermare la possibile criminalita del suicidio e, in tempi remoti, trasse aberranti e spietate forme di persecuzione contro il cadavere o il patrimonio del suicida. Prevalenti considerazioni politiche, ispirate a ragioni di prevenzione, ossia alio scopo di contribuire alia conservazione del bene giuridico della vita, impedendo che di essa si faccia scempio con la piu meditata preordinazione di mezzi, hanno indotto le legislazioni piu recenti ad escludere il suicidio dal novero dei reati, limitando la punizione ai casi partecipazione all’altrui suicidio. 72 GABRIELLI, Il suicido nelle sue applicazioni fisio-‐psicologiche ed etico-‐giuridiche; Roma, 1960, 151.
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dipende non tanto dall’impossibilita di una efficace repressione , ma dal fatto che il diritto, il quale è relatio ad alteros, non si occupa delle azioni che escono dalla sfera intima dell’individuo. A livello specificatamente giuridico il suicidio rimane indifferente solo perché e finché non oltrepassi la sfera individuale di chi si uccide o tenta di uccidersi. La sua impunita dipende da questa assenza di relazioni ad alteros, e non già dal riconoscimento giuridico della libera disponibilità della vita. Mentre invece il suicidio cessa di essere penalmente irrilevante, quando, a cagionarlo concorra, insieme anche una forza estranea. In questo caso c’è l’intervento preventivo-‐ repressivo del diritto contro il terzo estraneo, dal quale esclusivamente proviene l’elemento che fa uscire il fatto individuale dalla sfera intima del soggetto73. 74 II delitto di partecipazione all’altrui suicidio costituisce un titolo di reato a se, ed è “partecipazione” soltanto in senso volgare, giacché dato che il suicidio di per se stesso non costituisce reato, il concorso del medesimo non può evidentemente costituire partecipazioni in senso giuridico (art. 10 c.p.) ne istigazione a delinquere (art. 15 e art.414 c.p.). Il reato si attua in tre azioni/livelli: 1) determinare altri al suicidio; 2) rafforzare l’altrui proposito di suicidio; 3) agevolare in qualsiasi modo l’esecuzione del suicidio; è un atto di partecipazione al suicidio altrui che, come in tutti i reati potrà essere psichico o fisico. Queste tre ipotesi contemplate dal legislatore sono previste alternativamente e sono penalmente equivalenti. 73
PUCA, Endogenesi e sociogenesi del suicidio, in Scuola positiva, 1961,60. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale; Milano, 1996, 67.
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Si tratta di partecipazione psichica quando l’agente fa sorgere nel soggetto il proposito che prima non esisteva “determini altri al suicidio”, oppure rende più deciso il proposito esistente “rafforzi l’altrui proposito di suicidio”. Allorché l’agente concorra nell’esecuzione del suicidio, la partecipazione fisica e materiale si attua col fornire, ad esempio, i mezzi necessari (arma o veleno) o in qualsiasi altro modo agevolando l’esecuzione medesima. Da ciò si evince che tra l’azione del colpevole e il risultato debba necessariamente esistere un nesso di causalità, poiché in difetto, non sarebbe possibile parlare di un concorso nel fatto altrui. Bisognerà perciò considerare l’azione del soggetto: se questa non ha avuto né influenza psichica né fisica sul fatto, egli, qualunque fosse il suo proposito non potrà essere chiamato a rispondere del reato. Vediamo in dettaglio i tre percorsi 1- Il concetto di determinazione è stato definito come attività diretta a formare l’altrui proponimento. Nel concetto di determinazione il nostro legislatore ricomprende anche il termine “istigazione”. Quindi determinazione può significare sia indurre qualcuno al proposito suicida che prima non esisteva, che aver semplicemente istigato chi nutriva tale proposito. Per determinare la persona al suicidio i mezzi sono totalmente indifferenti nel caso di persuasione; quando si tratta di mezzi di coazione o di inganno, essi sono tali da far escludere la volontà e la coscienza libera del soggetto passivo. Nel caso in cui il mezzo coattivo usato è la suggestione ipnotica ricorre il delitto di omicidio comune con le aggravanti stabilite dall’art.577 n.2 c.p. 2- La definizione di rafforzamento si riferisce ad una forma di incitamento verso una
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persona che comunque aveva già intenzione di uccidersi. Se vogliamo dare una definizione più dettagliata occorre analizzare la sentenza del tribunale di Milano del 1951 75 e dare uno sguardo alla relazione ministeriale sul progetto del Codice Ministeriale n.376. La prima definisce rafforzamento del proposito omicida la condotta dell’agente che riesce a dare al soggetto passivo la capacita di tradurre in atto il proposito di suicidarsi, già in lui insorto e noto. La seconda definisce il rafforzamento dell’altrui proponimento come qualsiasi attività diretta a rendere definitivo un proposito già formato. 3-
L’agevolazione consiste nell’utilizzo di vari mezzi quali, ad esempio, procacciare
il veleno, o fornire un’arma. Non necessariamente l’agevolazione richiama l’utilizzo di cose materiali ma può consistere anche in situazioni quali l’agevolare la persona impedendone o rendendone difficile il soccorso oppure dando spiegazioni sull’utilizzo di una certa arma o, nel caso specifico, dare spiegazioni sull’utilizzo di un determinato farmaco. In ogni caso deve essere noto all’agente il proposito di uccidersi del suicida per entrare nel caso dell’agevolazione, non avrebbe senso incriminare una persona solo per una semplice omissione, nessuno di noi ha il dovere giuridico di impedire che gli uomini si uccidano76 77. In questo scenario fa eccezione il caso in cui l’omittente abbia l’obbligo giuridico di
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TRIBUNALE DI MILANO, 19 gennaio 1951 (Giur. Ital.); 1951, II, 119. 75 76 Rel. Ministeriale sul progetto del codice penale, II, 376: Taiuto materiale non puo estrinsecarsi in altro modo, che col fomire mezzi necessari al suicida o comunque col facilitame materialmente Pesecuzione”. 77 PALOMBI, Istigazione al suicidio; in Enc. Dir., Vol. XXII; Milano, 1972, 1022.
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impedire l’evento, ai sensi del Part. 40 c.p..78 II caso venne posto dai genitori di una giovane donna statunitense, Karen Quinlan, che, un anno prima, per cause non chiarite, aveva subito gravi danni al cervello e giaceva in un persistente stato vegetativo cronico, a causa del quale la donna non possedeva più alcuna funzione cognitiva. Dopo un certo periodo di tempo i genitori della donna si rivolsero al Tribunale e alla Suprema Corte di Morristown, affinché potessero avere l’autorizzazione ad interrompere questi mezzi straordinari di sopravvivenza. La Suprema Corte di Morristown (N.J., United States of America) ritenne che, in questo caso, l’interesse individuato alla rimozione del respiratore fosse superiore all’interesse dello Stato alla conservazione della vita in condizioni puramente vegetative, senza alcuna ragionevole probabilità di miglioramento futuro, ed affermò, attraverso una interpretazione evolutiva del diritto alla privacy, il “Right to die” nella manifestazione relativa al rifiuto delle terapie. La sospensione di un mezzo considerato straordinario, qual è il respiratore, venne autorizzata ma venne negata la interruzione dell’alimentazione artificiale, considerata mezzo ordinario per potere sopravvivere. La sentenza segna, quindi, un passo in avanti notevole in tema del diritto a morire, perché toglie al medico qualsiasi responsabilità penale nel staccare il respiratore, di fronte all’esercizio del diritto dispositivo del paziente. Poiché si trattava di un paziente non in grado di esprimere un consenso, la Corte dovette procedere anche ad una ricostruzione ipotetica e presunta della volontà, 78
Rel. Ministeriale sul progetto del codice penale, II, 376: “fra le forme
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arrivando alla conclusione che l’avente diritto, ove richiesto avrebbe consentito all’interruzione di cure. Com’è importante notare, si è quindi giunti al riconoscimento del diritto a rifiutare i trattamenti anche quando si tratti di pazienti incapaci, pur in presenza di una prova certa acquisita anteriormente al sopraggiungere dello stato di incapacità. Ciò si e potuto realizzare in via giudiziaria, attraverso il riconoscimento di una legittimazione decisoria o sostitutiva di un familiare che si sostituisce al malato. In Gran Bretagna il dibattito sull’eutanasia fa la sua comparsa agli inizi del 1900. La stessa Corte Suprema inglese ebbe in seguito occasione di intervenire direttamente sul tema del “Right to die”, con il caso di Tony Bland. Nello specifico caso si trattava di interrompere l’alimentazione artificiale e la terapia antibiotica di un giovane diciottenne in stato vegetativo permanente, a seguito di un incidente occorso mentre assisteva ad una partita di calcio del suo amato Liverpool (incidente che causò la morte di oltre 90 persone). La House of Lords decise nel 1993 escludendo la responsabilità del medico. Il criterio adottato non fu come per quello statunitense della ricostruzione ipotetica della volontà, ma della valutazione medica nel merito circa lo stato vegetativo permanente e le possibilità di trattamento terapeutico. Risulta essenziale evidenziare che, l’agevolazione può essere prestata prima o durante il suicidio perché rimanga sul piano del mero aiuto, in caso contrario, supponendo che l’agente cooperi negli atti esecutivi del fatto (es.: aiuti a tirare la corda dell’impiccato), non sarà imputabile ai sensi dell’art.580 c.p. ma ci si dovrà riferire a un altro articolo e precisamente all’art.579 c.p.
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Bisogna sempre tenere presente che, secondo la legge, il suicida è il soggetto passivo del reato, egli non commette alcun reato ma manifesta solo all’esterno la sua volontà di uccidersi, deve avere la capacità di intendere e volere 79 e deve almeno avere quattordici anni affinché si possa configurare il reato in questione, altrimenti dovremo, ancora una volta, riferirci all’omicidio comune, non potendosi attribuire alcuna efficacia giuridica alla volontà di chi non è capace di intendere e di volere, come espressamente dispone il capoverso dell’art.580 c.p.80 Il delitto previsto e consumato nel momento e nel luogo in cui si è verificata la condizione di punibilità, cioè quando e dove è avvenuta la morte del suicida ovvero sono derivate dal suicidio lesioni gravi o gravissime81. In ambedue i casi il reato è consumato: 1) sia che il suicidio avvenga; 2) sia che esso sia solo stato tentato lasciando lesioni gravi o gravissime. II tentativo di istigare il suicidio non è punibile, dato che non è punibile nemmeno il più grave fatto della avvenuta istigazione o agevolazione seguita da suicidio mancato, e senza lesione gravi e gravissime. Perché questo si verifichi è necessario il dolo, si tratta infatti di delitto a dolo generico misto a dolo specifico, entrambe le partecipazioni sono presenti. Il dolo generico consiste nella volontà cosciente e libera e nell’intenzione di compiere il delitto; il dolo 79
Rel. Ministeriale sul progetto del codice penale, II, 378: “appare manifesto che l’atto materiale del suicidio, compiuto da persone inconsapevole, rappresenta il mezzo con cui il terzo ne ha volontariamente cagionata la morte”. 80 Rel. Ministeriale sul progetto del codice penale, II, 377: “non vi e dubbio che il titolo speciale di partecipazione all’altrui suicidio trovi applicazione solo allorquando la persona istigata o agevolata si sia volontariamente e consapevolmente data la morte, owero agendo a tale scopo, si sia procurata una lezione grave o gravissima, che se invece per l’eta o le condizioni psichiche owero per effetto di coazione o di altrui attivita ffaudolenta, debba ritenersi che la morte o la lesione furono inconsciamente o forzatamente cagionate a se stesso si avrebbe un vero e proprio delitto di omicidio, consumato o tentato, ad opera di colui che abbia imposto alia vittima di ucciderlo”. 81 VANNINI, Il delitto di omicidio\ Milano, 1946, 129.
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specifico è dato dal fine dell’agente ossia: che il soggetto passivo si uccida82. I motivi o il movente del fatto sono indifferenti (quali odio, vendetta, desiderio di liberarsi della persona), che potranno essere valutati dal giudice ai sensi degli articoli 61 n.l c.p., 62 bis e 103 c.p.
IL REGIME SANZIONATORIO Secondo l’’art.580 c.p. l’aiuto al suicidio è punito in caso di morte avvenuta con la reclusione da 5 a 12 anni. Qualora al delitto si aggiunga il motivo di lucro (ad esempio una indennità da una assicurazione sulla vita) sarà il giudice ad avere la possibilità di aggiungere alla reclusione suddetta una cospicua multa. Si tratta di un delitto perseguibile d’ufficio affidato alla competenza della Corte d’Assise. E’ necessario a questo punto considerare in modo più organico aggravanti e attenuati, anche quelle speciali. Le aggravanti comuni stabilite dall’art.61 c.p. sono applicabili in quanto compatibili senza nessuna esclusione, mentre, per quanto riguarda le attenuanti generiche si potranno applicare quelle dell’art.62 bis e quelle dell’art.62 c.p. con una precisazione: sarà impossibile applicare le attenuanti di cui all’art.62 n.4-‐ 5-‐6. Consideriamo ora le circostanze speciali in relazione al delitto di partecipazione all’altrui suicidio: un’aggravante e un’attenuante. II delitto sarà infatti aggravato se la persona istigata o incitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate ai numeri 1 e 2 dell’art.579 c.p., ossia in caso che il soggetto 82
CASS. PEN., 25 febbraio 1948, (Giur. con nota di Marras, XXIX, 198: “e necessario anche il dolo specifico, cioe il fine che il soggetto poscia, si uccida”.
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passivo abbia tra i quattordici e i diciotto anni, ovvero infermo di mente, o per altra deficienza psichica dovuta a malattia, abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti; quando, però non è del tutto privo della capacità di intendere e di volere si dovranno prendere in considerazione le disposizioni relative all’omicidio comune. II delitto sarà attenuato quando il suicidio non avviene, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione grave o gravissima. Il nostro codice ha introdotto questa novità perché fino al 1889 si puniva esclusivamente in caso di suicidio verificato.83 Occorre altresì precisare che il delitto di partecipazione al suicidio non rappresenta una forma di concorso, bensì esaurisce un titolo speciale e autonomo di reato, la materialità del quale si esaurisce con il compimento di atti di istigazione o di agevolazione, per quanto ne sia subordinata la punibilità a determinate condizioni.
COLLEGAMENTI CON L’EUTANASIA. Come abbiamo già considerato in questo nostro studio, una modalità attraverso cui si può manifestare la pratica eutanasica riguarda il cosiddetto suicidio assistito, che richiama l’applicazione del delitto di istigazione o aiuto al suicidio, in pratica le situazioni in cui la morte sia riconducibile causalmente al paziente che si è giovato di un qualsiasi apporto materiale o psicologico del medico. E’ interessante prendere in considerazione questo argomento poiché negli ultimi anni sta interessando sempre più da vicino tanto il grande pubblico tanto le categorie coinvolte nella cura di malati 83
Rel. Ministeriale sul progetto del codice penale, II, 377: “la punibilita della partecipazione al suicidio, quando questo sia rimasto solo alio stato di tentativo, era stata fino ad oggi esclusa, per le condizioni politiche per cui non si era creduto di punire il tentativo di suicidio, e anche per le pretese ragioni di ordine giuridico che rilevavano un contrasto fra l’impunibilita del suicida e l’incriminabilita dell’istigatore o ausiliatore”.
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inguaribili. Dal punto di vista pratico il cosiddetto “ suicidio assistito” indica l’atto mediante il quale un malato si procura una rapida morte grazie all'assistenza di un medico: questi prescrive i farmaci necessari al suicidio (si tratta in genere di barbiturici o di altri forti sedativi o ipnotici) su esplicita richiesta del suo paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra in vena i farmaci al malato 84 . Nell’istigazione o aiuto al suicidio, come nella fattispecie di omicidio del consenziente, si evidenzia una chiara volontà autolesionista da parte della vittima, ma di quest’ultimo delitto la realizzazione di tale volontà è fatta dipendere esclusivamente dall’apporto del terzo (disponibilità manus alius), mentre in quella dell’istigazione o aiuto al suicidio la morte deve essere riconducibile causalmente allo stesso oggetto passivo che assume il ruolo di autore principale (disponibilità manus propria), al quale il terzo fornisce un contributo marginale secondario. Soprattutto in campo oncologico l’argomento trova sempre più spesso spazio nelle riviste specializzate e nei congressi medici. A questi interventi occorre poi aggiungere quelli riguardanti altre malattie croniche, specialmente patologie neurologiche con il morbo di Alzheimer e le gravi lesioni permanenti al sistema nervoso. I malati di cancro sono le persone dalle quali più spesso può venire la richiesta di assistenza al suicidio. I malati oncologici vivono con la loro malattia per diversi anni, sottoponendosi a questi trattamenti che causano a loro volta disturbi quali debolezza, vomito e dispnea. Questi 84
CASS. PEN., 6 febbraio 1998, in Giur. Pen., 1998, 449:” in entrambe le fattispecie si punisce un nucleo comune, costituito dal cagionare la morte della vittima, ma diversamente caratterizzato per il pregressivo grado di efficienza causale di ciascuna condotta”.
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dolori sono tali che il paziente considera il suo stato intollerabile e richiede l’aiuto del medico per accelerare la sua morte. L’ampio e intenso dibattito che si è alimentato anche negli ultimi anni sul tema del termine della vita permette numerose riflessioni anche a livello giuridico. Appare chiaro che si vada intensificando la percezione che le tecnologie mediche, sempre più complicate e costose, siano in grado di allungare la vita, ma non necessariamente, di migliorarne la qualità. La discussione porta molto spesso in primo piano il ruolo del medico nel porre termine anticipatamente alla vita. Nel nostro paese però l’aiuto del medico e, allo stesso modo, il facilitare il suicidio vengono ancora puniti. Anche e nonostante il malato cosciente sia in fase terminale e ne abbia fatto libera, esplicita e ripetuta richiesta. Nemmeno il codice di deontologia medica è di diverso avviso: infatti all’art.36 dispone nel seguente modo: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare ne favorire trattamenti diretti a provocarne la morte”. La Chiesa Cattolica si è sempre schierata contro il suicidio assistito,85 per essa: “il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l’omicidio perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia dei doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui fa parte e verso la società nel suo insieme. Condividere l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarlo mediante il cosiddetto suicidio assistito significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un’ingiustizia che non può mai essere giustificata neppure quando fosse richiesta”. Il risultato è che in Italia attualmente la morte appare sempre più legata 85
Enciclica Evangelium vitae, Sul valore e l’inviolabilità della vita umana di Giovanni Paolo II; 1995, 65
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all’ospedalizzazione dei malati terminali: la morte costituisce una questione tecnica delegata ai medici e agli infermieri che hanno sempre l'obbligo di curare, ma che sempre più spesso hanno le possibilità tecniche per “favorire” il fine vita, anche con scelte che non necessariamente si configurano come aiuto vero e proprio. Semmai come assenza del cosiddetto “accanimento al tenere in vita” aprendo di fatto nuovi scenari di cui il legislatore non può bon tenere conto.
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IL FINE VITA COME DIRITTO
PRINCIPI GIURIDICI Il tema dell’eutanasia passiva consensuale richiede di far riferimento all’art.32 comma 2 della Costituzione, secondo cui “nessuno puo essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge”. La legge non può in nessun modo violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. In base a tale principio costituzionale, la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona, anche quando conduca alla morte; il consapevole rifiuto di cure integra perciò un diritto costituzionale. L’autodeterminazione è però riferibile solo a condotte omissive, quindi non a casi di autoaggressione o condotte attive di un terzo che si concretano invece in fattispecie di reato86. Questo significa che mentre il consenso del paziente rivolto ad una pratica eutanasica riconducibile a quelle di tipo attivo non annulla il carattere antigiuridico della condotta del medico, ma conduce solo alla configurazione di una forma attenuata di omicidio; il consenso del paziente relativo ad una attuale o futura astensione terapeutica esclude invece la responsabilità penale del medico che non si sia attivato in salvataggio del paziente ex art. 32 Cost. In questo scenario la malattia farà il suo corso e per l’ordinamento giuridico la morte sarà considerabile come naturale87. Tale condizione porta anche l’effetto secondo il quale, una volta acquisito che il paziente ha il diritto di non curarsi e quindi anche di 86
EUSEBI, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, inArc.Pen.; 1985, 525 MANNA, Trattamento medico-‐chirurgico, in Enc.Giur., vol. XLI; 1992,284
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morire come è suo desiderio, per il medico sorge il dovere di rispettarne la volontà, non sussistendo più, in particolari situazioni, l’obbligo giuridico di intervento ex articolo 40 c.p. È necessario però ricordare che esiste anche un orientamento più rigoroso che sostiene, interpretando diversamente l’art. 32 della Costituzione, l’impossibilità di rifiutare da parte del paziente le cure vitali, poiché tale rifiuto equivarrebbe ad una richiesta di morte non consentita dal diritto positivo, concludendo nel ritenere che la sospensione del trattamento costituisce un comportamento, seppur omissivo, penalmente rilevante. Se ne può dedurre che il dettato dell’art.32 secondo comma è limitato a quei trattamenti sanitari che non costituiscono un obbligo per il medico, in ottemperanza di doveri scaturenti da norme costituzionali di maggior “durezza” come l’art.3 o l’art.32 primo comma. Il paziente, infatti, non ha il diritto di morire ma soltanto il diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario. Nel caso il paziente voglia e chieda coscientemente l’interruzione della cura, nella consapevolezza della propria incurabilità e della impossibilità di trattamenti sanitari risolutori, il medico è esente da qualsiasi conseguenza sanzionatoria poiché ogni trattamento attuato in contrasto con tale facoltà di autodeterminazione di una persona correttamente informata e giuridicamente in grado di autodeterminarsi verrebbe ad integrare88 ipotesi di responsabilità penale, a meno che esista una norma che stabilisca l’accertamento e il trattamento sanitario obbligatorio 89 . Per capire 88
Cfr. JADECOLA, Il medico e la legge penale\ Padova, 1993, 127 e PANNAIN, voce omicidio, in Nss. Dig. It.; 1968, 894 89 Cff. DELL’ERBA-‐A.MANNA, Informazione e consenso del paziente, in commento al nuovo codice di
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ancora meglio le motivazioni giuridiche secondo cui il medico che omette l’intervento vada esente da responsabilità penale, occorre a questo punto distinguere due possibili soluzioni: 1- inguaribilità del paziente consenziente 2- possibilità totale o parziale di recupero 1- nel primo caso, il medico ha di fronte un malato che si trova in condizioni disperate e irrecuperabili che chiede di essere lasciato in pace nella consapevolezza che nulla è più possibile sul piano terapeutico. In casi come quelli ricordati difficilmente si può pensare ad una omissione rilevante per l’ordinamento giuridico qualora in futuro si verifichi l’evento morte. Un esempio eclatante è quello di un paziente affetto da tumore maligno al cervello, non più operabile. Il medico prende atto della situazione e della volontà contraria dell’interessato. In questo caso il fatto omissivo non potrà essere ricondotto all’art.40 c.p. secondo comma il quale richiede che l’agente sia sottoposto all’obbligo di intervento per evitare un dato evento e non quando l’evento stesso si verifica o si sia già verificato senza possibilità d’impedimento da parte dell’agente90. Se ne deduce che la condotta omissiva del sanitario non risulterà antigiuridica e, quindi, non sussisterà più l’obbligo, ex art.40 c.p. secondo comma di fronte alla volontà del paziente che vieta espressamente la somministrazione di trattamenti medici, ove deontologia medica; Milano, 1991, 168 e GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale. Termini di una relazioneproblematica, in Riv. It. Dir.; 1197, 90 90 FIORE, Cause di giustificazione e fatti colposi; Padova, 1996, 234 ’Tambito di operativita di questa disposizione puo essere utilmente circoscritta solo quando l’obbligo di agire ,che incombe al soggetto ,venga posto in una relazione significativa con le sue concrete possibility di intervenire per l’impedimento dell’evento”
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non ricorrano le condizioni di trattamento sanitario obbligatorio91. 2-
Venendo al secondo caso, il paziente rifiuta le cure pur nella consapevolezza
della recuperabilità della malattia: rientra nelle facoltà espresse implicitamente dai principi di cui agli art. 13 e 32, secondo comma della Cost., quindi mancanza di un obbligo a farsi curare. In questo caso l’omissione del medico si configura formalmente quale reato a tutti gli effetti, essendoci la possibilità di evitare un danno penalmente rilevante. II medico cagiona, quindi, lesioni all’integrità fisica o alla stessa vita del paziente anche se questi ha il desiderio di lasciarsi morire. Bisogna inoltre sottolineare che, nel caso ora indicato, c’è la presenza del rapporto causale o meglio del rapporto eziologico che lega l’omissione del sanitario e l’evento morte, quando si provi che l’osservanza del medico all’obbligo di cui all’art.40 c.p. avrebbe con certezza salvato la vita del paziente. Il rifiuto da parte del paziente informato e cosciente rende l’omissione del medico giustificata e quindi lecita; quel consenso viene a scriminare la propria condotta, avendo il medico il dovere di rispettare la volontà dell’interessato92. Possiamo concluderne che in fronte a un rifiuto perentorio, nessun potere giudiziario o amministrativo può imporre di intervenire contro la volontà del paziente: il medico deve desistere, fondandosi il suo dovere di cure, innanzitutto, sul consenso del paziente93. Il medico ha l’obbligo di sospendere le cure e l’eventuale persistenza dell’attività 91
RAMACCI, Liberia individuale e tutela alia salute, in Riv.It.Med.Leg.; 1983, 648 D’ALESSIO, I limiti costituzionali dei trattamenti sanitari, in Dir.Soc.; 1981, 550 93 MANTOVANI, La responsabilita’ del medico, in Riv.It.Med.Leg.; 1980,16 92
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medica se il malato esercita il suo diritto di non curarsi; nel caso il medico non accolga tale richiesta è condannabile per “accanimento terapeutico”. L’intero scenario ora tracciato porta a considerare che l’eutanasia passiva consensuale è lecita ed oggi comunemente ammessa; tuttavia, si deve puntualizzare che il diritto a lasciarsi morire non coincide, secondo la dottrina prevalente, con il diritto di morire, ma si tratta del più limitato diritto di non curarsi, garantito dalla Costituzione94. La liceità dell’eutanasia passiva consensuale trova dunque fondamento nel riconoscimento che: “essendo svolta nell’interesse del paziente, l’attività terapeutica può essere da questi rifiutata (voluntas aegroti suprema lex); la malattia farà il suo corso e per il diritto la morte sarà naturale”95. Non sempre però c’è una terapia da rifiutare, come osserva Neri96 e non sempre il rifiuto della terapia conduce a morte rapida e indolore. Condizione che è assunta come problema centrale per chi sostiene il diritto ad una morte dignitosa tramite eutanasia.
LA RESPONSABILITÀ DEL RIFIUTO DELLE CURE L’importanza dell’art.32 secondo comma della Costituzione, rende necessario analizzare i requisiti essenziali del consenso prestato dal paziente affinché possa iniziare o sospendere un determinato trattamento sanitario. Il consenso prestato deve possedere, in ambito giuridico, determinate caratteristiche: 1- consenso informato 2- valido 94
PERLINGERI, Il diritto alia salute quale diritto della personality, in Rass. Dir. Civ.; 1982, 1045 NERI, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignita delle persone; Bari, 1995,192 96 NERI, in op. cit, 197. 95
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3- attuale 4- personale il paziente dovrà essere consapevole della propria situazione personale, inoltre dovrà essere posto in condizione di valutare la situazione e il suo divenire presumibile in rapporto alla accettazione o al rifiuto del trattamento. È dovere del medico presentare al paziente il quadro clinico complessivo relativo allo stato fisico e morale. Affinchè il diritto alla autodeterminazione possa essere consapevolmente esercitato, è necessario che il paziente sia in grado di comprendere le proprie decisioni e di valutare se effettivamente desideri tali conseguenze97. La consapevolezza del consenso come requisito di liceità, costituisce una tematica acquisita in tempi relativamente recenti, in parallelo all’affermarsi di una nuova concezione che valorizza i diritti del paziente, e non soltanto i doveri del medico e che colloca medico e paziente su una posizione di sostanziale parità. Si tratta di una forte evoluzione culturale, in quanto conferisce alla autonomia individuale “un peso” nella direzione dell’esclusione della responsabilità di colui che l’ha assecondata e si è conformato ad essa98. 1- Vi è da precisare e ricordare che alcune condizioni possono escludere il consenso: la minore età, l’infermità di mente e lo stato di incoscienza. II consenso non dovrà essere inficiato da errore, violenza o minaccia. 2- Deve esistere al momento della interruzione o rifiuto di cure99 3- II consenso deve essere espresso direttamente dall’interessato e non da 97
NANNINI, Il consenso al trattamento medico’, Milano, 1989, 92 BONELLI-‐GIANNELLI, Consenso e attivita medico chirurgica, in Riv. It. Med. leg.; 1991, 13 99 PASSACANTANDO, Il difetto del consenso del paziente nel trattamento medico e i suoi riflessi sulla responsabilita penale del medico, in Riv. It. Med. Leg.; 1993,107 98
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rappresentanti o da parenti stretti. Nel caso il paziente non acconsenta ad un certo trattamento sanitario e un medico intraprenda una determinata cura senza il consenso del paziente, l’azione diverrà illecita quando non prevista da disposizione di legge. Il comportamento del sanitario, in presenza di esplicito dissenso del paziente è da ritenersi inaccettabile, sia sotto il profilo deontologico che sotto il profilo penale costituendo certamente coazione fisica violenta a subire qualcosa di espressamente rifiutato100. Per altro, anche la deontologia medica si esprime chiaramente a tale proposito: infatti, 1’art. 31 del codice di deontologia medica afferma che in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente. Gli unici casi in cui il sanitario potrebbe considerarsi legittimato ad intervenire contro la volontà del paziente, sono quelli sussumibili entro il cosiddetto stato di necessità; in questo caso opera la scriminante prevista dall’art.54 c.p., che sancisce la non punibilità di chi abbia commesso un fatto costrettovi dalla necessita di salvare altri dal pericolo attuale, non volontariamente causato ne altrimenti evitabile, di un danno grave alla persona. Vi è poi anche da sottolineare che esistono determinate condizioni oggettive per la scriminante in oggetto: 1- Evidente pericolo di un danno grave alla persona 100
Cfr. art.610 c.p.
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2- adeguatezza dell’atto posto in essere per scongiurare il pericolo 3- mancanza di alternative che nella fattispecie in oggetto significa la inesperibilità di trattamenti terapeutici alternativi o sostitutivi che pure non di rado sono proficuamente impiegabili. Sarà però il medico a dover dimostrare tutte queste circostanze, ma è chiaro che nella maggior parte delle ipotesi risulti molto complicato e parrebbe più opportuno che il medico si attenesse alla volontà del paziente, limitando l’intervento terapeutico coattivo solo al caso in cui il paziente, ab initio contrario al trattamento, venga a trovarsi in stato di incoscienza. Resta però da evidenziare che nei casi in cui il rifiuto debba considerarsi invalido, perché prestato da un minore o da altre circostanze, il medico deve porre in essere tutte le misure terapeutiche necessarie per salvaguardare la vita e la salute del paziente101.
ACCANIMENTO TERAPEUTICO: CRITERI DI VALUTAZIONE Come abbiamo visto nel considerare il diritto del malato di rifiutare cure, l’accanimento terapeutico si configura come un tentativo di ritardare più a lungo possibile la morte grazie ad un azione medica. Dal punto di vista giuridico è necessario cercare di stabilire dei criteri oggettivi in base ai quali si possa dire di essere in presenza di accanimento terapeutico. Infatti tale concetto non ha contorni concettuali precisi, ne di tipo clinici, ne di tipo di tipo etico e 101
DELL’OSSO, Il rifiuto della trasfusione di sangue da parte dei testimoni di geova :aspetti deontologici e medico-‐legali\ Zacchia, 1979, 237
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ancor meno giuridico. E’ necessario fare riferimento alle riflessioni della bioetica 102dalle quali se ne deduce che i criteri base possono essere individuati in: CRITERIO DELL’INUTILITÀ: quando si tratti di cura che risulti del tutto inefficace e inutile. II medico si trova davanti ad una situazione di irreversibilità, in genere definita dalla morte celebrale e risulta quindi inutile continuare le cure. CRITERIO DELLA GRAVOSITÀ: ossia della pena eccessiva cui sarebbe sottoposto il malato, il quale finirebbe col soffrire di più sia fisicamente che moralmente. CRITERIO DELLA ECCEZIONALITÀ: il medico interviene con mezzi che sono spropositati. Nel caso si verifichino insieme questi tre criteri, ci troveremo sicuramente di fronte all’accanimento terapeutico. Va inoltre sempre ricordato che il medico è tenuto non solo a ripristinare lo stato di salute ma anche ad alleviare il dolore. A tale scopo egli può e deve somministrare prodotti adeguati, come calmanti ed analgesici. Allo stato attuale della medicina quasi tutte le sofferenze possono essere adeguatamente mitigate. La deontologia medica, la morale e il diritto obbligano il medico a combattere il dolore e a prodigare cure ordinarie utili e proporzionate. Il medico non è tenuto a intraprendere o a prolungare una cura inutile o sproporzionata nel caso in cui beneficio ottenibile appaia molto fragile rispetto a disagi, alle costrizioni o al costo che i mezzi posti in atto implicherebbero per il paziente103. L’obiettivo di questo modus operandi tende ad evitare lo strumento dell’accanimento 102
COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, definizione e accertamento della morte dell’uomo; presidenza del consiglio dei ministri ,dipartimento per l’informazione ed editoria, 15 febbraio 1991 103 PERICO, Riflessioni in tema di suicidio ed eutanasia, in Riv.It.Dir.Proc.Pen.; 1995,687
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terapeutico che si verifica quindi quando vi è sproporzione tra la rilevanza dei mezzi usati e il carattere provvisorio e limitato del risultato medico previsto. Vengono stigmatizzati interventi discutibili su ammalati senza alcuna speranza di ripresa e spreco di farmaci costosi su moribondi104. Il fatto però che non vi sia una chiara definizione di accanimento terapeutico, determina una difficoltà ad assegnare ad esso una portata cosi chiara che permetta di individuare un confine netto tra lecito ed illecito. L’assenza di parametri comuni all’opinione pubblica inibisce la distinzione dall’attivismo terapeutico. Da ciò discende l’attribuzione al medico del ruolo di vero e proprio arbitro della situazione; solo il sanitario è l’unico responsabile di una decisione che può fondarsi sulla inutilità dell’intervento, sulla proporzionalità della cura o sulla onerosità dell’impiego di attrezzature mediche di rianimazione 105 . Risulta chiaro a questo punto che l’accanimento terapeutico si possa verificare solo nella fase terminale di una malattia, nel destino ormai infausto di una malattia. Si tratta di evitare che certe forme di terapia intensiva finiscano per impedire estrinsecazioni della dignità umana evitando al malato la relegazione ad un puro oggetto di una terapia vissuta nella solitudine e nella sofferenza 106 . II malato si trova in uno stato terminale della malattia; e per condizione terminale si intende l’incurabile stato patologico cagionato da malattia e dal quale, secondo le cognizioni della scienza medica,
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Cfr. FILIPPI, I profili penalistici della cosiddetta eutanasia, in Arch.Pen.; 1988, 90 e BARNI, DELL’OSSO e MARTINI, Aspetti legali e riflessi deontologici sul diritto a morire, in Riv.It.Med.Leg.; 1981, 53. “L’omissione del medico non e’ delittuosa allorche sussiste il rifiuto del paziente owero quando il dovere giuridico di curare trova il proprio limite logico e umano nella stessa inutilita della cura.” 105 SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio ed eutanasia, in Riv.It.Dir.proc.pen., 1995, 687 106 PETRJNI, L‘'assistenza al morente :orientamenti e prospettive, in Med. e morale; 1985, 380
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consegue la inevitabilità della morte107. La Dichiarazione aggiunge inoltre l’esclusione per i medici di qualsiasi trattamento straordinario da cui nessuno può sperare in qualche beneficio e specifica espressamente il divieto per i medici di accanimento terapeutico. Nell’imminenza di una morte inevitabile, nonostante tutti i mezzi usati, è lecito rinunciare a trattamenti che provocherebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in casi simili. II medico non ha perciò motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo. Ciò che si vuole proibire non è ogni intervento medico ,ma quelle terapie intensive che tolgono al malato ogni tranquillità, lo isolano da ogni contatto umano con i familiari e amici e che finiscono per impedirgli di prepararsi interiormente a morire in un clima e in un contesto umano; sono i cosiddetti “trattamenti medici straordinari”, mentre gli altri interventi medici debbono continuare. Per il morente in particolare ci si riferisce alle terapie antidolorifiche, cure ordinarie, mezzi di sopravvivenza che mirano ad assicurare ad un organismo vivente gli elementi essenziale per mantenersi in vita, tanto che il loro venir meno causerebbe la morte anche ad un soggetto affetto da malattia non mortale. Tali sono: l’idratazione e la nutrizione ma lo sono anche cure estremamente comuni come le trasfusioni di sangue, flebo ed iniezioni. Una legge che includesse la sospensione anche di queste cure non sarebbe più una lex che vieta l’accanimento terapeutico, bensì una vera e propria pretesa di legittimare l’eutanasia passiva non 107
Dichiarazione sulla fase terminale della malattia, adottata dall’associazione medica mondiale nella sua XXXV assemblea a Venezia, 1983
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consensuale. In pratica i medici orientarono la decisione sulla base del “Best interest” dell’interessato. Nella decisione ha giocato un enorme ruolo il documento del comitato etico “British Medical Association” del 1992 che prevede la possibilità di sospendere l’alimentazione quando il coma persiste oltre un anno. In Germania si concluse con la non opportunità di una modifica. Fra i casi di eutanasia che hanno più interessato l’opinione pubblica europea e che hanno portato ad alimentare il dibattito giuridico, spicca il cosiddetto caso della signora Hackethal, vicenda nella quale la giurisprudenza tedesca ha escluso la punibilità del medico per aver fornito un aiuto al suo paziente affinché dopo ben tre interventi, potesse morire. Il medico le aveva procurato una dose letale di veleno, che la signora bevve da sola. In assenza di una norma incriminatrice ad hoc dell’aiuto al suicidio, l’OLG di Monaco negò la punibilità del medico poiché il medico non si poteva considerare né autore diretto del reato né mediato di quella morte, poiché la donna ha agito da sola, nel pieno controllo delle sue azioni. Ancora più interessante interessante è il caso Kempten, in cui viene affermato indirettamente con sentenza l’ammissibilità dell’eutanasia passiva, qualora vengano alla luce dei presupposti stabiliti dall’ordine dei medici (Bundesartzcammer) quali: 1- processo patologico che conduce alla morte 2- stato terminale del paziente 3- manifestazione di una volontà espressa e chiara del paziente di rifiuto della terapia
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di mantenimento in vita. II caso riguardava un’anziana donna affetta da demenza organica presenile ricoverata alla casa di cura Kempten. Per un arresto cardiaco la donna subisce gravi e irreversibili danni celebrali: non è più in grado di inghiottire, non reagisce a stimoli visivi e acustici e viene alimentata solo artificialmente. II figlio, d’accordo con il medico, decide di interrompere la alimentazione artificiale, ricordandosi che la madre, tempo prima, gli aveva confidato di essere lasciata morire. II personale sanitario della casa di cura, nonostante la data a decorrere dalla quale si sarebbe dovuta interrompere la terapia fosse ancora lontana, interpella il Tribunale tutelare, il quale vieta l’interruzione dell’alimentazione artificiale; nel mentre la madre muore per edema polmonare. I giudici condannarono il medico e il figlio per omicidio tentato poiché insussistenti i presupposti giustificativi dell’eutanasia passiva dell’ordine dei medici, dal momento che la malattia della signora non era irreversibile, imminente e immediatamente legata all’interruzione delle terapie di prolungamento artificiale in vita. Furono, invece, assolti in appello poiché la morte della donna era giunta naturalmente e non vi era stata l’interruzione della terapia. Comunque, anche se questo caso si è concluso in maniera negativa, dalla sentenza si possono trarre delle osservazioni interessanti: 1- liceità dell’eutanasia passiva in presenza di determinate circostanze di fatto 2-
possibilità di ricorso al giudice tutelare affinché autorizzi giudizialmente la
somministrazione di terapie, ma anche nel caso inverso dell’interruzione di terapie
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salvavita. Questi esempi e molti altri succedutosi nel tempo hanno portato la Germania ad avviare un modello di soluzione giudiziaria, che prescinde da una riformulazione di fattispecie penali. Infatti nel 2012 la Corte suprema della Germania ha legalizzato pratiche di eutanasia. Ai malati gravi la cui la vita è sostenuta artificialmente, previo accordo personale, si può
staccare
la
spina
dai
macchinari
medicali
legalmente.
La decisione della Corte Suprema della Germania è stata preceduta dal processo dell’avvocato Wolfgang Putz che ha consigliato alla sua cliente di staccare dai sistemi medicali la madre. La settantasettenne Erika Kuellmer è stata in coma per otto anni dopo un ictus cerebrale. Inoltre precedentemente dichiarava spesso che non voleva vivere in quelle condizioni. Dopo due giorni di distacco dal sistema medicale è deceduta e la figlia e l’avvocato sono stati arrestati per accusa di omicidio e favoreggiamento di crimine. Tuttavia con la nuova norma tutti e due sono stati assolti. 2- Questi sviluppi hanno trovato concretizzazione anche in Spagna e in Olanda. Nel nuovo codice penale spagnolo del 1995 è stata inserita la fattispecie di partecipazione al suicidio e di omicidio del consenziente dove è prevista la circostanza che la vittima soffra di gravi malattie non sopportabili che l’avrebbero portata alla morte. Tale soluzione non è stata quella della liceità della eutanasia e quindi della sua non punibilità ma di un’attenuazione del trattamento sanzionatorio. Molto nota e da analizzare in specifico è invece l’esperienza olandese.
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L’ESPERIENZA OLANDESE L’opinione pubblica olandese ha sempre guardato con favore alla soluzione legale del problema del fine vita. Anche in ambienti medici, tanto che la stessa giurisprudenza si è mostrata clemente, ricorrendo alla clausola della forza maggiore prevista dall’art.40 c.p. olandese, nei casi in cui il medico si trovasse nella situazione di decidere tra dar seguito al dovere di alleviare insopportabili dolori al suo paziente e il dovere di preservagli la vita. Una prima apertura giurisprudenziale risale al 1973, quando la Corte regionale di Leevwarden sospese l’esecuzione della pena inflitta ad un medico che aveva somministrato alla propria madre, su richiesta di lei, una dose letale di morfina. Agli inizi degli anni novanta diverse leggi hanno recepito le indicazioni redatte dall’ordine dei medici e dai principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di suicidio assistito. La consapevolezza della diffusione della pratica dell’eutanasia porto ad una prima indagine sociologica, in accordo tra Governo olandese e ordine dei medici, nota come rapporto “RAMMELINK”, dal nome del presidente della commissione ministeriale che l’aveva promossa, volta a fornire dati attendibili circa i fatti di eutanasia attiva, di suicidio assistito e eutanasia involontaria. L’obiettivo di questa inchiesta era di documentare con quale frequenza venivano assunte nella pratica clinica, decisioni mediche atte ad abbreviare il decorso delle fasi finali della vita. I dati emersi dimostrano una certa diffusione della pratica eutanasica: l’eutanasia attiva consensuale con una percentuale dell’1,7-‐1,9 sul totale delle morti; il suicidio medicalmente assistito era responsabile del 0,2% dei decessi; mentre una percentuale
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relativamente elevate, intorno alio 0,7 delle morti, era attribuibile alla somministrazione di farmaci esplicitamente intesa ad interrompere la vita del paziente in assenza di una sua esplicita richiesta in tal senso. Lo specifico rapporto “VAN DER MAAS” del 1995 dava gli stessi risultati di percentuale. Nel 1994 le linee-‐guida formulate dalla associazione medica reale olandese “KNMG” sono state incorporate in un regolamento ministeriale, una sorta di Direttiva Generale Amministrativa, che vincolava il pubblico ministero nell’esercizio della azione penale, obbligandolo ad astenersi dal promuovere 1’azione quando ricorrevano i requisiti in essa descritti. Da parte sua l’associazione medica reale olandese individuò i criteri in base ai quali il medico avrebbe potuto invocare l’esimente prevista dall’atr.40 c.p. olandese. In particolare stabilì che: 1- doveva sussistere la libera volontà del paziente, consultato ed interpellate più volte 2- il medico doveva illustrare al paziente le sue condizioni dal punto di vista clinico 3- la richiesta non doveva essere espressione di una momentanea depressione 4- lo stato di sofferenza del paziente doveva essere persistente, insopportabile, senza speranza 5- non dovevano esserci alternative ad una pratica eutanasica 6- il decesso doveva essere prossimo o comunque le sofferenze insopportabili 7- la decisione del medico presupponeva una consultazione con un altro collega che aveva seguito il paziente, e poi con un collega esterno. Il medico, indicando nel formulario con esattezza le condizioni di fatto in cui ha
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operato e adempiendo l’obbligo di segnalazione al medico necroscopo comunale, poteva confidare nella sua impunità senza intaccare le norme penali poste a tutela della vita umana.
LA LEGGE N°137 DEL 10 APRILE 2001 (NL) Grazie a questa legge, approvata prima dalla Camera nel Novembre del 2000, e definitivamente dal Senato il 10 Aprile 2001, l’Olanda e il primo paese europeo in cui è possibile per un medico praticare l’eutanasia su un malato terminale o fornire assistenza ad un malato che decide di togliersi la vita. In ogni caso la legge sull’eutanasia e sul suicidio assistito vincola pero i medici ad una serie di prescrizioni. Per prima cosa deve essere praticata ogni possibile terapia senza ottenere risultati, in secondo luogo deve essere chiara e pressante la richiesta dell’assistito di porre fine alla sua vita. Inoltre se il paziente ha età superiore ai sedici anni ed è incapace di intendere e volere, ma in precedenza ha lasciato un testamento scritto nel quale chiede 1’ eutanasia, il medico potrà praticarla. Se il paziente ha tra i dodici e i sedici anni di età o tra i dodici e i diciotto anni e manifesta la volontà di porre fine alla sua vita, il medico dovrà consultare i genitori o i parenti che esercitano la patria potestà o il tutore legale108. 108
Art.2 legge 137 del 2001 :”Se il paziente che ha sedici anni o un’eta superiore non e capace di esprimere la sua volonta, ma prima di raggiungere questa condizione clinica aveva ragionevole capacita di intendere e di volere circa i suoi interessi ed ha fatto un testamento scritto che contiene la richiesta per 1’ eutanasia, il medico non puo non tenere conto di questo requisite. Se il minore paziente ha raggiunto un’eta tra i sedici e i diciotto anni e si puo ritenere che abbia una ragionevole consapevolezza dei suoi interessi, il medico puo accogliere la richiesta del paziente di porre fine alia sua vita, dopo che il genitore o i parenti che esercitano la patria potestas o il tutore sono stati
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In ogni caso il medico dovrà segnalare tutti i casi di morte non naturale al necroscopo comunale. Il necroscopo redigerà un proprio rapporto in cui certifica la morte non naturale del paziente e lo invierà all’ufficiale di Giustizia che dovrà emettere il permesso di inumazione. In seguito il medico dovrà informare, per iscritto, dell’accaduto l’apposita commissione regionale che entro sei settimane dovrà emettere un giudizio sul suo operato109. In Olanda le Commissioni regionali di controllo detengono un potere di veto maggiormente vincolante sulla decisione del pubblico ministero di promuovere azione penale. Nel caso la Commissione decida che l’estinzione della vita del paziente abbia soddisfatto i criteri di diligenza posti a carico del medico, il caso viene immediatamente archiviato, senza che il parere venga rimesso alla valutazione del P.M., salvo che questi riscontri irregolarità della procedura. In tal caso il P.M. mantiene la facoltà di aprire le indagini, ma dovrà consultare il ministro di Giustizia. Se invece la Commissione di controllo valuta negativamente l’operato del medico, non essendosi questi comportato secondo i parametri di diligenza, il rapporto viene inviato al P.M., il quale darà corso all’azione penale. Sarà poi compito del giudice valutare se coinvolti nel processo decisionale. Se il minore paziente ha un’eta tra i dodici e sedici anni e si puo ritenere che abbia una ragionevole consapevolezza dei suoi interessi, il medico puo accogliere la richiesta del paziente a condizione che sempre i genitori che esercitano la patria potestas o il tutore siano d’accordo con la decisione di porre fine alia vita o al suicidio assistito.” 109 Nel 1998 furono costituite cinque Commissioni regionali di controllo, composte da un medico, un giurista, e un esperto in etica, direttamente nominato dal ministro di Giustizia e dal ministro di Sanita. I membri effettivi e supplenti dovevano essere nominati dai ministri di Giustizia e della Sanita, restano in carica 6 anni: un componente della commissione avrebbe potuto essere allontanato qualora fossero intervenute circostanze che mettono in discussione l’imparzialita del suo giudizio.
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nel singolo caso sussistano gli estremi della forza maggiore, qualora ravvisi un conflitto di doveri tali da far prevalere il dovere deontologico di alleviare le sofferenze del paziente sul divieto di cagionare la morte. La situazione olandese è dunque abbastanza paradossale poiché la disciplina penale olandese punisce comunque l’omicidio comune, distinto in intenzionale (art.287 c.p.) e intenzionale premeditato (art.289 c.p.). Esiste, inoltre, il reato di omicidio del consenziente (art.293 c.p.) e la partecipazione al suicidio (art.294 c.p.). L’art.293 c.p. prevedeva che: “una persona che pratica l’eutanasia su un’altra persona su richiesta espressa e pressante di questa è condannabile ad un periodo di detenzione di non piu di dodici anni o ad una multa della quinta categoria”. Con la nuova legge questo articolo e stato emendato al secondo paragrafo tale per cui: “il reato come previsto nel primo paragrafo non sarà punibile se e stato commesso da un medico che ha soddisfatto le prescrizioni della cura dovuta, come previsto dall’art.2 della legge 137/2001 e di questo informa il perito autoptico municipale, come previsto dall’art.7 secondo paragrafo della legge sulla Sepoltura e cremazione110. Da sottolineare inoltre come l’art.294 sarà emendato come segue: “una persona che intenzionalmente incita un’altra a commettere suicidio, è condannabile ad un periodo di detenzione di non più di tre anni o a una multa di quarta categoria, ove il suicidio risulti. L’art.293 secondo paragrafo si applica mutatis mutandis.” 110
Per i requisiti della cura obbligatoria(o criteri di awedutezza), in riferimento all’art.293 c.p. del secondo paragrafo, si intende che il medico: 1. ha piena convinzione che la richiesta del paziente e volontaria e ben ponderata 2. ha piena convinzione che le sofferenze del paziente sono resistenti a terapie insuperabili. 3. ha informato il paziente sulla situazione clinica e circa le sue prospettive 4. il paziente ha la convinzione che non vi sia altra soluzione circa la propria situazione 5. ha consultato almeno un altro medico indipendente che ha visitato il paziente e ha dato la sua opinione scritta sui requisiti al trattamento 6. ha posto fine alia vita o ha assistito al suicidio con le dovute attenzioni.
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II sistema olandese ha affrontato quindi il tema secondo un approccio estremamente dogmatico, che prescinde dalle scelte sui principi, assumendo un modello regolamentativo che lascia intatte le norme poste a tutela della vita umana, ma che assicura la non punibilità qualora siano rispettati i criteri indicati dall’associazione medica olandese. La legge si limita ad indicare in modo neutrale il procedimento da seguire, affidando ad un soggetto (il medico curante, in prima istanza, che può decidere se accogliere o meno la richiesta, e la Commissione di controllo in seconda istanza) il compito di comporre gli interessi in gioco. Per concludere, è l’osservanza del procedimento che decide di fatto se la condotta del medico sia antigiuridica o meno.
RAPPORTO TRA MEDICO OLANDESE, PAZIENTE ED EUTANASIA L’organizzazione del sistema olandese di assistenza sanitaria e accessibile a tutti e garantisce l’assistenza terminale e palliativa senza limitazioni. L’assistenza palliativa non sempre però riesce prevenire che alcuni pazienti provino sofferenze insopportabili e che richiedano urgentemente al medico di porre fine alla loro vita. Il dolore, la deturpazione e il desiderio di una morte onorevole sono i motivi principali dei pazienti che richiedono l’eutanasia. In Olanda il medico che decide l’eutanasia per un paziente, deve essere necessariamente il medico curante; egli deve conoscere bene il paziente per poter giudicare se costui faccia richiesta di eutanasia in piena libertà, abbia ben ponderato la situazione e se patisca sofferenze insopportabili senza prospettive di miglioramento.
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In ogni caso non è facile giudicare obiettivamente se una richiesta di eutanasia sia ben ponderata e atta di propria libera volontà, quando il paziente ha una malattia psichica e le sofferenze non siano provocate primariamente da un’affezione fisica. Il medico in questo caso è tenuto a consultare non uno bensì due esperti indipendenti, di cui almeno uno deve essere psichiatra. Tramite questa legge, oltre alla dichiarazione di volontà orale, è riconosciuta anche quella scritta; entrambe le forme di dichiarazione possono essere riconosciute legittime in caso di richiesta di eutanasia. La presenza della dichiarazione di volontà, alla luce dei criteri di avvedutezza per l’interruzione della vita su richiesta non esime in nessun caso il medico dal dovere di esprimere le sue obiezioni. I medici possono negare la loro collaborazione a praticare l’eutanasia o l’assistenza al suicidio sia perché contrario ai criteri di avvedutezza stabiliti dalla legge, sia quando ciò sia in contrasto con i suoi principi e valori. Il punto di partenza della legge è che il medico non è obbligato a praticare l’eutanasia.
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CONCLUSIONI: In questo studio si è cercato di analizzare in maniera il più possibile acritica un aspetto fondamentale dei cosiddetti diritti civili, ovvero l’eventuale titolo a disporre autonomamente della propria vita. Tale analisi è stata svolta senza prendere come punto di partenza gli aspetti religiosi che la fine della vita ineluttabilmente porta con se, e si è cercato di limitarsi ad uno studio scientifico e giuridico del fenomeno. Abbiamo visto come molteplici siano le modalità prevedibili per dirimere ed ordinare la questione, da una mera estensione del concetto di consenso informato fino a comprendere le cosiddette direttive anticipate, ad una scriminante permanente nel caso in cui si operi l’eutanasia secondo certi criteri prescritti e codificati, fino alla vera e propria accettabilità dell’eutanasia in senso proprio. In Europa e nel Mondo esistono numerose diverse posizioni a riguardo, e il percorso per arrivare ad un riconoscimento di un eventuale diritto all’eutanasia comune in tutti gli stati è ancora tutto da impostare. In tale contesto, è facile immaginare che in uno stato come l’Italia, in cui, pur vigendo principi generali di laicità, la tradizione cattolica è ancora molto forte, sarà ben difficile arrivare a codificare una norma chiara per tutti, con buona pace delle pur numerosissime associazioni che da anni fanno di questa battaglia la loro propria missione.
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RINGRAZIAMENTI: A papà Felice, perché dal cielo possa vedere quanto i suoi insegnamenti ed il suo esempio siano stati formativi per me. A mamma Adriana, per il continuo ed incessante pungolo, stimolo e supporto. A mia moglie Francesca ed alla piccola Ludovica, per tutto il tempo che ho sottratto loro. A tutti i professori, gli assistenti e al personale amministrativo dell’università telematica e-‐Campus, che con il loro lavoro e la loro grande preparazione mi hanno permesso di raggiungere un così importante risultato. Al Ch.mo Prof. Avv. Alessandro Fermi, relatore della presente tesi, per il fattivo supporto riservatomi in ogni momento.
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