L'io in calce Anila Resuli
L'io in calce Anila Resuli
Prima edizione: marzo 2009
Ebook Š Edizioni foglia
la frontiera qui è un calco, un sordo silenzio volto e rivolto come un origami dipinto sulla sedia: lì s’appoggia il tuo profumo, la tua sorpresa di prendere forma ogni dove v’è luce. attesa è pure il tuo occhio alla parete e il tuo dire il vivere contro tempo (contro spazio) ha così tanta dimora in me, che mi manco.
e tutta la notte, spiegami, come una ragnatela segue una sola vittima, un solo corpo a cui appartenere: io oggi mi rinnego e domani mi voglio tutta, tutta un gambo corto d’una magnolia, tutta una pianta senza radice come la mia ombra; l’ornamento spesso si spiega al punto di cancellarsi con l’orma appesa all’esile stelo, che sia di morte o vita.
non lasciarmi qui da amante, ma da carne silenziosamente appesa per essere presa e tormentata: il gioco sta nel sacrificio; il sordo della parola non nega la sillaba, la conca parete che dà al suono e l’ordine delle corde che muta. la stanza dimentica forse dove fossimo un’anca e un uscio chiuso, una parete circolare sulle teste pietrificate al buio.
guardati allo specchio e dimmi come sei bella, se nel profilo alla finestra che supera e distoglie poi lo sguardo, nel verso della luce che in te si piega e muta, se nella forma spezzata dell’ombra che incarna la casa, all’interezza di te: la mano t’altera nello spazio, un’onda sgomenta che sa già di far male.
il muro sorprende per come s’addice al tuo silenzio: le parole si sa, assecondano ciò che detto è ridetto e l’esserti - il non essere unici - ti è come un chiodo che appende al muro l’addio, senza tralasciarne l’orma. quante pietre hai sul cuore e quanto odore all’anima nega il mio passo, il mutare del soffio sulla tua carne, nella mia carne, divenuta tua ancora.
la bocca irride la lingua e l’occhio frantumato sull’angolo della parete aspetta: mi chiami come un’allodola il nido; qui l’andare comporta dividersi. le ciglia si scoprono più volte sotto la pioggia come se le parole sorrette dal tempo, fossero dimenticanza, fossero sole, corte e prive. dentro, dentro sono una schiava, e il mio letto qui, è uno intero, tutto intorno.
le nostre mani sanno quanto appartenersi nei nervi scoperti che il tempo lacera e consuma: il lamento corregge pure il suono alla bocca, il profumo della pelle che tormenta anche il sogno. mescolati all’anima, dimentico d’essere altra, un corpo (dimora assestante) che di te s’adorna.
l’acqua strascica la nuda luce che ti si avvolge tutta intorno, tutta addosso come una piccola edera che fa morire il muro, che s’atteggia come fosse sola, come fosse pianta: dimentica d’essere radice soltanto sotto la tua mano. e in me s’agita, indietreggia, e la tua bocca, s’apre un poco, per farsi amare.
per aver riavvolto la nostra distanza negli occhi, ricordami perchĂŠ il braccio si fa corto e si sbuccia la mano, unghia per unghia, dieci volte quanto le teste tormentate nel mio grembo; rispondi, come la lente leviga lo sguardo e poi lo piega. la pupilla, una sola volta, rammenta il tuo fiato sorpreso al seno e il tuo bacio, dente accostato al collo - si consuma - si trascina nel sonno.
nota come il bosco sperpera la sua forma al vento che s’allontana per trattenerlo: il suo suono alla bocca denuda l’ardire, l’angoscia che l’esserci sia una forma effimera. lì l’orma racconta alla via, come la foglia si curva e abbandona, come la terra ruota in senso inverso e non si stacca, ma si sgretola nel sonno, con un nodo incarnato alla gola.
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