la mostra resterĂ aperta forse nei pomeriggi del 25 e 26 maggio, o su appuntamento avoncampolin no profit art space via luigi de paoli 23/A, Pordenone per contatti annalisaavon@yahoo.it luiano@campolin.it
un uomo, una donna
dipinti e altro di
Annalisa Avon e Paolo Toffolutti maggio 2018
Annalisa Avon Animali, qualche fiore, persone
Una pecora Quel giorno, dovendo andare a B., il signor Boh portò la sua pecora. Fu legata con la corda che aveva al collo, e con cui era stata portata fino alla casa della nonna, alla ringhiera di ferro della scala. Non si sa perché la pecora fu portata proprio lì, né come mai non potesse essere lasciata dove stava abitualmente: forse si sarebbe lamentata come un cane lasciato solo? Avrebbe pianto come un bambino? Quel giorno comunque la nonna e Maria fecero compagnia alla pecora. La pecora, per contro, non ne fece molta. Maria rimase colpita dalla curva accentuata del suo muso, ripida e coperta di pelo ispido. Non che la si potesse accarezzare, poiché la pecora morde e può dare delle testate, ma ugualmente Maria ci provò, e sentì com’era strano l’osso cavernoso tra la fronte e le sue narici. Da bambina solitaria, la cosa di cui Maria era più convinta era che avrebbe dimostrato un grande affetto alla pecora, e che la pecora le si sarebbe affezionata e non avrebbe più potuto stare lontana da lei. La pecora avrebbe dovuto preferirla al suo padrone. Per questo Maria ricorda ancora quel giorno e, anche se la pecora si dimostrava piuttosto indifferente, fu gentile, a tratti, e le parlò, interrogandola sul suo affetto. «Hai fame, piccolina?» Da che, la lasciò che la pecora trascorresse il tempo mangiandosi poco per volta un pezzo del prato, arrivando fin dove lo permetteva la corda che aveva al collo. Alla fine Maria si stancò, e tornò a qualche gioco, alle avventure dei libri. Non si sa che fine abbia fatto poi la pecora, nella sua breve vita, di certo è morta da un pezzo. Ciò che resta è la stranezza di quella giornata, in cui la nonna, forse per correggere la solitudine di Maria, aveva acconsentito all’inconsueto favore che le era stato chiesto. (2004)
Qualche fiore Lea aprì il cancello, lasciandosi alle spalle la casa e il giardino per andare oltre la strada. Traffico non ce n’era, nessuno poteva passare di lì all’improvviso, per caso. Le rare macchine degli abitanti procedevano lentamente, e non vi era pericolo. Attraversata la strada, si trovò di fronte al fosso, e poi al prato incolto, che da casa sua vedeva dalla grande finestra del soggiorno. Quando aveva quattro anni, appena due anni prima, abitava in una città vera, in periferia. Messi a confronto con questo, i prati della città di allora li ricordava grandi e disordinati, con l’erba incolta e con cespugli e arbusti fitti. Lea portava un maglione acrilico celeste, a collo alto, sopra una gonna di cotone; i calzettoni e un paio di scarpe basse, color crema, con la suola di para. Era vestita sempre così, da giorni, da sempre, e la maglia emanava un cattivo odore. Non la affliggeva troppo non avere molti vestiti. La domenica poteva indossare le scarpe della festa: un paio di scarpe rosa, di raffia bordata con passamaneria nera, chiuse con lacci neri. Pensava a questo Lea, sul ciglio della strada, guardandosi i piedi e poi guardando verso il fosso, l’erba, qualche margherita e bottoni d’oro. Con un passo fatto di slancio fu di là, nel prato. Pensava di raccogliere dei fiori e cominciò a strapparne qualcuno. Un’erba le lasciò un odore acre sulle mani, era un’erba con le foglie allungate, ruvide al tatto, i fiori bianchi ad ombrello, forse un’ artemisia. Annusandosi le dita con disgusto, ritta, vide di fronte a sé, oltre il prato e la strada, la casa che aveva lasciato e nella quale abitava. Qualcuno si muoveva dietro la grande finestra del soggiorno, forse sua madre: camminava avanti e indietro, ma era soltanto un’ombra. Erano per la madre, i fiori che Lea coglieva? No, li avrebbe tenuti per sé, forse per tentare di farne un disegno da colorare a tempera, rientrata nella sua camera. Oppure li avrebbe lasciati a morire sul suo tavolino, a nessuno interessavano fiori così. Certo l’idea di dipingerli era attraente, ma ne sarebbe risultato, come al solito, qualcosa di insoddisfacente. A Lea piacevano tutti i quadri in cui i riflessi dell’acqua, le nuvole, il riverbero del sole e l’ombra sulle foglie degli alberi , il sottobosco, il cielo, erano rappresentati in modo così abile da farli sembrare veri. I suoi tentativi si risolvevano sempre in qualcosa di goffo, impastato, senza luce, a forza di insistere nell’inseguire la realtà. (2003)
Persone Con l’imbarazzo di chi sale in treno e trova posto dove solo ci sono sedili quasi già tutti occupati, Biba si sedette, dopo aver risposto la valigia nel piano sempre troppo alto del portabagagli, e prese subito a guardare fuori dal finestrino. Qualcosa di meccanico, che si fa quando si sente di essere osservati. Ma così meccanico, appunto, da farlo senza preoccupazioni. Sentiva uno sguardo fisso sul suo piede sinistro, la gamba comodamente accavallata sull’altra, il piede dondolava, inerme seguiva gli scossoni del treno. Eppure questo sguardo, non importa se immaginario o reale, la paralizzava. Biba muove il piede nella scarpa scollata di capretto, nera, numero trentotto. Un crampo, quasi. Irrigidisce tutte le piccole dita, come per difenderle dallo sguardo curioso. Sì, sarebbe stato molto più semplice difendersi con altri muscoli, irrigidire il polpaccio e mollare un calcio. E poi chiedere cortesemente scusa, con la cortesia che rende tutti simili i viaggiatori dei treni. (1984)
Paolo Toffolutti Perché dipingiamo i quadri di bianco
“Ci sono due peccati capitali dell’uomo, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e inerzia. A causa dell’impazienza sono stati cacciati dal paradiso, a causa dell’inerzia non vi tornano. Forse però c’è un solo peccato capitale: l’impazienza. A causa dell’impazienza sono stati cacciati, a causa dell’impazienza non tornano”. F. Kafka, Aforismi di Zurau
Lo si può considerare come un atto sbagliato, un gesto riprovevole, un comportamento censurabile; più che affermare, sembra negare, più che scrivere cancellare. Cancellare con un colpo di pennello, con lo spuzzo di una bomboletta spray per correggere qualcosa che sta nascendo, anzi, qualcosa di storicamente determinato. Correggere con dei segni tracciati rapidamente a margine, come si fa per un compito scolastico: una serie di pratiche su supporti di natura e forma differenti, che si affacciano da secoli alle pareti di pinacoteche e musei. I supporti sono stati mimetizzati con lo stesso bianco (o altro colore) già impiegato per tinteggiare i muri dove su cui vengono esposti. Due gesti contrapposti: uno latente, a collocare un supporto, un contenitore da riempire e da disporre in un determinato ordine e modo sulla parete; l’altro, più evidente, prodotto col colore steso rapidamente a coprire l’intenzionalità del primo. In evidenza resta il gesto secco e sbrigativo, preoccupato unicamente di togliere di mezzo l’apparato e la processualità che lo contengono, di togliere di mezzo qualsivoglia protocollo in forma diretta e concreta. Uno sbaglio calcolato, un’opportunità che, solitamente, antepone il profitto particolare a quello più generale, ma che, in questo caso, per miopia o scarsa lungimiranza, ci farà cadere dall’albero. Un gesto tracciato contro l’ostensione, un gesto contro l’immagine, un gesto contro la spettacolarizzazione della pittura, un gesto risolutore e necessario per togliere di mezzo quanto vi è di artefatto e premedita-
to in pittura. Un’immagine simile alla prima scena del film “Un Chien Andalou” di Luis Buñuel, dove si dichiara che ciò che segue non rientra nel campo dello scopico, piuttosto in quello del mentale, governato non tanto dalla percezione, quanto dall’immaginazione. Un’immagine apparentata ai “buchi” e ai “concetti spaziali” di Fontana, dove ancora si lacera e si taglia lo schermo della rappresentazione annullando qualsivoglia visualità, o, prima ancora, nel “Quadrato nero su fondo bianco” di Kazimir Malevic, intento ad oscurare o eclissare il biancore originario della tela-luce. Ma qui, ciò che succede è che la pittura fuoriesce dalla tela per dilagare lungo la parete. Qui la pittura sta a metà strada tra pittura come imbiancamento dei muri e pittura che va a finire in un quadro. La pittura applicata tra supporto e parete appartiene, evidentemente, ad una temporalità differita rispetto alle tradizionali compitazione dell’opera e successiva sua ostensione. Il gesto irrituale sembra porsi su un altro piano: un commento postumo al rito dell’esposizione di opere pittoriche, un intervento di correzione, di cancellazione, di censura per l’atto, già compiuto, della pittura. Questa strana temporalità induce a valutare l’atto pittorico come negazione dell’autoaffermazione, come atto specifico autoreferenziale, ma scombinato e rivoltato nel suo porsi e generarsi. Un atto, critico, e non volto alla pittura per la pittura, piuttosto inserito in un contesto più ampio, finalizzato a negare ogni atto pittorico come pure ogni attività espositiva visti al di fuori, visti da persone, luoghi, politiche che ci circondano. E’ mia intenzione, quando dipingo, mettere in disordine il pensiero con l’azione, disarticolare percorsi di senso e certezze acquisiti, utilizzare la pittura come un luogo sconosciuto, da dove riprovare, riprovare, riprovare ancora da capo. Ci sono molti concetti che possono figurare paralleli a ciò che faccio con la pittura: ripetizione, riposizione, disorientamento, perdita, inconcludenza… Non credo in nulla, tanto meno in una concezione creazionista, sia pure in pittura. Ritengo che il mio lavoro riguardi lo spostamento, la variazione, la trasformazione: il “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” sta alla base di ciò che sto facendo. Ogni momento nelle mie opere è indirizzato a disarticolare indizi percettivi, tempi, intensità resi mediante pittura fatta a brandelli, in differenti tempi e momenti di lavorazione. Più che pittura informale, è pittura dell’informe nel senso batailleiano del termine. Pittura che non parte dall’affermazione di un ordine che la presiede ed anticipa, bensì, pittura che procede dalla messa in crisi del concetto di ordine e dei principi percettivi ed associativi che lo sovrastano. Pittura che cancella, pittura per correggere, pittura condivisa a metà tra chi la fa e chi la guarda. Pittura
contesa e tirata tra i denti. Pittura non conclusa, non definita, che porta a spasso la gente, ma senza procedere con itinerari sicuri, disorientando, perdendo, e ricominciando da capo. Una pittura fatta di lacune, fatta di cose mancanti, che creano possibili nuovi e diversi incerti collegamenti. Una pittura che è s-figurativa, piena di tracce indicali come una fotografia in bianco e nero. Una pittura che affiora e affonda, come le muffe da un muro o il rossore da un viso, e resta indefinita nella forma, ma esiste solo come una fiamma definita dalla sua intensità, che è fenomeno difficilmente controllabile o voluto. La pittura, che è mescolanza e cambiamento, che è continua trasformazione, per cui ciò che prima camminava sui piedi ora passeggia sulle mani, Pittura che non descrive niente, ma che vuole essere il niente del quale siamo circondati, di cui siamo costituiti. Pittura contro natura.
Uomo Uno, e Donna Una.
“L’unica cosa che si può fare è quella di creare piccole minoranze solide di rompicoglioni con un progetto in testa,” Goffredo Fofi Il mio lavoro è accogliere del colore su delle superfici, per poi riconnetterle in forma di collage: parti sovrapposte, accostate, giustapposte, il più delle volte senza che vi sia una disciplina, un processo, un obiettivo o un ordine predefinito o una reale ragione per farlo. Ciò che ottengo è soprattutto discontinuità, indefinitezza, disordine attirati da una regola. Un esercizio simile a quello di chi riempie del tempo libero sfogliando distrattamente le pagine di un catalogo, di un giornale, di un elenco: consultare degli articoli, delle immagini per trovare un senso trasversale, un collegamento, una relazione tra segni temporaneamente appoggiati come per caso su parti e superfici tra loro correlate, che vengono avvi-
cinate o distanziate, unite e separate proprio dal processo di consultazione. Nell’incontro fugace tra le parti emerge un ordine apparente che, anche senza che risulti evidente - e da cosa sia stato prodotto veramente - attira a sé le cose mentre le unisce e le separa. Non so se è in questione la singola carta, le informazioni, i dati, un’immagine, l’impaginazione… o se si tatti invece di un ordine che si suppone esistere, ma che ancora non si conosce. Le singole parti, i singoli pezzi messi a confronto - indipendentemente dall’efficacia dei nostri sguardi, dei nostri gesti, delle nostre scelte, come il traffico su una strada all’ora di punta - si relazionano tra loro, si mescolano e si disperdono in nuovi insiemi. L’occhio, in mezzo al traffico, è travolto e rapito. Nulla appare intenzionale. L’ordine e le relazioni che si stabiliscono tra le parti sono fluide e mutevoli. Sembra la stessa attrazione e repulsione che lega e separa gli esseri umani. Nulla succede a priori, o forse, come accade per lo sguardo ed il linguaggio, senza che ce ne stiamo veramente rendendo conto. Tutto preesiste e sovrintende a questo flusso di operazioni che ci stanno coinvolgendo: stimoli, indizi, percetti. L’ordine simbolico può essere solo trasgredito. Un tabù infranto, trascende, precede, costituisce il linguaggio. Ogni pezzo di pittura è, nel contempo, figura e sfondo, segno e superficie, e porta con sé, come in vita, l’indefinitezza della sua produzione-distruzione. La strisciata, la macchia, lo schizzo, la sbavatura, il tocco sono tutti dati dall’azione della pittura sulla superficie, così come grumi, sfinamenti, scrostature, lacerazioni e forature sono prodotti dal loro trasferimento. Il processo di produzione dell’immagine, però, non vuole essere sostitutivo del processo della sua significazione. Lo sguardo sovrasta il soggetto, il soggetto può solamente arginarlo, o tentare di addomesticarlo, cioè mettere in atto strumenti e dispositivi per una negoziazione o una deposizione dello sguardo. Che cosa stanno a fare tutte queste pezze di pittura che galleggiano pigramente su una superficie simile ad una tavola che si è andati ad apparecchiare mettendoci sopra una tovaglia di cotone bianco? Ne oscurano la luce incidente, ne ostruiscono il passaggio, costituiscono uno schermo, stabiliscono un piano interposto tra noi e la luce abbagliante riflessa dallo sfondo. Sicuramente sono tracce, tracce di gesti scomposti, impronte indicali che stanno a metà tra il gesto ed il segno. Si è cercato di biascicare qualcosa. Sicuramente figurano come somma d’indizi distrattamente depositati ed ora raccolti attorno alla superficie: una sorta di tentativo di articolare un linguaggio incapace di giungere ad una sintassi. Man mano che si precisano nel definire forme o configurazioni riconoscibili, ci si accorge di un interdetto, di una suggestione, di un’emozione che li libera
e li sottrae. Ma poi ci accorgiamo che il nostro sistema nervoso funziona come una grande calamita, che attira e respinge, modella e disperde, stabilendo collegamenti e interazioni, continuità e discontinuità tra le parti che, divise in pezzi, riconosciamo come impressioni, percezioni, cognizioni. La pittura sicuramente rappresenta un momento di contiguità che procede con le stesse modalità della visione. L’occhio è un pennello più che un obbiettivo, che mescola indizi e li relaziona all’ombra dei significanti. Le parti si connettono e si sconnettono, si giustappongono, si sovrappongono e, nella relazione, si definiscono, si confondono, appaiono e scompaiono in quanto parti di un insieme magmatico difficile da trattenere. La pittura come un cappotto, copre e scopre, scrive e cancella… Ma di cosa si va a parlare? Tutta questa infinita serie di tentativi, che non hanno portato a nulla di preciso, a che cosa sono serviti? In fondo la pittura è un po’ come la vita: si va un po’ di qua, un po’ di là… ci sembra di seguire qualcosa di ben preciso… una carriera… dei figli… accumulare ed accudire cose e persone… stabilire relazioni… ma poi alla fine della fiera… che hai fatto? Dove ti trovi? A che cosa è servito tutto questo? Stai continuamente alla ricerca di qualcosa, giri e rigiri intorno a fatti e persone, cose, immagini e tracce, cerchi continuamente di riordinarle ma, soprattutto, cerchi un ordine attraverso l’esercizio del riordino, per estrarre da tutto questo un senso che ti possa acquietare, che ti possa tranquillizzare, che ti possa allontanare da quella continua malinconia che ti assale, quel sentirsi costantemente fuori luogo e fuori tempo, quel mancare di unità, quella castrazione originaria che ci fonda, di non essere Dio, di non essere tutto, di non essere trascendenza, ma immanenza. Tu vuoi che tutto sia uno, tu vuoi che tutto cominci senza che nulla sia finito. Ma poi, quando cerchi una cosa che hai perso, non la trovi mai… passa del tempo e, incidentalmente, la cosa ritorna, come per caso, ritorna e ritorna; proprio quando tu meno te lo aspetti, distrattamente, ti passa davanti, improvvisamente, senza alcun preavviso, sembra come che beffardamente ti stia aspettando lì da sempre. Ti appare assieme e in margine ad altre cose che, anche loro, ti appaiono come un sempre, ma, per un attimo, più chiare che mai, rivestite di un significato che, in quell’attimo, ti balza alla mente come il più importante, il più necessario, ma che, poi, hai paura di dimenticare, hai paura che scompaia come un lamp, improvvisamente e per sempre. Tutte queste cose, così, messe vicine a quella cosa che tu hai perso, o creduto di perdere, ma che forse hai solo dimenticato. Tutto sembra ritornare un po’ prima, un po’ dopo di quel che tu realmente non ti aspetti, o hai veramente bisogno; tutto è troppo distante o troppo vicino, ma, soprattutto, gli stimoli sembrano andarsi ad apparecchiare, ad organizzare su quella tavola con tovaglia
dove si incontrano differenti appetiti, ciascuno attratto in modo diverso da ciascun altro. Riconnettere e disconnettere, spostare, variare posizione - sia le cose che i segni che le simbolizzano, che le mettono in causa - ma anche ciascuno di noi, per entrare in una visione e riposizionare un’immagine tra altre immagini, creando una differente genealogia o cronologia, che ci ponga in relazione, o meglio che si metta in relazione. L’immagine sta tra noi ed il reale; l’immagine, come dice Lacan, è lo schermo, che si frappone tra il soggetto e l’oggetto, tra io e il mondo, dove io guardo il mondo, ma al contempo sono guardato dal mondo. Nel mondo sta lo sguardo che preesiste al soggetto, che insedia il soggetto. Il soggetto è un punto opaco nel mondo. La pittura, per me, è questo strumento apotropaico, è una maschera necessaria per mettersi al cospetto del reale. Un dispositivo per guardare il reale senza essere da esso accecati, uno stratagemma messo a punto per mediare con lo sguardo posto al di fuori del soggetto e del mondo. Non c’è sguardo al di fuori del reale. Dipingere è cercare di domare lo sguardo, è restituire, in forma simbolica, quel che ci osserva, quel che ci mantiene costantemente in tensione tra la vita e la morte.
Annalisa Avon Intelligenza imperfetta, ho fatto fino a qui sempre troppe cose senza la professionalità di cui tutti oggi parlano. Ho esposto il mio lavoro per la prima volta nei tardi anni Ottanta, quando frequentavo lo IUAV a Venezia, ma di recente c’é solo una presenza a Zagabria (2017), nell’insieme delle esposizione dedicate a La fine del Nuovo. Non ho un curriculum come artista, ma piuttosto una discreta attività come storica dell’architettura e dell’arte. Ma l’art affaire non ha mai avuto fine. Non penso di poter dividere il mio lavoro in campo artistico dalla mia attività nella ricerca e dalla consapevolezza che quest’ultima costringe ad avere, anche se, ovviamente la natura delle due attività è molto diversa. Non ho un vero atelier, ma uno studio in cui si trovano libri e colori, documenti originali d’archivio e immagini qualsiasi, rubate o scaricate dal web, pennelli e inchiostri, un computer, una macchina fotografica, una stampante.
Paolo Toffolutti Nato a Udine nel 1962. Vive e lavora a Udine. Si è diplomato presso l’Istituto Statale d’Arte di Udine e presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dipinge.
Opere nel catalogo Annalisa Avon Utiltitled, disegno su carta, 2018, Untitled, pittura a olio e tempera su lamiera e acrilico, 2018; Lupo buono, scultura, tela trattata e carta velina, 2018; Flower, fotografia, stampa su carta lucida, 2016; Flowers, inchiostro su tela e pittura industriale, 2016; Flower, foto stampa su carta lucida, 2016; Untitled, pittura ad olio ad acqua su lamierino e acrilico, 2015; Untitled, ricalco e inchiostro su lamiera e acrilico, 2015; Untiteld, stampa su carta, 2014.
Paolo Toffolutti
Cinema Hall, 1994, acrilico, vinilico e cemento su tela; Pittori nella Tempesta, 1996, pittura, acrilico, vinilico e cemento su tela; Pittura da Tavolo, 1994, pittura, acrilico, vinilico e cemento su tela + lastra di marmo; Marsala, 2017, rilievo, intagli e pittura su legno; Planimetrie, 1992, acrilico e vinilico su carta intelata; Gola Profonda, 1999, colore a dispersione, catrame, cemento e resina vinilica su carta intelata; Modo per Entrare a Casa degli Altri Senza Essere Scoperti come Ladri, 1999, colore a dispersione, catrame, cemento e resina vinilica su carta-tessuto intelata; Pittura Solo, 1996, colore a dispersione, catrame, cemento e resina vinilica su carta-tessuto intelata; Pittura Solo, 1996, colore a dispersione, cemento e resina vinilica su tela; Gulp, 2006, colore a dispersione, cemento e resina vinilica su tela; Carta, 1996, colore a dispersione, asfalto, cemento e resina vinilica su carta .