OVIDIO, METAMORFOSI
Il lavoro presentato nei 12 pannelli qui esposti è stato realizzato dagli studenti della classe II, sezione D Esabac, dell’a.s. 2017/18. In occasione dell’anniversario del bimillenario della morte di Ovidio (nato a Sulmona il 20 marzo del 43 a.C e morto il 17 d.C. a Tomi, in Romania), si è proposta alla classe la lettura integrale in traduzione delle Metamorfosi. La scelta dell’opera è stata accolta con favore dagli studenti, perché, come scrive Vittorio Sermonti, rivolgendosi ad un suo ipotetico giovane lettore, «le Metamorfosi di Ovidio sono proprio il poema dell’adolescenza come esperienza della labilità e vulnerabilità dell’identità, mentre il tuo corpo non fa che cambiare, che cambiare te stesso sotto i tuoi stessi occhi. E tu non sai più chi sei» (Introduzione a Le Metamorfosi di Ovidio, Rizzoli, Milano 2014, p. 12). Nelle Metamorfosi, come è noto, la storia del mondo è narrata dal punto di vista del cambiamento, filo conduttore che unisce tutti i miti raccontati. Il tema dominante del mutamento, che fa sì che «neppure l’aspetto di ciascuno rimane lo stesso» (nec species sua cuique manet, XV. 252), in un intenso continuum tra mondi diversi, e la questione della morte e della sopravvivenza, in un mondo in cui «nascere è cominciare a essere altro da quello che si era, e morire smettere di essere identico» (incipere esse aliud quam quod fuit ante, morique/desinere illud idem, XV, 256-257), non potevano che incuriosire e affascinare chi, per età, vive il cambiamento, accoglie su di sé il nuovo insieme al vecchio e con meraviglia si scopre in mutatae formae. Già al termine della lettura del primo libro, nella discussione in aula, il raffronto tra lingua latina e traduzione italiana di alcuni versi fece emergere la peculiarità della scrittura poetica ovidiana, la «natura spettacolare» di una lingua fortemente immaginifica, ma con sorpresa ne rivelò anche l’aspetto “scientifico”. Ovidio, quando narra la metamorfosi di un corpo umano in animale o in pianta o in costellazione o in minerale, lo fa con de-
scrizioni da “manuale di storia naturale”: di ogni nuovo essere indica le dimensioni, i volumi, i colori, la posizione, con uno stile e un lessico oggettivo, appunto “scientifico”. È per questo che le Metamorfosi, poema sulla natura e sull’uomo parte della natura, ben si presta ad una lettura che incrocia continuamente discipline umanistiche e discipline scientifiche. Di qui l’idea di ’completare’ alcuni miti di metamorfosi narrati da Ovidio con schede scientifiche riguardanti il nuovo essere naturale, ‘nato’ o ‘rinato’ da corpo umano. Attraverso l’attività di laboratorio, in aula e a casa, gli studenti hanno tradotto quei miti che più hanno sollecitato il loro interesse e curiosità. Perciò, accanto a miti più famosi, sono presenti anche storie meno celebri, come la metamorfosi di Callisto prima in orsa e poi in Orsa Maggiore (pannello 2), la storia dei contadini della Licia trasformati in rane (pannello 6) o la vicenda di Pico mutato in picchio (pannello 12). Il testo latino di riferimento è quello dell’edizione delle Metamorfosi in sei volumi della Fondazione Lorenzo Valla, che presuppone quello curato da Richard Tarrant per gli Oxford Classical Texts. Per quanto riguarda la traduzione, si è cercato di restare, tendenzialmente, entro i confini del periodo del verso, malgrado la prolissità della nostra lingua rispetto alla brevitas latina. Gli studenti hanno cercato di rendere una traduzione dei passi ovidiani efficace, dal punto di vista espressivo e comunicativo, ed esteticamente ‘bella’, operando scelte lessicali e linguistiche che rendessero un’armonia musicale d’insieme, sforzandosi di emulare la grazia e l’eleganza dell’esametro ovidiano. Le schede scientifiche sono state realizzate secondo le categorie tassonomiche degli organismi viventi. Ogni pianta e animale è descritto nella sua morfologia e nella sua distribuzione geografica. Delle piante sono classificati i fiori, le foglie e i frutti, degli animali il comportamento e tipo di riproduzione. Per le costellazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore sono illustrate le principali caratteristiche. I Docenti: Angela Todisco – Vittorio Pizzocri
GLI STUDENTI DELLA CLASSE II D ESABAC
Balestrieri Federica Benzoni Agnese Boni Martina Capasso Morgana Cavallo Matilde Ciotti Gaia Clarke Miranda Aika Corti Caterina Cova Michele Curato Chiara Daverio Arianna Devicienti Giulia Donnini Ginevra Dziri Imen Errakbi Mariam Ferrari Beatrice Frasson Francesco Gervasini Alberto Giussani Ilaria Gussoni Camilla Jacazzi Chiara Maria Marcolongo Margherita Spertini Margherita Tiziani Luca Tonussi Paolo Varotti Arianna Zen Gaia Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
APOLLO E DAFNE OVIDIO, METAMORFOSI, I. 525-567
LAURUS NOBILIS (ALLORO) Tassonomia
Francesco Albani, Apollo e Dafne,1660 ca., Paris, Musée du Louvre.
Genere: Laurus Famiglia: Lauraceae Ordine: Laurales Classe: Magnoliopsida Divisione: Magnoliophyta Regno: Piante
Morfologia Si presenta sotto forma di piccolo albero (da 10 a 20 m) o come un arbusto poco longevo. È un sempreverde e ha la chioma piramidale folta e densa. Ha il tronco eretto, liscio, spesso sinuoso e fortemente ramificato; la sua corteccia cambia da verde a nerastra e i suoi rami sono eretti e molto fitti.
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Plura locuturum timido Peneia cursu fugit cumque ipso verba imperfecta reliquit, tum quoque visa decens. Nudabant corpora venti, obviaque adversas vibrabant flamina vestes, et levis impulsos retro dabat aura capillos; auctaque forma fuga est. Sed enim non sustinet ultra perdere blanditias iuvenis deus, utque monebat ipse Amor, admisso sequitur vestigia passu. Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem, alter inhaesuro similis iam iamque tenere sperat et extento stringit vestigia rostro, alter in ambiguo est an sit comprensus et ipsis morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit; sic deus et virgo est, hic spe celer, illa timore. Qui tamen insequitur pennis adiutus Amoris ocior est requiemque negat tergoque fugacis imminet et crinem sparsum cervicibus adflat. Viribus absumptis expalluit illa citaeque victa labore fugae, spectans Peneidas undas, «Fer, pater» inquit, «opem, si flumina numen habetis; qua nimium placui, mutando perde figuram». Vix prece finita torpor gravis occupat artus; mollia cinguntur tenui praecordia libro; in frondem crines, in ramos bracchia crescunt; pes modo tam velox pigris radicibus haeret; ora cacumen habet; remanet nitor unus in illa. Hanc quoque Phoebus amat, positaque in stipite dextra sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus complexusque suis ramos, ut membra, lacertis oscula dat ligno; refugit tamen oscula lignum. Cui deus: «At quoniam coniunx mea non potes esse, arbor eris certe» dixit «mea; semper habebunt te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae. Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta Triumphum vox canet et visent longas Capitolia pompas; postibus Augustis eadem fidissima custos ante fores stabis mediamque tuebere quercum. Utque meum intonsis caput est iuvenale capillis, tu quoque perpetuos semper gere frondis honores». Finierat Paean; factis modo laurea ramis adnuit utque caput visa est agitasse cacumen.
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Da Apollo che le avrebbe parlato ancora, timorosa Dafne, la figlia del fiume Peneo, di corsa fugge via, abbandonandolo nel mezzo del discorso. Anche allora gli sembrò bellissima: i venti le denudavano il corpo, le vesti al loro soffio palpitavano, l’aria leggera mossi i capelli spingeva indietro. La bellezza è accresciuta dalla fuga. Ma il giovane dio non sopporta più di sprecare altre lusinghe e, poiché a muoverlo era Amore in persona, si mette ad incalzarla a passo veloce. Come quando in campo aperto un cane di Gallia avvista una lepre, e di corsa insegue lui la preda, lei la salvezza, e l’uno sembra afferrarla e si aspetta già di catturarla e con il muso proteso accorcia le distanze; l’altra non sa se è o non è stata presa, e si sottrae ai suoi morsi, e sfugge alle fauci che già la sfiorano; così corrono il dio e la fanciulla, veloce lui per speranza, lei per paura. E tuttavia lui la insegue; aiutato dalle ali d’Amore, è più veloce, non le dà tregua, la incalza mentre fugge, è già alle sue spalle e le ansima sui capelli al vento sul collo. Senza più forze, Dafne prese ad impallidire in volto, stremata dalla fatica della folle fuga. Rivolta alle onde del fiume Peneo, dice: «Aiutami, padre! Se voi fiumi avete potere divino, sfigura e trasforma questi miei lineamenti, per cui troppo sono piaciuta». Ha appena finito di pregare che un pesante torpore si impossessa delle sue membra, una sottile corteccia le avvolge il morbido seno, in foglie si levano mutandosi i capelli, in rami si allungano le braccia, i piedi, poco prima tanto veloci, in immobili radici si fissano, la chioma di un albero le avvolge il volto: lo splendore solo resta in lei. Anche così Febo l’ama, e, poggiata sul tronco la mano destra, sente sotto la verde corteccia ancora il cuore battere e i rami, come membra, abbracciando con le sue braccia, bacia il legno, ma il legno i baci respinge. Le disse allora il dio: «Ebbene, visto che non puoi più essermi sposa, sarai almeno il mio albero. Sempre intrecciato in ghirlande avranno te, o alloro, i mei capelli, la mia cetra, la mia faretra. Sarai vicino ai condottieri latini, quando lieta una voce intonerà il trionfo e il Campidoglio ammirerà le interminabili parate. E inoltre sulle porte di Augusto, fedelissima custode, appesa ai suoi battenti starai e proteggerai la corona di quercia nel mezzo. E come è sempre giovane il mio capo con i capelli mai recisi, porta il vanto anche tu di foglie sempreverdi!». Apollo Pean aveva finito. Con i rami da poco spuntati l’alloro annuì e sembrò agitasse la chioma, come se assentisse con il capo.
Fioritura La pianta è dioica, cioè porta fiori maschili e fiori femminili su piante separate. Presenta i fiori con organi non simmetrici di colore bianco-giallastro profumati.
Foglie Le foglie sono persistenti, coriacee, ellittico-lanceolate, con apice acuto, margine intero e ondulato. Presentano una colorazione verde scuro lucido sulla pagina superiore, verde più chiaro e opaco sulla pagina inferiore. Stropicciate, emanano un gradevole aroma.
Distribuzione geografica È presente in tutte le regioni d’Italia, dalla pianura alle zone collinari, ed è largamente coltivata, soprattutto per siepi e bordure. Allo stato spontaneo è specie piuttosto rara, circoscritta a nuclei boschivi residuali concentrati nelle zone centro-meridionali della penisola, soprattutto lungo il versante tirrenico. Boschetti di lauro si incontrano anche lungo l’area prealpina, in particolar modo attorno ai grandi laghi.
Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
URSA (ORSA)
CALLISTO OVIDIO, METAMORFOSI, II. 476-507
Ursa Maior - Orsa Maggiore
A sinistra, Baldassarre Peruzzi, Il mito di Callisto, 1510-11, Roma, Villa della Farnesina, Loggia di Galatea.
È una vasta costellazione boreale di oltre duecento astri, comunemente nota con il nome di “Grande Carro.” Nel corso dei secoli questa costellazione ha assunto nomi diversi: il termine “Orsa” deriva dalla civiltà greca, da quella romana il nome di “Carro”. La costellazione dell’Orsa Maggiore permette di individuare le “Circumpolari”, ovvero quelle costellazioni formate da stelle che restano visibili per tutto l’anno.
Ursa Minor - Orsa Minore
480 485 490 495 500 505
(Iuno) Dixit et adversa prensis a fronte capillis stravit humi pronam. Tendebat bracchia supplex: bracchia coeperunt nigris horrescere villis curvarique manus et aduncos crescere in ungues officioque pedum fungi laudataque quondam ora Iovi lato fieri deformia rictu. Neve preces animos et verba precantia flectant, posse loqui eripitur; vox iracunda minaxque plenaque terroris rauco de gutture fertur. Mens antiqua tamen facta quoque mansit in ursa, adsiduoque suos gemitu testata dolores qualescumque manus ad caelum et sidera tollit ingratumque Iovem, nequeat cum dicere, sentit. A quotiens, sola non ausa quiescere silva, ante domum quondamque suis erravit in agris! A quotiens per saxa canum latratibus acta est venatrixque metu venantum territa fugit! Saepe feris latuit visis, oblita quid esset, ursaque conspectos in montibus horruit ursos pertimuitque lupos, quamvis pater esset in illis. Ecce Lycaoniae proles ignara parentis, Arcas adest, ter quinque fere natalibus actis; dumque feras sequitur, dum saltus eligit aptos nexilibusque plagis silvas Erymanthidas ambit, incidit in matrem, quae restitit Arcade viso et cognoscenti similis fuit. Ille refugit immotosque oculos in se sine fine tenentem nescius extimuit propiusque accedere aventi vulnifico fuerat fixurus pectora telo; arcuit omnipotens pariterque ipsosque nefasque sustulit et pariter raptos per inania vento imposuit caelo vicinaque sidera fecit.
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Giunone così parlò e affrontò Callisto, la Bellissima: sulla fronte le afferrò i capelli e la scaraventò per terra, a faccia in giù. Lei tendeva le braccia implorante, ma le braccia cominciarono a indurirsi di neri peli, le mani a curvarsi e ad allungarsi in ricurvi unghioni, a mo’ di piedi, e il volto, un tempo lodato da Giove, cominciò a perdere la sua bellezza e la bocca si aprì in ampie fauci. E perché le sue preghiere e le sue parole supplichevoli non muovano i cuori, ogni possibilità di parlare le viene strappata: solo un verso rabbioso, minaccioso, spaventoso dalla sua rauca gola si leva. Eppure in lei, ormai orsa, rimase intatta la mente di un tempo, e testimoniando il suo dolore con incessanti lamenti, leva al cielo e alle stelle le mani, o quello che esse sono, e ingrato giudica Giove, pur non potendone parlare. Ah, quante volte, non osando riposare nelle selve solitarie, si aggirò davanti alla sua casa e nei campi un tempo suoi! Ah, quante volte tra le rocce fu braccata dai latrati dei cani e lei, cacciatrice, per paura dei cacciatori, atterrita fuggì! Spesso, avvistate delle bestie feroci, si nascose, dimentica di cosa fosse, e lei, orsa, al cospetto di orsi, ebbe paura sui monti e molto ebbe terrore dei lupi, per quanto anche suo padre fosse tra loro. Ma ecco che suo figlio, che non sa della madre generata da Licaone, Arcade, di quasi quindici anni, le appare. Mentre inseguiva gli animali selvatici, mentre sceglieva le gole propizie e imbrigliava le selve dell’Erimanto con reti dai molti nodi, si imbatté nella madre, che, alla vista di Arcade, si bloccò e fu come se lo riconoscesse. Ma lui sfuggì al suo sguardo e, davanti a lei che teneva fissi i suoi occhi su di lui incessantemente, non capendo, ebbe paura, e, poiché l’orsa cercava di andargli più vicino, stava già per trafiggerle il petto con la freccia assassina. Ma, si oppose l’onnipotente e levò via, ad un tempo, loro e il nefando delitto e, rapitili nel vuoto da una raffica di vento, nel cielo li collocò e li trasformò in stelle vicine.
Tra le “Circumpolari” vi è anche l’Orsa Minore, o “Carro Piccolo”, caratterizzata dalla Stella Polare. Proprio questa stella molto luminosa, visibile nell’emisfero boreale, è quella che ci permette di individuare il punto cardinale NORD. L’Orsa Minore riveste un ruolo di fondamentale importanza anche per l’individuazione del Polo Nord Celeste, motivo per cui dalle antiche civiltà era considerata il “buco” in cui l’asse della terra era infilato. La caratteristica definizione di “carro”, proprio sia dell’Orsa Maggiore che dell’Orsa Minore, è data dalla forma delineata dalle stelle più brillanti, e quindi maggiormente visibili: sette per la costellazione più grande, e sette per la più piccola.
Orsa Maggiore e Orsa minore nell’Uranographia di Johannes Hevelius (1690)
Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
NARCISSUS POETICUS
NARCISO OVIDIO, METAMORFOSI, III. 402-510
(NARCISO) Salvador Dalì, Metamorfosi di Narciso, 1937, Tate Gallery, London
405 410 415 437 440 455 460 475 491 500 505 510
[Narcissus] Sic hanc [Echon], sic alias undis aut monti bus ortas userat hic nymphas, sic coetus ante viriles. Inde manus aliquis despectus ad aethera tollens «Sic amet ipse licet, sic non potiatur amato» dixerat: adsensit precibus Rhamnusia iustis. Fons erat inlimis, nitidis argenteus undis, quem neque pastores neque pastae monte capellae contigerant aliudve pecus, quem nulla volucris nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus; gramen erat circa quod proximus umor alebat, silvaque sole locum passura tepescere nullo. Hic puer et studio venandi lassus et aestu procubuit faciemque loci fontemque secutus; dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit, dumque bibit, visae correptus imagine formae spem sine corpore amat, corpus putat esse, quod unda est. […] Non illum Cereris, non illum cura quietis abstrahere inde potest, sed opaca fusus in herba spectat inexpleto mendacem lumine formam perque oculos perit ipse suos; paulumque levatus ad circumstantes tendens sua bracchia silvas. […] «Quisquis es, huc exi! quid me, puer unice, fallis quove petitus abis? certe nec forma nec aetas est mea, quam fugias; et amarunt me quoque nymphae. Spem mihi nescioquam vultu promittis amico, cumque ego porrexi tibi bracchia, porrigis ultro; cum risi, adrides; lacrimas quoque saepe notavi me lacrimante tuas; nutu quoque signa remittis et, quantum motu formosi suspicor oris, verba refers aures non pervenientia nostras. Iste ego sum! sensi, nec me mea fallit imago. Uror amore mei, flammas moveoque feroque». […] Dixit et ad faciem rediit male sanus eandem et lacrimis turbavit aquas, obscuraque moto reddita forma lacu est. Quam cum vidisset abire, «Quo refugis? remane nec me, crudelis, amantem desere», clamavit; «liceat quod tangere non est, aspicere et misero praebere alimenta furori». […] Et neque iam color est mixto candore rubori nec vigor et vires et quae modo visa placebant nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo. […] Ultima vox solitam fuit haec spectantis in undam: «Heu frustra dilecte puer!» totidemque remisit verba locus, dictoque «vale» «vale» inquit et Echo. Ille caput viridi fessum submisit in herba; lumina mors clausit domini mirantia formam. (tum quoque se, postquam est inferna sede receptus, in Stygia spectabat aqua.) Planxere sorores Naides et sectos fratri posuere capillos, planxerunt Dryades; plangentibus adsonat Echo. Iamque rogum quassasque faces feretrumque parabant: nusquam corpus erat; croceum pro corpore florem inveniunt foliis medium cingentibus albis.
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Narciso si era preso gioco di lei, Eco, così come delle altre ninfe, nate nell’acqua o sui monti, così come in passato delle unioni con i ragazzi. E fu così che qualcuno rifiutato, alzando le mani al cielo, aveva detto: «Possa amare anche lui così e non conquistare chi ama!». Nemesi, la dea di Ramnunte, acconsentì alla legittima preghiera. C’era una fonte limpida, dalle acque lucenti d’argento, che né i pastori né le caprette al pascolo sui monti o altro bestiame avevano mai sfiorata, né uccello né bestia né ramo caduto da albero avevano mai intorbidita. Tutt’intorno erano l’erba, che l’acqua vicina nutriva, e un bosco, che non lascia che raggio di sole diffonda calore. Qui il ragazzo, spossato e dall’impegno della caccia e dal caldo, si distese, attratto e dalla bellezza del luogo e dalla fonte. Ma, mentre cercava di placare la sete, un’altra sete gli crebbe dentro. E, mentre beve, rapito da un’immagine bellissima che vede riflessa, s’innamora di una speranza senza corpo: pensa sia corpo ciò che è soltanto acqua. […] Non il desiderio di cibo, non la voglia di sonno possono più distoglierlo di lì, ma, riverso all’ombra sull’erba, contempla con sguardo mai sazio l’ingannevole figura e attraverso i propri occhi si strugge; poi, sollevatosi un po’, tendendo le braccia verso i boschi tutt’intorno, dice: «[…] Chiunque tu sia, esci di lì! Perché mi illudi, ragazzo senza eguali, o dove te ne vai, quando ti voglio? Non è certo il mio aspetto, né la mia età che tu fuggi; persino le ninfe mi amarono! Non so quale speranza con volto amorevole mi prometti, e, quando ti tendo le braccia, anche tu a tua volta le tendi; quando sorrido, sorridi pure tu; spesso anche le lacrime ti ho visto, mentre piangevo; anche ad un mio cenno rispondi con cenni e, per quanto deduco dai movimenti della tua bella bocca, mi rivolgi parole che però non giungono alle mie orecchie. Ma, allora questo sono io! Ho capito, non mi inganna più la mia immagine! Ardo d’amore per me stesso, accendo e prendo fuoco». […] Così disse e folle a quel volto riflesso di prima ritorna e con le lacrime intorbidò le acque, la pozza si increspò e confusa restituì l’immagine riflessa. E, quando la vide svanire, «Dove fuggi? Resta, non abbandonarmi, crudele! Ti amo», si mise ad urlare, «Se non posso toccarti, possa almeno guardarti e nutrire questa mia triste follia d’amore». […] E ormai il colorito non è più candido e rosso, né restano il vigore e le forze e quella grazia che a prima vista piacevano, né c’è più il corpo, che un tempo aveva amato Eco. […] Le ultime parole del ragazzo, che continuava a specchiarsi nell’acqua, furono queste: «Ah, ragazzo amato invano!», e nello stesso tempo gliele restituì uguali la valle. «Addio!» poi disse, e «Addio!» echeggiò Eco. Sfinito, lasciò cadere il capo sulla verde erba. La morte gli chiuse gli occhi, ancora fissi sulla bella figura del suo amato signore (e, anche una volta accolto dagli Inferi, continuava a specchiarsi nelle acque dello Stige). Piansero le sue sorelle Naiadi e deposero sul fratello i capelli recisi! Piansero le Driadi! e a loro rimanda i pianti Eco. E già il rogo preparavano e il feretro, le fiaccole scuotevano, ma il corpo non c’era più. Al suo posto, un fiore trovano giallo oro al centro e con bianchi petali intorno.
Tassonomia Specie: Narcissus poeticus Genere: Narcissus Famiglia: Amarillydaceae Ordine: Asparagales Classe: Monocotiledoni Divisione: Angiosperme Regno: Plantae
Morfologia Il Narcissus poeticus è una pianta erbacea perenne, provvista di un bulbo piriforme di colore marrone; le radici si generano alla base del bulbo.
Fioritura I fiori di 4 – 6 cm, ermafroditi, attinomorfi e molto profumati, si sviluppano da un bocciolo appuntito di circa 3 centimetri; sono costituiti da 6 tepali bianchi di forma ovato – lanceolata con una corona centrale gialla bordata di rosso, contenente 6 stami e un ovario munito di un grosso stilo. Fiorisce in aprile – maggio, fino a giugno.
Foglie Le foglie nastriformi, da 3 a 5, sono lunghe circa 20 cm, di colore verde e di consistenza carnosa.
Distribuzione geografica È una pianta originaria dell’Europa centrale e meridionale (Penisola Iberica, Alpi, ei Balcani). In Italia è presente in tutte le regioni, tranne la Sicilia e la Sardegna. E’ particolarmente diffusa, in consistenti colonie, nei prati e nei pascoli montani.
Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
MORUS ALBA (GELSO BIANCO)
PIRAMO E TISBE OVIDIO, METAMORFOSI,IV. 55-163 60 65 70 83 93 95 100 105 115 120 125 147 158 160
«Pyramus et Thisbe, iuvenum pulcherrimus alter, altera, quas Oriens habuit, praelata puellis, contiguas tenuere domos, ubi dicitur altam coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem. Notitiam primosque gradus vicinia fecit; tempore crevit amor. Taedae quoque iure coissent, sed vetuere patres; quod non potuere vetare, ex aequo captis ardebant mentibus ambo. […] Fissus erat tenui rima, quam duxerat olim cum fieret, paries domui communis utrique. Id vitium nulli per saecula longa notatum (quid non sentit amor?) primi vidistis amantes et voci fecistis iter, tutaeque per illud murmure blanditiae minimo transire solebant. Saepe, ubi constiterant hinc Thisbe, Pyramus illinc, inque vices fuerat captatus anhelitus oris, «Invide» dicebant «paries, quid amantibus obstas?». […] Tum murmure parvo multa prius questi statuunt ut nocte silenti fallere custodes foribusque excedere temptent. […] Callida per tenebras versato cardine Thisbe egreditur fallitque suos adopertaque vultum pervenit ad tumulum dictaque sub arbore sedit; audacem faciebat amor. Venit ecce recenti caede leaena boum spumantes oblita rictus depositura sitim vicini fontis in unda; quam procul ad lunae radios Babylonia Thisbe vidit et obscurum timido pede fugit in antrum, dumque fugit, tergo velamina lapsa reliquit. Ut lea saeva sitim multa compescuit unda, dum redit in silvas, inventos forte sine ipsa ore cruentato tenues laniavit amictus. Serius egressus vestigia vidit in alto pulvere certa ferae totoque expalluit ore Pyramus; ut vero vestem quoque sanguine tinctam repperit, «Una duos» inquit «nox perdet amantes». […] Velamina Thisbes tollit et ad pactae secum fert arboris umbram, utque dedit notae lacrimas, dedit oscula vesti, «Accipe nunc» inquit «nostri quoque sanguinis haustus». Quoque erat accinctus, demisit in ilia ferrum. Nec mora, ferventi moriens e vulnere traxit et iacuit resupinus humo: cruor emicat alte, non aliter quam cum vitiato fistula plumbo scinditur et tenues stridente foramine longe eiaculatur aquas atque ictibus aera rumpit. Arborei fetus aspergine caedis in atram vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix purpureo tinguit pendentia mora colore. Ecce metu nondum posito, ne fallat amantem, illa redit iuvenemque oculis animoque requirit. […] Quae postquam vestemque suam cognovit et ense vidit ebur vacuum, «Tua te manus» inquit «amorque perdidit, infelix. […] At tu, quae ramis arbor miserabile corpus nunc tegis unius, mox es tectura duorum, signa tene caedis pullosque et luctibus aptos semper habe fetus, gemini monimenta cruoris». Dixit et aptato pectus mucrone sub imum incubuit ferro, quod adhuc a caede tepebat.
60 65 70 83 93 95 100 105 115 120 125 147 158 160
Piramo e Tisbe, lui il più bello dei giovani, lei, la più ammirata delle ragazze che vivono in Oriente, abitavano in case contigue, dove si dice con alte mura di terracotta Semiramide cinse la città. La vicinanza li fece conoscere e muovere i primi passi, col tempo crebbe l’amore. Le nozze anche li avrebbero per legge uniti, ma i genitori lo vietarono. Non poterono però impedire che, perduta la ragione, ardessero d’amore l’un l’altro. […] Diviso da una leggera crepa, che si era formata un tempo, quando era in costruzione, era il muro comune alle due case. Di questo difetto per secoli e secoli nessuno si era accorto, per primi (cosa l’amore non scopre?) lo vedeste, voi, innamorati, e ne faceste un passaggio per la vostra voce: sicure, di lì, dolci parole d’amore, in un sussurro, solevano passare. Spesso, quando di qua Tisbe, Piramo di là J W. Waterhouse, coglievano i sospiri ora sulla bocca dell’uno, ora sulla bocca dell’altra, Thisbe also known as The Listener 1909. «Malevolo muro,» dicevano «perché ti opponi a due innamorati?». […] E allora, in un breve bisbiglio, prima piangono molto, poi decidono nel silenzio della notte di eludere le guardie e di provare ad uscire dalla porta. […] Furtiva, nel buio, aperta la porta, Tisbe esce, di nascosto ai suoi, e, copertasi il volto, giunge al sepolcro e, come d’accordo, sotto l’albero si siede. Audace la rendeva amore. Ma, ecco, giunge una leonessa, con le fauci schiumanti di sangue di buoi appena uccisi, che vuole placare la sete nell’acqua della sorgente vicina. Da lontano, al chiar di luna, la babilonese, Tisbe, la vide e con le gambe che tremavano si rifugiò in una buia grotta; ma, mentre fuggiva, il velo le scivolò dalle spalle e cadde per terra. La feroce leonessa, sedata la sete con abbondante bevuta, mentre tornava nel bosco, per caso trovò il leggero velo senza la sua padrona e con le zanne sporche di sangue lo strappò. Piramo, uscito di casa un po’ più tardi, vide le inconfondibili orme di una belva, lasciate profonde nella polvere, e tutto impallidì in volto. Quando poi anche il velo macchiato di sangue trovò, «Un’unica notte» disse «due amanti perderà». […] Il velo di Tisbe raccoglie e lo porta con sé all’ombra dell’albero fissato per l’incontro. E al velo, che ben conosce, lacrime e baci rivolge e dice: «E adesso prendi anche un sorso del mio sangue!». E la spada che aveva al fianco affondò nel ventre. Senza indugio, in punto di morte, dalla ferita bruciante l’estrasse e s’accasciò per terra supino. In alto schizza il sangue, come quando un tubo di piombo usurato si crepa e dalla fessura, con un fischio, l’acqua leggera lontano zampilla e nell’aria a fiotti prorompe. I frutti dell’albero, per gli spruzzi di sangue, in nero volgono il loro colore e la radice, impregnata di sangue, di rosso porpora tinge le more appese ai rami. Ma, ecco, Tisbe, ancora piena di spavento, per non fare aspettare il suo amore, torna indietro e cerca il ragazzo con gli occhi e col cuore. […] E, dopo che riconobbe il suo velo e vide il fodero d’avorio senza spada, disse: «La tua mano e l’amore ti hanno ucciso, infelice Piramo! […] Ma tu, albero, che con i tuoi rami il povero corpo di uno solo ora ricopri, ma presto ne ricoprirai due, porta su di te i segni di questo scempio e che neri, color del lutto, tu abbia per sempre i frutti, a ricordo del doppio sangue versato». Così disse e, puntata sotto la parte bassa del petto la spada, si gettò sul ferro, che ancora era caldo di sangue.
Tassonomia Specie: Morus alba Genere: Morus Famiglia: Moraceae Ordine: Urticales Classe: Magnoliopsida Divisione: Magnoliophyta Regno: Plantae
Morfologia È un albero alto fino a 15 – 20 m, con una chioma ampia e arrotondata verso la sommità; specie molto longeva, in quanto può vivere fino a 150 anni. Il tronco presenta grossi rami irregolari e spesso è cariato all’interno; la corteccia è grigio – brunastra e solcata longitudinalmente.
Fioritura La specie è solitamente dioica, cioè i fiori maschili e femminili sono presenti in due piante diverse. La fioritura avviene da aprile a maggio. I fiori maschili (amenti) sono delle infiorescenze pendule, lunghe 2 – 4 cm, costituite da un breve peduncolo; i fiori femminili (amenti) sono delle infiorescenze lunghe circa 1 cm; i fiori sono globosi, di colore verde.
Foglie e frutto Le foglie sono caduche, alterne e portate da un picciolo. Presentano forma ovata e spesso cuoriforme. La lunghezza varia dai 7 ai 14 cm e la larghezza è compresa tra i 4 e i 6 cm. La lamina presenta margini dentato-seghettati con apice acuto. I frutti, denominati sorosi o “more del gelso“, sono infruttescenze a grappolo di forma ovale, lunghe circa 2,5 cm, di colore nero. Il loro colore va dal bianco – rosato al nero.
Distribuzione geografica È originario della Cina settentrionale e della Corea. In Italia è comune in tutto il territorio e, soprattutto, nella Pianura Padana, perché le sue foglie sono utilizzate, in bachicoltura, come nutrimento per il baco da seta (Bombyx mori).
Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
ARANEUS DIADEMATUS
ARACNE OVIDIO, METAMORFOSI, VI. 53-145
(RAGNO CROCIATO) Gustave Doré, Arachne, incisione Purgatorio XII, 1686 ca.
Tassonomia Specie: Araneus diadematus Genere: Araneus Famiglia: Araneidae Ordine: Araneae Classe: Arachnida Phylum: Arthropoda Regno: Animalia
Morfologia 53 70 75 80 101 105 110 125 130 135 140 145
(Minerva Pallas et Arachne) Haud mora, constituunt diversis partibus ambaeet gracili geminas intendunt stamine telas. […] Cecropia Pallas scopulum Mavortis in arce pingit et antiquam de terrae nomine litem. Bis sex caelestes medio Iove sedibus altis augusta gravitate sedent. Sua quemque deorum inscribit facies: Iovis est regalis imago; stare deum pelagi longoque ferire tridente aspera saxa facit medioque e vulnere saxi exsiluisse fretum, quo pignore vindicet urbem; at sibi dat clipeum, dat acutae cuspidis hastam, dat galeam capiti, defenditur aegide pectus, percussamque sua simulat de cuspide terram edere cum bacis fetum canentis olivae mirarique deos; operis Victoria finis. […] Circuit extremas oleis pacalibus oras (is modus est) operisque sua facit arbore finem. Maeonis elusam designat imagine tauri Europen; verum taurum, freta vera putares. Ipsa videbatur terras spectare relictas et comites clamare suas tactumque vereri adsilientis aquae timidasque reducere plantas. Fecit et Asterien aquila luctante teneri, ecit olorinis Ledam recubare sub alis; addidit ut Satyri celatus imagine pulchram Iuppiter implerit gemino Nycteida fetu, Amphitryon fuerit cum te, Tirynthia, cepit. […] Liber ut Erigonen falsa deceperit uva, ut Saturnus equo geminum Chirona crearit. Ultima pars telae, tenui circumdata limbo, nexilibus flores hederis habet intertextos. Non illud Pallas, non illud carpere Livor possit opus. Doluit successu flava virago et rupit pictas, caelestia crimina, vestes; utque Cytoriaco radium de monte tenebat, ter quater Idmoniae frontem percussit Arachnes. Non tulit infelix laqueoque animosa ligavit guttura; pendentem Pallas miserata levavit atque ita «Vive quidem, pende tamen, inproba» dixit, «lexque eadem poenae, ne sis secura futuri, dicta tuo generi serisque nepotibus esto». Post ea discedens sucis Hecateidos herbae sparsit, et extemplo tristi medicamine tactae defluxere comae, cum quis et naris et aures, fitque caput minimum, toto quoque corpore parva est; in latere exiles digiti pro cruribus haerent, cetera venter habet, de quo tamen illa remittit stamen et antiquas exercet aranea telas.
53 70 75 80 101 105 110 125 130 135 140 145
Senza indugio, Pallade Minerva e Aracne si dispongono l’una di fronte all’altra e con i fili sottili dell’ordito tendono i due telai. […] Nella rocca di Cecrope, Minerva tesse la collina di Marte e l’antica contesa per il nome da dare alla terra. Sei a destra, Giove nel mezzo, sei a sinistra, gli dei su alti scranni con solennità austera siedono. A ciascuna divinità assegna i segni identificativi: Giove ha l’immagine di un re; ricama il dio del mare, in piedi, che colpisce con il lungo tridente le dure rocce e dal centro della spaccatura fa zampillare una sorgente, pegno con cui rivendica la città; a se stessa dà uno scudo, dà una lancia dalla punta aguzza, dà un elmo alla testa, uno scudo a difesa del petto; rappresenta la terra che, colpita dalla sua lancia, fa nascere una pianta di ulivo grigio-argento con olive e gli dei che l’ammirano; e la Vittoria a conclusione dell’opera. […] Incornicia gli orli della tela con rami d’ulivo di pace (così si fa) e conclude l’opera con il suo albero. Aracne Meonia disegna Europa ingannata dall’immagine del toro: vero il toro, vero il mare avresti detto; e lei sembrava guardare le terre allontanarsi e chiamare le sue compagne e, per paura di essere toccata dagli spruzzi d’acqua, sembrava ritrarre i piedi tremanti. E fece Asterie ghermita dall’aquila che l’aggredisce, e Leda sdraiata sotto le ali del cigno. E ancora ricamò Giove che, sotto forma di Satiro, la bella Nitteide ingravidò di due gemelli, e, in veste di Anfitrione, te, Alcmena, figlia di Tirinto, sedusse. […] Tessé Bacco che, sotto forma di uva, ingannò Erigone, Saturno che, mutatosi in cavallo, generò Chirone dalla duplice forma. Il bordo della tela, rifinito da elegante orlo, ha fiori intrecciati ai tortili rami d’edera. Non Pallade, non il Livore potrebbe criticare quell’opera. Si risentì per la felice riuscita la bionda dea e strappò la tela su cui erano ricamati i misfatti degli dei. E, con in mano la spola di legno del monte Citoro tre, quattro volte colpì la fronte di Aracne, figlia di Idmone. La sventurata non resse e, indignata, il cappio strinse alla gola. Pallade, impietositasi, sollevò lei che al cappio penzolava e così parlò: «Vivi, sfacciata, ma appesa per aria, e la medesima pena, affinché non ti illuda il futuro, sia stabilita per la tua stirpe e i tuoi discendenti». Dette queste parole, andandosene, di pozioni di erbe infernali la cosparse e, all’istante, toccati dal funesto unguento, cadono i capelli e con essi il naso e le orecchie, la testa si rimpicciolisce e in tutto il corpo si fa minuscolo. Ai fianchi, al posto delle gambe, esili zampe s’attaccano e il resto non è che ventre, da cui tuttavia quella getta fuori il filo, e le tele di sempre tesse, ma ormai da ragno.
I ragni del genere Araneus presentano un dimorfismo sessuale: la dimensione del corpo di una femmina raggiunge anche i 20 mm di lunghezza e 16 – 17 mm di larghezza, mentre quello dei maschi raggiunge i 10 mm di lunghezza e i 4 mm di larghezza. La colorazione va dal rosa al marrone, chiaro o scuro. Il nome della specie deriva dal disegno a croce formato da macchie bianche visibili sul dorso di colore biancastro.
Comportamento Il ragno trascorre il proprio tempo al centro della ragnatela che, oltre a rappresentare la sua “dimora“, viene usata per intrappolare le prede, costituite da mosche, farfalle, zanzare, cavallette e altri insetti di varie specie, che uccide e avvolge nella ragnatela.
Riproduzione La riproduzione avviene in agosto – settembre. Dopo l’accoppiamento, il maschio viene generalmente ucciso e divorato dalla femmina. Alla fine dell’estate, la femmina depone in un bozzolo, circa 700 uova, che, schiudendosi in primavera, generano una colonia di neonati ragni crociati.
Distribuzione geografica La specie è diffusa nel Nord America, a settentrione dell’Africa e dell’Asia e in tutta l’Europa.
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PELOPHYLAX ESCULENTUS
RANE OVIDIO, METAMORFOSI,VI. 336-381
(RANA VERDE O RANA COMUNE) Tassonomia A sinistra, Pittore Veronese (inizi VIII secolo) Latona trasforma i contadini della Licia in rane Padova, Musei Civici. Al centro, Annibale Carracci, Latona e i pastori di Licia, 1590 ca. Kromeríž, Castello Episcopale. A destra, Henrico van der Borcht senior, Latona incisione 1640.
Specie: Pelophylax esculentus Genere: Pelophylax Famiglia: Ranidae Ordine: Anura Classe: Anphibia Phylum: Chordata Regno: Animalia
Morfologia 340 345 350 355 360 365 370 375 380
Edidit invita geminos Latona noverca (Iunone). Hinc quoque Iunonem fugisse puerpera fertur inque suo portasse sinu, duo numina, natos. Iamque Chimaeriferae, cum sol gravis ureret arva, finibus in Lyciae longo dea fessa labore Sidereo siccata sitim collegit ab aestu, uberaque ebiberant avidi lactantia nati. Forte lacum Melitensis aquae prospexit in imis vallibus; agrestes illic fruticosa legebant vimina cum iuncis gratamque paludibus ulvam. Accessit positoque genu Titania terram pressit, ut hauriret gelidos potura liquores. Rustica turba vetat; dea sic adfata vetantis: «Quid prohibetis aquis? Usus communis aquarum est. Nec solem proprium natura nec aera fecit nec tenues undas; ad publica munera veni. Quae tamen ut detis supplex peto. Non ego nostros abluere hic artus lassataque membra parabam, sed relevare sitim; caret os umore loquentis et fauces arent vixque est via vocis in illis. Haustus aquae mihi nectar erit, vitamque fatebor accepisse simul; vitam dederitis in unda. Hi quoque vos moveant, qui nostro bracchia tendunt parva sinu» (et casu tendebant bracchia nati). Quem non blanda deae potuissent verba movere? hi tamen orantem perstant prohibere minasque, ni procul abscedat, conviciaque insuper addunt. Nec satis est; ipsos etiam pedibusque manuque turbavere lacus imoque e gurgite mollem huc illuc limum saltu movere maligno. Distulit ira sitim; neque enim iam filia Coei supplicat indignis nec dicere sustinet ultra verba minora dea tollensque ad sidera palmas «Aeternum stagno» dixit «vivatis in isto». Eveniunt optata deae; iuvat esse sub undis et modo tota cava submergere membra palude, nunc proferre caput, summo modo gurgite nare, saepe super ripam stagni consistere, saepe in gelidos resilire lacus; sed nunc quoque turpes litibus exercent linguas pulsoque pudore, quamvis sint sub aqua, sub aqua maledicere temptant. Vox quoque iam rauca est inflataque colla tumescunt ipsaque dilatant patulos convicia rictus. Terga caput tangunt, colla intercepta videntur, spina viret, venter, pars maxima corporis, albet, limosoque novae saliunt in gurgite ranae».
340 345 350 355 360 365 370 375 380
Latona, contro il volere della matrigna Giunone, due gemelli partorì. Si racconta che la puerpera anche di lì, da Delo, fuggisse Giunone, portandosi in braccio i due figli, piccoli dei. E ormai, sotto il sole rovente che bruciava i campi, giunta in Licia, terra della Chimera, la dea, stremata dalla lunga fatica, arsa dalla calura del sole, fu presa dalla sete e i piccoli avidi le avevano poppato tutto il latte dalle mammelle. Per caso, in fondo alle valli, scorse il lago di Melite. Laggiù dei contadini raccoglievano vimini ricchi di germogli, giunchi e l’alga che ama le paludi. Si avvicinò la figlia del Titano, Latona, e, inginocchiatasi, per terra si sdraiò, per bere a grandi sorsi le fresche acque. Ma, il gruppo di rozzi contadini glielo proibisce e la dea così a loro si rivolse: «Perché mi vietate di bere? L’acqua è di uso pubblico. Non di esclusiva proprietà di qualcuno la natura fece il sole, l’aria, le dolci onde; ad un bene comune mi sono rivolta e, ciò nonostante, vi supplico di lasciarmi bere. Non volevo lavarmi qui le braccia e il corpo spossato, ma solo alleviare la sete. Mentre parlo, mi manca la saliva in bocca, la gola è arsa e la voce fatica ad uscirmi. Un sorso d’acqua per me sarà nettare e la vita riconoscerò di ricevere di nuovo; e la vita con l’acqua sarete stati voi a darmela. Abbiate pietà anche di questi figli, che dal mio petto vi tendono le braccia» (e, in effetti, tendevano le braccia i piccoli). Chi le toccanti parole della dea non sarebbero state capaci di commuovere? Eppure, persistono nel dire no a lei che li implora, e minacce e insulti aggiungono, se non sparisce lontano. E non basta! Persino si mettono con piedi e mani, proprio loro, ad agitare le acque dello stagno e dal fondo il molle limo di qua e di là, saltando per dispetto, smuovono. L’ira scaccia la sete e la figlia di Ceo non supplica più quegli indegni, né sopporta di dire ancora umilianti parole per una dea e, sollevando le mani al cielo, «Che viviate in eterno» disse «in codesto stagno!». Si realizzano i desideri della dea: piace loro stare sott’acqua e ora immergere tutto il corpo nella cava palude, ora la testa mettere fuori, ora in superficie nuotare, spesso sulla riva dello stagno sostare, spesso nelle gelide acque rituffarsi. Ma, anche ora le loro indegne linguacce tengono in esercizio in litigi e, ogni pudore perso, anche se stanno sott’acqua, sott’acqua si sforzano di imprecare. Anche la voce è ormai gracchiante e i colli riempiti d’aria si gonfiano e gli insulti stessi dilatano le bocche spalancate. Le spalle toccano la testa, il collo sembra tolto di mezzo, la schiena si fa verde, il ventre, la parte più grossa del corpo, è bianco, e nel fangoso acquitrino, mai viste prima, saltano rane.
È una rana acquatica di 12 cm di lunghezza, dal muso appuntito e dalle dita ampiamente palmate (ciò dimostra che sono ottime nuotatrici e saltatrici); il dorso e i fianchi sono di colore verde smagliante o bruno – oliva e cosparsi di macchie nere. Una linea dorsale, chiara e mediale, si estende dalla testa fino all’ano.
Comportamento Vivono in gruppo negli stagni e nei corsi d’acqua lenti e con vegetazione fitta. I maschi sono provvisti, da ogni lato della testa, di due fessure dalle quali, durante il gracidio, vengono estroflessi i sacchi vocali di colore bianco. La loro dieta è molto varia, in quanto si possono nutrire di insetti (libellule, farfalle, cavallette, ecc..), di vermi e di piccoli pesci, che catturano usando, sia le robuste zampe posteriori, tramite le quali possono compiere dei salti fuori dall’acqua, sia la loro larga e vischiosa lingua. In inverno vanno in letargo seppellendosi nel fango, anche sott’acqua.
Riproduzione La stagione della riproduzione si svolge solitamente tra maggio e giugno. Ogni femmina emette le uova in ammassi gelatinosi, contenenti da 2.000 a 3.000 uova, di diametro compreso tra 2 e 3 mm, che vengono fecondate dal maschio, man mano che vengono emesse. Le larve, denominate girini, nascono dopo 5 – 6 giorni e assumono gradualmente, tramite la metamorfosi, la conformazione dell’adulto nel giro di 3 – 4 mesi.
Distribuzione geografica La specie è comune in gran parte dell’Europa. In Italia è la specie più comune e diffusa (manca solo in Sardegna).
Classe II Sez. D Esabac – A.S. A.s. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
FILEMONE E BAUCI OVIDIO, METAMORFOSI, VIII. 618-723 620 626 630 635 640 662 670 675 681 685 690 695 698 706 710 715 720
(Lelex) sic ait: «Immensa est finemque potentia caeli non habet et quidquid superi voluere peractum est. Quoque minus dubites, tiliae contermina quercus collibus est Phrygiis, modico circumdata muro. […] Haud procul hinc stagnum est, tellus habitabilis olim, nunc celebres mergis fulicisque palustribus undae. Iuppiter huc specie mortali cumque parente venit Atlantiades positis caducifer alis. Mille domos adiere locum requiemque petentes, mille domos clausere serae. Tamen una recepit, parva quidem stipulis et canna tecta palustri, sed pia Baucis anus parilique aetate Philemon illa sunt annis iuncti iuvenalibus, illa consenuere casa paupertatemque fatendo effecere levem nec iniqua mente ferendo. Nec refert dominos illic famulosne requiras: tota domus duo sunt, idem parentque iubentque. Ergo ubi caelicolae parvos tetigere Penates summissoque humiles intrarunt vertice postes, membra senex posito iussit relevare sedili, cui superiniecit textum rude sedula Baucis. […] Mensam succincta tremensque ponit anus. […] […] Post haec caelatus eodem sistitur argento crater fabricataque fago pocula, qua cava sunt, flaventibus inlita ceris. Parva mora est, epulasque foci misere calentes, nec longae rursus referuntur vina senectae dantque locum mensis paulum seducta secundis. […] Interea totiens haustum cratera repleri sponte sua per seque vident succrescere vina: attoniti novitate pavent manibusque supinis concipiunt Baucisque preces timidusque Philemon et veniam dapibus nullisque paratibus orant. Unicus anser erat, minimae custodia villae, quem dis hospitibus domini mactare parabant; ille celer penna tardos aetate fatigat eluditque diu tandemque est visus ad ipsos confugisse deos. Superi vetuere necari «Di»que «sumus, meritasque luet vicinia poenas inpia» dixerunt; «Vobis immunibus huius esse mali dabitur. Modo vestra relinquite tecta ac nostros comitate gradus et in ardua montis ite simul». […] Tantum aberant summo quantum semel ire sagitta missa potest; flexere oculos et mersa palude cetera prospiciunt, tantum sua tecta manere. Dumque ea mirantur, dum deflent fata suorum, illa vetus dominis etiam casa parva duobus vertitur in templum. […] […] Talia tum placido Saturnius edidit ore: «Dicite, iuste senex et femina coniuge iusto digna, quid optetis». Cum Baucide pauca locutus iudicium superis aperit commune Philemon: «Esse sacerdotes delubraque vestra tueri poscimus, et quoniam concordes egimus annos, auferat hora duos eadem, nec coniugis umquam busta meae videam neu sim tumulandus ab illa». Vota fides sequitur: templi tutela fuere, donec vita data est. Annis aevoque soluti ante gradus sacros cum starent forte locique narrarent casus, frondere Philemona Baucis, Baucida conspexit senior frondere Philemon. Iamque super geminos crescente cacumine vultus mutua, dum licuit, reddebant dicta «Vale»que «O coniunx» dixere simul, simul abdita texit ora frutex. Ostendit adhuc Thyneius illic incola de gemino vicinos corpore truncos.
620 626 630 635 640 662 670 675 681 685 690 695 698 706 710 715 720
Lèlege così disse: «Immensa è la potenza del cielo e limite non ha e, qualunque cosa hanno voluto gli dei, si realizzò. Perché tu non abbia alcun dubbio, vicina ad un tiglio una quercia c’è sui colli della Frigia, circondata da un piccolo muro. […] Non molto distante c’è uno stagno, un tempo terra abitata, ora acqua popolata da smerghi e folaghe palustri. Giunsero qui Giove, con aspetto di uomo, e con lui il figlio Mercurio, nipote di Atlante, che portava il caduceo, ma senza le ali. A mille case bussarono in cerca di un posto per il riposo, e mille case serrarono la porta. Solo una li accolse, per di più piccola, ricoperta di paglia e canne palustri, ma, in quella casetta, Bauci, una pia vecchietta, e Filemone, di pari età, vivevano uniti sin dalla giovinezza; in quella casetta erano invecchiati insieme e avevano alleviato la loro povertà, accettandola e con animo sereno sopportandola. Non importa chiedersi chi lì siano i padroni e chi gli schiavi: sono solo loro due in tutta la casa, comandano e insieme obbediscono. Quando dunque gli dei, che hanno la casa in cielo, giunsero nella povera capanna ed entrarono chinando il capo sotto la bassa porta, il vecchio li invitò ad accomodarsi su una panca, su cui prontamente Bauci aveva disteso un povero straccio. […] Con la veste succinta e tutta tremante, la vecchia apparecchia la tavola. […] […] Viene poi disposto un cratere, cesellato nel medesimo argento, e delle coppe di faggio, rivestite all’interno di bionda cera. Dopo un po’, il fuoco licenziò le calde pietanze. E di nuovo si serve un vino di non molte annate, che poi, messo da parte, lascia il posto alla frutta. […] Intanto, tutte le volte che si svuota, vedono il cratere riempirsi da solo, il vino ricrescere da solo: attoniti per il miracolo, si spaventano e con le mani rivolte al cielo Bauci e il timoroso Filemone si mettono a pregare e implorano perdono per il cibo e il servizio modesto. C’era una sola oca a guardia della minuscola cascina, che i padroni si apprestavano ad immolare per gli ospiti divini: veloce con le ali, li affatica e sfugge a lungo loro, lenti per l’età; alla fine sembrò che si fosse rifugiata proprio dagli dei. E gli dei vietarono di ucciderla e dissero: «Siamo dei e i vostri empi vicini pagheranno con il castigo che meritano. A voi, invece, sarà concesso di essere immuni da questa catastrofe. Solo, lasciate la vostra casa, seguite i nostri passi e sulla cima del monte venite con noi». […] Erano lontani dalla vetta tanto quanto può percorrere un freccia una volta scoccata, quando volsero indietro gli occhi, e sommerse da un pantano vedono tutte le altre case; soltanto la loro è rimasta in piedi. E, mentre meravigliati guardano, mentre piangono la sorte dei loro vicini, quella vecchia capanna, piccola anche per due soli padroni, si muta in un tempio. […] […] Allora, con volto benevolo, Giove Saturnio tali parole pronunciò: «Dite, buon vecchio e tu, sua degna consorte, cosa desiderate?». Scambiate poche parole con Bauci, Filemone agli dei la comune decisione palesa: «Chiediamo di essere sacerdoti e di avere in custodia il vostro tempio e, poiché abbiamo vissuto insieme in armonia, la morte nello stesso momento ci porti via entrambi. Che io non veda mai la tomba di mia moglie, né lei debba mai seppellirmi! Esauditi sono i loro voti: furono custodi del tempio, finché gli fu data la vita. Sfiniti dai lunghi anni, mentre un giorno se ne stavano ritti in piedi, davanti ai sacri gradini, e rievocavano le storie del posto, Bauci vide ricoprirsi di fronde Filemone, il vecchio Filemone vide ricoprirsi di fronde Bauci. E, mentre già la chioma di un albero cresceva sui due volti, finché fu possibile, si scambiarono parole e «Addio, mio sposo», «Addio, mia sposa» contemporaneamente dissero, e contemporaneamente un tronco coprì le loro bocche chiudendole. Ancora oggi gli abitanti di Tinia mostrano lì due tronchi vicini, nati dai loro due corpi.
QUERCUS ROBUR • TILIA CORDATA
FARNIA
TIGLIO SELVATICO
Tassonomia
Tassonomia
Morfologia
Morfologia
Albero di notevole dimensione (fino a 30 m), con chioma larga, da ovale a globosa, e spesso irregolare, di colore verde scuro; tronco diritto e ramificato solo nella parte apicale; corteccia grigio-brunastra e fessurata longitudinalmente. Specie molto longeva che può superare anche i 500 anni di vita.
Albero di notevole dimensione (20 – 30 m), con chioma larga (10 – 12 m) e globosa; tronco robusto e ramificato con rami ascendenti; corteccia grigio-scura con profondi solchi longitudinali.
Fioritura
I fiori sono ermafroditi, profumati e riuniti in infiorescenze, formate da 4-12 fiori bianchi. Alla base dei fiori vi è un peduncolo unito ad una brattea allungata (foglia modificata lunga 8-10 cm) che favorisce la disseminazione dei frutti maturi per mezzo del vento. Fiorisce in maggio-giugno.
Specie: Quercus robur Genere: Quercus Famiglia: Fagaceae Ordine: Fagales Classe: Magnoliopsida Divisione: Magnoliophyta Regno: Plantae
Specie: Tilia cordatar Genere: Tilia Famiglia: Tiliaceae Ordine: Malvales Classe: Magnoliopsida Divisione: Magnoliophyta Regno: Plantae
La specie è monoica. La fioritura è contemporanea all’emissione delle foglie ed avviene dalla fine di aprile a maggio. I fiori maschili (amenti) sono delle infiorescenze a grappolo di colore giallastro e pendule, costituite da 10-12 fiori. I fiori femminili, localizzati all’ascella delle foglie, sono formati da 3 stigmi di colore rossastro; l’impollinazione dei fiori è anemofila.
Foglie e frutto Le foglie di 7-14 cm, sono caduche, alterne, con un corto picciolo, e glabre. La loro forma è obovata, con due orecchiette alla base e divise in 4-6 lobi arrotondati su ciascun lato; la pagina superiore è di colore verde scuro e quella inferiore è più chiara.
Distribuzione geografica È diffusa iin tutta Europa e presenta un vasto areale che va dalla Scandinavia alla regione mediterranea. In Italia, è presente in tutte le regioni, tranne Campania, Puglia e Sicilia.
Fioritura
Foglie e frutto Le foglie di 3-8 cm, sono semplici e caduche; sui rami si presentano alterne e cuoriformi, con margini seghettati e apice acuminato; la pagina superiore è verde e quella inferiore è glauca. I frutti di 5-6 mm sono ovali con una parete (pericarpo) membranosa e tomentosa a maturità (mese di ottobre). La dispersione dei semi avviene a opera del vento, durante tutto l’arco dell’inverno.
Distribuzione geografica È un albero diffuso in tutta Europa, dalla Spagna agli Urali, quasi senza soluzione di continuità. A Nord si spinge fino alla Finlandia meridionale, alla Svezia centro-meridionale e al Sud della Scozia. In Italia è presente sull’arco Alpino e sull‘Appennino, fino alla Basilicata.
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CUPRESSUS SEMPERVIRENS
CIPARISSO OVIDIO, METAMORFOSI, X. 106-142
(CIPRESSO COMUNE) Tassonomia
A sinistra, Jacopo Vignali, Ciparisso, 1670 ca. Meise, Coll. J. Plaskie A destra, Apollo e Cyparisse, acquaforte, XVIII secolo.
Specie: Cupressus sempervirensr Genere: Cupressus Famiglia: Cupressaceae Ordine: Pinales Classe: Pinopsida Divisione: Pinophyta Regno: Plantae
Morfologia È un albero sempreverde molto longevo, alto fino a 20 m., con portamento colonnare e chioma di colore verde scuro. Il tronco è diritto e densamente ramoso fin dalla base con una corteccia sottile di colore grigio – brunastro con lunghe fessurazioni.
Fioritura 110 115 120 125 130 135 140
Adfuit huic turbae metas imitata cupressus, nunc arbor, puer ante deo dilectus ab illo, qui citharam nervis et nervis temperat arcum. Namque sacer nymphis Carthaea tenentibus arva ingens cervus erat lateque patentibus altas ipse suo capiti praebebat cornibus umbras. Cornua fulgebant auro, demissaque in armos pendebant tereti gemmata monilia collo; bulla super frontem parvis argentea loris vincta movebatur; parilesque ex aere nitebant auribus e geminis circum cava tempora bacae. Isque metu vacuus naturalique pavore deposito celebrare domos mulcendaque colla quamlibet ignotis manibus praebere solebat. Sed tamen ante alios, Ceae pulcherrime gentis, gratus erat, Cyparisse, tibi; tu pabula cervum ad nova, tu liquidi ducebas fontis ad undam, tu modo texebas varios per cornua flores, nunc eques in tergo residens huc laetus et illuc mollia purpureis frenabas ora capistris. Aestus erat mediusque dies, solisque vapore concava litorei fervebant bracchia Cancri; fessus in herbosa posuit sua corpora terra cervus et arborea frigus ducebat ab umbra. Hunc puer imprudens iaculo Cyparissus acuto fixit et, ut saevo morientem vulnere vidit, velle mori statuit. Quae non solacia Phoebus dixit et ut leviter pro materiaque doleret admonuit! Gemit ille tamen munusque supremum hoc petit a superis, ut tempore lugeat omni. Iamque per immensos egesto sanguine fletus in viridem verti coeperunt membra colorem, et modo qui nivea pendebant fronte capilli horrida caesaries fieri, sumptoque rigore sidereum gracili spectare cacumine caelum. Ingemuit tristisque deus «Lugebere nobis lugebisque alios aderisque dolentibus» inquit.
110 115 120 125 130 135 140
Si avvicinò alla calca il cipresso, simile alle mete, le colonnine coniche del circo, ora albero, un tempo però ragazzo amato da quel dio, che accorda le corde della cetra e dell’arco. C’era, sacro alle ninfe che abitano le campagne di Cartea, un enorme cervo, con corna, che si stendevano ampiamente e da sole al suo capo offrivano ampia ombra. Le corna rifulgevano d’oro e sulle spalle collane di gemme pendenti scendevano dal collo tornito; una borchia d’argento, legata con piccole cinghie, sulla fronte gli ciondolava e due perle come orecchini di bronzo luccicavano alle orecchie intorno alle cave tempie. Senza paura e accantonata la naturale timidezza, era solito frequentare le case e offrire il collo da accarezzare alle mani di chiunque, anche di sconosciuti. Ma, prima che ad altri, a te, il più bello della gente di Ceo, Ciparisso, era caro. Eri tu a condurre il cervo a pascoli sempre nuovi e all’acqua di una limpida fonte; tu che ora intrecciavi variopinti fiori intorno alle sue corna, ora, cavaliere seduto in groppa, felice di qua e di là imbrigliavi il cedevole muso con redini di porpora. Faceva caldo, era mezzogiorno e al calore del sole le ricurve chele del Cancro, amante del litorale, avvampavano. Spossato, sul letto di erba, distese il suo corpo il cervo e si godeva il fresco all’ombra degli alberi. Il piccolo Ciparisso, che non l’aveva notato, con un giavellotto appuntito lo trafisse e, non appena vide che per la terribile ferita stava morendo, decise di morire anche lui. Quali parole di conforto Febo non disse e a non dolersi troppo per la sua perdita lo esortò! Ma lui continua a piangere e, come dono supremo, chiede agli dei di portare il lutto per sempre. Ed ecco, esangui ormai per le infinite lacrime, in verde le membra cominciarono a mutare il colorito e quei capelli che poco prima cadevano sulla fronte color della neve si fanno scarmigliato fogliame, irto, duro, con la punta sottile che svetta a guardare il cielo stellato. Gemette il dio addolorato e disse: «Io piangerò te, tu piangerai gli altri e starai accanto a chi soffre».
La specie è monoica e i suoi fiori, poco appariscenti, sono riuniti in infiorescenze; i fiori maschili, di circa 3 mm., sono di forma ovoidale, di colore giallo – brunastro e disposti all’apice dei rametti; quelli femminili, sono più grandi (4-6 mm), di colore verde e riuniti in piccoli grappoli.
Foglie e frutto Le foglie sono di colore verde scuro, molto piccole, lunghe circa 1 mm, embricate e appressate al rametto. I frutti sono delle piccole sfere, dette galbule, di colore grigio – giallastro, lunghe circa 4 cm, formate da 5 – 8 paia di squame legnose. Ogni squama contiene da 5 fino a 20 semi.
Distribuzione geografica Le sue origini sembrerebbero essere dell’Iran e dell’area orientale del Mediterraneo (Creta, Rodi, Cipro, Siria). In Italia è largamente diffuso, specialmente in Toscana e in Umbria, come pianta ornamentale e concorre a determinare l’aspetto del loro paesaggio.
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SCILLA BIFOLIA
GIACINTO OVIDIO, METAMORFOSI, X. 162-216
(GIACINTO SELVATICO) A sinistra, Pieter Paul Rubens, La morte di Giacinto, 1636-1638, Madrid, Museo del Prado. A destra, Giambattista Tiepolo, La morte di Giacinto, 1752-1753, Madrid, Coll. Thyssen-Bornemisza.
165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215
(Orpheus:) «Te quoque, Amyclide, posuisset in aethere Phoebus, tristia si spatium ponendi fata dedissent. Qua licet, aeternus tamen es, quotiensque repellit ver hiemem Piscique Aries succedit aquoso, tu totiens oreris viridique in caespite flores. Te meus ante omnes genitor dilexit, et orbe in medio positi caruerunt praeside Delphi, dum deus Eurotan immunitamque frequentat Sparten. Nec citharae nec sunt in honore sagittae; immemor ipse sui non retia ferre recusat, non tenuisse canes, non per iuga montis iniqui ire comes, longaque alit adsuetudine flammas. Iamque fere medius Titan venientis et actae noctis erat spatioque pari distabat utrimque; corpora veste levant et suco pinguis olivi splendescunt latique ineunt certamina disci. Quem prius aerias libratum Phoebus in auras misit et oppositas disiecit pondere nubes; reccidit in solidam longo post tempore terram pondus et exhibuit iunctam cum viribus artem. Protinus imprudens actusque cupidine lusus tollere Taenarides orbem properabat; at illum dura repercusso subiecit pondere tellus in vultus, Hyacinthe, tuos. Expalluit aeque quam puer ipse deus conlapsosque excipit artus; et modo te refovet, modo tristia vulnera siccat, nunc animam admotis fugientem sustinet herbis. Nil prosunt artes; erat immedicabile vulnus. Ut, si quis violas riguoque papavera in horto liliaque infringat fulvis horrentia linguis, marcida demittant subito caput illa gravatum nec se sustineant spectentque cacumine terram, sic vultus moriens iacet, et defecta vigore ipsa sibi est oneri cervix umeroque recumbit. «Laberis, Oebalide, prima fraudate iuventa» Phoebus ait «videoque tuum, mea crimina, vulnus. Tu dolor es facinusque meum; mea dextera leto inscribenda tuo est; ego sum tibi funeris auctor. Quae mea culpa tamen? Nisi si lusisse vocari culpa potest, nisi culpa potest et amasse vocari. […] Te lyra pulsa manu, te carmina nostra sonabunt, flosque novus scripto gemitus imitabere nostros. […] Talia dum vero memorantur Apollinis ore, ecce cruor, qui fusus humo signaverat herbas, desinit esse cruor, Tyrioque nitentior ostro flos oritur formamque capit quam lilia, si non purpureus color his, argenteus esset in illis. Non satis hoc Phoebo est (is enim fuit auctor honoris); ipse suos gemitus foliis inscribit et AI AI flos habet inscriptum funestaque littera ducta est
165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215
E Orfeo: “Anche te, o figlio di Amicla, Giacinto, Febo avrebbe posto in cielo, se i dolorosi fati gliene avessero dato il tempo. Ma tu sei eterno, per quanto possibile, e tutte le volte che scaccia la primavera l’inverno e al segno d’acqua dei Pesci l’Ariete subentra, tu ogni volta sbocci e nelle zolle erbose fiorisci. Te più di tutti amò mio padre e Delfi, che è al centro del mondo, restava priva del suo protettore, mentre il dio frequentava l’Eurota e l’indifesa Sparta. Né la cetra né le frecce ha in considerazione; dimentico di sé, non disdegna né di portare le reti, né di aver tenuto al guinzaglio i cani, né di accompagnarti per gli aspri passi della montagna. E con la intima frequentazione alimenta la passione. E già il Sole stava quasi a metà tra la notte passata e quella di là da venire, a pari distanza, quando tutti e due si tolgono le vesti, i corpi risplendono di grasso olio d’oliva, e danno inizio ad una gara con il disco grande. Per primo Febo, libratolo, lo lanciò in aria e al passaggio fece allontanare le nubi da un lato e dall’altro; ricadde dopo lungo volo sulla solida terra il disco e dimostrò l’arte unita alla forza del lanciatore. Subito, imprudente, per la smania di giocare, correva il figlio del Tenaro a raccogliere il disco, ma, ecco, la dura terra lo fece rimbalzare e lo lanciò sul tuo volto, Giacinto. Sbiancò il fanciullo, sbiancò non meno il dio e sollevò il corpo che si afflosciava. E ora cerca di rianimarti, ora di asciugare la sciagurata ferita, ora di trattenere con impacchi di erbe la vita che se ne vola via. A nulla giova la scienza medica; non era medicabile la ferita. Come quando in un giardino ben irrigato si spezzano viole e papaveri e gigli dai rigidi gialli pistilli, e, subito appassiti, il capo appesantito abbassano e non si sostengono più e con la corolla guardano il suolo, così il volto morendo giace e, perso ogni vigore, il collo è di peso a se stesso e ricade sulla spalla. «Te ne vai, o Ebalide, defraudato del fiore della giovinezza» dice Febo. «Vedo la tua ferita e vedo il mio crimine. Tu sei il mio dolore e il mio delitto: alla mia destra bisogna imputare la tua morte, ma io sono colpevole del tuo assassinio. Ma, qual è la mia colpa? A meno che si possa chiamare colpa l’aver giocato, colpa l’aver amato. […] Te la mia lira dalla mano pizzicata, te i miei versi canteranno, e tu, fiore mai visto, con delle lettere imiterai i miei lamenti». […] Mentre tali parole vengono dette dalla veritiera bocca di Apollo, ecco, il sangue, che, versatosi sul terreno, aveva segnato l’erba, cessa di essere sangue e più brillante della porpora di Tiro un fiore ne nasce e del giglio prende la forma, ma è color cremisi, mentre il giglio è bianco-argento. Ma a Febo non basta (fu lui infatti l’artefice di questo onore): scrive di suo pugno sui petali i suoi lamenti e AHI! AHI!, lettere che esprimono lutto, il fiore porta impresse.
Tassonomia Specie: Scilla bifolia Genere: Scilla Famiglia: Liliaceae Ordine: Liliales Classe: Monocotiledoni Divisione: Angiosperme Regno: Plantae
Morfologia La Scilla bifolia è una pianta erbacea perenne, alta 10 – 20 cm., provvista di un bulbo, di colore bianco brunastro, di 1 – 2 cm. di diametro.
Fioritura I fiori, ermafroditi e attinomorfi, sono posti all’apice del fusto, in gruppi di 6 – 10. Sono formati da 6 tepali di colore blu e da 6 stami dello stesso colore dei tepali. Gli stami circondano un unico ovario munito di un grosso stigma. Il periodo di fioritura è compreso tra marzo e maggio.
Foglie e frutto Le foglie, già presenti al momento della fioritura, sono generalmente 2 (da cui il nome della specie), di colore verde brillante, lunghe, strette e concave all’apice.
Distribuzione geografica È originaria dell’Europa centrale e del Caucaso. In Italia è presente sulle Alpi e sugli Appennini, e si sviluppa nei boschi freschi di latifoglie, soprattutto faggete, nei prati ombrosi e nei pascoli umidi, da 500 fino 2.000 m.
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ANEMONE HEPATICA
ANEMONE OVIDIO, METAMORFOSI, X. 705-739
(ANEMONE) Tassonomia
A sinistra, John William Waterhouse, Il risveglio di Adone, 1900, Collezione Andrew Lloyd-Webber, Londra. Auguste Rodin, La morte di Adone, 1891, Parigi, Musée Rodin.
Specie: Anemone hepatica Genere: Anemone Famiglia: Ranuncolaceae Ordine: : Ranuncolales Classe: Dicotiledoni Divisione: Angiosperme Regno: Plantae
Morfologia L’Anemone hepatica è una pianta perenne, alta 5 – 15 cm, provvista di un rizoma dal quale si sviluppa completamente tutta la pianta.
Fioritura 705 710 715 720 725 730 735
«Hos tu, care mihi, cumque his genus omne ferarum quod non terga fugae, sed pugnae pectora praebet effuge, ne virtus tua sit damnosa duobus!». Illa quidem monuit iunctisque per aera cycnis carpit iter; sed stat monitis contraria virtus. Forte suem latebris vestigia certa secuti excivere canes, silvisque exire parantem fixerat obliquo iuvenis Cinyreius ictu; protinus excussit pando venabula rostro sanguine tincta suo trepidumque et tuta petentem trux aper insequitur totosque sub inguine dentes abdidit et fulva moribundum stravit harena. Vecta levi curru medias Cytherea per auras Cypron olorinis nondum pervenerat alis; agnovit longe gemitum morientis et albas flexit aves illuc, utque aethere vidit ab alto exanimem inque suo iactantem sanguine corpus, desiluit pariterque sinum pariterque capillos rupit et indignis percussit pectora palmis. Questaque cum fatis «At non tamen omnia vestri iuris erunt», dixit; «Luctus monimenta manebunt semper, Adoni, mei, repetitaque mortis imago annua plangoris peraget simulamina nostri, at cruor in florem mutabitur. An tibi quondam femineos artus in olentes vertere mentas, Persephone, licuit, nobis Cinyreius heros invidiae mutatus erit?» sic fata cruorem nectare odorato sparsit, qui tactus ab illo intumuit sic, ut fulvo perlucida caeno surgere bulla solet; nec plena longior hora facta mora est, cum flos de sanguine concolor ortus, qualem quae lento celant sub cortice granum punica ferre solent. Brevis est tamen usus in illo; namque male haerentem et nimia levitate caducum excutiunt idem, qui praestant nomina, venti».
705 710 715 720 725 730 735
«Tu, mio caro, i leoni e ogni specie di animale, che non le spalle per la fuga, ma il petto per lo scontro offrono, evita, perché il tuo coraggio non sia dannoso per entrambi!». Così Venere ammonì Adone e, aggiogati i cigni, in cielo riprende il viaggio. Ma, ai consigli è contrario il coraggio. Per caso, inseguendo le chiare impronte, un cinghiale stanarono i cani e, mentre quello usciva dal bosco, Adone, il figlio di Cinira, con un colpo obliquo, lo aveva trafitto. Subito, col grugno incurvato, scosse via le grosse frecce tinte del suo sangue il selvaggio cinghiale e il giovane la ricerca di un luogo sicuro si mette ad inseguire. Tutte le zanne gli affondò nell’inguine e lo atterrò moribondo sulla fulva sabbia. Trasportata sul leggero carro dalle ali dei cigni per l’aria, Venere Citerea non era ancora giunta a Cipro, che da lontano riconobbe il gemito del moribondo e le bianche ali curvò in quella direzione. Non appena dall’alto cielo vide il corpo esanime che si dibatteva nel suo stesso sangue, saltò giù e le vesti e i capelli si strappò e con mani non fatte per quello si batté il petto. Lamentandosi col fato, «Ma non tutto sarà soggetto alla tua Legge» disse. «Un ricordo del mio lutto per sempre rimarrà, o Adone, e una replica della scena della tua morte ogni anno eseguirà una commemorazione del mio cordoglio. Ma, pure il tuo sangue sarà trasformato in un fiore. Se un tempo mutare corpi di donna in menta profumata a te, Persefone, fu concesso, a me sarà rimproverato l’aver trasformato Adone, il figlio di Cinira?». Così disse e sparse di nettare odoroso il sangue, che, al contatto, cominciò a gonfiarsi, così come dal giallastro fango solgono sollevarsi trasparenti bolle. Un’ora intera ancora non era passata, quando dal sangue un fiore dello stesso colore spuntò, simile a quello che hanno i melograni, che sotto la sottile corteccia nascondono i chicchi. Breve però è il suo godimento: a fatica tenendosi radicato e, per la troppa leggerezza, fragile lo fanno cadere quei medesimi ánemoi, i venti, che ti danno il loro nome, o Anemone.
I fiori sono ermafroditi e attinomorfi. La corolla è formata da 6 – 10 petali ellittici arrotondati all’apice e presenta numerosi stami, di colore biancastro, disposti in modo spiralato attorno ad un unico ovario provvisto di numerosi carpelli (pistilli). Il colore dei fiori varia dal blu – celeste, al bianco e talvolta anche al rosa, a seconda dell’esposizione e dell’insolazione. Il periodo di fioritura è compreso tra fine febbraio e maggio.
Foglie e frutto Le foglie si generano dopo la fioritura, presentano un lungo picciolo e sono divise in tre lobi quasi uguali. Sono coriacee e di colore verde; nella pagina inferiore assumono, invece, una colorazione bruno – rossastra, simile a quella del fegato, a cui si deve il nome della specie hepatica.
Distribuzione geografica Si trova nei boschi di quercia e di faggio o di aghifoglie e nei prati, specialmente nelle montagne dell’Europa continentale. E’ diffusa comunemente su tutto il territorio italiano e in particolare sulle Prealpi; sono escluse le isole.
Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
ALCEDO ATTHIS
ALCIONE OVIDIO, METAMORFOSI, XI. 562-742 […] Sed plurima nantis in ore est Alcyone coniunx: illam meminitque refertque, illius ante oculos ut agant sua corpora fluctus 565 optat et exanimis manibus tumuletur amicis. 568 […] Ecce super medios fluctus niger arcus aquarum frangitur et rupta mersum caput obruit unda. 573 […] Aeolis interea tantorum ignara malorum, 577 […] omnibus illa quidem superis pia tura ferebat, ante tamen cunctos Iunonis templa colebat. 583 […] At dea non ultra pro functo morte rogari sustinet, utque manus funestas arceat aris, 585 «Iri, meae» dixit «fidissima nuntia vocis, vise soporiferam Somni velociter aulam exstinctique iube Ceycis imagine mittat somnia ad Alcyonen veros narrantia casus». 633 […] At pater e populo natorum mille suorum excitat artificem simulatoremque figurae Morphea. 652 […] Pervenit Haemoniam, positisque e corpore pennis in faciem Ceycis abit sumptaque figura luridus, exanimi similis, sine vestibus ullis 655 coniugis ante torum miserae stetit; uda videtur barba viri madidisque gravis fluere unda capillis. Tum lecto incumbens, fletu super ora profuso, haec ait: «Agnoscis Ceyca, miserrima coniunx? An mea mutata est facies nece? Respice: nosces 660 inveniesque tuo pro coniuge coniugis umbram. Nil opis, Alcyone, nobis tua vota tulerunt: occidimus. Falso tibi me promittere noli. 674 […] Ingemit Alcyone lacrimans motatque lacertos per somnum corpusque petens amplectitur auras Exclamatque «Mane! Quo te rapis? Ibimus una». 710 […] Mane erat, egreditur tectis ad litus et illum maesta locum repetit, de quo spectarat euntem; dumque moratur ibi […] 714 dumque notata locis reminiscitur acta fretumque prospicit, in liquida spatio distante tuetur nescioquid quasi corpus aqua, primoque quid illud esset erat dubium; […] 721 […] Fluctibus actum fit propius corpus; quod quo magis illa tuetur, hoc minus et minus est mentis sua, iamque propinquae admotum terrae, iam quod cognoscere posset, 725 cernit: erat coniunx. «Ille est!» exclamat et una ora, comas, vestem lacerat tendensque trementes ad Ceyca manus «Sic, o carissime coniunx, sic ad me, miserande, redis?» ait. Adiacet undis facta manu moles, quae primas aequoris iras 730 frangit et incursus quae praedelassat aquarum. Insilit huc, mirumque fuit potuisse; volabat percutiensque levem modo natis aera pennis stringebat summas ales miserabilis undas; dumque volat, maesto similem plenumque querelae 735 ora dedere sonum tenui crepitantia rostro. Ut vero tetigit mutum et sine sanguine corpus, dilectos artus amplexa recentibus alis frigida nequiquam duro dedit oscula rostro. Senserit hoc Ceyx an vultum motibus undae 740 tollere sit visus, populus dubitabat; at ille senserat: et tandem, superis miserantibus, ambo alite mutantur.
(MARTIN PESCATORE) […] Ma, più di tutti, il naufrago Ceìce ha sulla bocca il nome della moglie, Alcione: lei ricorda, lei chiama, e spera che davanti agli occhi di lei i flutti trasportino 565 il suo corpo e esanime sia sepolto dalle sue amorevoli mani. 568 […] Ma ecco, in mezzo alle onde si inarcano le nere acque e si schiantano; il capo sommersero e affondarono. 573 […] Intanto, Alcione, la figlia di Eolo, ignara di tanta sventura, 577 […] a tutti gli dei offriva pii incensi e, più di tutti, onorava il tempio di Giunone. 583 […] Ma la dea non tollera più di essere pregata per un defunto, e, per allontanare dagli altari le mani contaminate dalla morte, 585 «Iride,» disse « fedelissima messaggera della mia voce, va’ velocemente nella reggia soporifera di Sonno e ordinagli di inviare ad Alcione un sogno, sotto forma del defunto Ceìce, che le racconti i fatti secondo verità». 633 […] Ma il padre Sonno, tra tutti i suoi mille figli, ne sveglia uno, che sa ad arte falsare ogni forma d’uomo, Morfeo. 652 […] Egli giunge nella terra Emonia e, liberato il corpo dalle ali, si trasforma in Ceìce e, assunto il suo aspetto, livido, pallido come un morto, senza alcuna veste, 655 davanti al letto dell’infelice sposa stette. Bagnata le sembra la barba del marito e i capelli, fradici, grondano acqua. Poi, chinatosi sul letto, il volto rigato dal pianto, dice: «Non riconosci Ceìce, infelicissima sposa? O forse il mio volto la morte ha sfigurato? Guardami bene: mi riconoscerai 660 e troverai al posto di tuo marito la sua ombra. Nessun aiuto, Alcione, mi hanno procurato le tue preghiere: sono morto. Non voglio più che ti illuda di potermi riavere». 674 […] Geme Alcione piangendo, muove le braccia nel sonno e, cercando di stringere il corpo, abbraccia solo aria, ed esclama: «Resta! Dove fuggi? Ce ne andremo insieme». 710 […] Era ormai mattino: Alcione esce di casa, va sulla spiaggia e triste ritrova il luogo da dove aveva visto partire Ceìce. e, mentre lì si trattiene, […] 714 mentre rimembra i gesti compiuti in base ai luoghi e guarda il mare, di lontano, tra le acque vede qualcosa di simile ad un corpo. In primo momento, su cosa fosse era incerta. […] 721 […] Spinto dai flutti, il corpo si avvicina e, quanto più lei lo osserva, più e più la sua mente si perde. E ormai prossimo alla riva, poiché ormai lo può vedere, 725 lo riconosce chiaramente: era suo marito! «È lui!» esclama e insieme il volto, i capelli, la veste strazia e, tendendo tremanti le mani verso Ceìce, dice: «Così, o dolcissimo sposo, così, povero sposo, a me ritorni?». Vicino alle onde si trova un molo, costruito dalle mani dell’uomo, che i primi 730 urti del mare rompe e fiacca gli assalti delle acque. Lei balza lassù, e fu un miracolo esserci riuscita! Volava e, battendo l’aria leggera con le ali appena nate, sfiorava, uccello infelice, la cresta delle onde. E, mentre volava, la bocca, ora sottile becco, stridendo emise 735 un suono, come un lamento pieno di mestizia. Come toccò quel corpo muto ed esangue, abbracciando le amate membra con le ali novelle, invano diede freddi baci col duro becco. Li sentì Ceìce o il volto sembrò sollevare 740 per il moto dell’onda, la gente era incerta; ma lui li aveva sentiti e alla fine, per pietà degli dei, entrambi in uccelli si trasformano.
Tassonomia Specie: Alcedo atthis Genere: Alcedo Famiglia: Alcedinidae Ordine: Coraciiformes Classe: Aves Phylum: Chordata Regno: Animalia Richard Wilson, Ceyx and Alcyone, 1768 National Museum of Wales.
Morfologia Il martin pescatore è un uccello sedentario, lungo 16 – 17 cm, con un becco lungo, grosso alla base, ali e coda brevi, piedi piccoli. Il suo piumaggio, sul dorso, è di colore verdazzurro brillante, mentre il petto e le guance presentano un colore giallo ruggine. Ai lati del collo spicca una macchia bianca.
Comportamento È un uccello poco socievole e vive solitario e non tollera alcun concorrente nel suo territorio di caccia. Vive lungo i fiumi, i grossi ruscelli e predilige le acque limpide. Si tuffa nell’acqua, non appena individua la preda. Si nutre di pesci e altri piccoli animali acquatici (rane, girini), a cui aggiunge molti insetti, destinati soprattutto ai piccoli nidiacei.
Riproduzione Per nidificare, il martin pescatore scava una galleria, lunga circa un metro, lungo le rive ripide di un fiume. La femmina depone da 5 a 7 uova bianche da cui escono, dopo circa 21 giorni d’incubazione, degli uccellini ciechi ed implumi che crescono molto rapidamente: nel giro di 25 giorni, i piccoli sono in grado di spiccare il volo e procurarsi il cibo da soli. In genere, in un anno, le covate sono due ed avvengono nel mese di aprile e di luglio.
Distribuzione geografica Vive in tutta l’Europa, in gran parte dell’Africa e dell’Asia. In Italia è presente in tutte le regioni ed è generalmente stanziale.
Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese
PICUS VIRIDIS (PICCHIO VERDE)
PICCHIO OVIDIO, METAMORFOSI, XIV. 332-396 335 340 346 350 358 362 365 370 375 380 385 390 395
[…] (Picus, proles Saturnia) Spretis tamen omnibus unam ille colit nymphen, quam quondam in colle Palati dicitur Ionio peperisse Venilia Iano; haec ubi nubilibus primum maturuit annis, praeposito cunctis Laurenti tradita Pico est. Rara quidem facie, sed rarior arte canendi, unde Canens dicta est; silvas et saxa movere et mulcere feras et flumina longa morari ore suo volucresque vagas retinere solebat. Quae dum feminea modulatur carmina voce, exierat tecto Laurentes Picus in agros indigenas fixurus apros. […] […] Venerat in silvas et filia Solis easdem, utque novas legeret fecundis collibus herbas, nomine dicta suo Circaea reliquerat arva. Quae simul ac iuvenem virgultis abdita vidit, obstipuit; cecidere manu quas legerat herbae, flammaque per totas visa est errare medullas. Ut primum valido mentem collegit ab aestu, quid cuperet fassura fuit; ne posset adire cursus equi fecit circumfususque satelles. […] Et effigiem nullo cum corpore falsi fingit apri. […] […] Haud mora, continuo praedae petit inscius umbram Picus equique celer spumantia terga relinquit spemque sequens vanam silva pedes errat in alta. Concipit illa preces et verba precantia dicit ignotosque deos ignoto carmine adorat. […] Tum quoque cantato densetur carmine caelum et nebulas exhalat humus, caecisque vagantur limitibus comites, et abest custodia regis. Nacta locum tempusque «Per o tua lumina» dixit, «quae mea ceperunt, perque hanc, pulcherrime, formam, quae facit ut supplex tibi sim dea, consule nostris ignibus et socerum qui pervidet omnia Solem accipe, nec durus Titanida despice Circen». Dixerat; ille ferox ipsamque precesque repellit et «Quaecumque es» ait, «non sum tuus; altera captum me tenet et teneat per longum, conprecor, aevum, nec Venere externa socialia foedera laedam, dum mihi Ianigenam servabunt fata Canentem». Saepe retemptatis precibus Titania frustra «Non inpune feres neque» ait «reddere Canenti, laesaque quid faciat, quid amans, quid femina, disces». Tum bis ad occasus, bis se convertit ad ortus, ter iuvenem baculo tetigit, tria carmina dixit. Ille fugit, sed se solito velocius ipse currere miratur; pennas in corpore vidit, seque novam subito Latiis accedere silvis indignatus avem, duro fera robora rostro figit et iratus longis dat vulnera ramis. Purpureum chlamydis pennae traxere colorem; fibula quod fuerat vestemque momorderat oram, pluma fit, et fulvo cervix praecingitur auro; nec quidquam antiquum Pico nisi nomina restat.
335 340 346 350 358 362 365 370 375 380 385 390 395
Il re Pico, figlio di Saturno, dopo aver disprezzato tutte le ninfe, solo una corteggiò, che un tempo sul colle Palatino, si dice, Venilia partorì allo ionio Giano. Non appena questa fu in età da marito, Luca Giordano (1634-1705), Circe e Pico, Galleria Porcini, Napoli. fu data in moglie a Pico di Laurento, prescelto fra tutti. Era di rara bellezza, ma ancor più rara era la sua arte del canto, sì che la chiamavano Canente, ‘Quella che canta’. Le selve e i sassi era solita smuovere, e ammaliare le fiere e rallentare il corso dei fiumi e tratteneva gli uccelli in volo con il suo canto. Un giorno, mentre cantava con la sua dolce voce di donna, Pico era uscito di casa, nella campagna di Laurento, per andare a caccia di cinghiali selvatici. […] […] Era venuta negli stessi boschi anche la figlia del Sole, Circe, a raccogliere sui fertili colli nuove erbe e aveva lasciato quei campi, dal suo nome chiamati Circei. Non appena, nascosta dietro un cespuglio, vide il giovane, ne rimase folgorata: di mano le caddero le erbe che aveva raccolto e un fuoco sentì divampare per tutte le membra. Non appena dalla violenta vampata si riebbe, fu sul punto di dichiarargli che lo desiderava, ma il cavallo a galoppo e la scorta che lo circondava le impedirono di avvicinarlo. […] Circe allora creò il fantasma di un cinghiale senza corpo. […] […] Subito l’ignaro Pico insegue quell’ombra di preda, veloce abbandona la groppa schiumante del cavallo e, inseguendo una vana speranza, si avventura a piedi nel fitto bosco. Circe formula preghiere e frasi imploranti dice, dèi ignoti adora con carmi ignoti. […] Anche allora, intonato il canto, si oscura il cielo e la terra esala vapori, e per le terre buie vagano i compagni e si allontana la scorta del re. Trovato il luogo e il tempo giusto, lei disse: «Oh, per i tuoi occhi, che conquistarono i miei, e per la tua bellezza, o bellissimo, che fa sì che io, una dea, sia tua supplice, soddisfa la mia passione e prendi il Sole, che tutto vede, come suocero e non disprezzare, crudele, la figlia del Titano, Circe». Così aveva parlato, ma lui, spietato, respinge lei e le sue preghiere e «Chiunque tu sia,» dice «non sono tuo. Un’altra donna mi conquistò e mi possiede, e prego mi possieda per sempre. Non violerò i patti coniugali con amori adulterini, finché i fati mi conserveranno la figlia di Giano, Canente». Molte volte la figlia del Titano ripeté le sue preghiere, ma invano, e disse: «Non te la caverai senza essere punito, né ritornerai dalla tua Canente; imparerai che cosa può fare un’innamorata, se offesa». Poi due volte ad occidente, due volte ad oriente si voltò, tre volte con una bacchetta toccò il giovane, tre volte intonò la formula. Lui fugge, ma più veloce del solito corre e se ne stupisce. Sul corpo vede delle piume e, sdegnato di entrare nelle selve del Lazio, all’improvviso, sotto forma di uccello mai prima visto, col duro becco colpisce i tronchi delle selvatiche querce e con ira infligge ferite ai lunghi rami. Le piume presero il color porpora del suo mantello. Quella, che prima era stata fibbia e chiudeva l’orlo del mantello, piuma diventa, e di giallo-oro si cinge il collo. E, qualunque cosa sia stato un tempo, a Pico non resta che il nome: Picchio.
Tassonomia Specie: Picus viridis Genere: Picus Famiglia: Picidae Ordine: Piciformis Classe: Aves Phylum: Chordata Regno: Animalia
Morfologia Il picchio verde è un uccello lungo circa 30 cm., con una apertura alare di 40 cm. Entrambi i sessi presentano la parte superiore del corpo di colore verde, mentre quella inferiore è verde giallastra. Il capo è rosso e, dal lungo becco, di colore scuro, partono due strie verso il capo, di colore nero nella femmina e tendenti al rosso nel maschio. La coda a forma di cuneo, permette al picchio di appoggiarsi al tronco di un albero e, per arrampicarsi, dispone di zampe, robuste e uncinate.
Comportamento È presente nei boschi di conifere e di latifoglie, nei parchi cittadini e nei grandi giardini. Si nutre prevalentemente d’insetti e delle loro larve, che ricerca tra le fessure delle cortecce degli alberi; può integrare la sua dieta con frutti e bacche. È l’unica specie di picchio che scende sul terreno, alla ricerca di formiche e delle loro larve, di cui è ghiotto.
Riproduzione La coppia nidifica, tra aprile e maggio, in cavità scavate nel tronco oppure occupa cavità naturali dei tronchi. La femmina depone nel nido 5 – 8, uova lucenti, che si schiudono dopo 14 – 19 giorni di incubazione, alla quale provvede soprattutto il maschio. I piccoli lasciano il nido dopo 24 – 26 giorni.
Distribuzione geografica È diffuso in Medio Oriente (in Iran e Iraq) e in Europa, dove l’areale principale non oltrepassa il 60° parallelo Nord. In Italia è frequente dal livello del mare fino ai 2000 metri d’altitudine.
Classe II Sez. D Esabac – A.S. 2017/18 Liceo Classico «E. Cairoli» - Varese