Jeff Wall/Small Pictures, qualche nota sulla mostra Annalisa Avon, Luciano Campolin
Jeff Wall Jeff Wall (Vancouver, 1946) è tra gli artisti più significativi e influenti presenti nella scena internazionale, come confermano i riconoscimenti ricevuti, le mostre personali allestite nei più importanti musei d’Europa e del Stati Uniti, oltre che la vasta letteratura critica che lo riguarda, ma, soprattutto, l’essenza stessa del suo lavoro, che oggi ha molti imitatori. Da sempre Jeff Wall utilizza la fotografia come mezzo prediletto, ma tentare di definire il suo universo, enigmatico e complesso, rischierebbe di condurre ad affrettate semplificazioni. Nella sua arte confluiscono diversi linguaggi e forme espressive, che si intrecciano in un tessuto visuale estremamente moderno: Wall concentra il suo sguardo sul mondo e lo esamina cogliendo la normalità e il mistero, l’assurdo e il quotidiano, le espressioni dei volti e il degrado sociale. Apparentemente, le sue opere sono ‘scatti’ fotografici di impianto realistico, tuttavia il suo stile è solo apparentemente naturalistico, raramente infatti le sue immagini sono semplici ‘istantanee’: tutto il lavoro di Wall può, al contrario, essere interpretato come decostruzione dell’idea di fotografia intesa come strumento atto a cogliere la fugacità e il casuale accadere degli eventi. E’ il caso delle famose light-boxes, diapositive di grande formato retroilluminate, dalla presenza quasi monumentale. Meticolosamente costruite montando un set e utilizzando degli attori, con un procedimento affine a quello delle riprese cinematografiche e che prevede la ricostruzione in studio, la manipolazione al computer, l’effettuazione di decine e decine di scatti (al punto che il lavoro può protrarsi per mesi prima che un’opera possa dirsi compiuta), le immagini di Wall ricercano,
attraverso il complicato processo di produzione, una relazione con la tradizione figurativa occidentale. Relazione instaurata in modo sottilmente allusivo, attingendo ad una sorta di immaginario collettivo della pittura e alla tradizione pittorica più alta, come hanno più volte sottolineato i critici che si sono occupati del suo lavoro, evocando i nomi di Hokusai, di Nicolas Poussin o di Edouard Manet. «Pittore della vita moderna», citando un’espressione che fu di Baudelaire, erede dell’impegno dell’arte concettuale degli anni Settanta, ma al contempo convinto del potere seduttivo delle immagini, Jeff Wall ha rappresentato soggetti riconducibili ai generi del ritratto, del paesaggio, della scena d’interno. Il paesaggio, tuttavia, è il terrain vague delle estreme periferie di qualsiasi città, in cui si svolgono scene dure, violente, paradossali o semplicemente normali; le ‘scene di interno’ peraltro sono spesso ambientate da Wall in luoghi insignificanti, che non sapremmo far appartenere ad una situazione precisa, ma proprio per questo dotati di una loro singolare universalità. In alcune fotografie in bianco e nero, che pure hanno la dimensione fisica di un quadro accademico ottocentesco, il reale contenuto è al contrario la rappresentazione ipostatica di gesti che possono essersi svolti ovunque (una domestica che se ne va dopo aver riassettato una camera d’albergo, un volontario che ramazza il pavimento di un ufficio dell’assistenza). Il ‘vuoto’ di queste immagini sta a dimostrare l’impossibilità o l’anacronismo di un semplice rifacimento della tradizione figurativa e pittorica: non vi sono valori e contenuti da riproporre, ma soltanto brani di una realtà da reinterpretare, attraverso il potere riconosciuto alla rappresentazione.
Per una bio-bibliografia dell’artista, si rimanda a https://en.wikipedia.org/ wiki/Jeff_Wall, nella versione, più completa, in Inglese.
Small pictures Le opere raccolte nella nostra galleria, fatta eccezione per Burrow (che d’altronde è una prova di stampa: per la vicenda si rimanda a quanto scritto qui di seguito), sono un insieme di immagini di formato ridotto, se messe a confronto con la monumentalità che spesso hanno le opere di Wall. Mises en scène, istantanee, fotomontaggi, foto scattate con il cellulare, a colori o in bianco e nero, sono immagini che provengono da «diversi ambiti e momenti», come spiega l’artista, e perciò non costituiscono un insieme omogeneo. Possiamo aggiungere quanto diceva lo stesso Wall a proposito dell’esposizione allestita alla Fondation Henri Cartier Bresson, Smaller Pictures, Parigi 2015, «non ho mai voluto farne una serie, le opere sono state raggruppate per la mostra. Ero interessato a vedere se avessero una specie di identità comune», per concludere, a proposito dell’insieme di ‘piccoli formati’, «non credo che sia così». Basti qualche appunto per documentare quanto sta dietro alcune immagini esposte: From Landscape manual (1969-2003), un corto-circuito concettuale, che dichiara l’indipendenza dalla foto ‘artistica’, uno scatto solo per la resa esatta della realtà, per via quasi accidentale; Rock surface (1998-2013), all’origine una stampa a contatto, ma dice lo stesso artista «ho poi prodotto una stampa più grande…ci sono tante storie intorno a Degas che pensava che i suoi quadri non fossero mai finiti. Mi piace anche l’idea che finché sono vivo, posso sempre riprendere e modificare le mie opere»; Torso (…), Edition for Parkett (…), versioni nitide ma altrettanto poco artistiche di foto ‘di famiglia’ (una fotografia del figlio bambino come ‘torso’, un piede femminile, le scarpe, lenzuola e trine); Just Washed (…), lo straccio sporco che emerge da una lavatrice, semilucida, semi-sfocata, in una forma indefinibile: in realtà, Jeff Wall ha fatto il gesto quasi seicento volte, «è un reportage, ma una reportage su niente, ed è anche una mise en scène», dice l’artista; Shop Window Brussels (…) variazione sullo sguardo catturato dalla contemplazione di una vetrina;
Un progetto mai realizzato per Pordenone Luciano Campolin … Mr Wall? Nel 1999 ho ricevuto l’incarico di progettare la nuova sede per la didattica del Consorzio universitario di Pordenone che ho pensato, albertianamente, come «un edificio in forma di città» in cui il tessuto compatto di aule didattiche e uffici amministrativi fosse interrotto dalle eccezioni spaziali e formali degli «spazi pubblici» della biblioteca, dell’atrio e delle aule studio. All’epoca già da qualche anno io e Annalisa, mia moglie, avevamo rinnovato l’interesse per l’arte contemporanea grazie al quasi casuale incontro con l’opera di Jeff Wall e al contesto artistico a lui connesso. La pittura della transavanguardia e in generale l’arte postmoderna, onnipresente nelle mostre e nelle pubblicazioni italiane, ci avevano allontanato ormai da tempo da ogni interesse verso la produzione contemporanea e perciò avevamo indirizzato i nostri studi e visite quasi esclusivamente all’arte del passato. Eravamo stati favoriti in questo dal dottorato di Annalisa, dal suo trasferirsi per lunghi periodi a Parigi e dalla possibilità di entrare liberamente al Louvre, al Museo D’Orsay come in altre importanti collezioni pubbliche. Ed è stato proprio nella libreria del Louvre, allora ancora grande, bella e ricca, che sfogliando il catalogo della sua mostra dell’ottobre 1995 allo Jeu de Paume, curata da Catherine David, abbiamo conosciuto il lavoro di Jeff Wall. La sorpresa nello sfogliare il catalogo è stata quella di vedere immagini che, pur nella contemporaneità del mezzo e delle cose rappresentate, avevano radici profonde nella tradizione, senza l’atteggiamento, secondo il nostro parere di allora, forse generalizzando eccessivamente, ingenuo e consumistico della transavanguardia. La visita alla mostra è stata poi la conferma di quella prima impressione. Le grandi casse luminose delle light boxes, memori della scultura minimalista degli anni Sessanta, e inoltre i soggetti in cui
sentivamo presente la grande pittura del passato si sono combinati, per noi, in un insieme significativo e di grande bellezza (non in maniera troppo esplicita come nella transavanguardia, ma alla maniera in cui Venezia, ad esempio, affiora alla memoria, nell’ultimo volume della Recherche, casualmente grazie all’incontro fortuito del piede con una pietra sconnessa di un selciato di Parigi). Abbiamo considerato che ci poteva essere una grande arte contemporanea e, per la prima volta dopo molti anni, abbiamo desiderato di possedere un’opera d’arte, e di lì ha iniziato a prendere forma la nostra collezione. Da quel primo incontro è poi seguita una ricerca sull’artista, delle sue opere e delle gallerie che lo rappresentavano, quindi la scoperta di altri artisti a lui in vario modo legati. E ci piace ricordare di aver poi conosciuto Jeff Wall, mentre ci aggiravamo nel gennaio del 1999 nella sua personale al Museum of Contemporary Art di Montréal (Canada), città in cui ci avevano portato varie ragioni di studio. Timidamente abbiamo chiesto: «…mr.Wall?», facendo così la sua conoscenza e incontrandoci spesso negli anni successivi, in occasione di mostre, lezioni e conferenze…..
Burrow (tana, covo, cunicolo) Più o meno nello stesso periodo ho conosciuto l’avvocato Oliviano Spadotto, al tempo presidente del Consorzio universitario di Pordenone. Avevo progettato con l’architetto Giannino Furlan due aule per l’università e lo assistevo nella direzione dei lavori. L’architetto Furlan purtroppo si ammalò e di lì a poco scomparve tragicamente, dunque dovetti assumere l’incarico della direzione lavori. Fu così che ebbi modo di conoscere l’avvocato Spadotto che, in seguito, mi incaricò della progettazione della nuova sede del Consorzio, dei nuovi alloggi per gli studenti e della nuova sede del Polo tecnologico di Pordenone, dimo-
strandomi una grande fiducia nonostante la mia allora giovane età (perlomeno per l’Italia). L’avvocato Spadotto era una persona pubblica anomala, non aveva la tecnica discorsiva consumata dei politici di professione, il suo discorso spesso inciampava, si interrompeva, diceva forse troppo direttamente le cose, eppure ha portato avanti con determinazione la propria convinzione della necessità di puntare sulla conoscenza e sulla ricerca in ambito tecnologico per ridare slancio all’intero territorio. Convinzione che non si è limitata a petizioni di principio ma si è concretizzata, faticosamente per l’inerzia istituzionale, in azioni che hanno lasciato segni tangibili nonostante un contesto pubblico, così mi pareva, refrattario. Sua l’idea di un centro di Plasturgia realizzato al Villaggio del fanciullo, sue le iniziative per ottenere i finanziamenti per lo sviluppo del Consorzio universitario che hanno portato alla realizzazione della nuova sede e della casa dello studente, sua l’idea della fondazione del Polo tecnologico, poi realizzatosi. Sua infine l’iniziativa, fallita a causa dello scetticismo e del mancato sostegno della classe politica, nel 1999, di ridare nuova vita al ex-Cotonificio veneziano di Pordenone, oggi in rovina, prevedendo una ristrutturazione che lo avrebbe trasformato in centro di produzione culturale, con l’insediamento di Università, Cinemazero, teatro e associazioni culturali rispettando gli edifici esistenti, senza previsioni di ampliamenti né di torri come è poi successo con i progetti speculativi, fortunatamente non realizzati, della società che successivamente ha acquistato gli edifici. Ricordo gli incontri con la proprietà che allora era disposta a vendere l’intero complesso per una cifra ragionevole, intorno ai 24 miliardi di lire, circa 12 milioni di euro, e gli incontri in sala consiliare a Pordenone alla presenza dei sindaci del territorio per presentare il progetto di massima. Tutto finito in nulla, neppure ricordato, con il complesso di archeologia industriale oramai ridotto a rudere posto al centro della città e del parco fluviale del Noncello; sempre meglio comunque così, con un ritorno alla natura, che trasformato in centro commerciale con parcheggi mul-
tipiano e torri residenziali che avrebbero per sempre sfigurato il luogo. Ci si lamenta della mancanza di idee per lo sviluppo della città quando quelle che ci sono state sono state ignorate, se non boicottate. Durante lo sviluppo del progetto per la nuova sede del Consorzio pensai di chiedere a Jeff Walll se potesse essere interessato a realizzare un’opera, site specific, per l’edificio. Tra i corsi tenuti nella sede universitaria, quello di Scienze e tecnologie multimediali, unico corso di questo tipo allora come ora in Italia, mi era sembrato un valido motivo per giustificare l’installazione di un opera di Jeff Wall, posto com’è il suo lavoro all’intersezione di cinema e fotografia. Al suo assenso (dopo un iniziale rifiuto di pensare un lavoro per l’atrio d’ingresso) a realizzare un’opera a condizioni economiche molto vantaggiose per lo spazio più piccolo, e meno di rappresentanza, dell’aula studio, ho avuto il sostegno dell’avvocato Spadotto che si è dimostrato da subito favorevole al progetto. La fotografia, delle dimensioni di cm.185 x 225, è stata pensata in relazione al sistema spaziale costituito dalla sala studio e dall’ampio paesaggio su cui essa si affaccia, delimitato in lontananza dal Monte Cavallo e dalle montagne circostanti. Il titolo, Burrow, sinonimo di tana, covo, cunicolo, indica uno spazio limitato e nascosto in cui è possibile abitare: un alloggio nascosto. L’opera nasce infatti dall’idea del contrasto tra ciò che viene rappresentato nella foto e l’ampiezza del paesaggio su cui si affaccia l’aula e si vuole costituire, al di là delle sue qualità artistiche, come stimolo per gli studenti a pensare alla loro collocazione nello spazio e, per via di metafora, al rapporto tra mondo esterno e interiorità, che è proprio dell’attività dello studio e del conoscere. Può essere interpretata infine come un’immagine speculare, seppur trasfigurata usando gli umili elementi del vivere e lavorare quotidiano del paesaggio circostante: qualche pezzo di legno, una montagnola di terra prodotta dallo scavo, un terreno abbandonato in attesa
di trasformazione si ricollegano idealmente alle montagne, alle costruzioni visibili in lontananza, al prato in primo piano. Purtroppo, dopo l’estromissione di Spadotto il nuovo consiglio di amministrazione presieduto dall’allora sindaco di Pordenone (non tanto nella sua figura, poiché egli anzi sosteneva la necessità di tener fede a impegni già presi seppur solo verbalmente, quanto in quella di alcuni consiglieri, tra cui particolarmente contraria l’allora presidente degli industriali di Pordenone) non ha voluto sostenere l’iniziativa. Ciò manifestando dubbi sulla qualità dell’opera proposta e persino perplessità sull’autore. Il lavoro nel frattempo era avanzato con la scelta della fotografia, delle modalità di installazione, con la realizzazione di un plastico dell’aula inviato a Jeff Wall per il controllo della scala dell’intervento.A fronte del rifiuto del consiglio di amministrazione, in un sussulto di senso civico e di rispetto per il lavoro di uno dei maggiori artisti contemporanei mi sono sentito in dovere di assumermi l’onere di portare avanti il progetto, supportato in questo amichevolmente da Jeff Wall. Sono passati gli anni, vicende personali e il completo disinteresse di quanti si sono succeduti nei vari consigli di amministrazione del Consorzio mi hanno infine fatto desistere dal progetto. Restano traccia lo scambio di corrispondenza con l’artista e alcune prove di stampa esposte in questa occasione, quelle più piccole provenienti dallo studio di Jeff Wall, quella più grande stampata in Italia da un file proveniente dal suo studio.
Questa mostra è quindi l’occasione per ricordare due assenze, quella dell’avvocato Oliviano Spadotto scomparso nell’agosto del 2015 e quella di un’opera significativa, Burrow, che avrebbe potuto arricchire la città di Pordenone.
Jeff Wall/Small pictures Opere esposte: After “Landscape Manual”, 1969-2003 A Sunflower 1995 Just Washed, 1997 Picture for Parkett 1997 Torso, 1997 Rear E.25 Ave., 20, May 1997 (dettaglio) Shapes on a Tree, 1998 A sapling supported by a post, 2000 Rock surface 1 and 2, 2007 Passenger, 2006 Corner store, 4 photographs, 2009 Shop window Brussels no.1, 2009 Zimmer, 2014
One day Event Inaugurazione/opening venerdì 15 settembre 2017, ore 18.00 La mostra resterà aperta un giorno soltanto (visite possibili su appuntamento)
avoncampolin non profit art space Pordenone | Italia, via De Paoli, 23/A www.avoncampolin.it - info@avoncampolin.it