LA FIGURA DEL FACILITATORE Dott. Angelo Schillaci angeloschillaci.wix.com/angeloschillaci
I valori del facilitatore Il facilitatore non è semplicemente una figura professionale. Dietro e dentro alle persone che fanno questo lavoro c’è una filosofia, una dimensione mentale particolare. E’ la filosofia della democrazia, della partecipazione, dell’uguaglianza. Negli ultimi secoli molti uomini hanno lottato duramente per affermare principi di uguaglianza sociale, di tolleranza, di giustizia. E’ quel processo che ha dato vita alle nostre attuali democrazie, nelle quali non si è (o non si dovrebbe essere) più perseguiti per la propria razza o le proprie idee e in cui il soddisfacimento dei bisogni materiali di base è (o dovrebbe essere) garantito a tutti. So bene che questo percorso non è stato lineare, che ha anche prodotto effetti collaterali negativi ma esprime valori in cui la maggior parte di noi si riconosce. La facilitazione dei gruppi (group facilitation) si inserisce in questo “movimento”. Essa si ritrova nello stile di persone come Gandhi, Martin Luther King e altri leader di movimenti non-violenti. La group facilitation nasce negli Stati d’Uniti d’America a cavallo degli anni ’60 e ’70 dalla particolare esperienza dei learning facilitators, il cui compito era creare consapevolezza e favorire l’apprendimento di diversi gruppi sociali (bambini, minoranze, donne ecc,). L’utilizzo di questa figura si è poi successivamente evoluto per applicarsi in modo sistematico in ambiente aziendale (soprattutto negli Stati Uniti e in misura minore nel Regno Unito) negli anni ’80 e ’90. In Europa i Paesi che più hanno sviluppato e innovato le pratiche della group facilitation sono quelli nord-europei (in Germania è stato creato e brevettato il metodo Metaplan). In linea generale, la group facilitation è uno strumento per far sì che le persone siano gli artefici del proprio futuro. Il verbo inglese che si usa a proposito del lavoro di un facilitatore è “empowering” o “enabling”: rendere qualcuno capace, metterlo in grado di. Il facilitatore è la persona che rende questo possibile. In più, il facilitatore è la persona che aiuta un gruppo a essere più efficace. E’ stato notato che l’utilizzo di una persona “terza”, neutrale, non esperta dei contenuti di cui si tratta ma competente in termini di dinamiche di gruppo, rende più facile e meno laborioso il raggiungimento di un obiettivo di un gruppo (un’analisi, una decisione, un quadro, un diagramma, alcune indicazioni, qualsiasi cosa un gruppo può produrre, non certo un volume di 400 pagine). Il gruppo, con un facilitatore, fa più cose in meno tempo, le fa con più chiarezza e tutti sono “proprietari” delle cose fatte.
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Le caratteristiche dell’opera del facilitatore Quali sono allora le caratteristiche che contraddistinguono un facilitatore, nel suo lavoro con un gruppo? II facilitatore è un consulente “di processo”. Per molte persone, per molti consulenti, è difficile concepire il ruolo del facilitatore come “metodologo puro”. Sembra quasi impossibile che il facilitatore aiuti a lavorare meglio i gruppi senza essere un esperto del tema di cui si tratta. Eppure questo è quasi sempre vero, ed è coerente con l’impostazione del facilitatore che rende le persone gli architetti del proprio futuro. Non dimentichiamo che il vero valore aggiunto di qualsiasi consulente è che il proprio cliente riesca, grazie al suo intervento, a risolvere i suoi problemi. Ebbene, una figura come quella di un facilitatore o di un consulente “di processo” (non necessariamente esperto della materia) può meglio garantire l’efficacia e la permanenza di un cambiamento nelle organizzazioni. Questo perché il modo di operare del facilitatore, che lascia sempre gli uomini nelle organizzazioni e nei gruppi “titolari” o “proprietari” del lavoro svolto, è il migliore antidoto contro alcuni effetti perversi che spesso intervengono nel caso dei consulenti in quanto “esperti esterni”. E’ altamente probabile infatti che le soluzioni proposte dal consulente “esterno”, che ha condotto “lui” l’analisi e che detiene e propone “lui” la soluzione, non vengano poi adottate dalle organizzazioni, risultando quindi poco efficaci (pensate a quanto rapporti di ricerca e di consulenza finiscono nei cassetti dei dirigenti e lì rimangono). Il consulente di processo è invece quella figura che, non proponendo lui le soluzioni, assiste l’organizzazione a comprendere i nodi critici e a porvi rimedio, con tutti i vincoli e i limiti del caso. Il concetto fondamentale è che è l’organizzazione deve vivere essa stessa un processo di apprendimento, “detenere” lei il problema e la sua soluzione: solo così l’organizzazione potrà operare e dare stabilità ai cambiamenti necessari. Altri fattori, legati in generale ai cambiamenti in atto oggi nelle organizzazioni, suffragano queste considerazioni: - una maggiore efficacia, rispetto ad approcci complessi, di approcci semplici, forse per questo più flessibili e direttamente utilizzabili da parte dei singoli operatori; - una crescita della cultura tecnica e organizzativa all’interno delle organizzazioni, che richiede sempre meno apporti esterni di tipo specialistico e sempre più apporti in cui il consulente agisca da facilitatore del know-how e delle risorse già esistenti. In altre parole, il consulente di processo garantisce che il cambiamento che deriva dal suo intervento sia vissuto, operato e reso duraturo dagli uomini delle organizzazioni e non sia invece il prodotto delle intuizioni e delle competenze proprie. Certo, la realtà non è sempre così semplice. Abbiamo anche assistito a miglioramenti organizzativi imposti dai vertici aziendali o provocati da elementi esterni (il mercato). Tuttavia in una visione di più lungo periodo, dovrebbero essere le organizzazioni con la forza lavoro più consapevole e più coinvolta nei destini dell’azienda a ottenere i migliori risultati.
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Una procedura strutturata. Per raggiungere gli obiettivi di un workshop (è così che nei paesi di lingua inglese i facilitatori chiamano le riunioni da loro “facilitate”), il facilitatore deve progettare in anticipo qual è la strategia con cui il gruppo raggiungerà quel risultato. Questa strategia si concretizza in una procedura che egli metterà in atto con il gruppo. Questa procedura prevede in genere delle domande, delle risposte (spesso scritte) da parte dei partecipanti e la elaborazione da parte del gruppo delle informazioni così prodotte. I facilitatori molto esperti, in particolari riunioni, possono anche non preparare una procedura strutturata in anticipo e gestire semplicemente la discussione così come essa si sviluppa, in alcuni casi senza neanche poter prevedere in anticipo qual è l’obiettivo che il gruppo deve produrre. Ma è sconsigliato assolutamente per chi è alle prime armi in questa affascinante avventura. La visualizzazione. Una volta che avrete goduto dei vantaggi della visualizzazione, lavorare in gruppo senza di essa vi sembrerà come “giocare a scacchi senza la scacchiera”. E’ sorprendente quanto aumenti l’efficacia di un lavoro di gruppo quando i diversi concetti sono discussi e poi elaborati su un tabellone. I vantaggi della visualizzazione sono i seguenti: - ci aiuta a non divagare (stay on track); il fatto di aver sintetizzato la propria idea su un cartoncino e il fatto che la discussione avvenga su quella sintesi scritta aiuta lo stesso partecipante e il gruppo a concentrarsi su un‘idea, evitando la tendenza (più comune di quanto si pensi) a “partire per la tangente”, magari perché siamo appassionati a quell’idea o perché ancora dobbiamo chiarircela dentro di noi; - favorisce il formarsi di uno spirito di gruppo: i quadri, diagrammi, mappe o quant’altro si produca sul tabellone sono fatti con i contributi di tutti i partecipanti: è l’immagine del lavoro di un gruppo; - aiuta la comprensione dei legami di causa effetto tra i diversi elementi visualizzati; - permette di contenere e di gestire in modo semplice insiemi relativamente complessi (esempio: 30-40 problemi o indicazioni).
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LE ABILITA’ DEL FACILITATORE Abilità di tipo generale La posizione La posizione giusta è dare la faccia al gruppo, tenendosi al centro della U. In questo modo il facilitatore potrà guardare in faccia tutti i partecipanti, ruotando semplicemente la testa in un asse di 180°. Quest’ultimo aspetto è molto importante perché, specialmente nelle fasi iniziali, permette di stabilire un contatto visivo, fisico con i partecipanti (li guardate o li avete guardati tutti negli occhi). Il facilitatore dovrà stare molto attento a non trascurare con lo sguardo questo o quel lato della U. E’ importante non stare troppo vicini solamente a questo o quel lato della U (trascurando alcuni partecipanti) così come non si deve dare mai le spalle a una parte del gruppo, fosse anche a una persona sola. Il facilitatore starà quasi sempre in piedi (appresso vedremo perché), solo nella fase iniziale di reciproca presentazione o di valutazione finale potrà (pensare di) sedersi. La sala di lavoro Al di là dei requisiti logistici minimi necessari per la semplice praticabilità, la sala in cui si svolge il workshop non dovrebbe essere troppo ampia rispetto allo spazio in cui effettivamente si lavorerà. Questo per non generare un senso di “spaesamento” che si ha in un ambiente spropositatamente grande rispetto a quello effettivamente necessario. Un altro aspetto importante è far sì che i partecipanti siedano non troppo lontano dal tabellone (quello con la carta da pacchi su cui si collocano i cartoncini scritti dai partecipanti). Una difficile lettura dei cartoncini da parte dei partecipanti li rende nervosi e soprattutto impedisce il vero lavoro di gruppo, fatto con l’elaborazione collettiva dei contributi posti sul tabellone. Conviene anche lasciare un certo spazio di manovra al facilitatore, che potrà (dovrà!) camminare o gesticolare mentre parla. Il body language Questo aspetto è uno dei principali responsabili di un successo o di un insuccesso di un workshop. Il facilitatore deve mostrare e trasmettere dinamismo al gruppo: il gruppo di per sé tende a farsi guidare, se non a volte a sonnecchiare e se il facilitatore non lo spinge all’azione non lavorerà mai. Che vuol dire dinamismo? Vuol dire camminare, avanti e indietro (parallelamente alla parete dietro al facilitatore), e, mentre si parla, gesticolare (senza esagerare) e andare verso il gruppo quando le esigenze lo richiedono. Sorridere, anche, è importante, anche qui senza esagerare. L’importante è esprimere uno stato d’animo positivo e fiducioso. Vedrete, il gruppo se ne gioverà.
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L’atteggiamento Ogni persona ha un suo stile, di comportamento e di comunicazione. Non esiste un atteggiamento perfetto, ideale per il facilitatore. Certamente dovrà essere: - simpatico; deve essere piacevole stare con il facilitatore, perché lui è il padrone di casa durante un workshop; dalla sua persona dipende in larga misura l’atmosfera di lavoro; simpatico non vuol dire però troppo “scherzoso”, deve dare al gruppo un senso di serietà, deve trasmettere anche l’idea che “le cose si devono fare e bene”, - paziente; questa è forse la dote più importante per un facilitatore: dovrà ascoltare, mostrando interesse e simpatia, le opinioni di tutti i partecipanti, anche quando dentro di sé non condivide o trova poco brillante quel che qualcuno dice: dovrà saper stare al proprio posto quando una discussione accesa ha luogo tra i partecipanti, intervenendo per trovare punti di incontro, pur sapendo che una discussione prolungata può incidere sul programma che aveva predisposto per il workshop. Insomma dovrà sopportare alcuni aspetti che, al di fuori del suo ruolo, potrebbe gestire in modo più sbrigativo. Contenuto, dinamica, procedura: una distinzione importante E’ sempre importante che il facilitatore sia cosciente del diverso tipo di interventi che i partecipanti fanno in un workshop, o in una riunione in genere. Grosso modo gli interventi sono di tre tipi: - interventi di “contenuto”: quando un partecipante esprime il proprio punto di vista sul tema oggetto dell’incontro; è il tipo di intervento più comune; il facilitatore lo tratterà con le tecniche descritte in questo volume (active listening, discussion steering ecc.); in generale è il tipo di intervento meno “preoccupante” per il facilitatore perché è attuato sul terreno nel quale sono i partecipanti i “responsabili” dei contenuti della discussione (ma spetta al facilitatore la sua gestione); un paragone: il vigile che dirige la circolazione della auto nel centro cittadino: lui è sì responsabile del flusso della circolazione ma non dei problemi derivanti dalle eventuali infrazioni commesse dagli automobilisti; - interventi sulla procedura (point of order); un tipico esempio è quando un partecipante critica il modo di lavorare proposto dal facilitatore o suggerisce un alternativa (es. “perché non trattiamo prima X e poi Y?”, “perché non facciamo così..?”); questo tipo di interventi sono percepiti dal facilitatore come una noia o una minaccia perché gli impongono di rivedere la tecnica di conduzione che si è preparato; il consiglio è quello di accettare piccole variazioni (spesso sono effettivamente dei miglioramenti) ma di non accettare capovolgimenti sostanziali della procedura; se il partecipante insiste per fare come dice lui, ricordategli i ruoli: voi siete il facilitatore, sta a voi decidere come lavorare perché vostra è la responsabilità che il gruppo raggiunga quei risultati; un altro consiglio è quello di spiegare sempre qual è il risultato finale di quello che chiedete di fare al gruppo e quali saranno i passaggi intermedi: spesso i partecipanti possono sentirsi a disagio se non capiscono perché gli chiedete di fare certe cose; - interventi legati alla dinamica di gruppo o alla dinamica tra questo e il facilitatore; spesso alcuni interventi che sembrano di contenuto sono in realtà il prodotto di tensioni, o particolari rapporti tra i membri del gruppo; altre volte può trattarsi di un disagio di un partecipante con il facilitatore, 6
per i più svariati motivi; il consiglio è quello di non entrare nelle discussioni “interne” al gruppo (come potreste, d’altronde?) ma di trattare in modo esplicito quelle situazioni in cui la tensione sia troppo forte, tale da impedire un lavoro di gruppo sereno e produttivo. E’ bene che il facilitatore sappia riconoscere che tipo di intervento il partecipante sta facendo e trattarlo di conseguenza. La tecnica del parroting Non sempre si riflette, nella vita comune ma soprattutto in ambito professionale, su quanto poco le persone siano abituate e disposte ad ascoltare gli altri. Anzi, spesso esse interpretano male o addirittura ignorano ciò che gli altri dicono. Se si assiste con attenzione a una discussione tra due persone che hanno sullo stesso tema delle opinioni forti e tra loro divergenti, presto ci si accorgerà che essi non costruiscono le loro opinioni sulla base di quelle dell'altro. Al contrario, ciascuno dei due aspetta impazientemente che l'altro finisca per poter dire la sua, costruendo così due filoni paralleli di conversazione senza integrazione reciproca. Quindi, non solo siamo portati a ignorare ciò che è detto dagli altri ma anche a interpretarlo in modo errato. In altre parole, il punto di vista dell'altro viene filtrato dal nostro sistema di convinzioni, così che capiamo cose differenti, o parole che non sono state effettivamente dette sebbene la nostra memoria è convinta invece che lo siano state. D'altronde, il gioco infantile del "telefono senza fili" può dimostrare efficacemente quanto detto. La tecnica del parroting (o mirroring) ci permette invece di fare uso di ciò che veramente gli altri hanno detto in una discussione. Per acquisire questa abilità fondamentale del facilitatore si pratica un esercizio che si chiama active listening (ascolto attivo). L'aggettivo active sta a significare che tale pratica richiede un certo sforzo. Questi i passaggi fondamentali dell'esercizio: - ascoltare con attenzione ciò che l'altro sta dicendo, sospendendo i propri giudizi sull'argomento; ciò può risultare non facile ma è essenziale per cogliere ciò che l'altro sta dicendo, - accompagnare l'ascolto con espressioni non verbali che dimostrino il vostro interesse verso ciò che l'altro sta esprimendo, - se l'altro continua a parlare e voi non siete sicuri di poter ricordare quanto sinora detto, interromperlo con espressioni tipo ("Quindi lei/tu sta/stai dicendo che …", "Se ho capito bene lei/tu sta/stai dicendo che …", "Allora lei/tu sta/stai dicendo che …" - ripetere il punto di vista altrui o, altrimenti, riassumerlo usando le parole-chiave usate dall'altra persona; è molto probabile che, se non usate le parole dell'altra persona, il vostro riassunto risulterà influenzato dal vostro pensiero e l'altro stenterà a riconoscervi la propria idea, - chiedete conferma di aver esposto correttamente il punto di vista altrui ("E' questo quello che tu/lei ha/hai detto?"). E' proprio questa la tecnica che permette al facilitatore di portare a termine una discussione scaturita per chiarire un intervento di un partecipante. Essa è particolarmente utile nella fase di chiarimento dei problemi. Tramite l'uso delle domande-chiave il facilitatore porta il partecipante o il gruppo a formulare il tema o il problema in maniera il più possibile chiara e, non appena ciò avviene "acchiappa la palla" (catch the ball) con la tecnica di ripetere il discorso altrui ("Quindi lei/tu sta/stai dicendo che …", "Se ho capito bene lei/tu sta/stai 7
dicendo che …", "Allora lei/tu sta/stai dicendo che …" e di chiedere conferma altrui ("E' questo quello che tu/lei ha/hai detto?"). Ottenuta una risposta positiva alla richiesta di conferma, il facilitatore chiede al gruppo se ciò che egli ha appena ripetuto è chiaro. In questo modo il punto di vista di una persona viene realmente comunicato e compreso dagli altri partecipanti. E' come se il facilitatore porgesse al gruppo il punto di vista di un partecipante. E' in questa funzione di agevolazione della comunicazione che il facilitatore svolge un ruolo fondamentale nel rendere efficace il lavoro di gruppo e anche nel rafforzare la coesione del gruppo stesso. La tecnica di ripetizione/riassunto del punto di vista altrui è nota come "parroting" (in inglese vuol dire "pappagallo") e rappresenta una delle abilità di base che usa un facilitatore per far comunicare efficacemente dei gruppi di lavoro. Oltre a garantire una comunicazione più efficace tra i membri del gruppo, la tecnica del "parroting" arreca altri tre vantaggi: - gratifica il partecipante il cui punto di vista viene ripetuto, - aiuta il partecipante stesso a chiarire il proprio punto di vista, - aiuta il facilitatore a venire a capo di quelle persone che si dilungano nel loro intervento, o perché ripetono più volte lo stesso concetto o perché stanno andando fuori tema; infatti dopo che il punto di vista di quella persona è stato ripetuto, controllato ("è questo quello che ha detto?") e giudicato chiaro dal resto del gruppo, la persona stessa si sentirà giocoforza demotivato a continuare a parlare. L’uso delle domande La tecnica di conduzione di una discussione (discussion steering), per un facilitatore, si basa molto sulle domande che egli pone al gruppo. Ricordiamoci sempre che il facilitatore è un consulente di processo e che il suo ruolo è quello di aiutare gli altri a pensare. A differenza del consulente tradizionale che pone domande per capire lui la situazione e fornire lui la risposta o la soluzione giusta! Un facilitatore non può asserire (“noi riteniamo che….”) (“il problema è che ……”), a meno che non si tratti di un aspetto metodologico, legato cioè al modo con cui il gruppo lavorerà. Le uniche armi che ha per mandare avanti una situazione di gruppo sono quindi le domande. Vi sono due tipi fondamentale di domande: - le domande chiuse (alle quali la risposta può essere o un Sì o un No), - le domande aperte, le cui risposte possono essere dei più svariati tipi. E’ utile usare le prime quando, al termine di una discussione anche lunga, sentite che c’è bisogno di arrivare a una conclusione. In genere il facilitatore, quando formula una domanda chiusa, può non sapere la risposta (o Sì o No) ma sa come utilizzare entrambe le possibili riposte. E’ bene comunque fare un uso limitato delle domande chiuse, perché tolgono la “ownership” dalle emani dei partecipanti e danno più l’idea di un interrogatorio ché di una discussione. Sicuramente con le domande chiuse il facilitatore tiene più sotto controllo la discussione. Le domande aperte (es. “in che modo…?”, “perché…”, “qual è la sua opinione su…”, “qualcuno può spiegare…) sono invece utili quando i partecipanti devono esprimere punti di vista, percezioni, concetti, idee in generale. Così facendo il facilitatore allenta il controllo della discussione ma favorisce una libera espressione delle idee e aiuta a stabilire un buon clima di lavoro. Certo, ricordiamoci che siamo in un ambito di progettazione o di lavoro sui progetti, per cui le risposte alle domande aperte devono essere trattate con le tecniche proprie della group facilitation, altrimenti la discussione può diventare astratta. 8
Le abilità del facilitatore nella ‘sessione-tipo’ Competenze del facilitatore richieste in particolare nella fase divergente Competenza Problema Meta-comunicazione Raccogliere idee
(Cosa non funziona) Se le idee sono giudicate nel momento in cui sono espresse, le persone non si sentono libere o sicure di esprimerle.
“Rispecchiare” (parroting)
Spesso le persone pensano che l’incontro non sia gestito in modo corretto e che non sia dato loro modo di dire veramente ciò che pensano. Hanno sperimentato situazioni in cui altri hanno manipolato le loro idee per far prevalere le proprie.
Incoraggiare
Le persone a volte sono restie a impegnarsi per risolvere un problema o generare idee. Hanno bisogno di una fase iniziale di “riscaldamento” iniziale.
(Da cosa si capisce) (Quel che può fare il facilitatore) Le idee sono discusse una Fate in modo che sia alla volta (e alcune spesso chiaro qual è il tema (focus) eliminate). della discussione. Il ritmo è blando, con Assicuratevi che il molto spazio vuoto tra un giudizio sia sospeso contributo e l’altro. (insistete). Le persone si sentono Valorizzate ogni giudicate o attaccate. contributo. Quando il facilitatore (o Ascoltate e cercate di qualcun altro) riassume quel ricordare le parole-chiave che dicono, rispondono che le persone usano nei negativamente (“Non è loro interventi. quello che volevo dire..”) sia Usate le ESATTE parole a parole sia con il linguaggio quando ripetete (ma non del corpo. ripetete tutto). Questo succede spesso all’inizio di una discussione o di una riunione, o se le persone non si conoscono o sono a disagio nell’effettuare un determinato compito. Dopo i primi interventi, Chiedete agli altri di non interviene più nessuno. intervenire (e date loro tempo). Chiedete “Chi non è ancora intervenuto …” Chiedete: “Qualcuno ci può illuminare su …” Chiedete: “Qualcuno può fare un esempio di …”
Alcune volte è richiesta anche la competenza “Tirar fuori le persone” (v. fase seguente) 9
Soluzione
Competenze del facilitatore richieste in particolare nella fase caotica
Competenza “Tirar fuori” le persone
Problema
Meta-comunicazione
(Cosa non funziona) La discussione resta a livello superficiale, o il numero di quelli che intervengono è scarso. Gli interventi sono così brevi che nessuno ne capisce veramente il significato. Ciò può accadere nella fase divergente (nel qual caso è una tecnica per Incoraggiare) ma è più probabile che accada nel pieno della discussione nella fase caotica, quando le persone “si pestano i piedi”.
(Da cosa si capisce) (Quel che può fare il facilitatore) La persone si fraintendono Ponete domande aperte (la prova è che gli interventi per esaminare meglio non sono delle vere risposte l’argomento a quanto viene detto). Parafrasate ciò che Il linguaggio del corpo qualcuno ha detto (se già si mostra che le persone non è stabilita una atmosfera di sono d’accordo su una certa fiducia) idea ma non lo dicono Usate espressioni di espressamente. collegamento “…perché…?”, “…quindi…?” Con la tecnica del Chiedete: “Se ho capito “Rispecchiare” si ottiene bene Lei ha detto che.... conferma dalla persona che ”[usando parole vostre o di ha parlato ma gli altri non qualcun’altro che è capiscono veramente qual è intervenuto] l’idea o il punto di vista. Nota: verificate sempre Le persone non hanno dopo aver parafrasato che chiaro ciò che ha detto la avete colto il punto! persona che parlava. Lo stesso facilitatore non capisce il punto di vista espresso. Il gruppo non risponde Chiedete: “Vi sono altri affatto. punti di vista?”. Le persone aspettano che Chiedete: “Chi altri ha siano gli altri a parlare. un’opinione, un’idea o una sensazione Qualcuno può dire: “Non sull’argomento?”. credo che siamo tutti d’accordo” o “Questo è uno degli approcci possibili”.
Parafrasare
Sebbene esista un’atmosfera positiva e le persone sembrino ascoltarsi veramente (“rispecchiare”), può tuttavia accadere che alcune persone non capiscano il punto di vista espresso.
Equilibrare
Spesso dopo un intervento (chiaramente compreso) c’è silenzio. Ma il silenzio non significa (necessariamente) consenso. Spesso non è chiaro se non vi sono altri punti di vista o se il problema è stato esaminato a sufficienza.
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Soluzione
Alcune persone possono non avere spazio per esprimere le proprie idee, anche in un piccolo gruppo, perché altri parlano per molto tempo. Queste persone si sentono probabilmente frustrate e potrebbero ritirarsi dal gruppo o dalla discussione.
Dare la parola a turno
Quando molti vogliono intervenire, c’è spesso una accesa discussione nella quale le persone più forti “vincono”. Sarà di aiuto a tutti sapere come gestire una discussione “in turni”.
Tenere traccia
E’ necessario che le riunioni si focalizzino sulle idee (specialmente nella fase caotica) ma molte persone tendono a saltare da una idea all’altra (con il più forte che spesso vince).
Dare spazio
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Le persone non intervengono e “fanno altro”. Parlano sempre le stesse persone. Alcune persone fanno solo interventi lunghi.
Naturalmente le persone vogliono parlare ma non ci riescono e devono aspettare anche per lunghi periodi.
Le idee appaiono confuse e idee diverse sono seguite da persone diverse Non è chiaro quale sia il tema di quella particolare discussione.
Segnatevi chi parla e chi no e i tempi. Invitate chi non parla a intervenire (direttamente in modo verbale o non verbale). Fermate chi interviene troppo per dare spazio agli altri Chiedete: chi vuole intervenire (o annotate chi intende farlo) Nominateli e date loro un numero d’ordine. Strutturate i diversi filoni di discussione Finalizzate la discussione su di un filone, chiarendo che l’altro sarà affrontato subito dopo.
Competenze del facilitatore richieste in particolare nella fase convergente
Competenza
Problema
Meta-comunicazione
Soluzione
Silenzio intenzionale
(Cosa non funziona) A volte è opportuno riflettere su quanto detto. Non sempre succede spontaneamente.
(Da cosa si capisce) Tutti parlano e non si riflette.
Terreno comune
Trovare un terreno comune è necessario per concludere. Spesso c’è un tiro alla fune su questo aspetto.
(Quel che può fare il facilitatore) Chiedete una pausa di riflessione. Per esempio fate scrivere qualcosa ai partecipanti. Cercate le somiglianze e focalizzate il discorso prima su queste e poi sulle diversità
Le persone non ascoltano i punti di vista altrui.
Nota importante: Ogni competenza può essere utile in ogni fase. Dipenderà dalla particolare situazione in cui versa la discussione. La suddivisione secondo le fasi è funzionale a mettere in luce i diversi tipi di problemi che possono generalmente presentarsi in ciascuna fase.
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LE TECNICHE DI CONDUZIONE Questa parte descrive nel dettaglio le procedure e le tecniche di conduzione che il facilitatore userà per condurre una sessione di lavoro di tipo strutturato e partecipativo. Per procedura intendiamo la sequenza dei passaggi logici che portano a quel determinato risultato. In teoria, una procedura potrebbe essere applicata anche da una persona singola ma è evidente che l’apporto di un gruppo permette di raggiungere risultati di più elevata qualità. Per tecnica di conduzione, invece, intendiamo quell’insieme di frasi e di azioni con cui il facilitatore guida un gruppo a svolgere la procedura di progettazione. La ‘sessione tipo’ illustrata in queste pagine è una sessione della durata variabile dai 30 minuti alle 3 ore (dipenderà dall’oggetto del lavoro e dal numero dei partecipanti) destinata a produrre una decisione o un risultato condivisi (si parla di vision del gruppo). Essa potrà riguardare l’analisi di una determinata situazione o la definizione di alcune priorità o soluzioni. Come ogni altra sessione “esplorativa”, essa avrà le seguenti caratteristiche: - il tipo e/o il formato (attenzione: non il contenuto) del risultato finale è chiarito e concordato dall’inizio (così come programma di lavoro e orari), - il risultato finale si concretizza in un prodotto ‘fisico’ (diagramma, lista, mappa ecc.), - il risultato finale costituisce l’immagine, il ‘minimo comun denominatore’ del gruppo (vision), - tutti i partecipanti contribuiscono, ognuno con il loro ‘tassello’, a costruire il prodotto finale. E’ necessario sottolineare che tale risultato finale, espresso in forma sintetica e schematica per massimizzare il lavoro di gruppo, dovrà essere ulteriormente elaborato se si intende trasformarlo in un documento testuale più approfondito. E’ tuttavia necessario effettuare questa operazione di rielaborazione con cura, giacché qualsiasi elaborazione di questo risultato comporta una interpretazione personale dell’estensore su cui il gruppo potrebbe non riconoscersi. Si consiglia pertanto di presentare in apertura lo schema prodotto dal gruppo e di seguirne la logica e l’articolazione nel successivo sviluppo. La sessione-tipo illustrata in queste pagine di ispira al metodo di workshop ToP. ToP sta per Tecnologia della Partecipazione, un sistema sviluppato dal Institute for Cultural Affairs. Il metodo di workshop Top aiuta un gruppo di persone a prendere una decisone, risolvere un problema o a predisporre un piano o progetto. Il metodo di workshop è particolarmente appropriato in situazioni che richiedono: soluzioni creative e innovative coinvolgimento di gruppi di lavoro multidisciplinari impegno urgente a progettare un piano di azione.
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Il metodo consiste in 5 fasi: 1. 2. 3. 4. 5.
Sessione introduttiva (chiarimento e condivisione dell’obiettivo della sessione). Brainstorming: generare informazioni e idee. Assicurare la reale comprensione dei punti di vista. Denominare: creare consenso sui prodotti del gruppo. Conclusione: riflessione sul lavoro del gruppo e sulle sue implicazioni.
Di seguito discuteremo brevemente ciascuno di questi passaggi. E’ anche fornita una presentazione dei passaggi di tipo sinottico. Questa presentazione contiene la descrizione dettagliata delle procedure e delle tecniche di conduzione che adotta il facilitatore.
1. SESSIONE INTRODUTTIVA Che cosa vogliamo ottenere da questo incontro ? Obiettivi della sessione I partecipanti condividono (o vengono a conoscenza) degli obiettivi della sessione. Guida per il facilitatore Questa sessione è molto importante perché stabilisce il “contratto” tra il gruppo e il facilitatore. Infatti in questa fase si decide che cosa “si farà” nell’incontro. In essa infatti si confrontano le aspettative dei partecipanti e l’obiettivo “predefinito” del workshop. Esiste infatti sempre un obiettivo “predefinito” che il facilitatore ha concordato con l’organizzatore dell’incontro. Tuttavia è opportuno che esso sia accettato (fatto proprio) dai partecipanti. La procedura prevede che il facilitatore chieda PRIMA ai partecipanti quali sono le loro aspettative e POI presenti l’obiettivo “predefinito”, chiedendo se esso racchiuda o sintetizzi l’insieme delle aspettative e gestendo la discussione che ne scaturisce. Se le aspettative coincidono con l’obiettivo proposto e i partecipanti accettano subito questo obiettivo. Se così è, per il facilitatore la sessione comincia “in discesa”. Può avvenire invece che le aspettative divergano più o meno fortemente dall’obiettivo proposto. Ciò può creare un problema per il facilitatore, un problema di obiettivi (objective problem), che è di difficile gestione per un facilitatore alle prime armi ma anche per quelli più esperti. In tal caso il consiglio è di agire in modo sempre trasparente ma anche con intelligenza: qualora sia evidente che ciò che il gruppo vuole fare è veramente diverso da quello che il facilitatore e l’organizzatore avevano stabilito, è meglio che il facilitatore ne prenda atto: o sospenderà l’incontro perché non ha preparato una procedura all’uopo o perché non giudica il “nuovo” obiettivo adatto a quell’incontro, oppure accetterà di condurre la sessione, dovendo eventualmente pensare “su due piedi” a una nuova procedura. Tuttavia non sempre le cose succedono in modo così netto. Molte volte può avvenire che i partecipanti vengano all’incontro con aspettative poco chiare o poco nettamente formulate, per le più svariate ragioni: non hanno letto il programma, ne sono stati informati sommariamente da un loro superiore o subalterno, vi sono stati mandati all’ultimo momento o solo in funzione di rappresentanza (“tu vai a sentire e poi mi racconti”). In tutti questi casi è normale che le aspettative espresse prima che si espliciti l’obiettivo divergano da questo, tuttavia è anche normale che i
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partecipanti, una volta che viene presentato l’obiettivo “predefinito”, finiscano per accettarlo. Questa sessione è oltremodo delicata anche perché il facilitatore non applica ancora la procedura strutturata che in qualche maniera “obbliga” i partecipanti a seguire un certo filo logico. Se emerge una discussione in questo momento il facilitatore è “senza rete” e dovrà gestire la discussione in modo verbale facendo affidamento sul proprio buon senso e anche sul proprio carisma, se necessario. In genere già da questa prima sessione il facilitatore comprende che tipo di gruppo ha di fronte e si può già fare un’idea di come andrà l’incontro. L’apertura dell’incontro E’ prassi consolidata che un responsabile della organizzazione che ha promosso il workshop o un esperto svolga un breve intervento illustrando le motivazioni e gli obiettivi dell'incontro. Il facilitatore dovrà raccomandare alla persona che svolge questo intervento di non superare i 5’ e di non entrare subito nel vivo dei contenuti, già che l’intero incontro sarà dedicato a discutere di questi temi in maniera partecipativa. Al termine del suo intervento, questa persona “passerà la mano” al facilitatore, che inizierà a gestire la sessione con la procedura descritta qui di seguito.
Il facilitatore fa: Il facilitatore dice: Prima di cominciare il lavoro, propongo un rapido giro di tavolo Guarda verso il gruppo, stabilisce contatto per conoscerci meglio e per chiarire gli obiettivi di questa con i partecipanti. sessione. Vi chiedo quindi di dire a turno il vostro nome, quello dell’organizzazione che rappresentate e le vostre aspettative, ovvero ciò che ciascuno di Voi si aspetta di ottenere da questo incontro (in altre parole, “Con che cosa vorreste andar via al termine dell’incontro”). Comincerò con me stesso: mi chiamo............... e sono qui per aiutarvi a ottenere il massimo da questo incontro. Guarda in modo interrogativo la persona di turno. Se il partecipante si dilunga, ripete l’esortazione “..cosa si aspetta di ottenere da questo incontro”. Ripete l’aspettativa usando le parolechiave del partecipante e le scrive sulla lavagna a fogli mobili. Completa in questo modo tutto il giro di tavolo. Ritenete che l'obiettivo da noi proposto [X] riassuma queste Indica le aspettative sulla lavagna a fogli aspettative ? mobili. Scrive sulla lavagna l'obiettivo. (non dice niente) Si rivolge al gruppo in modo interrogativo. Se vi sono dubbi, gestisce la discussione fino a ottenere il consenso del gruppo su un “nuovo” obiettivo.
Tecnica di conduzione alternativa: Qualora il facilitatore e gli organizzatori siano certi che i partecipanti condividono sufficientemente l'obiettivo della sessione, è opportuno che il facilitatore, anziché proporre una prima domanda così ad ampio spettro ("Cosa ciascuno 15
di Voi si aspetta di ottenere da questo incontro?"), proponga direttamente l'obiettivo previsto, chiedendo quindi se tutti lo condividono. Una volta ottenuto il consenso sull’obiettivo della sessione, il facilitatore può procedere a illustrare il programma di lavoro (tempi), scrivendolo semplicemente sulla lavagna a fogli mobili. E’ anche opportuno fornire informazioni più o meno dettagliate sulla metodologia interattiva che verrà utilizzata nell’incontro. Output della sessione: Un foglio con le aspettative dei partecipanti. Un foglio con l’obiettivo della sessione.
2.
GENERARE INFORMAZIONI E IDEE (BRAINSTORMING)
Il facilitatore introdurrà la cosiddetta domanda-chiave (focus question). Questa è la domanda principale a cui la sessione dovrà rispondere. Questa domanda dovrà essere concordata anzitempo con i clienti o i promotori dell’incontro. Alcuni esempi di domande-chiave sono i seguenti: - “Quali sono i principali problemi nel nostro modo di lavorare?” - Come possiamo stimolare l’impegno sociale degli abitanti del quartiere?” - “Come possiamo migliorare la collaborazione tra i membri del gruppo?” - “Come possiamo aumentare il numero di partecipanti ai nostri corsi di formazione?” Una buona domanda chiave è una domanda a cui il gruppo può rispondere e che riguarda l’argomento centrale della sessione. Essa non deve essere né troppo generica né troppo circoscritta. Lo scopo della fase di braisntorming è di ricavare dal gruppo quante più possibili informazioni oggettive e idee. Più i partecipanti rappresentano punti di vista diversi, maggiori informazioni raccoglierete. Per una buona sessione di braisntorming, è essenziale disporre di un tempo limitato, poiché la creatività è stancante e le persone tendono a dedicare più energia al braistorming se sanno che hanno solo cinque minuti o poco più per farlo. Nella realtà, potete concedere loro qualcosa di più. Un altro elemento è la libertà di associazione: stimolate perfino idee ridicole fornendo un esempio divertente: (“Domani devo telefonare a mia cognata”). In un brainstorming, tutte le informazioni sono accolte, nulla è irrilevante. Certe volte le idee più “fuori dal coro” possono essere molto utili. Va bene chiedere una spiegazione ma non chiedete “Che cosa ha a che fare questo con il nostro problema?”. Il facilitatore dovrebbe gentilmente ma fermamente condurre il gruppo a non rifiutare o ridicolizzare nessuna delle idee espresse. Comunque, un brainstorming dovrebbe essere finalizzato a produrre un gran numero di idee o di risposte.
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3.
ORGANIZZARE INFORMAZIONI E IDEE
Il facilitatore dice: Cerchiamo ora di chiarire brevemente il significato di queste attività. Prima le leggerò tutte insieme, per avere una idea complessiva del brainstorming, poi le leggerò una e una e avremo il tempo di chiarirle.
Il facilitatore fa:
Legge l’insieme delle competenze e poi legge solo la prima e chiede: Guarda il gruppo in maniera interrogativa. Se un partecipante risponde "No" o se nota perplessità in uno o più partecipanti chiede:
E' chiaro?
Qualcuno può spiegare?
Ritenete, anche alla luce della discussione svolta, che esistano altre attività che la figura professionale dovrà svolgere che non sono sinora nell'analisi?
E' chiaro?
Da la parola al partecipante che intende spiegare. Guida la discussione fino a che l'azione sia stata formulata in maniera chiara, quindi ripete le parole-chiave, chiedendone conferma a chi l’ha spiegata e poi chiedendo al gruppo se è chiara. Ripete la stessa procedura con tutte le attività. Guarda il gruppo in maniera interrogativa. Distribuisce i cartoncini solo ai partecipanti che rispondono affermativamente. Ripete la procedura a partire da: ………
Nota: Può accadere che alcune delle attività indicate dai partecipanti siano molto simili o addirittura le stesse. In questo caso, se il gruppo stesso ritiene che non valga la pena richiedere una nuova spiegazione, il facilitatore può proseguire con la conoscenza successiva nella colonna Tecnica di conduzione alternativa: Se il facilitatore ritiene che sia utile che i partecipanti approfondiscano questa fase di chiarimento, può chiedere, dopo aver letto ciascuna azione su cartoncino, chiedere direttamente "Qualcuno può spiegare". Questa procedura garantisce una discussione più approfondita e dettagliata ma richiede più tempo.
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4.
RAGGRUPPARE E DENOMINARE
In questa parte del workshop, i partecipanti analizzano o elaborano le informazioni o l’esperienza acquisita nella fase di brainstorming. In questo processo le relazioni tra le informazioni e le idee sono rese esplicite. Il risultato finale di questa fase è un certo numero di aree o gruppi che contengono le relative idee o informazioni. Il segreto per una buona organizzazione delle informazioni del brainstorming è avere un criterio di raggruppamento chiaro. Le informazioni sono raggruppate in modo intuitivo e nuove relazioni tra idee e elementi possono venir fuori in questa fase. Il facilitatore cercherà di mantenere all’inizio la caratteristica delle aree (clusters) il più possibile ampia, per evitare che le persone traggano conclusioni premature senza dar spazio alla creatività e all’innovazione. Una struttura “debole” all’inizio è essenziale e diventerà lentamente più definita verso la fine. Per mantenere la struttura aperta, il facilitatore può insistere sulle differenze anziché sulle somiglianze, perché questo apre la discussione. Il passaggio seguente di questo metodo è di denominare le aree o i gruppi di informazioni e idee create nella fase precedente. In questa fase il gruppo prende una decisione sul significato delle informazioni e sulle relazioni tra i diversi elementi dell’informazione. Il gruppo arriva a un consenso sul significato che questa informazione riveste per lui. Innanzitutto, si dovrebbe adottare un criterio chiaro di denominazione, il più possibile specifico per i dati in questione. Le persone ricorderanno questi nomi, quindi può essere utile usare nomi “poetici”, facili da ricordare ma che esprimono il significato o il contenuto di quell’area. Mentre si attribuisce il titolo a un’area, una regola d’oro per ottenere consenso è di non criticare o rifiutare mai il suggerimento di qualcuno finché non se ne propone uno migliore. In questo modo, se qualcuno afferma che “Credo che tutti questi problemi si riferiscono alla Gestione delle Risorse Umane”, il facilitatore non dovrebbe accettare risposte del tipo “No, non si riferiscono a quello” oppure “Non sono d’accordo”. Chiedete suggerimenti alternativi piuttosto che suggerimenti diretti, fino a ché il gruppo comincia a rispondere tutto insieme “E’ così”. Spesso è utile presentare questa regola all’inizio della sessione di lavoro, perché si può ribadire se viene disattesa, cosa più facile che introdurla nel momento in cui la “violazione” della regola si verifica.
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Guida per il facilitatore Cerchiamo ora di individuare quali idee appartengono a una stessa area o "famiglia".
Indica il tabellone. Una volta che uno o più partecipanti hanno indicato due o più idee facenti capo a una stessa area, li pone in un colonna e chiede: Se la risposta è negativa, chiede:
Altre idee fanno capo a quest'area? Qualcuno vuole provare a individuare due o tre idee che appartengono a una nuova area o "famiglia"?
Una volta che uno o più partecipanti hanno indicato due o più idee facenti capo a una stessa area, li pone in un colonna e così via fino a che tutte le idee non vengono incluse in aree omogenee. Indica la colonna. Invita il partecipante che l'ha proposta a scrivere il nome dell'area su cartoncino e posiziona il cartoncino sopra l'area.
Come potremmo denominare quest'area?
Output della sessione: Idee raggruppate in aree omogenee.
5.
CONCLUSIONE DELLA SESSIONE
La fase conclusiva o di valutazione porta il gruppo a riflettere sul lavoro che ha effettuato. A questo punto loro esprimono cosa questo lavoro ha significato per loro e sue implicazioni come gruppo e come singoli. La conclusione riguarda le implicazioni operative future, come ad esempio le successive azioni che essi intendono intraprendere. La riunione dovrebbe concludersi in modo soddisfacente, in modo che il lavoro svolto dal gruppo venga valutato positivamente ma anche la strada che resta da percorrere sia più chiara.
Guida per il facilitatore Il facilitatore dice Vediamo ora se abbiamo raggiunto l’obiettivo della sessione. L’obiettivo della sessione era [obiettivo] Lo abbiamo raggiunto?
Ora vi chiedo una vostra personale valutazione sul lavoro
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Il facilitatore fa Mostra ai partecipanti il foglio l’obiettivo del workshop. Legge a voce alta l’obiettivo. Si rivolge al gruppo accogliendo eventuali opinioni semplicemente ripetendo le parole-chiave di ogni intervento. Si rivolge al gruppo. Da la parola al
svolto.
Molto bene, il workshop è terminato. Vi ringrazio per la vostra pazienza e per la vostra attenzione.
partecipante che inizia il giro di tavolo. Ripete le parole-chiave di ogni intervento (opzionale). Si rivolge al gruppo.
Tecnica di conduzione alternativa: Le tecniche di conduzione della sessione conclusiva sono numerose. Due alternative a quella classica presentata qui sopra si sono dimostrate efficaci: - in caso di tempi molto stretti, chiedete a ciascun partecipante di dirvi con una sola parola (o tre, se site magnanimi) come sintetizzerebbe l’incontro. in caso di tempi più rilassati e alla fine di un workshop lungo, date a ciascun partecipante un cartoncino giallo e uno verde e chiedetegli di scrivere a penna sul cartoncino giallo le tre cose meno positive e su quello verde le tre cose che più lo hanno soddisfatto. In un primo giro di tavolo chiedete poi a ciascuno di dire solo una tra le cose negative e nell’ultimo giro di tavolo lo stesso con le cose positive. Chiedete poi ai partecipanti di riconsegnarvi i cartoncini: le lettura di questi sarà anche molto utile per redigere il rapporto del workshop.
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